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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

patrizia poli

Mare Fuori

24 Marzo 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #serie tv, #televisione

 

 

 

 

Si sentono le tre diverse regie nelle rispettive stagioni di Mare Fuori. Asciutta, cruda e bellissima la prima, a firma Carmine Elia; coinvolgente ma melodrammatica la seconda, dove si avverte la mano femminile di Milena Cocozza; fin troppo ingolfata di lacrime e abbracci la terza, a mio avviso la peggiore, diretta da Ivan Silvestrini.

Mare Fuori piace perché ribalta tutte le prospettive. La vera libertà è l’IPM, sembra dirci, lo spazio ristretto del penitenziario minorile affacciato a pelo d’acqua. Lì dentro succede di tutto ma in specie avvengono cose buone: rivolgimenti interiori, pentimenti, crescite. Fuori, invece, c’è il male, ci sono persone malvage che ti obbligano a delinquere, a diventare quello che in cuor tuo non vorresti essere, a finire schiacciato dagli ingranaggi del sistema camorristico. “Fuori è pieno d’infami”. Al punto che non si capisce perché si continuino ad accordare permessi premio quando poi, una volta usciti, i ragazzi compiono, volenti o nolenti, gli atti più crudeli o rischiano la pelle. “Siamo più liberi qui dentro”, dice Naditza a Filippo. In carcere, infatti, le differenze si appianano, si diventa uguali, la zingara napoletana può sognare l’amore con il Chiattillo, il figlio di papà milanese.

La figura più affascinante non è, appunto, il fighetto milanese, per quanto coraggioso e determinato, ma Carmine di Salvo, figlio della boss Wanda, il quale cerca di svincolarsi dalla melma deterministica che lo avvolge e impastoia, che gli impedisce di vivere una vita semplice e onesta, che gli uccide la giovane e innocente moglie. Mediterraneo, con le labbra carnose e lo sguardo malandrino, tormentato e buono, è il vero eroe del penitenziario. Carmine passa attraverso ogni genere di ribellione e sofferenza. Ha un rapporto padre- figlio col comandante – altro personaggio romantico – un tenero legame con la figlioletta, che non a caso ha chiamato Futura, una sorta di bromance con il Chiattillo, amico fraterno disposto a tutto per salvarlo, e una passione alla West Side Story per Rosa Ricci, rampolla del clan avverso.

All’opposto di Carmine c’è Viola, il male assoluto, fine a se stesso e incarnato, per cui non si prova compassione. Quando cade dal tetto della prigione nessuno si dispiace per lei e tutti i telespettatori tirano un sospiro di sollievo.

La serie attrae perché dà una spiegazione al male, sempre figlio di altro male. Perché implica un riscatto, anche per gli atti più atroci, come accoltellare una madre o violentare una. Basta pentirsi, piangere e abbracciarsi, basta non averlo voluto davvero. E qui, forse, nasce il pericolo, il messaggio sbagliato, cioè che tutto si possa perdonare, dimenticare, archiviare, relegare nel passato, persino l’azione più efferata in stile Erica e Omar. Solo l’oggi ha valore, esistono esclusivamente il presente e un futuro sognato. Così il male viene sminuito a favore di altri valori, molto esaltati nelle serie televisive odierne, siano esse fantasy, storiche, poliziesche o drammatiche: amicizia, lealtà e amore hanno più importanza di omicidi, violenze e faide di sangue, e le intenzioni sono più forti delle azioni.

Chiunque di noi, suggerisce inoltre Mare Fuori, può trovarsi nella situazione di questi ragazzi, messo a nudo e costretto a delinquere per finire poi circoscritto nel limbo di un carcere, luogo più dell’anima che fisico, dove le differenze si annullano, dove bene e male sono ingigantiti oppure appiattiti, dove si formano alleanze e si giurano odi eterni. 

Una carrellata di personaggi forti, ben disegnati e indimenticabili: la direttrice, il comandante, Carmine, Filippo, Naditza, Cardiotrap, Pirucchio, Pino, Ciro, Kubra, Edoardo e tutti gli altri sono destinati a rimanere nel cuore, così come i vicoli tortuosi di una Napoli affacciata su un mare che può stare fuori, sì, ma anche perforarti l’anima.  

 

 

 

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Vikings

7 Marzo 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #serie tv, #televisione

 

 

 

 

Serie molto ben confezionata, a firma Michael Hirst, Vikings, anche se troppo moderna nell’impianto visivo, nelle acconciature, nel trucco e parrucco. I protagonisti sembrano più rock star, per le movenze e le espressioni, piuttosto che antichi norreni. Ma le ricostruzioni di ambiente sono minuziose ed efficaci, i personaggi tanti e ben disegnati: l’indovino cieco, i cinque figli di Ragnar, il pazzo visionario Floki, la volitiva Lagertha, la cattiva Aslaug, il giusto e forte Ragnar Lothbrok e una miriade di altri.

Su tutti, però, spicca Athelstan, il monaco che viene preso prigioniero dai Vichinghi e vive con loro. Man mano che passano gli anni, si trasforma da cristiano convinto a uomo del compromesso e del sincretismo. In lui albergano più anime, quella cattolica e quella contaminata dalla frequentazione pagana. Athelstan comincia a intravedere la bellezza e la spiritualità anche in certi riti di sangue violenti e raccapriccianti. “Amo Gesù e amo Odino”, dice. Dopo la morte per mano di Floki, continua a essere presente sotto forma di visione e assume sempre più un’immagine salvifica e cristologica. La sua eredità sarà assunta dal figlio naturale Alfred, futuro re del Wessex, la figura più nobile e giusta di tutta la serie. Athelstan è irrisolto, tormentato e tuttavia completo, frutto proprio del suo lasciarsi andare a una molteplicità di pulsioni, da quelle più religiose a quelle terrene e lascive. “La loro morale è diversa”, dice ormai scevro di giudizi o pregiudizi parlando dei suoi catturatori che definisce “la sua famiglia”.

L’ammirazione e l’amicizia che Ragnar Lothbrok, il personaggio più importante, ha per lui, sono assolute. Ragnar, a sua volta, agisce spinto non da mera ambizione ma da curiosità: la voglia di sapere cosa c’è oltre il mondo conosciuto, la voglia d’imparare usi e costumi diversi, di parlare altre lingue. 

Altro personaggio controverso è re Ecbert, uomo dai continui rivolgimenti etici, pronto a tradire ma anche a soffrire per averlo fatto. Amico sia di Athelstan che di Ragnar, diventa l’amante della moglie del figlio, alleva Alfred nel ricordo del padre monaco e lo prepara a diventare un futuro re saggio e pio. La sua amante sarà la madre di Alfred, avuto dalla relazione di lei col monaco Athelstan, che ne difenderà l'ascesa al troino anche a costo di uccidere il proprio primogenito.

Diverso il caso di Lagertha, coraggiosa, tenace, da sempre innamorata di Ragnar, dolce con i familiari ma spietata e inflessibile con chi merita di morire.

Inevitabile in confronto con Game of Thrones. Ma qui c’è una base storica, molti dei personaggi sono realmente esistiti e c’è parecchia spiritualità. Si fa un gran parlare di dio, della sua differenza con gli dei nordici, di paradiso e di Valhalla. Esistono l’inferno e il paradiso? Esistono gli dei? E, se non ci fossero, la vita avrebbe più o meno senso?

Personaggi spietati, barbarici, che non ci pensano un secondo a infilarti un’ascia nello stomaco ma si pongono questioni filosofiche, parlano di Odino e Thor, ma anche di Gesù Cristo e di Budda. Fazioni e nazioni a contrasto, per le quali, come in Game of Thrones, di volta in volta parteggiamo.

L’unico personaggio assolutamente sgradevole, almeno per me, è Ivar the Boneless, interpretato benissimo dall’attore Alex Høgh Andersen. Invasato, megalomane perché frustrato, cattivo fino al midollo, finisce per perdere il senno credendosi un dio, prima viziato dalla madre altrettanto malvagia e poi adulato dalla moglie che lo manipola e tradisce. Ultimogenito di Ragnar, nato sotto una cattiva stella senza l’uso delle gambe, cresce forte, arrabbiato e vendicativo. “Vorrei non essere sempre così arrabbiato” afferma.

Il padre gli spiega che è speciale proprio per il suo handicap ma lui avrebbe preferito essere normale e amato come i suoi fratelli, i quali un po’ lo sostengono e un po’ lo disprezzano. Tutti indistintamente lo temono, per la sua forza, per la tenacia con cui cammina sulle mani, per la malvagità che non lo abbandona un istante.

Non giocano a favore delle ultime stagioni una subentrata tendenza melodrammatica e la presenza di personaggi nuovi di poco interesse, dopo l’uscita di scena di altri di grande spessore come Rollo – in continua tensione odio e amore nei confronti del fratello Ragnar – o Judith– madre capace di uccidere uno dei figli a favore della regalità dell’altro. Uno di questi caratteri insipidi è o storico vescovo Heamund, che non è ben sviluppato nelle sue potenzialità di personaggio. Grande guerriero e principe della chiesa, non si capisce perché dal giorno alla notte s’invaghisca di Lagertha, salvo poi respingerla preso da un’improvvisa paura della dannazione. Si salva solo Gunnhild, sorta di regina valchiria di grande impatto anche fisico sullo schermo.

Certe crudezze vichinghe nelle ultime fasi della narrazione vengono sostituite da un tono epico quasi arturiano, non sgradevole, specialmente nelle bellissime scene del funerale di Lagertha, che ricorda le esequie di Artù nel film Excalibur, o della morte di Bjorn Ironside che riporta alla mente il Cid Campeador.

Alcuni nodi della narrazione non vengono spiegati e vanno accettati per quello che sono, vedi la presenza dell’indovino cieco anche dopo la sua morte, la somiglianza estrema fra Freydis, moglie uccisa di Ivar, con la russa Katia, la vera paternità di Bjorn, la vera identità di Othere, la misteriosa natura di Harbard e via discorrendo.

Tutto sommato, nonostante i difetti, se si pensa che quasi tutto quello che viene narrato e quasi tutti i personaggi sono storici o semi storici, una saga bella e potente.

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Dark

15 Gennaio 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #serie tv, #televisione

 

 

 

 

Binge watching forsennato per questa superlativa serie basata sul time travel. Incastri, incroci e rimandi difficili quanto un cubo di Rubic, filosofia allo stato puro e continue interrogazioni sul tempo, sul determinismo, sul libero arbitrio, sul senso della vita e della morte.

Tutto è adesso, il presente non esiste perché frutto di interconnessioni con passato e futuro, il futuro condiziona il presente quanto il passato, ciò che deve accadere accadrà comunque. Il tempo è Dio, e non è compassionevole.

Persone che incontrano e magari uccidono il proprio doppio più giovane o più vecchio, o il corrispondente di sé nell’altra dimensione. Madri che sono figlie delle proprie figlie. Figli che conducono nel passato il proprio padre bambino. Un rompicapo affascinante quanto arduo da ricostruire.

Nella terza stagione scopriamo che ci sono anche più realtà parallele e che i personaggi tanto amati in realtà non esistono, ma questo ci piace meno, preferiamo le prime due.

Un applauso comunque agli autori che – almeno loro – non hanno perso il filo, e al cast di bravi attori, numeroso poiché per rappresentare molti singoli personaggi si sono usate tre persone diverse. Ridotto, invece, il luogo in cui si svolge la storia e veramente poche, quasi claustrofobiche, le location, ma ciò non inficia la profondità spazio-temporale della trama.

Molto si basa su un dualismo manicheo, luce e buio, Eva e Adamo, ma tutto si risolve col ritorno allo status quo ante – una eucatastrofe triste e malinconica - prima che la creazione della macchina del tempo a opera dell’orologiaio (Dio? Il Big Bang?) scindesse l’universo creando altre due realtà parallele.

Un ottimo lavoro che dà da pensare, come tutta la buona fantascienza.

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Giuseppe Benassi, "Il luogo giusto in cui morire"

5 Gennaio 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni

 

 

 

 

 

 

Un luogo giusto in cui morire

Giuseppe Benassi

L’Erudita, 2022

pp 167

19,00

 

Il più cattivo e il più doloroso dei romanzi scritti da Giuseppe Benassi con protagonista l’avvocato Borrani. Un morto ammazzato nei gabinetti della stazione di Livorno, del cui omicidio verrà sospettato lo stesso Borrani, un’asta pubblica, un casolare in quel di Pomarance, sono gli elementi di questo giallo atipico che è un pretesto per due cose: interrogarsi sulla morte e scandagliare l’abisso di alcune possibilità erotiche.

L’esoterismo dei romanzi precedenti si stempera nel grottesco personaggio di Lalla Stella, l’avvocatessa astrologa, i protagonisti stessi si trasformano in una sorta di figure dei tarocchi che agiscono di nascosto per creare l’intreccio e la sorpresa finale, le citazioni e i rimandi colti debordano in una pletora di domande senza risposta, in un flusso di coscienza compulsivo attorno al senso della vita e della morte.

Come sempre in Benassi, il sublime lirico della natura – il sogno di una nuova vita nel casale di Pomarance quasi assorbito per osmosi dal morto – si mescola al repellente di certi sordidi ambienti e personaggi, di certe espressioni crude e volgari. Questa volta, oltre al consueto paesaggio labronico, gli avvenimenti si svolgono nella campagna toscana, selvaggia e sulfurea. Sempre riscontrate in Benassi fascinazioni etrusche, qui rappresentate dal richiamo all’obesus etruscus. Sempre più acida, solforosa e angosciosa la natura del suo personaggio, che non guarda agli altri con bonario distacco, bensì proprio con disprezzo.

Ma c’è anche un ammiccamento sempre più deciso alla china scivolosa e intrigante della lascivia, che un po’ spaventa e un po’ attira il protagonista. Negli ambienti omosessuali, infatti, matura l’omicidio di Nado Leri, e tutto il tessuto narrativo è costellato di rimandi al mondo gay, con le varie icone pop, da Mina a Patty Pravo. Il protagonista sembra rendere, di romanzo in romanzo, più esplicito e meno rimosso questo desiderio, all’inizio latente al punto da spingerlo verso una frequentazione insistente dell’altro sesso.

Ora però il tempo è trascorso, e il protagonista deve fare i conti con la Morte, colei che tutto annulla, e che, prima di arrivare, ti vuole vedere in faccia, vuole che tu riveli in primis a te stesso chi sei veramente. Per questo motivo Borrani si lascia trascinare in una storia pericolosa, ben sapendo di correre il rischio di finire in galera, perché, in lui come in tutti noi, cova il desiderio velleitario di una svolta, di una rinascita prima che sia troppo tardi, prima che l’abitudine – tutto sommato comoda e confortante – rappresentata dalla eterna fidanzata Messori, lo stritoli al punto di non lasciargli altre vie d’uscita se non la morte. Quella morte alla quale bisogna prepararsi, quella morte per cui bisogna, magari con un certo anticipo, scoprire il luogo giusto.

 

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Stranger Things

31 Dicembre 2022 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #serie tv, #televisione

 

 

 

 

Stranger Things

 

È piaciuta a tutti questa serie del 2016, arrivata ormai alla quarta stagione, scritta dai Duffer Brothers. Non attira solo per la storia horror – forse un po’ ripetitiva col passare delle stagioni – piuttosto per i personaggi ben disegnati e distinti, e per l’atmosfera anni ottanta, meravigliosamente ricostruita. È indirizzata a un pubblico di nostalgici, orfani di un periodo straordinario del cinema, della musica e della letteratura fantastica, che qui ritrovano continue citazioni d’epoca, da Ritorno al futuro (1985), a I Goonies (1985), a Stand by me (1986) a E. T. (1982) a La storia infinita (1984) fino a Nightmare (1984) e ai romanzi di Terry Brooks.

Abiti, colonne sonore, oggetti di culto che ci riportano indietro, non solo ricreando un’ambientazione ma richiamando, in modo autoironico e celebrativo, Spielberg e tanti altri maestri dell’epoca più brillante del cinema americano.

Fra umorismo e sceneggiatura brillante, scene d’azione confezionate in modo perfetto ed effetti speciali straordinari, sgorga potente la sensazione di perdita, di fine inesorabile dell’infanzia, con tutto quello che comporta, ossia l’abbandono degli amici, la difficoltà di crescere e trovare il nostro posto nel mondo, la rottura di legami che apparivano indissolubili, la fine dell’età del sogno e dell’immaginazione dove tutto era ancora possibile, sostituita dal mondo degli adulti, con le cocenti delusioni e la scoperta della diversità, che per Eleven sono i poteri soprannaturali e per Will l’amore omosessuale per l’amico Mike.  

Una serie commerciale e raffinata insieme, curata nei minimi dettagli, godibilissima. Un autentico tuffo nel passato.

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Ritorna "L'isola delle Lepri"!

6 Ottobre 2022 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli

 

 

 
 
Con una seconda veste grafica, nonché nuova edizione, torna L'ISOLA DELLE LEPRI!
Quale migliore occasione per chi non lo avesse ancora letto?
 

 

 
Ritorna "L'isola delle Lepri"!
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Aldo Dalla Vecchia, "Diabolik dietro la maschera"

22 Settembre 2022 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #persoanggi da conoscere, #saggi

 

 

 

 

Diabolik dietro la maschera

Indagine sul Re del Terrore

Aldo Dalla Vecchia

Graphe.it, 2022

pp 102

9,00

 

 

 

Il mio unico ricordo di Diabolik coincide con le scenette che Johnny Dorelli recitava in Johnny sera, uno spettacolo del 1966, dove impersonava Dorellik, parodia, appunto, del fantomatico Diabolik. Ah, i mitici varietà della tv in bianco e nero, dove risaltava la faccia pallida e fintamente sardonica di Dorelli avvolto nella calzamaglia!

Al fumetto Diabolik, Aldo Dalla Vecchia dedica la sua ultima fatica, un saggio intitolato Diabolik dietro la maschera. Diabolik è un personaggio nato nel 1962 dalla fantasia delle sorelle Giussani, per la casa editrice Astorina. Si rifà a illustri predecessori del calibro di Fantomas, Rocambole e Arsenio Lupin.

Precursore e capostipite del fumetto nero italiano, Diabolik è stato un fenomeno trasversale che ha resistito dal 1962 fino ai giorni nostri. Ha come protagonisti un ladro capace di spettacolari trasformazioni, la sua amata compagna di nome Eva Kant – bella, algida e sensuale – e la controparte che gli dà la caccia, il nemico storico, l’ispettore Ginko, affiancato da Altea.

Avvenente, con un fisico scolpito e gli occhi gelidi, spietato ma innamorato e geloso della sua Eva – con la quale costituisce una coppia convivente non sposata, scandalosa per gli anni in cui il fumetto fu concepito – Diabolik è maestro del travestimento, grazie alle maschere con cui riproduce i lineamenti di chiunque. Ha una sua morale ma non è un personaggio positivo e in questo sta il suo fascino perverso.

Sebbene l’argomento sia trattato in modo didascalico e rigoroso, trabocca la passione di Dalla Vecchia per questo fumetto tutto chiaroscuri, patinato, forbito nel linguaggio e sottilmente sensuale senza mai essere volgare. Capitolo dopo capitolo vengono studiate le origini dell’opera, la storia delle sorelle che lo idearono, il personaggio di Diabolik, quello del suo avversario e delle due donne. Si analizzano poi le imitazioni e le parodie – mitica quella di Paperinik –, i tentativi di riproduzione cinematografica, dal trash di culto di Mario Bava alla versione vincente del 2021, il merchandising.

Un saggio ricco di dettagli, aneddoti, curiosità per cultori del fumetto elegante.

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Gordiano Lupi e Riccardo Marchionni, "Amarcord Piombino"

7 Luglio 2022 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #gordiano lupi, #recensioni, #luoghi da conoscere, #fotografia

 

 

 

 

Amarcord Piombino

Gordiano Lupi e Riccardo Marchionni

Edizioni Il Foglio, 2022

pp 238

15,00

 

 

Non dovrei trovare così attraente un libro che parla di una città non mia, che racconta dettagli poco importanti di una provincia lontana nel tempo. Ma se a scrivere di Piombino è il suo bardo, Gordiano Lupi, mi lascio di nuovo catturare. Chi è nato e vissuto per sempre nella stessa città conosce – come la conosce la sottoscritta – la sensazione che ogni angolo, ogni via, ogni fondaco, ogni panchina conservino memoria di fatti accaduti, di gente amata che ci ha lasciato, di prospettive che non si sono avverate, di ambizioni frustrate.

La Piombino di cui parla Lupi c’era e non c’è più, si è trasformata in qualcosa che, comunque, si fa voler bene lo stesso, che diventerà ricordo dolceamaro per le generazioni future. Una città di spiagge e acciaio, di tamerici salmastre e fuliggine, di gabbiani e archeologia industriale. Una città amata con nostalgia e strazio, con la potenza magica del tempo che tutto trasforma, che è selettivo, che rinnovella e ricrea, che contempla il bello e il brutto, il cielo pulito e la spazzatura sotto il marciapiede, le ideologie vissute solo come patetico ricordo. Se a trovare un tappo di bottiglia è un bambino che ci giocherà e che porterà quei momenti incisi nel cuore, persino la fugace visione di tale modesto oggetto crea un continuo, inafferrabile anelito insoddisfatto.

Vivere sarà soltanto questo desiderio inappagato di ritorno verso quel che non può tornare.” (pag 213)

Sono le eterne, ricorrenti tematiche di Lupi – che qui vengono supportate anche dalle tangibili, seppur evanescenti, fotografie di Riccardo Marchionni. Da Alla ricerca della Piombino perduta, attraverso Calcio e Acciaio, fino a questo Amarcord Piombino, è tutto un susseguirsi sempre più straziato e disilluso di velleitaria, sfinita e un po’ blasé nostalgia. Da un libro all’altro c’è come un arrendersi, un cedere il passo estenuati al nuovo che avanza, un capire che, se le cose stanno come stanno, in fondo è perché noi lo abbiamo voluto.

Conosco bene la mancanza d’un irraggiungibile romantico ideale, la bellezza trascendente di ciò che non sarà mai più, forse perché, in fondo, non è nemmeno stato davvero. Conosco il trasformare qualsiasi momento in gemma struggente purché lontano nel tempo. Cosa rimane a noi sessantenni se non ripercorrere il passato, sentire l’affievolirsi delle pulsioni, il venir meno del talento e dell’elan vital? Possiamo solo vivere ogni angolo delle nostre città, dei nostri mari, delle nostre periferie industriali accarezzandole con lo sguardo, ritrovandoci ciò che è stato e creando allo stesso tempo nuove future rappresentazioni per il tempo che sarà, se mai ci sarà concesso.

Struggente poesia, come sempre nei testi di Lupi, che ti trascina privo di meta da una pagina all’altra, affatato e dilaniato da una malinconia senza confini, una malinconia da bestia stanca che ormai si lecca le ferite.   

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Aldo Dalla Vecchia, "La consapevolezza di te"

3 Luglio 2022 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #eros

 

 

 

 

La consapevolezza di te

Aldo Dalla Vecchia

Isenzatregua Edizioni, 2020

pp 140

12,00

 

Aldo Dalla Vecchia è sempre Aldo Dalla Vecchia anche quando, con un libro come La consapevolezza di te, spalanca un mondo che la sottoscritta non conosceva. È sempre lui anche quando usa parole oscene e riporta incontri – veri o presunti – scaturiti da chat a scopo sessuale.

A frequentare queste chat erotiche che si concludono a letto sono, ci spiega, non soltanto omosessuali ma molti cosiddetti etero, o meglio maschi sposati, con figli e una vita dall’apparenza banale. Forse è questa tediosa normalità che li spinge a fare sesso con altri maschi, oppure è – come sospetta l’autore – uno stratagemma per non indagare il proprio latente essere gay. Cosa che, invece, l’autore fa con spietatezza e compassione, con lotta e accettazione, con sofferenza ed epifania.

Una serie di quadretti corredati di illustrazione finale – soluzione non nuova all’autore – dove, invece del solito gustoso bozzetto di costume televisivo, c’è l’incontro con un esemplare umano di sesso maschile. Dalla Vecchia colloca ognuno di questi personaggi sotto una lente d’ingrandimento, lo seziona e analizza. In questo procedimento, nonostante l’eccitazione, l’eros, la libido, l’autore rimane distaccato. Così, oltre ai partner erotici, l’autore viviseziona anche se stesso, le proprie reazioni, i propri gusti, accettandosi senza forse piacersi del tutto. Quel narrare in seconda persona è sintomo di un voluto allontanamento, del mancato coraggio di dire “io” e del coinvolgimento di ciascuno di noi, tutti potenziali attori di insospettate trasgressioni porno ma non solo.

Con questo libro Aldo Dalla Vecchia​ torna indietro di anni, come se sentisse il bisogno di svincolarsi da tutte le sovrastrutture accumulate nel tempo, che pure fanno parte di lui - la cultura, la professionalità, le relazioni affettive e amicali - per mostrarsi nudo nel vero senso della parola, per riscoprire il nocciolo più autentico di se stesso donandogli in questo modo una nuova purezza. Capiamo che, dopo la lunga guerra interiore, egli finisce per recuperare tutte le parti di sé, per voler bene a quel ragazzo timido il quale ha cercato con tutte le sperimentazioni possibili la propria unicità.

Il grande assente di questa narrazione, vuoi per pudore, vuoi perché non è l’oggetto dell’indagine, è l’amore, se non accennato come ricordo infantile. Ciò connota di tristezza un contenuto che sarebbe solo squallido e arido se non fosse, appunto, esposto con freddezza da entomologo, con la solita lucida – e al tempo stesso innocente – ironia di Dalla Vecchia, quel suo rimanere elegantemente perbene anche quando tratta una materia scabra con termini crudi e brutali.    

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Enrica Ceccarini, "Cinovagabondi"

25 Maggio 2022 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #animali

 

 

 

 

Cinovagabondi

Enrica Ceccarini

2021

 

 

Ci serve un mondo in cui io sono il mormorio delle acque che si svegliano da sonni ghiacciati e tu le radici delle piccole piante, tenere ossa del bosco.” (pag 140)

 

Di solito i libri dei contatti Facebook mi arrivano su richiesta dell’autore, che desidera una recensione, o della casa editrice, o dell’ufficio stampa. Quelli che compro di mia iniziativa sono classici o best seller internazionali in lingua inglese. Per Cinovagabondi ho fatto un’eccezione. Ho conosciuto su Facebook l’autrice, Enrica Ceccarini, e non ho potuto fare a meno di seguire le sue riflessioni. Perché Enrica Ceccarini parla di cani in quanto educatrice cinofila di grande esperienza, e io ho un cane. E perché Enrica Ceccarini scrive da Dio, è una delle migliori scrittrici viventi e non sto dicendo una panzana, né facendo una marchetta a una amica. In realtà, non ci conosciamo se non di nome, né ci scambiamo mai messaggi o informazioni private. Per capire se dico la verità o no, leggetela e seguite la sua pagina.

Enrica dice di sé di essere Asperger e io, da ansiosa sociale, capisco alcune, se non tutte, delle sue difficoltà di relazione. Ma non mi interessa la sua competenza relazionale, bensì la sua inarrivabile bravura come scrittrice, sia in questo libro che nei post che pubblica su Facebook. Qui mi verrebbe da aprire una parentesi. Scrittore è chi ha una copia del proprio romanzo al Salone del libro o chi, con la parola scritta, tocca il cuore delle persone? Ammiro Enrica con molta bonaria invidia. Per quanto mi possa sforzare di essere coinvolgente nei miei romanzi, di essere intensa, non lo sarò mai nemmeno un briciolo di come lo è lei. Ogni volta che leggo un suo pezzo mi si attorcigliano le budella e mi si annoda la gola dal pianto. Nessuno come lei sa emozionare, no, di più, sa dilaniare l’anima. Leggete il capitolo “In memoria del grande Big Jack” e poi ditemi se non è vero.

Ma veniamo all’argomento del libro, che, per inciso, ha una copertina finto invecchiato e un interno patinato, quasi a mettere in evidenza la doppia anima dell’autrice, colta ed istintiva allo stesso tempo. L’argomento sono, ovviamente, i cani. Il nuovo modo di intendere i cani.

Nell’arco degli ultimi 15/20 anni tutti i vecchi concetti di cinofilia – la dominanza, il capobranco, ma anche il gentilismo a suon di würstel e bocconcini – si sono ribaltati, sebbene in molti casi siano ancora duri a morire. La figura del vecchio addestratore, dell’”uomo di cani”, è stata sostituita da una moltitudine di giovani educatori laureati in neuroscienze e indirizzati verso un approccio cognitivo, basato sul concetto che il cane è un essere senziente, intelligente e pensante, dotato di memoria, ragionamento ed emozioni.

In questo suo testo Enrica ci accompagna verso l’ascolto del cane, al fine di costruire un rapporto basato sulla reciprocità, sul rispetto, sulla comprensione, sulla fiducia. E mentre aiutiamo il cane nel suo percorso cognitivo ed emozionale, possiamo curare – prendendone coscienza – anche molte delle nostre ferite interiori.

Fin da quando ho mosso i primi passi nella relazione con il mio cane, ho sentito il bisogno e la mancanza di autenticità di ciò che mi veniva imposto dalla cinofilia vecchio stampo. Era una sensazione più che un ragionamento. Non poteva, mi dicevo, basarsi tutto sulla prevaricazione dell’uomo sul cane, sulla leadership, sul controllo delle iniziative, sulla centripetazione. Me lo confermavano gli occhi smarriti della mia Abra quando cercavo d’impormi su di lei con la prepotenza scambiandola per autorevolezza, me lo ribadivano la sua ansia, i suoi blocchi, i suoi rifiuti.

Poi, grazie a educatori preparati e consapevoli, ho scoperto che quello che sentivo era giusto, che è tutto più semplice di come ce lo spiegano, che il cane non diventa un mostro se lo abitui a pensare con la propria testa, se ti fidi di lui, se gli permetti di scegliere cosa è meglio, se smetti di punire quello che non può controllare, cioè le sue emozioni. Insomma, se gli lasci fare il cane.

Che l’amore di un cane sia incondizionato è una storia che ci piace raccontarci, spiega Enrica, il cane ama chi è capace di rivelarlo a se stesso, chi non lo vuole diverso da ciò che è, con le sue specificità filogenetiche, di vissuto e di razza. Enrica e gli educatori come lei non trasformano il cane su richiesta del proprietario, semmai mediano fra le esigenze del cane e quelle del proprietario e dell’ambiente.  

 

Davvero all’alba di questa vertiginosa, dilagante nuova consapevolezza vogliamo continuare a raccontarci che un pezzetto di würstel possa appagare i cani più del sentirsi liberi di vivere la propria vita e fare le proprie scelte?” (pag 116)  

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