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personaggi da conoscere

Giovanni Fattori

20 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #pittura, #personaggi da conoscere, #poli patrizia

 

"Fattori’s painting” says Argan, "is not the academic, generic and evasive design; it is, as it was in the Tuscan figurative culture of the fifteenth century, a design that penetrates, defines, engraves. " (G.C. Argan, "History of Italian art, Sansoni, 1979)

Giovanni Fattori (1825 - 1908) was born in Livorno but then moved to Florence, coming into contact with the group of painters who met at the Michelangelo cafe, in via Larga (now via Cavour).

He starts as a romantic but his artistic maturity and his most prolific moment are concentrated after forty years when, together with Telemaco Signorini and Silvestro Lega, he becomes one of the main Macchiaioli artists. The phenomenon is a precursor of Impressionism and is linked to the Risorgimento ideological framework, of which Fattori is part, being a member of the Action Party. He will retain an indelible memory of the siege of Livorno.

According to the Macchiaioli theory, the painter must render the truth as his eye perceives it, with coloured patches of light and shadow, without cultural prejudices. Indeed, Fattori considers himself a "man without letters", capable of grasping the present, the moment in action. And, however, the identification of the artist with the subject is never achieved, there is always a testimony, a comment, an ethical evaluation.

One of his favourite themes is military life, captured in everyday life, the other great subject is the rural landscape of the Maremma, with cowboys, oxen and horses.

In his life, Fattori is often in financial difficulty, he returns to Livorno to assist his sick wife who then dies of tuberculosis. The painter then travels, visiting Europe, the United States and South America. He also stays in Fauglia and Castiglioncello, a guest of friends.

Towards the end of his artistic career he dedicated himself to etching, a technique consisting of etching a metal plate with acid.

He died in Florence in 1908.

 

 

 

 

Il disegno del Fattori”, dice l’Argan, “non è il disegno accademico, generico ed evasivo; è, com’era nella cultura figurativa toscana del Quattrocento, un disegno che penetra, definisce, incide.” (G.C. Argan, “Storia dell’arte italiana, Sansoni, 1979)

Giovanni Fattori (1825 – 1908) è nato a Livorno ma si è poi trasferito a Firenze, entrando in contatto con il gruppo dei pittori che si riuniva al caffè Michelangelo, in via Larga (ora via Cavour).

Parte come romantico ma la sua maturità artistica e il suo momento più prolifico si concentrano dopo i quarant’anni quando, insieme a Telemaco Signorini e a Silvestro Lega, diventa uno dei principali artisti macchiaioli. Il fenomeno è precursore dell’impressionismo e si lega al quadro ideologico risorgimentale, del quale Fattori fa parte come fattorino del Partito d’Azione e del cui assedio di Livorno conserverà memoria indelebile.

Secondo la teoria macchiaiola, il pittore deve rendere il vero come lo percepisce il suo occhio, con chiazze colorate di luce e di ombra, senza pregiudizi culturali. Fattori, infatti, si considera “uomo senza lettere”, capace di cogliere il presente, il momento in atto. E, tuttavia, l’identificazione dell’artista col soggetto non si raggiunge mai, si ha sempre una testimonianza, un commento, una valutazione etica.

Uno dei suoi temi preferiti è la vita militare, colta nella quotidianità, l’altro grande soggetto è il paesaggio rurale della Maremma, con butteri, erbaiole, acquaiole, buoi e cavalli.

Nella sua vita, Fattori è spesso in difficoltà economiche, torna a Livorno per assistere la moglie malata la quale, poi, muore di tubercolosi. Il pittore, allora, si dà a viaggiare, visitando l’Europa, gli Stati Uniti e il Sudamerica. Soggiorna anche a Fauglia e a Castiglioncello, ospite di amici.

Verso la fine della sua carriera artistica si dedica all’acquaforte, tecnica consistente nell’incisione di una lastra di metallo tramite acido.

Muore a Firenze nel 1908.

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Il ponce al rumme

8 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #personaggi da conoscere, #ricette

Il ponce al rumme

Gastone Biondi. Storia e segreti del ponce al rumme

Ermanno Volterrani

Debatte editore, 2012

Lo scrittore Ermanno Volterrani - noto in ambiente livornese soprattutto per la sua rivalutazione del vernacolo in raccolte di poesie come La mia amica triglia, ma autore anche di testi in italiano, fra cui spicca il commosso racconto delle vicende vissute dal padre durante la guerra in Albania - presenta la biografia romanzata di Gastone Biondi.

Hanno collaborato alla stesura del testo la figlia di Gastone, Caterina, e Otello Chelli, figura di spicco della cultura e tradizione livornese, che ha scritto la prefazione del libro.

Gastone Biondi era il proprietario della famosa fabbrica di liquori Vittori che produceva, e ancora produce – anche se adesso è stata rilevata dall’Arkaffè – il rum fantasia, lo speciale ingrediente per la preparazione del ponce al rum, anzi, al “rumme”, non confondiamo per carità!

Le origini della bevanda sono incerte, la leggenda vuole che nel seicento alcune balle di caffè, provenienti da una nave saracena deviata dai cavalieri di Santo Stefano, si confondessero con barili di rum. La mistura, invece di rovinare entrambi gli elementi, li esaltò. In realtà pare che l’ammiraglio Edward Vernon, della marina inglese, per evitare l’ubriachezza dei suoi uomini, ordinasse loro di annacquare il rum ed essi, per obbedire, lo bevessero col tè, creando la base per il grog. I livornesi sostituirono il tè col più reperibile ed economico caffè, mantenendo la tradizione “della vela”, la fettina di limone a cavallo del bicchiere, spesso utilizzata per igienizzarne il bordo ma poi, ahimè, lasciata cadere nella mistura, con l’idea che “quel che non ammazza ingrassa.”

Il ponce bollente va bevuto nel gottino, il bicchiere di vetro, tenendolo fra due dita per il fondo spesso, altrimenti ci si ustiona. Insomma, come ci spiega Ermanno, va preso per i fondelli.

Il nome deriva dall’inglese punch che, a sua volta, risale all’hindi pancha, cioè cinque, come cinque sono gli ingredienti della bevanda.

Il ponce, inglese come il rum e arabo come il caffè, era la bevanda prediletta prima della guerra, metafora stessa della livornesità, incrocio d’identità in questa città meticcia, fusione d’ingredienti apparentemente inconciliabili fra loro. Non c’era giorno che i livornesi non bevessero almeno una volta il ponce che è sempre stato parte della loro tradizione.

Nelle cronache del settecento e dell’ottocento (ci spiega Otello Chelli) c’era una vera e propria corsa a creare il ponce migliore e i produttori vi mettevano dentro di tutto, dal caramello ai grani di pepe. I bar erano luoghi di aggregazione per il popolo, dove si discuteva e si familiarizzava ed anche salotti intellettuali. Vi passavano il tempo Francesco Domenico Guerrazzi e Angelica Palli, Fattori, Natali, Modigliani, soprattutto nel celeberrimo caffè Bardi.

Il ponce è citato nell’Artusi come degno accompagnamento del cacciucco, si dice che abbia fatto venire i lucciconi addirittura al rude Buffalo Bill, e il Carducci così ne scrive:

"Di nero ponce bevemmo e con saper profondo, non lasciammo giammai tazza o bicchiero senza vedere il fondo."

Livorno era la città dei cento teatri, ma anche dei cento e ventitrè bar, sono stati i labronici a costruire le prime macchine per il caffè, che, a quei tempi, erano torri di rame lucente. “Nella sola Venezia”, ci dice Otello, “ai miei tempi si trovavano diciassette fiaschetterie e la bevanda d’elezione, dopo il vino Sammontana, era, ovviamente, il ponce, capace di stimolare quello spirito livornese, quel motto salace, quella battuta fulminea che oggi si sta perdendo e stemperando.”

In piazza Vittorio Emanuele c’era un bar, detto “Il Diacciaio” perché si trovava di fronte a un albergo freddissimo, che vendeva il ponce peciato, cioè annerito da un pizzico di pece. In piazza Cavallotti nessuno rinunciava alla mattutina “persiana” – acqua fredda, menta e anice - per smaltire le sbornie della sera precedente, poi, già alle dieci, per accompagnare un pezzo di schiacciata col prosciutto o la mortadella, niente di meglio che il primo ponce, per passare subito a quello digestivo del dopopranzo e agli immancabili ponci notturni .

Negli anni cinquanta, però, il ponce era decaduto ed è stato proprio Gastone Biondi a riportarlo ai fasti di un tempo.

È con la voce rotta dall’emozione che la figlia Caterina racconta come il libro sia nato per caso. Dieci anni dopo la morte del padre, ha riaperto due scatole, trovandovi dentro un mondo di ricordi che l’hanno riportata a quando, bambina, giocava nella fabbrica del babbo, assorbendo odori, assimilando voci, giocando con le vecchie fatture insieme alle amichette, finché quel gioco si è trasformato in passione e mestiere anche per lei che ha lavorato per tanto tempo gomito a gomito col padre.

Gastone Biondi è rimasto orfano a nove anni, ha studiato e lavorato fino a iscriversi all’università e trovare posto in banca. Ma l’incontro con la moglie, i cui parenti possedevano la fabbrica dei liquori, è stato fatale, perché fu amore in entrambi i casi, fino a fargli lasciare l’appetibile lavoro di bancario per occuparsi a tempo pieno della fabbrica, nata nel 1929 e che lui ha rilevato negli anni cinquanta, trasformandola in ditta Vittori di Biondi.

A Livorno, in quegli tempi, la concorrenza era tanta, c’erano venti distillerie e cominciavano a imporsi i liquori di marca, ma Gastone ha puntato sulla qualità, sugli ingredienti migliori per la produzione del suo rum fantasia. “Veniva”, racconta la figlia, “dal vecchio Gigi Civili con i campioncini del liquore per farlo testare.” Ne ha voluto ridefinire l’identità livornese anche tramite le etichette.

Otello Chelli ci racconta di aver conosciuto il Vittori quando, con la famiglia, dopo la deportazione, era “ospite” di una colonia adattata a campo profughi. Qui il giovane Otello trafficava con gli americani che chiedevano gin e lui lo comprava nella distilleria Vittori, riuscendo così a mantenere tutta la famiglia. Ha poi avuto molti contatti anche con Gastone Biondi.

Per concludere, riportiamo una poesia di Ermanno, l’autore del libro, che contiene la ricetta della gloriosa mistura labronica.

‘R ponce alla livornese, un lo sai fa’?

Un ti preoccupa’, t’insegno io!

Prendi ‘n bicchiere,

un po’ più grosso di velli da caffé,

basta ‘he c’abbi ‘r fondo bello doppio:

per un bruciassi ‘ diti,

‘r ponce, è risaputo,

va bevuto prendendolo dar fondo,

insomma…

va preso per ir culo.

Per benino scardi ‘r bicchiere ‘or vapore,

un cucchiaino di zucchero… abbondante,

‘na scorza di limone fa da vela

e rumme, Fantasia, nun ti sbaglia’,

‘r Bacardi e ‘r Pampero un vanno bene!

Ci vole la bevanda der Vittori,

l’intruglio ‘he ‘r ragionier Gastone ‘r Biondi

ha ‘nventato un fottio di tempo fa.

Dunque, torniamo a bomba:

di novo scardi ‘r rumme finché bolle

e ner finale,

riempi ‘r bicchierino di ‘affé,

di vello forte a bestia!

Se poi pensi ‘he t’aggradi,

l’ingredienti poi adatta’ ar gusto personale,

mischiando sassolino o cognacche Tre Stelle

e ‘r resurtato ‘ambia po’o o nulla:

a garganella l’aromati’o ponce

ir gargarozzo ti solleti’erà.

Il ponce al rumme
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Gianluigi Zuddas

5 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #personaggi da conoscere, #fantasy, #fantascienza

Gianluigi Zuddas

Gianluigi Zuddas è nato a Carpi nel 1943 ma si è trasferito molto presto a Livorno, dove il padre era sottufficiale di marina. Ha lavorato come meccanico e tecnico di radiologia prima di iniziare a scrivere fantasy e fantascienza.

Ha scritto numerosi racconti e alcuni romanzi, fra i quali i più famosi sono Amazon (1979), I pirati del tempo (1980), Balthis l’avventuriera (1983), Le amazzoni del sud (1983), Stella di Gondwana (1983), Le Armi della Lupa, (1989). Dopo l’89 ha però diradato l’attività di scrittura per dedicarsi alla traduzione.

Ha vinto il premio Italia con il suo primo romanzo Amazon e il Premio Tolkien, istituito dalla casa editrice Solfanelli, nel 1980, ha pubblicato poi con l’Editrice Nord e la Fanucci.

Considera fantascienza e fantasy campi nei quali, oltre alle emozioni, si può liberare la fantasia. È affascinato dal passato dell’umanità, da quelli che definisce “i buchi” della storia, dove può essere accaduto di tutto ed ambienta le sue storie in un lontanissimo passato o in un distante futuro. I suoi personaggi principali sono di solito donne, in particolare Amazzoni, guerriere, intraprendenti, vagamente omosessuali, nate dalle letture femministe degli anni settanta, ma anche ragazze allegre, che amano viaggiare, spostarsi e hanno una propensione a cacciarsi nei guai. Esempi sono Thalli, de Le Armi della lupa, e la dodicenne Balthis dell’omonimo romanzo.

Nei suoi libri tutto tende ad avere una spiegazione razionale, la magia è sostituita dalla scienza, i personaggi si muovono in una sorta di nuovo Medio Evo, dove nei musei o nelle cantine giacciono reperti di un’antica tecnologia raffinatissima ma ormai dimenticata e considerata stregoneria. Si può quindi parlare quasi più di science fantasy che di heroic fantasy. Nella sua narrazione ritroviamo numerosi topoi della space opera classica, dal computer onnisciente che ricorda Hal 9000, ai mezzi spaziali chilometrici stile Guerre Stellari, alle armature che sembrano Ufo Robot.

La costruzione dei suoi romanzi si basa su episodi staccati e conclusi, un capitolo per ogni episodio, lo stile è venato d’ironia e di umorismo, in questo l’anima livornese si avverte, laddove, generalmente - almeno nel fantasy prima maniera – l’umorismo è evitato perché può far scadere la tensione narrativa. Ed è labronico anche quello spirito “anarcoide” che tende a rifiutare ogni forma di potere sempre considerato malvagio e oppressivo.

Come ci spiega Gianfranco de Turris ne l’introduzione a Le Armi della Lupa,la straripante fantasia di Zuddas sembrerebbe appositamente tagliata per l’opera lunga”: troppa è la facilità della sua immaginazione, troppo completo il modo in cui s’immerge nel mondo secondario della sua sub-creazione, troppo vivi i suoi protagonisti.”.

La terminologia qui usata da de Turris è tolkieniana, anche se Zuddas non ama l’autore di Oxford. Eppure, sempre a detta di de Turris, “Zuddas è forse il più tolkieniano dei nostri autori di heroic fantasy: perché è quello che […] ha saputo dare più realtà al suo mondo immaginario, più spessore ai suoi protagonisti […] ed ha saputo più sprofondarsi, annullarsi in esso.”

Riferimenti

Intervista di Pino Cottogni a Gianluigi Zuddas sul sito www.fantasymagazine.it

Gianfranco de Turris , “Zuddas: Le Armi della Lupa”, Dimensione Cosmica, Anno V, n° 15

Gianluigi Zuddas
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Zerocalcare, "L'elenco telefonico degli accolli"

1 Novembre 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #personaggi da conoscere

Zerocalcare, "L'elenco telefonico degli accolli"

L'elenco telefonico degli accolli

Zerocalcare

Bao Publishing - Euro 16,00

Zerocalcare è forse il nome più interessante della letteratura italiana contemporanea. Non sto bestemmiando. Certo, si esprime con il fumetto - per la precisione con la graphic novel - ma i suoi testi sono efficaci e colti, pieni zeppi di citazioni, critici della realtà che viviamo. Non fa mai politica bassa nella sua critica culturale, ma punta in alto, alla critica del costume, stigmatizzando il demone della reperibilità e della incomunicabilità.

Il personaggio principale di Zerocalcare è se stesso, un fumettista che vive alla giornata e rifugge gli impegni, gli accolli, che odia la mondanità e preferisce vivere appartato. Ma in quel se stesso ci siamo tutti noi, c'è la società contemporanea imbarbarita, ci sono le idee impoverite, l'indolenza, l'assenza di motivi validi per cui lottare, il terrore di invecchiare. Zerocalcare manda avanti un blog interessante e - di tanto in tanto - raccoglie le storie in volume, ma scrive pure romanzi a fumetti, dove i personaggi sono uomini e donne della sua vita, la madre, la fidanzata, la sorella, un amico immaginario (Armadillo), che ricorda la tigre di Calvin e Hobbes.

Le vicissitudini sono quelle tipiche di un trentenne di oggi, ma la cosa straordinaria è che risultano condivisibili e interessanti anche per un cinquantacinquenne come me. Zerocalcare non è un fenomeno transitorio, una moda, una creatura del sistema. No davvero. Zerocalcare è un vero scrittore che disegna e lavora quando ha qualcosa da dire. Un po' come facevano Pasolini, Calvino e Moravia, negli anni Settanta. Non scrive libri per cavalcare facili successi a base di commissari panzoni e indagini legate a fatti di cronaca, non ricicla il solito libro da vent'anni a questa parte, cambiando titolo.

I fumetti di Zerocalcare raccontano come siamo diventati. E lo fanno con spietato realismo. Non è un bello spettacolo, certo, ma fa bene condividere quel che ogni giorno pensiamo con un autore geniale e disincantato che raccoglie l'eredità stilistica di Andrea Pazienza, metabolizzandola in un discorso personale. Potete cominciare da questo ultimo volume per conoscere l'opera omnia di Zerocalcare, ma vi consiglio di recuperare tutto, perché lui è il solo scrittore imprescindibile di questi anni bui, di questa notte infinita delle patrie lettere.

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Amalia Guglielminetti

31 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #personaggi da conoscere, #poesia

Amalia Guglielminetti



AMALIA GUGLIELMINETTI
(1885-1941)


Ricordo con simpatia e conservo ancora il biglietto di Arturo Graf che mi scrisse - alla pubblicazione del mio libro di poesie Le Vergini folli - « la sua ispirazione è viva, schietta, delicata quanto più si possa dire…. Quelle sue figure di fanciulle e donne son cose di tutta gentilezza… »
Caro prof: Arturo Graf, che già si era entusiasmato per la mia opera quando gli avevo mandato in visione il manoscritto, definendo i miei versi "belli
e nuovi"!
Fu la raccolta che mi diede importanza, ero ancora giovanissima, quindi l'insperato successo mi fece ancora più piacere; ma qualche anno prima, alla morte di mio padre, avevo già pubblicato un libro di poesie, che gli dedicai: Voci di Giovinezza, versi come dice il titolo che portavano dentro tutta la mia ancora fanciullezza, avevo solo 18 anni.
Perché ho cominciato a parlare di me partendo da queste due
raccolte?
Beh, perché oltre ad avermi consacrato poetessa, furono i versi - almeno quelli di Le Vergini folli, il mio "libro galeotto" che mi avvicinò a Guido Gozzano.
Un critico famoso, ricordo, mi definì "un insieme di Gaspara Stampa e Saffo", quale onore! E onestamente non so dire se vide giusto. E pressappoco allo stesso modo mi definì poi Guido. Che ebbe a dire cose belle anche lui, di Le Vergini folli; per esempio mi scrisse, - dandomi del Lei - … ella… egregia Guglielminetti… conduce il lettore attraverso i gironi di quell'inferno luminoso che si chiama verginità…
Io gli avevo fatto dono del libro appena stampato in risposta ad una sua lettera con la quale mi aveva inviato la sua opera di poesia La via del
Rifugio.

Così il male durò. Più tentatore d’allora, a tratti, il tuo volto mi abbaglia.
Curiosità di te mi punge il cuore, desiderio di te me lo
attanaglia.

Si conobbero nel 1906, in un incontro alla Società di Cultura; in quel periodo il poeta non riusciva più a scrivere, perché era tutto preso a selezionare, scegliere, correggere, integrare i suoi scritti per farne una raccolta, e fu preso dalla conoscenza casuale di questa giovane donna dall'aspetto tutto particolare. Tra i due poeti iniziò una lunghissima relazione epistolare che durò alcuni anni (dal 1907, appunto, alla fine del 1910), dapprima lettere in cui si disquisiva sui canoni delle loro poesie, ma ben presto le lettere si trasformarono in lettere d'amore,

Il nostro amore che sarebbe fiorito
con tutti i fiori della primavera torinese!
(così dolce per l’
esule che ritorna!)

scriveva la poetessa.

Gozzano si rivolge alla Guglielminetti con un Egregia Signorina, per complimentarsi con lei della bontà delle sue poesie, mentre lei lo appella con un ben più austero Cortese Avvocato, chiedendogli, se fosse possibile, un (primo) incontro, in quella paciosa Torino di inizio secolo (ripetiamo, siamo nel 1907) ancora invischiata nel tepore di una morente primavera.
Il poeta si confida con lei, le confessa la sua malattia e le illustra i suoi timori per essa; e le dice della temporanea lontananza da Torino, sta sulla Riviera Ligure, "sto… in esilio… in solitudine" lontananza obbligata dai medici, per curarsi.
Una lettera tira l'altra, tra schermaglie a volte simpatiche, altre volte dolorose, lei che lo circuisce con richieste assillanti di un incontro, lui che la respinge girando e rigirando sempre intorno alla stessa causa, la malattia. Eppure le fa molti complimenti, per i begli occhi, per la bella bocca, per i bei capelli, per il fascino che ella emana; e tra il serio ed il faceto le dichiara la sua paura di conoscerla, proprio per questo fascino che emanano i suoi occhi da maliarda che potrebbero farlo capitolare.
Passa la primavera, che del resto era già per finire, passa l'estate, tra preoccupazioni da una parte e speranze dall'altra. Il poeta torna a casa, ad Aglié, ma poi la malattia lo porterà ancora fuori, tra andate e ritorni, che potevano apparire alla scrittrice più delle fughe da lei (alternate a ritorni obbligati a casa) che partenze per curarsi. E le lettere si susseguono per anni, dal 1907 appunto, fino al 1910, quando Gozzano decise di porre fine a quella relazione inquieta e turbolenta. Tra i due montagne di lettere; centoventiquattro, per l'esattezza; quelle del poeta sono un terzo del totale; lettere che ambedue conservarono, tra riflessioni e riletture.

"… In uno di questi bei pomeriggi di primo autunno
mi piacerebbe di venirvi a trovare»..."
"… indicarmi… un' ora e un paese q
ualunque di convegno…"

gli scrive la scrittrice; ma Gozzano tergiversa, non sa decidersi, la paura l'attanaglia; e quando si sbilancia con un quasi sì, lo fa escludendo di incontrala da solo a sola, e soltanto a condizione che sia in casa sua (di lui), e alla presenza di sua madre.
E' mai avvenuto questo incontro a casa del poeta? Non lo sappiamo, sappiamo che ce ne sarà uno a casa della donna, qualche tempo dopo, e in una lettera successiva sappiamo che il poeta ammirò molto … le vostre ciglia… le vostre labbra
Ci sarà qualche altro appuntamento, dove il poeta non si presenterà, lasciando la scrittrice delusa e - scrive lei: « umiliata, avvilita, annientata »
La donna, che si definiva "scontrosa come un'ortica" e che nella Torino/Belle Epoque del periodo dava scandalo continuamente alla borghesia benpensante che le ruotava attorno, per la trasgressività che la distingueva, per le opere e per i versi delle sue prime pubblicazioni; e più tardi per le storie di eroine sensuali e disinibite, protagoniste dei suoi romanzi: tra ammirazione di molti ma critiche dei più.
Quell'amore impossibile per la mancata volontà di uno dei due, resterà sempre, fino alla fine, un amore platonico che non si trasformò mai in un amore materiale. Perché Amalia era una donna che dimostrava tutta la sua irrequietezza, tutto il suo ardore di ragazza nel pieno della sua femminilità che stava prorompendo impetuosamente, quasi un contrappasso alla educazione ricevuta nell'istituto religioso per ragazze, denominato Fedeli Compagne di Gesù…
Scrisse una poesia che pare proprio ispirata alla figura del "suo" poeta.

Bevvi a piccoli sorsi la menzogna /
come un filtro che induce fantasie /
fascinatrici al cuore di chi sogna. /
In ogni cosa io scoprii malie /
nuove; talvolta perseguii la traccia /
di un dolce incanto per malcerte vie. /
Non riguardai l'ingannatore in faccia /
per non tremar di oscura diffidenza /
nell'amoroso cerchio di sue braccia. /
Quegli blandiva: Niuna sapienza /
che insegni vale un
bel gioco che finga. /
E mi versava in cuore una sua essenza /
fatta d'ombra, d'amore e di lusinga. )
(da Le seduzioni)

Erano anni difficili per la donna nella letteratura, i benpensanti della Torino bene di quei primi anni del novecento male accolsero i tentativi in versi di una donna, c'erano pregiudizi molto profondi, e si accentuarono e si accanirono contro di me dopo la pubblicazione della terza raccolta di poesie dal titolo, che dice già tutto, "Le seduzioni", che fecero di me, sulla bocca di tutti, una donna perversa. Sì, è vero, parlavano di me come di una poetessa sensuale, ma io la prendevo sul ridere, non me ne preoccupavo molto anche perché mi inorgogliva che si parlasse di me.Quella società, specialmente quella non letteraria, non poteva accettare che una donna si esprimesse in poesia trattando quegli argomenti scabrosi…

Del resto Amalia si presentava immediatamente come una femmina anticonformista, se teniamo presente la tradizione del tempo a Torino: capelli lunghi, che ella amava acconciare secondo la moda di Parigi, e i vestiti all'ultimo grido della capitale transalpina. A ciò si aggiunga il suo carattere chiuso, e il fatto che non le piaceva frequentare gente, anzi amava essenzialmente la solitudine. Con un carattere "passionale, focoso" in contrapposizione a quello del poeta "cinico e retrivo".
La storia, prima difficile, presto diventa impossibile.
Anche perché Guido era timoroso di questa relazione causata dalla sua malferma salute, malato, di quella forma di tubercolosi manifestatasi fin da bambino, e che lo avrebbe portato alla tomba.
Per contrasto al poeta di Aglié, in Amalia c'era solo voglia di provocare, di cercare e di cogliere in ogni occasione ogni frutto proibito, un carattere nato per scandalizzare con le sue poesie, i suoi drammi, i suoi romanzi, i suoi modi di fare e di presentarsi. Pensate, quando nel 1923 pubblicherà il romanzo Quando avevo un amante, Amalia subì uno dei tanti processi per oltraggio al pudore.
La Guglielminetti ha rincorso il poeta tempestosamente per tutta la durata della loro relazione a distanza, ma nulla poté il vigore di questo suo desiderio dinnanzi all'assenza cercata costantemente da Gozzano, ossessionato dalla paura di una donna decisa a tutto. Amalia non si sposò. Avrebbe volentieri sposato soloGozzano; ma quegli cercava la fuga dalla donna (e dalle donne), qualcuno dirà poi per aridità e impotenza sentimentale. E si fece derivare questa sua paura dalla maledetta malattia ai polmoni che l'afflisse da sempre.
Guido non voleva il suo amore, voleva la sua amicizia. Non voleva il contatto fisico, voleva l'immaginazione. Non voleva un rapporto reale (che lei rincorreva strenuamente, con ogni mezzo), desiderava solo un rapporto ideale. Glielo scrisse anche, in una lunga lettera del novembre del 1907: leggiamone qualche passo:

Vi siete mai domandata ciò che succederebbe se io non dovessi esiliarmi? Io sì. Succederebbe più o meno questo.
un giorno, un bel giorno, io sarei a casa vostra, nel vostro salotto, con Voi… … sarebbe un crepuscolo, un crepuscolo della prima primavera, …
… si farebbe notte, più notte, nel quadrato della finestra, rabescato dalle cortine, il vostro profilo apparirebbe appena…
… allora io, che avrei le vostre mani nelle mie mani, crederei di sognare, e inconscio, irresponsabile come in un sogno, mi chinerei sulle vostre dita, salirei lungo le falangi con le labbra, fino a mordervi le vene del polso…
… istintivamente, sempre come in sogno, la mia bocca si troverebbe dietro il vostro orecchio, alla radice dei capelli fini, e vi morderei alla nuca (il mor
so è il mio vizio preferito).

Ecco, Guido ci pensava, eccome se ci pensava al rapporto fisico con l'amante ideale, ma la paura (o qualche altra cosa?) lo tratteneva, e si limitava a fantasticare a sognare.
Non voleva soffrire per questo, lei aveva capito questo timore, tanto che gli scrisse: « Non mi sfuggite, Guido, non abbiate paura di me, io non voglio farvi del male »
Scriveva Amalia, ne Le Vergini folli (1907), in un sonetto che poteva ben attagliarsi a se stessa, estroversa, libera e libertina, in un periodo culturale in cui si presentava talvolta ornata di piume di struzzo, con cappellini alla francese e una veletta che le copriva gli occhi di maliarda:

Tu t'abbandoni, o pallida indolente,
nella ricca mollezza de' cuscini,
e in sonnolenta voluttà reclini
l
e ciglia gravi tediosamente,

quasi un'ebrezza tenue la tua mente
oziosa per strane ombre trascini,
o vélino i tuoi occhi felini
soporiferi aromi d'oriente.

O sei come una bella agile tigre,
che s'allunghi a giacer sotto una palma,
con tue movenze regalmente pigre.

Ma non t'insidia il serpe tentatore,
e tu per scuot
er la tua uggiosa calma
ti lasceresti pur suggere il cuore.

Anche nei versi più belli si sente un certo dannunzianesimo, dal quale la scrittrice non seppe mai staccarsi, alla continua ricerca dell'estetismo estremo: e nel portamento, e nelle vesti, e nel suo atteggiarsi, tutto al contrario del crepuscolarismo di cui erano intrise le opere del Gozzano. Nelle sue poesie, poi, sembra quasi specchiarsi l'impossibilità di una unione materiale coll'amato, quell'unione sempre agognata ma mai raggiunta.
Ella lo sente lontano, sfuggente, quasi un nemico.

"… che avete, Guido, contro di me? Vi sento fasciato di freddezza e di ostilità."

Era passato già un anno e il loro rapporto non aveva fatto nessun passo avanti, le solite rincorse di lei, le solite ritirate di lui. In un ennesimo tentativo di appuntamento (galante) la Guglielminetti scrive:

"… voi attendetemi nella piazza del monumento a Vittorio Em. sotto i portici presso l’ufficio postale. Vi raggiungerò verso le cinque. Prenderemo, se credete, una vettura e andremo fuori. Bisogna ch’io vi guardi negli occhi e nel cuore un momento...".

Ma si tratterà ancora un incontro mancato.

perché mi fate piangere Guido...
… vi voglio bene e soffro crudelmente di sentirvi tant
o lontano.

Gozzano sentiva il bisogno di amare, ma non nella vita reale bensì nella vita di sogno, amare come si immaginava nella fantasia, disegnandosi "in mente" una figura di lei simile a quella signorina cocotte che lo stregò, lui ancora bambino, mentre giocava nel giardino

ed ella si chinò come chi abbia
fretta d'un bacio e fretta di ritrarre
la bocca, e mi baciò di tra le sbarre
come si b
acia un uccellino in gabbia

… un ideale di donna sognata, da quel momento fatato, per sempre; una donna che non dimenticherà mai, e che avrà davanti anche durante la relazione sentimentale con la Amalia Guglielminetti.
Dirà pochi versi appresso nella suddetta poesia, infatti

Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto
di quel suo volto tra le sbar
re quadre

Questo amore per Gozzano non fu mai amore, fu piuttosto, come ebbe a definirlo una volta: "fraternità spirituale".

Mi feci le ossa, non lo dimenticherò mai, dentro la redazione della rivista "La donna", ne fui l'anima, ma la gente non apprezzava i miei scritti, già da allora sentivo intorno a me un'atmosfera negativa, per le mie idee nuove, per il mio modo di poetare.
… conobbi Guido, e imparai ad apprezzarlo prima, ad amarlo poi, ma lui…
… ci definivano crepuscolari, ma eravamo poeti nuovi, innamoratissimi della poesia…
… cominciavo ad essere conosciuta anch'io, rare volte però ho frequentato i salotti, preferivo stare sola, ero molto riservata, e ciò non piaceva ai letterati di Torino.
… ci scrivemmo lettere…
« Vi bacerei le mani, le vene dei polsi, vi morderei la nuca. È il morso il mio vizio preferito »
« Guido, ditemi una parola di tenerezza, mentit
ela pure se non la sentite, cercatela se non l'avete »

Finì anche la relazione sentimentale con il poeta. Ciò che la scrittrice aveva previsto già molto prima, in un sonetto famoso:

Folle è lasciarci, tutti accesi ancora
di desiderio, ancor pronti a godere
di tutto ciò che l'un dell'altro ignora.

La volontà che tiene prigioniere
le nostre giovinezze le flagella,
per farle in solitudine tacere.

Ma più le volge incitatrice a quella
gioia non mai gioita, che la morte
pur ci farebbe nel suo riso bella.

Più
dolce sorte è la comune sorte :
darsi con umiltà l'un l'altro, ciechi.
Abbandonarsi al vortice più forte
e dirsi dopo un breve addio, senz'echi.

Morì dunque un amore mai nato. Era dicembre, un dicembre dei più tristi per Amalia; terminava un amore "solo finto" per Guido, molto sofferto e mai raggiunto, per la scrittrice. Il poeta scappa di nuovo in Riviera, e lascia sola l'amata inconsolabile, disfatta.

« Addio, Amalia, senza molta tristezza. Di lungi vi scriverò ancora quando avrò qualche bella notizia della nostra poesia. E voi anche. Ma non parleremo della nostra passione e del nostro passato. La passione è un ingombro al nostro cammino di gloria... ».

Ma lei gli risponde ancora testardamente: « Io non voglio che tu mi sfugga, Guido…poi si arrende: …Guido… mi respingi… mi allontani… pure implorando … qualche segno di bontà in cambio di tutta la mia tenerezza ».
E la parola fine, da parte di lui: … questa è la grande verità. Io non t' ho amata mai...
io non ho amato mai; con tutte non ho avuto che l' avidità del desiderio… dichiarando implicitamente, forse, la propria incapacità di amare fisicamente.
Pier Paolo Pasolini, in un saggio di circa quarant'anni dopo, dice di Gozzano: l’essere è un colloquio con se stesso, in cui dibattere il problema della propria impotenza, rendendolo infinitamente complicato per poter avere, insieme, infinite ragioni per giustificarsi…

Intorno al 1914 Amalia si lega sentimentalmente con lo scrittore Pitigrilli. In breve divenne suo amante, ciò che contribuì ad aumentare le voci negative che la circondavano.
Lo stesso Pitigrilli, nella biografia della scrittrice/poetessa (Amalia Guglieminetti, Milano, 1919, D.Segre) ebbe a scrivere:

"i malati di impotentia coeundi dei giornali clericali, i moralisti d'ambo i sessi, i gesuiti con o senza cotta, si scaraventarono contro questa poetessa che non chiudeva le imposte prima d'accendere la veilleuse del suo boudoir".

Il romanzo della Guglielminetti La rivincita del maschio, pubblicato nell'anno 1923 fu ritenuto osceno e contrario alla moralità e favorì ancora di più l'opinione negativa sulla scrittrice.
I due amanti non ebbero vita facile, tutt'altro, ma come tutte le cose anche questo rapporto presto virò verso la fine: tra accuse e controaccuse, denunce e controdenunce, arresti e processi e assoluzioni e condanne dei due scrittori,
Fu un rapporto molto turbolento e tormentato, che la scosse profondamente e alterò i suoi nervi. Finì ricoverata per alcun tempo; fino a che poté tornare alla realtà quotidiana, ma profondamente cambiata: dentro e fuori. Non era più la donna de Le Vergini folli, né quella dei libri di fiabe per bambini che aveva scritto anni prima. Certo, continuò a scrivere: racconti brevi, testi teatrali (che ebbero anche un discreto successo) ma niente era come prima.
Quella Amalia Guglielminetti che visse a lungo nella eterna rincorsa del solo uomo che amò, non c'era più.
Morì a Parigi nel 1941.

marcello de santis

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Il fascino per eccellenza, Marilyn Monroe

29 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #cinema, #personaggi da conoscere

Il fascino per eccellenza, Marilyn Monroe



Marilyn Monroe l'abbiamo ammirata in molti, l'abbiamo amata in moltissimi, l'abbiamo rimpianta e la rimpiangiamo ancora tutti. Quelli di una certa età, intendo, quelli non più giovanissimi né giovani sono sicuro l'avranno sempre nel cuore.
Se ne andò nel mezzo dell'età (quei trentacinque del grande poeta della Commedia) e, ad oggi, ancora nessuno ha saputo spiegare il mistero della sua morte: suicidio, omicidio, disgrazia, o che. O forse sì, si è scoperto e, come altri tantissimi misteri insoluti, non si vuole che il mondo sappia. Il suo decesso, alla fine, venne ufficialmente classificato come "probabile suicidio".
Si parlò di rapporti affettuosi (?) (ma anche carnali), in quell'ultimo anno di sua vita, col presidente degli stati uniti John F. Kennedy, poi (o prima) col fratello di lui Robert, e si vociferò che in quella morte ci fosse implicato l'uno e/o l'altro. Voci. Per cui si ricorse al segreto di stato, uno dei tanti, dei troppi, che costellano la storia della più grande nazione del mondo.
Io non sono qui per cercare di sciogliere l'arcano; sono qui per ricordare, con un breve saggio, una figura tanto cara alla gente; per la sue genuina bellezza, forse anche troppa, tanto che la ragazza veniva dipinta dai critici che contano come una ochetta che si era fatta largo sgomitando, pur di arrivare: ché di classe ne aveva pochina, si è detto e ripetuto. E forse era vero. Ma ciò non toglie che la sua dolcissima figura, è vero che fu costruita, (il biondo dei capelli, le particine da ochetta, la maniera di muovere le sue grazie) ma è vero anche che, senza i requisiti essenziali propri di una sensualità innata, propria solo di lei, non sarebbe mai ascesa alla fama che raggiunse, e che tanto mestamente fu costretta a lasciare.
Tanto i media dell'epoca hanno fatto per buttarla giù da quel modesto e pur brillante piedistallo, dove era a fatica arrivata a godersi il briciolo di fama, tra le star più famose di Hollywood, che le bastava per sentirsi appagata e vivere felice, tanto la gente del cinema l'ha amata e osannata per la sua spontaneità, per la sua pura vaporosità.
Già la sua doppiatrice italiana Rosetta Calavetta fece un miracolo vocale portandola nelle nostre sale cinematografiche, su quegli schermi bianchi dai quali essa scendeva ogni sera tra di noi, per entrare nei nostri cuori (e così penso anche le doppiatrici di tutti gli stati del mondo abbiano fatto, e al meglio anche, perché è indubbio che Marylin infondeva in loro stesse, femmine come lei, un particolare calore). Rosetta, pensate, cominciò con Walt Disney dando la voce alla dolcissima Biancaneve (nel 1938, quando aveva solo 20 anni, ed aveva iniziato appena a doppiare l'attrice Deanna Durbin, bionda anche lei, dolce anche lei; ma quanto a fascino, non era davvero Marilyn!) Curiosità: Deanna era stata scartata tra le aspiranti doppiatrici per Biancaneve. Poi, nel tempo, oltre agli altri cartoons di Disney (Lilly e il vagabondo, Mary Poppins, e, ne La carica dei 101, la perfida Crudelia Demon), doppiò le più grandi attrici di Hollywood. Solo nel '50 passò ad essere la doppiatrice ufficiale italiana di Marilyn Monroe. E la sensualità sprigiona tutta nella sua inconfondibile sensualissima voce in originale, nelle sue poche canzoni che ha portato inusitatamente al successo; un successo da fare invidia ai dominatori della musica leggera americana. Su tutte, due canzoni: quella bye bye baby che cantò nel film Gli uomini preferiscono le bionde, nel quale aveva accanto l'altra bomba sexy Jane Russell, con cui costituì un duo che raggiunse una fama che dura ancora oggi, e l'altra, altrettanto celebre, dal titolo I Wanna Be Loved By You, interpretata nel film A qualcuno piace caldo
Ci basta questo - dicevamo - per innamorarci di lei, ché era per tutti la più sensuale donna del mondo; un fenomeno sexy verificatosi quando ancora in giro non c'erano - o almeno non c'erano ancora - i mezzi d'informazione di oggi, internet compreso, che ci portano costantemente davanti agli occhi attrici nude e pornostar, languide, sì, belle e bellissime, sì, ma che "fascino" non sanno neppure cosa voglia dire.
E' vero, Marilyn, quando ancora non era Marilyn, ma solo una comunissima ragazza di nome Norma, posò nuda per dei servizi fotografici, ma la sua celebrità e il suo fascino da calamita non si devono affatto a quelle fotografie; si può dire che nessuno o quasi, al di fuori dei pochi addetti ai lavori, le conosca o le abbia mai viste. C'è da dire che la sua infinita bellezza e la sua grazia risaltavano in maniera eccezionale molto di più da dentro i vestiti, che per lavoro indossava, che quando non li aveva affatto.

Cominciò a fare film quasi subito, ma voglio riportare davanti ai vostri occhi la scena che l'ha immortalata, e che è tra le più belle della storia della cinematografia mondiale: quella tratta dal film Quando la moglie è in vacanza di quel grande regista che era Billy Wilder. Lei, in piedi su una delle grate a terra, scena girata all'incrocio di Lexington Avenue e la 52° strada, a New York, davanti a centinaia di fans entusiasti. Sembra che l'allora marito della Monroe, il giocatore di baseball (si dice il più grande di sempre, di origini italiane) Joe Di Maggio, mentre veniva girata, rimanesse molto turbato e contrariato dal fascino sprigionato dalla ragazza, e che tra i due scoppiasse una lite furiosa; di lì a poco si separarono dopo solo otto mesi di matrimonio; ma forse le cose non andavano già tanto bene tra i due.
Marylin era una ragazza semplice e ancora oggi la ricordiamo così, in tutta la sua dolcezza e fragilità. Ma aveva curve mozzafiato che, pur esposte quasi sempre in maniera molto parziale, ce la mostravano nella sua micidiale esplosività. Portava ancora il suo nome Norma, quando nella sua città approdò al cinema che contava, in cerca di una pur modesta affermazione, almeno nei suoi primi intenti; oggi molti ancora non sanno che Norma era il suo vero nome, Norma Jeane Baker; ma non importa poi molto.
Quando fu rinvenuta riversa a terra senza vita, Norma-Marilyn aveva poco più di trentacinque anni; troppo giovane e troppo bella per morire. Che peccato! Le trovarono in corpo tracce di idrato di cloralio, miste a nembutal, per usare le parole dei tecnici, una mistura di barbiturici che lei era solita assumere per tentare di sconfiggere l'insonnia (normale per chi è stressato, e Marilyn lo era.)
Era il 5 agosto 1962: ricordiamola questa data, ché segna la dipartita di una delle più affascinanti attrici mai conosciute, una bionda deliziosa, ma non era il suo colore naturale; l'oro nei capelli ce lo mise la sua parrucchiera, dopo molti tentativi per renderla "visivamente" perfetta, e sistemati subito a mo' di permanente che non abbandonò mai nel corso della sua breve carriera. Era un colore che ispirò qualcuno a portarlo sullo schermo in un film in cui aveva accanto un'altra maggiorata hollywodiana, "mora di capelli" quella Jane Russell, in Gli uomini preferiscono le bionde, film che sconvolse i sensi di molti di noi, allora giovani, giovanissimi e uomini fatti.
Se proviamo a pensare alle molte grandi attrici del cinema mondiale, dal prototipo francese Brigitte Bardot fino alla nostra Sofia Loren, passando per Elizabeth Taylor fino all'altra bomba-sexy, la rossa per eccellenza, l'indimenticabile e indimenticata Rita Hayworth, (quando oggi si dice Gilda, si pensa solo a Rita), bene: la donna che più di tutte resta nella nostra memoria più viva che mai, è Marilyn.
Io avevo diciotto, diciannove poi vent'anni, e, quando a sera passavo davanti agli allora famosi "cartelloni" del cinema del paese insieme agli amici, ricordo che non potevamo non fermarci ad ammirare quelle fotografie fantastiche, leggere, sensuali, bellissime in bianco e nero, di questa attrice che ci avrebbe cullato di lì a poco nei nostri sogni.
Norma Jane Baker vide la luce a Los Angeles, e, ironia della sorte, a Los Angeles finì la sua vita. Non ebbe una infanzia facile, passò da una famiglia a un'altra in affidamento, (la madre non poteva pensare a lei, andò presto in tilt con la mente, rasentò la pazzia, venne internata), qualcuno e più d'uno scrisse di questa fragile ragazza che fosse una donna nevrotica, dall'umore balzano, e che aveva ripreso qualcosa del suo carattere da quello della madre. Forse era vero; ma non voglio parlare di "quella" sua vita. Nevrosi e sex appeal, è il miscuglio che ha caratterizzato Marilyn. Che cercava - per non pensare ai suoi mille problemi di vita - l'affermazione nel cinema, passando - per poco, va detto - per il mondo delle modelle (qui la fecero posare nuda, e lo faceva col sorriso sulle labbra ma con una gioia triste nel cuore).
Venne il successo, poi la gloria, poi la fama, che dura ancora oggi: dopo alcuni filmetti senza importanza, ella prese a rifiutare copioni su copioni, dove la si voleva far passare per oca.
Allora vennero Niagara, Fermata d'autobus, A qualcuno piace caldo, oltre ai due cui abbiamo accennato più sopra.
Sui set di Hollywod dominavano ormai una bionda Mariyn e il suo corpo mozzafiato! Ma la sua inquietudine mentale la faceva da padrona; amò e sposò Arthur Miller, ma non durò, ché non poteva durare. E lei ben lo sapeva (se lo ripeteva spesso: mi lascerà, mi lascerà, e così fu); forse fu lei stessa che lo costrinse a lasciarla, del resto non seppe mai accettarlo completamente, lei che sapeva di non saper accettare neanche se stessa.
Abbiamo detto della sua immensa fragilità, ma era anche una ragazza forte, e, soprattutto, sensibile come nessun'altra. Si mostra sempre con un viso pulito nella sua, ogni volta fresca, innocenza, ma il suo fascino prevale su tutto, insieme alla incontenibile "sensualità". Sensualità che attrae gli uomini come una calamita; uomini che vorrebbero averla, magari per una notte, ma che si rodono di rabbia per la consapevolezza di non poter realizzare la loro brama.
Anche noi allora ragazzi covavamo dentro questo desiderio; ma - confesso - non per farci in qualche modo all'amore; no! Per noi era pura e troppo bella, volevamo averla vicino solo per ammirarla, per potercene vantare con gli amici, e, se possibile, farle carezze sulle guance di bambina.
Qualcuno, in una delle tante manifestazioni post mortem, ebbe a definirla in diversi modi, da angelo biondo a venere contemporanea, da bomba sexy (ma così veniva definita anche in vita) a icona popolare.
Il cantante inglese Elton John, all'apice del suo successo, anni dopo la sua scomparsa, in ricordo di questa creatura divina, (così la definiva) comporrà per lei, e per lei canterà, la sua migliore canzone di sempre, Googbye Norma Jean!
Marilyn, una delle ultime cose che fece, e fece scalpore, fu esibirsi davanti al presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, in occasione del compleanno di questi, e, con la sua voce bassa e maliziosa, indefinibile in altra maniera, sussurrò con una carica sensuale impressionante "Happy Birthday to you, mr. President".
Era definitivamente nato - anche per i posteri - il più grande sex symbol d'America. Di allora. E di tutti i tempi!


marcello de santis

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Riccardo Marchi

20 Ottobre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #personaggi da conoscere

Riccardo Marchi

Riccardo Marchi (1897 – 1992) è davvero un personaggio dimenticato nel panorama letterario italiano, cercando in rete si trova pochissimo su di lui. Eppure, Riccardo Marchi è stato paragonato dalla critica a Tozzi, a Verga e a Capuana, per il realismo della descrizione e per il suo essere studioso del folclore e delle tradizioni livornesi.

Telegrafista nella prima guerra mondiale, gestì con successo la fabbrica di sapone del padre, portando avanti, contemporaneamente, l’attività di giornalista, di scrittore e di attivista politico. Nel 1921 partecipò al convegno socialista che vide la nascita del partito comunista.

Oltre ai versi e a numerosi romanzi, molti dei quali di stampo rievocativo e genericamente autobiografico, ottenne anche un discreto successo via etere come autore di radiodrammi e radio fiabe. Divenne membro, insieme a Corrado Alvaro, di una autorevole commissione dell’E.I.A.R. Nel secondo dopoguerra si dedicò alla cronaca e critica cinematografica per “IL Telegrafo” e “Il Tirreno”.

Sul finire degli anni sessanta si ritirò a vita privata a Livorno, dedicandosi esclusivamente alla scrittura. Morì nel 1992.

I suoi romanzi più conosciuti sono: Circo Equestre, Lo sperduto di Lugh ma, soprattutto, Via Eugenia, 1900, dove rievoca la vita della sua famiglia, la fabbrica del sapone, la figura di Zio Tide, galantuomo d’altri tempi.

Un galantuomo! Vallo a cercare al giorno d’oggi. Zio Tide lo fu? Sicuramente lo fu.

Il discorso mi riporta necessariamente alla memoria di lui, di zio Tide, abbreviativo di Aristide, fratello di mia madre, esempio di galantomismo non gratuito o di poco costo, pagato anzi a caro prezzo.

Com’era nel fisico? Aitante con un volto bruno come scavato sulla scorza di un vecchio albero. Di apparenza burbero; in realtà bonario, rivelato nell’intimo da un non frequente sorriso che, schiarendolo, gli animava assieme allo sguardo, i cespugli arruffati degli scopettoni e i baffi da quarantottino. “ (pag.7)

Marchi aveva “il tratto dell’incisore”, come si afferma nella prefazione a cura dell’editrice Nuova Fortezza, e sapeva rendere le strade di Livorno con animata vivacità:

E la strada della fanciullezza com’era?

Pressappoco come oggi, più decorosa, più Eugenia, da un Eugenio magistrato civico. Allora, nonostante la saponeria e la fonderia limitrofa al termine di quel tratto di strada, nonostante qualche stallatico e due o tre botteghe di artigiani ed una modesta canova, nei sedici edifici che la compongono, fra i quali due palazzine padronali, via Eugenia ospitava con signorile dignità impiegati, artigiani e Liberi Imprenditori come noi.

Ora è trasandata, decaduta, coi muri scrostati e fioriti di erbacce, butterati dalle guerre; ma ai tempi di zio Tide, come garriva! Di panni al sole, di voci attestanti una vitalità calda; perfino di ricchezza.

La ravvivava dall’alba al tramonto, il cantare degli ambulanti: le erbaiole, l’arsellaio, il pesciaiolo, il pollaiolo, l’ombrellaio, l’arrotino, il ramaio di Prato, un cenciaio e così via dicendo. Polifonia alla quale, per solleticare il buon cuore, si univano le tiritere degli organetti. A questi Tide faceva l’elemosina di un soldo purché se ne andassero altrove a infastidire con “La vergine degli angeli” o “La donna è mobile”. Tornassero, magari, col repertorio nuovo e lo strumento accordato.” (pag. 19)

Via Eugenia 1900 è una finestra sul nostro passato, sulla Livorno appena uscita dal Risorgimento. Ci viene in mente l’angolo nascosto del cimitero dei Lupi con le tombe garibaldine crepate, inselvatichite, ed è spontaneo associarle – e confrontarle – con certe descrizioni del Marchi:

Ah, tempi gagliardi, bellissimi e feroci! Li ricordo ancora per i cortei, riti del popolo che se ne nutriva, come il pane. I funerali dei garibaldini cui partecipavo tenuto per mano dallo zio. Grande sfoggio di bandiere e camicie rosse; folla di severi uomini in nero, come lo zio: tutti quanti con una rappa di acacia all’occhiello.” (pag 41)

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Galliano Masini

18 Ottobre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #musica, #personaggi da conoscere

Galliano Masini (1896 – 1986) nacque a Livorno all’indomani dell’assedio di Macallè, durante la guerra d’Abissinia, e deve il suo nome al protagonista di quell’episodio: Giuseppe Galliano.

Figlio di un pastaio, di aspetto ruvido, di carattere passionale, studiò solo fino a otto anni, fece poi molti mestieri prima di dedicarsi al canto: garzone di gelataio, apprendista fabbro, manovale, venditore ambulante di cocomeri e scaricatore di porto. Alla fine si arrese al fatto che il suo talento non sarebbe approdato a nulla se non si fosse dedicato alla musica a tempo pieno. Studiò, perciò, gratuitamente, a Milano. Provò a entrare nell’operetta ma fu scartato perché la sua voce era troppo pesante per il genere. Partecipò alla Parisina di Mascagni, debuttando al Goldoni nel 1914, con la corale cittadina Costanza e Concordia.

Dopo aver prestato servizio militare durante la prima guerra mondiale, poté cantare ne la Lodoletta, sempre di Mascagni, grazie all’indisposizione di un titolare, ma la sua consacrazione si ebbe nel 24, sempre al Goldoni, il giorno di Natale, con la Tosca di Puccini, e da lì partì la sua luminosa carriera che lo portò ad essere uno dei tenori più popolari, sebbene non quanto Beniamino Gigli e Giacomo Lauri Volpi. Cantò al Metropolitan di New York e a Buenos Aires ma soprattutto in Italia, non dimenticando mai la sua città che gli tributò sempre un affetto speciale, nonostante altri bravi cantanti avessero avuto lì i loro natali.

Chi cantava con lui lo apprezzava e lo considerava una delle più belle voci tenorili dell’epoca, anche se all’inizio partì quasi come baritono. Le malelingue dicono che il soprano Magda Olivero lo abbia definito “lento”, non nel canto bensì nel pensiero. I critici affermano che la sua voce aveva tutti i pregi e i difetti dei tenori italiani dell’epoca, cioè un bel tono, un’espressione diretta, ma suoni alti troppo protratti e singhiozzanti. Si trascinò per tutta la vita una bronchite cronica, contratta a Milano, che lo mandava spesso in scena in cattiva forma e gli procurava stecche famose fra i melomani. Ebbe dei contrasti con Mascagni, che lo definì “un corista”, e questo bastò a dividerli, dato il carattere impulsivo di Masini, ma la sua crescente popolarità decretò la loro riconciliazione. Masini fu un memorabile Turiddu in Cavalleria Rusticana.

Il suo volto fu notato nel cinema, partecipò ad alcuni film. La sua voce, con gli anni, andò declinando e si arrochì, ma Masini continuò a cantare fin oltre il secondo dopoguerra ed ebbe il coraggio, nel 55, di debuttare nel ruolo di Otello sempre al Goldoni. Fu nella sua città che, nel 57, cantò per l’ultima volta in Tosca e ne I pagliacci.

Non restano molti suoi dischi poiché diffidava delle sale d’incisione e si esprimeva a pieno solo sul palcoscenico.

Morì nella sua casa di Livorno, nel 1986, una settimana dopo il suo novantesimo compleanno.

Galliano Masini (1896 - 1986) was born in Livorno in the aftermath of the siege of Macallè, during the Abyssinian war, and owes his name to the protagonist of that episode: Giuseppe Galliano.

Son of a rough-looking, passionate pasta maker, he studied only up to eight years, then did many jobs before devoting himself to singing: ice cream shop boy, blacksmith apprentice, laborer, watermelon street vendor and docker. Eventually he surrendered to the fact that his talent would not have come to nothing if he had not devoted himself to full-time music. He therefore studied for free in Milan. He tried to enter the operetta but was discarded because his voice was too heavy for the genre. He took part in Mascagni's Parisina, making his debut at Goldoni in 1914 with the choral town Costanza and Concordia.

After going to the army during the First World War, he was able to sing in the Lodoletta, also by Mascagni, thanks to the indisposition of a titular, but his consecration took place in 24, always at Goldoni, on Christmas day, with Tosca by Puccini, and from there he started his bright career which led him to be one of the most popular tenors, although not as much as Beniamino Gigli and Giacomo Lauri Volpi. He sang at the Metropolitan in New York and in Buenos Aires but above all in Italy, never forgetting his city which always gave him a special affection, despite the fact that other good singers had been born there.

Those who sang with him appreciated him and considered him one of the most beautiful tenor voices of the time, even if at the beginning he started almost as a baritone. The gossips say that the soprano Magda Olivero called him "slow", not in singing but in thought. Critics say that his voice had all the strengths and weaknesses of the Italian tenors of the time, that is, a nice tone, a direct expression, but loud sounds too protracted and sobbing. He suffered his whole life of a chronic bronchitis, contracted in Milan, which often sent him on stage in bad shape and gave him bad reputation  among the music lovers. He had contrasts with Mascagni, who called him "a chorister", and this was enough to divide them, togheter with Masini's impulsive character, but his growing popularity decreed their reconciliation. Masini was a memorable Turiddu in Cavalleria Rusticana.

His face was noticed in the cinema, he participated in some films. His voice, over the years, declined and became hoarse, but Masini continued to sing until after the Second World War and had the courage, in 55, to debut in the role of Otello, always at Goldoni. It was in his city that, in 57, he sang for the last time in Tosca and in I pagliacci

Not many of his records remain since he distrusted the recording rooms and expressed himself fully only on the stage.

He died in his Livorno home in 1986, a week after his ninetieth birthday.

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Nilla Pizzi

11 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica, #personaggi da conoscere

Nilla Pizzi

Nel 1951 avevo 11 anni e già da alcuni mi interessavo alle canzoni, agli autori, ai cantanti, e alle orchestre. In quel periodo usciva dal giornalaio (il termine edicola non si usava ancora, a quanto mi ricordi), mensilmente, un piccolissimo libriccino con i testi delle canzoni più in voga, o almeno le più conosciute del momento; mi sembra che si chiamasse, se la mente carica di anni non m'inganna, "Il canzoniere della radio", una trentina di pagine o poco più.
Ed io, figlio di un padre prima senza lavoro e poi (fortunatamente) assunto come infermiere presso l'ospedale della mia città, non mi potevo permettere di comprarlo. Come del resto a casa mia non si compravano giornali o riviste per i grandi, per papà e mamma, intendo, (Grand Hotel, Gente) o fumetti (le famose strisce, ricordate? Corriere dei piccoli, Tex, Il piccolo sceriffo, L'uomo mascherato, Mandrake, Zagor, Cino e Franco).
Se qualcuno di questi giornali e giornaletti potevamo leggere o sfogliare, lo facevamo grazie all'ottimo rapporto di vicinato obbligatorio e scontato per quel periodo del primo dopoguerra, con la signora Adele, che abitava sotto di noi, che eravamo al primo piano. Abitava, lei e la sua famiglia, un piano terra che aveva davanti all'uscio un pezzettino di orto con galline e pulcini; e aveva due figli della nostra età, Marcella, la più grande, e Pierino, nel tempo diventato professore prima e preside di liceo poi, oggi in pensione, che ogni tanto incontro passeggiando per strada. Avevamo press'a poco la stessa età, anno più anno meno.

Bene, Adele, il cui marito Alessandro faceva il parrucchiere, comprava diverse riviste, soprattutto Grand Hotel, delle cui storie era appassionata tutta la famiglia; e per i figli, nostri compagni di giochi, non mancavano le strisce di cui sopra, soprattutto quelle de Il piccolo sceriffo.
E io e mio fratello più piccolo leggevamo le strisce; come del resto mia mamma, anche se non appassionatissima come loro, leggeva, tra una chiacchiera e l'altra tra donne di casa, il Grand Hotel, settimanalmente immancabile; che era un giornale-mito in quegli anni; ci aiutavano a sognare, grandi e piccoli, storie che tutti avremmo voluto vivere.
Intanto usciva in quell'anno il primo numero di Sorrisi e Canzoni, che da allora mi ha sempre accompagnato, per più di cinquant'anni, lungo la strada della musica leggera. Poi, verso l'inizio di quest'era moderna, la rivista, che ha preso il nome di TV Sorrisi e Canzoni, ha cambiato formato e contenuti; prima raccontava la vita dei cantanti con le loro canzoni; dal 2000 in poi tratta un po' di tutto, ma principalmente dei programmi della televisione.
Cominciai così a conoscere vita morte e miracoli, come si usa dire, dei divi della radio (che divi non erano davvero); la televisione non c'era ancora.
Adele dunque ci permetteva di accedere alle riviste e ai fumetti a strisce, e mia madre invitava molto volentieri tutta la di lei famiglia, compreso nonno Giggetto, a salire a casa nostra, a seguire la radio; quando c'erano, i gialli di Ellery Queen, ricordo, appassionati e paurosi, e noi lì a pendere dalla radio.

E poi il festival della canzone italiana di San Remo che presentava canzoni nuove, per mezzo dell'orchestra diretta dal maestro Cinico Angelini, con i cantanti Nilla Pizzi, Carla Boni, Il duo Fasano, Gino Latilla e Achille Togliani…
La sigla dell'orchestra era "C'è una chiesetta amor, di Castaldi e Rampoldi", sigla che divenne celebre per anni, e che il maestro sostituiva solo quando si presentava come "Angelini e otto strumenti", (la sua orchestra ridotta a otto elementi, appunto); la sostituì con Where end When, ossia Dove e quando.
Il Festival della Canzone Italiana veniva trasmesso in diretta dal Casinò di San Remo. E durava, se non ricordo male, al massimo due/tre serate, solo per il tempo delle canzoni, senza tanti fronzoli, ospiti d'onore, scenette più o meno sceme, gag, e altro.
Quando il grande Nunzio Filogamo faceva uscire la sua inconfondibile voce dal nostro apparecchio radio - un Geloso di quelli grossi, con sullo schermo le stazioni con i nomi di tantissime città italiane e stranier, sintonizzate girando una manopola che faceva scorrere una barretta scura sotto il vetro, l'altra era per il volume (apparecchio che noi tenevamo su un mobile in sala) - bene, quando Filogamo parlava, tutt'intorno in un silenzio da chiesa, noi e Adele e i suoi eravamo là, seduti, pronti all'ascolto; e io, con il numero di Sorrisi e Canzoni aperto sulle ginocchia, a leggere i testi della canzoni interpretate.
Ecco, San Remo era portato avanti solo dal maestro Angelini e i suoi cantanti. Per quattro anni, dal 1951 appunto, fino al 1954, il maestro fu il re incontrastato del Festival.
E regina indiscussa della Canzone italiana, divenne immediatamente Nilla Pizzi, dopo che la sua canzone Grazie dei fior vinse quella prima edizione. Debuttò giovanissima in Rai - allora si chiamava EIAR - diretta dal maestro Carlo Zeme, con una canzone dal titolo Casetta tra le rose. Cominciò a incidere dischi, con, tra l'altro, Quel mazzolin di fiori; ma solo nel 1945 incontra il maestro Angelini che la porta con sé in giro per l'Italia. Poi torna alla radio, dove le fanno un contratto esclusivo per due anni. Continua a incidere per diverse case discografiche.
Interpreta La vie en Rose, E' troppo tardi e altre, ma non disdegnando ritmi latino americani.
Ed eccola nel 1951 al Festival della canzone Italiana di San Remo. Festival della canzone italiana, dunque, ché, allora, vinceva "la canzone" e non, come oggi, il cantante. Tanto che ai cinque cantanti del maestro Angelini venivano assegnate tutte le canzoni in gara. Lei, per esempio, al primo festival portò al successo, oltre quella che vinse, anche "La luna si veste d'argento", in coppia con Achille Togliani, Ho pianto una volta sola, che, pur essendo molto bella, non andò in finale. Fu la trionfatrice anche dei Festival seguenti. Nel 1952, con Vola colomba. Al secondo posto fece classificare Papaveri e papere, e terza, sempre per la sua voce calda e ammaliante, Una donna prega. Nel 1953, fece classificare al secondo posto, con la sua calda voce e la sua grazie infinita, Campanaro.
Questo è quanto, ma non è tutto. Il festival andò avanti tra alti e bassi; e, bene o male, pure stravolto nei suoi canoni e nelle sue finalità, è arrivato fino ad oggi. Alla ribalta della città dei fiori si alternano big, cioè i grandi, spesso cantanti di nessun nome e di nessuna fama e che non la raggiungeranno neppure dopo la loro presenza sul palcoscenico tanto glorioso; e cantanti cosiddetti "giovani", di cui a mala pena salviamo - ogni anno - uno o due elementi su una ventina; talvolta, anzi spesso, emergenti solo successivamente alla manifestazione, tra quelli eliminati nelle varie serate; lunghissime e noiosissime. Giovani che durano l'espace d'un matin, come dicono i francesi. Questo è quanto, ma non è tutto, dicevamo più sopra. Ché Nilla, al contrario di buona parte di questi cosiddetti cantanti moderni, ha continuato a cantare deliziandoci con la sua voce eterna.
Vediamola e ascoltiamola ancora come allora, coi suoi deliziosi abiti di scena, che magari oggi ci paiono fuori moda. E la sua grazia, che non passa mai di moda. E' il miglior complimento che le possiamo fare.

marcello de santis

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Ria Rosa: parte terza

9 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #personaggi da conoscere, #musica

Ria Rosa: parte terza


Ria Rosa lavorò nella compagnia di Nicola Maldacea, grande attore di teatro, ma soprattutto grande interprete della canzone napoletana, il canzonettista per antonomasia dei palcoscenici campani; cantava con uno stile tutto particolare, adottando, talvolta, nell'eseguire i brani, il suo stile recitativo, che, pur imitato, non è stato mai raggiunto da alcuno; nascevano le celeberrime macchiette, che contraddistinsero in breve la personalità del grande artista.
Si fece conoscere così, tanto da essere ingaggiato, Maldacea, dalla compagnia del grande Edoardo Scarpetta, il padre di Eduardo de Filippo; e poté raggiungere in tal modo la fama, che lo portò ben presto ad esibirsi nel celebre Teatro Margherita.
Ecco, Ria Rosa lavorò nella compagnia di Nicola Maldacea, e proprio con lui affrontò per la prima volta il viaggio in America; qui, fattesi le ossa, mise su una propria compagnia teatrale, con la quale avrebbe recitato sceneggiate spassose; ma anche affrontando talvolta argomenti i più scabrosi del momento.
Del resto, come vedremo quando sarà in America, il coraggio non le mancava di certo. Era, diremmo oggi, nel suo DNA. Non poteva mancare di esibirsi e interpretare le più belle canzoni napoletane in alcune edizioni delle Piedigrotta, che iniziavano proprio in quegli anni.Ma non era sola a contendersi l'appellativo di regina della canzone napoletana, c'era in auge anche la sua rivale di sempre Gilda Mignonette. La rivalità era enorme, ma sempre rispettosa, tra le due dive.
Ria Rosa faceva viaggi continui tra l'America e l'Italia, Napoli-New York fu la sua vita per anni, fino a che decise di stabilirsi definitivamente laggiù; correva l'anno 1937. Fu l'anno del suo ultimo viaggio a Napoli; obbligata, si può dire; fu l'anno della morte dell'autore Ernesto Tagliaferri che tante canzoni aveva scritte, (ricordiamo: Napule ca se ne va, Mandulinata a Napule, Piscatore 'e Pusilleco), molte dedicandole a lei; e non poteva dunque mancare per l'ultimo saluto.
Tagliaferri stava finendo di scrivere per l'artista la sua ultima canzone dal titolo "Chitarra nera". E Ria Rosa, in quell'occasione, volle cantare per l'ultima volta in pubblico la canzone. Poi non la cantò più.

E la vediamo, dunque, l'artista, protagonista anche a Piedigrotta, in questa prima manifestazione pubblica della canzone napoletana (anche se alla rassegna c'erano pure alcune canzoni in lingua; del resto essa era organizzata da una casa editrice partenopea, quella di tale Francesco Esposito, il cui padre aveva un negozio di strumenti musicali in via Roma, a Napoli).

Furono invitati ad esibirsi una decina tra i cantanti che andavano più in voga in quel periodo. Di quella pattuglia di artisti oggi ne ricordiamo appena tre o quattro, che insieme a Ria rosa vinsero il tempo, e guarda caso due di essi donne. Una è senz'altro Gilda Mignonnette, di cui abbiamo parlato in questo saggio, che già era una vedette dei Cafè Chantant di Napoli; e poi la bella Tecla Scarano, che lavorava a teatro interpretando testi del grande commediografo Raffaele Viviani; una ragazza che molti anni appresso divenne una discreta attrice di cinema.
Le cantanti avevano una canzone a testa: Ria Rosa ebbe "E femmene masculine" (Barbieri-Giannelli), la Mignonnette cantò Sempe Napule sarrà (Mendozza-Gargiulo), a Tecla Scarano fu affidata Heart and heart (De Lutio-Ceryno) e l'altra cantante di cui si è persa la fama, il suo nome d'arte era La Zingara, presentò Cè vò cè vò (Vento-Recitano).
Una curiosità: le canzoni furono incise su dischi. Tranne sette, e tra queste tutte quelle eseguite dalle interpreti femminili.

Torniamo a quelli che raggiunsero una certa notorietà. Dobbiamo ricordare, e chi è molto addentro alla storia della canzone napoletana lo conosce bene, un certo Mimì Maggio, che fu nome di buona levatura nella Piedigrotta di quell'anno.

Proprio per questo essere un "minore" della scena artistica napoletana, egli merita qui qualche parola più degli altri di cui abbiamo appena parlato.
Mimì Maggio, a quei tempi, aveva 42 anni, dieci più di Ria Rosa, anche lui amico del Viviani, e lavorava già quattordicenne nelle rappresentazioni a teatro che si tenevano nei teatri di Napoli nelle memorabili matinée. Era un giovane dalle mille capacità, cantava, suonava il mandolino, recitava, e tutto lo faceva molto bene; mentre si esibiva lavorava anche come garzone di barbiere. A sedici anni abbandonò il lavoro e seguì la sua innamorata Antonietta Gravante, il cui padre portava in giro per i luoghi più disparati un moderno Carro di Tespi.
Ecco, Mimì aveva trovato la sua strada, sposò Antonietta, e a un certo punto se ne andarono per città e paesi a cantare e recitare; pensate, si esibirono perfino sul palcoscenico delle Folies Bergères a Parigi.
Fu, Mimì, il capostipite della famosissima famiglia dei Maggio, dei quali Beniamino e Dante, Pupella e Enzo, Margherita e Rosalia furono gli unici - tra i sedici che la coppia diede alla luce - che seguirono le orme dei genitori e divennero celebri.
Mimì morì a Roma nel 1943, ancora giovane, aveva poco più di sessant'anni.

Ria Rosa nel 1939 si stabilì, come detto, definitivamente a New York dove divenne famosissima, e da dove l'eco della sua fama correva continuamente a Napoli. Andate e ritorni interminabili, continuamente. Fu denominata la diva eccentrica proprio per i testi che proponeva, e per il suo coraggio nell'affrontare in essi argomenti scottanti di attualità, come nessuno osava fare. E, come detto più sopra, per la battaglia per i diritti delle femmine, gli attribuirono il tiolo di nonna del femminismo.


marcello de santis

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