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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

niccolo mencucci

RECENSIONE/LETTERA APERTA PER MURO DI CASSE DI VANNI SANTONI

16 Maggio 2018 , Scritto da Niccolò Mencucci Con tag #niccolò mencucci, #recensioni

 

 

 

 

 

Muro di Casse

Vanni Santoni

Laterza 2015

 

Signor Santoni, mi devo ricredere.

Lei già mi affascinò con Personaggi precari, un libro davvero notevole, con quella ricostruzione di humanitas - un mondo che non ha molto da dire di sé, non essendo in se stesso più di quanto non lo sia con gli oggetti/emozioni in relazione – tra la poesia frammentista e il narrato da prosa. Posso dirlo con molta franchezza: beccarlo alla Citè di Firenze, fu, per un me medesimo di quasi un lustro fa, non la fortuna del secolo, ma di certo una bella sorpresa.

Purtroppo mi pareva solo per i Personaggi quella sensazione. Da lì il convincimento s’è un po' altalenato, tra confusione/disgusto/disprezzo/incomprensione/allontanamento: gli interessi in comune non mi tornavano (a metà mi dissi: la direzione, dov'è? E i personaggi parevano pure storti...).

Poi quella roba della narrativa collettiva, che l’ho rifiutata per principio personale (la mia ideologia è che l'opera sia del Solo, non di più teste pensanti; che siamo, Omero and Company?). E il fantasy, vabbé, altra questione personale. Non sono un lettore da romanzo fantasy, nah... per quanto ci sia un rinnovo del genere con richiami alla tradizione, per me è difficile credere ad un'altra realtà poco tangibile con la nostra realtà...

Ma insomma, lasciamo stare il passato. Signor Santoni, mi sono ricreduto. Lei è dannatamente bravo, per Dio!

E mi sono ricreduto con Muro di Casse (ed. Laterza Solaris, 2015, pag. 135)

… e dico Casse, perché tempo fa il cui presente sedicente Recensore l'ha trascritto Classe, semmai pensando ad un'opera sociologica, il che non è necessariamente sbagliato...

Ma orsù di che parla o codesta opera?

Già dire "Parla" non è corretto: preferisco dire "trascrive" (trascrive, mostra attraverso più voci, più mentalità...).

Trascrive il concetto di festa, o meglio di cos’era anni fa un tipo di intrattenimento, come i teknival o i freeparty o le gao o le psytrance, feste e non-feste, che nascevano in ogni città europea tra gli anni Novanta e Duemila, tra disprezzi mediatici e fulminanti e rocambolesche costruzioni in sordina, per poi concludersi dopo giorni di maratona divertissement da Generazione X. La rave culture è il cuore della storia, documentata e fatta vivere dai tre principali personaggi: il mancato romanziere Iacopo il Gori, quasi un giovane Peter Pan da educazione flaubertiana tra racconto e vita, se non proprio stomaco; Cleo, la mancata laureanda in quella che poi lei considera come una terrificante occasione sprecata di politicizzazione della sensazione psicotropa e della baldoria anarchica; Viridiana, la più picaresca e céliniana e drammaticissima dei tre personaggi, la più mancata per via della sua estrema vitalità e del suo amore per l’aspetto costruttivo delle droghe “mentali”.

È un tripudio generale, un caos davvero gustoso, tra droghe di ogni nazionalità (marocco, hashish, oppio, fumo, md francese, Viridiana ne elenca a bizzeffe…), tra evoluzioni di progettazioni e di localizzazioni tra viaggi e non viaggi alla Cerca… e questo solo per parlare delle "cose"! Nell'ambito dell'umanità abbiamo uomini della società negletta quasi miserabili; amanti ora disperse ora ritrovate per momenti di infantile ritorno al passato, veri nostalgici di tutto, specie dell'infanzia; e poi picari del ventunesimo secolo, eterni Peter Pan in attesa del Grande Ballo sotto quei muri di Casse sonore...

Tra i miei preferiti c’è il primo, in cui lo stesso Iacopo gioca all’inizio con la meta-narrazione: l'Io si alterna, ora Scrittore, ora Iacopo, monitora il romanzo che vuole far nascere, mischia ricordo e finzione e costruzione, nega le linee dialogiche. Si aggiunga l’uso del Tu per intendere l’Autore (ma il gioco dell'autofiction è abbastanza vecchio ormai).

Per certi versi torna, come una poetica, il topos di quei personaggi, inutile dirlo, precari. Ma precaria è anche l’Europa degli anni Novanta, tra fine del muro e nuove realtà politiche e sociali (tutto nasce e muore nello stesso paragrafo); solo i patimenti sempre resistenti: avanti nella storia, e vedendo tutti i personaggi, c'è da chiedersi se tutta questa corsa alla vita non odori di morte...

Certo, non mancano delle stonature; per lo più sono di natura estetica, ecco.

Per esempio, il tono più volte si attesta alla tristezza, alla polverosità, e quelle che spero non siano delle presunte cadute di stile (parlare di alba col termine "vomito" conferma la decadenza, così come alcune descrizioni un po' birichine, come le vecchie che "sbirciano").

Lei ha utilizzato uno stile tra il flusso di coscienza modernista e il parlato à la Beat, con un repertorio linguistico notevolmente più esteso e più analitico e un'eccellente capacità di espressività e di resa delle storie attorno (escursioni di poesie, tracciati di Google Maps, note enciclopediche o giornalistiche).

Ma la linea del tono non si alterna più del dovuto, rimane troppo stabile. E qualche sbalzo ne avrebbe tratto giovamento, ecco…

In più c’è quella negazione iniziale della ricerca di purezza come potenziale obiettivo del romanzo che non mi torna. Sì, è stata smentita fin dalla prefazione, ma è come se, negando questa ricerca di purezza, non si rischi di discriminare ogni tentativo di dignità all’ambiente.

Una specie di rappresentatività un po’ troppo descrittiva, in cui il lasciar parlare le cose diventa un azzardo ad ogni tentativo di rivalutazione (mi duole ammetterlo, ma a volte questi personaggi mi fanno pensare a quelli infantili raccontati dallo scrittore D.F. Wallace nel racconto La ragazza dai capelli strani). Il movimento sta scomparendo; anzi, è già scomparso, come suppone Viridiana e anche Cleopatra. Lecitamente, seguendo la linea tabucchiana del racconto come testimonianza, l’Autore cerca di ricostruirla.

E sì la nostalgia, come dice la Raimo in Rolling Stone, è un’operazione che stanno compiendo in molti, anche subdolamente, ma che questo libro evita di fare. Il problema è se, in realtà, indulgendo troppo in questi dati, in queste scene e in questi personaggi, tutto questo non sia stato in effetti contaminato da quella nostalgia, la stessa che ha minato le vite di quei figli dei rave.

Ma ora diamoci una calmata. L'entusiasmo e la reattività a delle incongruenze è il modo migliore per far intendere quanto davvero un'opera si distanzia dalle altre presenti nella contemporaneità. Una recensione è sia felicitazioni/maledizioni del recensore, sia, soprattutto, approccio critico. O almeno tentare di essere critici e non lusinghieri pseudo ruffiani.

Certo, questa recensione non è nata per stroncare un'opera che in primis funziona per bene, in secundis è profonda e ricca e potente, in terzis unisce racconto a ricerca (e chi lo fa oggi?). No, assolutamente, l'esposizione di critiche salate è solo la riprova che quest'opera chiama l'occhio affamato, e che fa reazione per bene. Poi oh, il cui presente recensore sa essere spregevole anche con i bravi ragazzi come lei.

 

Niccolò Mencucci

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Laboratorio di narrativa: Niccolò Mencucci

8 Maggio 2018 , Scritto da Niccolò Mencucci Con tag #niccolò mencucci, #poli patrizia, #racconto, #Laboratorio di Narrativa

 

 

 Terapia sperimentale psicoculturale

 

Questo brano, estrapolato da un romanzo ancora in divenire di Niccolò Mencucci, tratta l’annoso e pervasivo problema di una presenza materna troppo ingombrante. Per quanti sforzi faccia l’uomo - anche adulto, anche anziano - non riuscirà mai a tagliare quel cordone ombelicale che per alcuni è particolarmente spesso e pesante, diventa una sorta di cappio al collo capace di inficiare presente e futuro.

Abbiamo un bel dire che il passato va messo da parte. Tentiamo tutti di farlo, di prendere in mano la nostra vita, di pensare che, appunto, essa è solo nostra, e ripartire da  dove ci siamo interrotti, (anzi, no, da dove non ci siamo mai mossi) ma il passato è sempre là, a schiacciarci, a paralizzarci, a farci da comodo alibi per non crescere e non maturare mai. E in questa trascrizione di seduta psicanalista vien fuori che persino Dante, se ha scritto la Commedia, forse lo deve a sua madre.

Il testo è corretto, lo stile piano e pulito, anche se ci sono imprecisioni (le turpi)e delle incongruenze, come il fatto che i due continuino ad alternare il tu con il lei. 

Bisognerà vedere, trattandosi di brano di romanzo e non di racconto a se stante, come si armonizzerà col resto e quanto reggerà la struttura dell’intera opera.

(Patrizia Poli)

 

 

PROVENIENZA: dal “romanzo” Bartolomeo Mettimal.

 

Terapia sperimentale psicoculturale (ex COCOM) – 17 aprile 2017

Parziale trascrizione di seduta, studio della dottoressa Alberta Cosini, partecipante: Dr.ssa Alberta Cosini e Signor Bartolomeo Mettimal, anni 21, fascicolo cifrato

 

ALBERTA: “Che ne pensa degli ultimi eventi che le sono capitati, Signor Bartolomeo?”

BARTOLOMEO: “Perché si ostina a chiamarmi con Signor? Mi chiami Bartolomeo... manco avessi trent'anni...”

A: “È lei che vuole condurre questo dialogo dandomi del lei! Fin dall'inizio gliel'ho sempre detto: dammi del tu! Dammi del tu! Sennò non potremmo mai avere una buona relazione tra terapeuta e paziente. E difficilmente tra amici.”

B: “Ok, Alberta, ti darò del tu, anche perché sono stanco di essere così formale, dopo tutte queste sedute. Comunque, degli ultimi eventi capitati non mi sembra di averci fatto caso, sinceramente. Anzi, non m'avrebbero fatto la minima differenza se non fossero mai accaduti.

A: “Quindi il fatto che tu abbia litigato pesantemente con tua madre qualche giorno fa, riattaccandole il telefono in faccia, e che tu abbia cominciato a cercare una maggiore indipendenza dalla tua famiglia la trovi una cosa così poco importante?”

B: “Appunto, sì. Di solito situazioni del genere mi mettono l'angoscia, e comincio ad avere il fiato corto, il petto stretto, e infine la mente, bloccata nell'ossessione del caos che ho combinato. Ma stavolta... davvero... niente, una pace, come fuori dalla finestra della mia camera da letto, che c'era uno stormo di piccioni che continuavano a tubare sul giardino, all'ombra del cipresso. Dopo aver riattaccato il telefono per dieci minuti non ho fatto altro che ascoltare quel loro tubare incessante al cielo, senza mai distogliere l'ascolto. A momenti non sentivo il mio respiro da quanto mi ero immerso in quel rumore silenzioso.”

A: “E successivamente ha avuto modo di ripensarci, oppure di farsi prendere da quel dolore?”

B: “No. Perché dovrei? Per soffrire? E di cosa? Di mia madre, che non capisce il casino in cui mi trovo alla mia età e di tutti i drammi e le turpi che dovrò affrontare in futuro, e che con ostinazione cerca in tutti i modi di mettere parola e di indirizzarmi verso una linea di pensiero, un modello da seguire. Di sicuro vuole plasmarmi come lei vuole, e, ogni volta che cerco di farle capire che non potrà funzionare, lei immediatamente si impone, quasi con fare dittatoriale. Stavolta però mi sono ribellato, e l'ho mandata a quel paese, e con lei tutto il suo voler trasformarmi in qualcosa che non sono e non voglio essere. Forse è per questo che non me la sento di soffrire per lei, nonostante verso la fine della chiamata ha cominciato ad abbassare il tono della voce. Tanto, a me non m'interessa...”

A: “Aspetta. Tu hai detto prima “abbassare il tono della voce”. In che senso “abbassare”?”

B: “Nel senso che la sua voce, dopo che io l'avevo mandata a quel paese, aveva iniziato a tendere verso un timbro più spento, quasi pietoso, come di supplica, di preghiera. Io pensavo volesse giocare sporco, e di adottare la tecnica della pietà, del senso di colpa indotto: io l'accusavo, giustamente, di starmi plagiando; lei negava e riaffermava la sua linea di pensiero, composta da idee quali l'imposizione di smettere di pensare al passato, di non soffrirci e di comportarsi come una persona normale; io allora le ribadivo le sue idee, per me assurde...”

A: “Perché “assurde”? Non ti vanno a genio?”

B: “Smettere di pensare al passato? L'uomo è fatto di passato, l'uomo è tale perché è il suo passato: come fa a rinnegarlo? Con che coraggio puoi negare a te stesso ciò che sei stato, ciò che hai fatto e ciò che hai avuto? E come fai a non soffrire per i fallimenti che hai compiuto nel tuo passato? E come fai, davanti a questi, a rimanere una persona normale? Buon Dio, c'è gente che impazzisce per certi traumi che gli accadono che alla fine non sa più se sia ancora un umano o si sia trasformato in una bestia infame e terribile.”

A: “Non è che esageri? È una lettura infernale quella dell'uomo e della bestia. E forse lei non intendeva questo. Tutt'altro!”

B: “Tutt'altro?”

A: “Non pensare al passato significa che il passato è tale perché non è più presente, ma appunto passato, e quindi non vivente in maniera esplicita. Certi diavoli del passato alla fine si possono dominare. Messi nelle condizioni di non poter più nuocere, contribuiscono al raggiungimento di un'armonia soddisfacente col proprio passato.

B: “Certo. Però per iniziare a dominarli bisogna impedir loro di far soffrire, di indurre al dolore… eh… mica è facile…”

A: “Quello ti rende poi pazzo: il dolore. La normalità scatta quando non si è più vinti da quel dolore. Quella è l'armonia. E dubito fortemente che una persona possa diventare una bestia se soffre: la sofferenza è uno dei sentimenti più umani che esistano in natura, forse al pari dell'amore e del coraggio. La pazzia è quando non esiste più l'umano. Nulla.”

B: “E infatti parlavo di questo. Della figura dell'uomo e della bestia. Sa, di recente sono stato in un piccolo paesino, Montegemoli, da solo, andando col bus una mattina, quando il tempo me l'ha permesso. Molto carino, davvero.”

A: “E' il paese della madre di Dante, giusto? Dove è nata lei, se non sbaglio.

B: “Sì. E' un piccolo paese in collina, perfettamente mantenuto nella sua forma medievale, in mezzo alla pianura pisana, ai suoi boschi, alle sue foreste. Ero partito di prima mattina, del tutto svogliato e anche un po' apatico: non c'era nulla da fare e nulla da scrivere, e allora me ne andai in biblioteca a leggere qualcosa; lì incontrai alcuni miei amici, e uno di loro stava leggendo un libro riguardante la storia di un paese, Montegemoli. Stava facendo una ricerca storica su quel paese, e allora si era dato da fare per trovare tutti i libri che ne parlassero: aveva trovato solo quello. Era affascinato da quella cittadella arroccata, solitaria e silenziosa, tanto che mi consigliò di farvici una girata. E così feci: presi il primo autobus; stetti due ore sul bus, ci rimasi un'altra mezz'ora in più per colpa del traffico sull'autostrada, e poi mi trovai alle porte del paese. Temevo di annoiarmi in un paese così antico e quasi del tutto privo di attività e di locali moderni, e invece non mi fermai un attimo a visitarlo. Vi passeggiai per tutta la giornata, fermandomi per qualche tempo in un bar, che aveva la terrazza su quel meraviglioso panorama verde. Fin qui sarebbe una gita normale, però, vicino ad una casa, ebbi qualcosa. Mi ero un attimo fermato sulla porta, ormai colpito dalla stanchezza per la continua camminata, e in quell'istante mi colpì alla lingua uno strano sapore, come di amaro, che lentamente scendeva fino all'estremo della lingua, fino in basso, nella gola, e poi dalla gola nel petto, nel cuore. Respirai male, annaspai per qualche secondo, e cominciai a lacrimare. Quasi non me ne ero accorto se non dalle piccole gocce che apparivano ai miei piedi, vicino ai gradini della casa. Una strana malinconia mi prese, e se ne andò solo andandomene da quel luogo.”

A: “Non sai che casa era quella?”

B: “No. Sapevo che quello era il paese della madre di Dante, ma non sapevo in quale casa lei aveva dimorato. Non c'era nemmeno una targa commemorativa che me lo potesse indicare. Poi, questa voce è più una leggenda che un effettivo dato storico. Ma perché me lo chiede?”

A: “Sai, Dante era un personaggio particolare."

B: “Che bella novità…”

A: “Aspetta… rampollo di una famiglia aristocratica: aveva una grande conoscenza del suo tempo, delle arti contemporanee, ma in particolare lui era fissato con il sapere degli avi, con la cultura del passato, che nella Divina seppe ridar vita con grande maestria. Però questo suo passato lo viveva, tanto da costringerlo ad una visione del mondo non conciliante con i suoi conterranei: lui era un Guelfo nero, credeva nel papa fino ad un certo punto, e gli altri volevano spingerlo alla totale sudditanza. Lui si rifiutò: il papa e altri suoi sostenitori allora gli tesero la trappola. Una volta sconfitti tutti i Guelfi a Firenze, lui venne processato in contumacia, per baratteria, un crimine oggi paragonabile al peculato, all'abuso d'ufficio.

B: “Sì, sì, Era a Roma quando lo condannarono, perché il papa voleva fargli credere di voler negoziare con lui.”

A: “Ora, un crimine come la baratteria era comune nella politica fiorentina: Dante nella Commedia continua a professare la sua innocenza, ma molto probabilmente era effettivamente colpevole...”

B: “Dove vuoi arrivare, Alberta? Perché stai facendo questa divagazione su Dante?”

A: “Perché è analoga alla tua situazione, per certi versi. E tornando alla sua condanna, per concludere la parentesi, questa non sminuisce la sua fama di poeta e di grande autore, né di uomo, nonostante l'adulterio e l'abbandono della famiglia, perché un crimine del genere veniva commesso all'epoca per favoreggiare alcune politiche fondamentali per il benessere della Comune, e dei suoi cittadini. E Dante credeva in questo, nelle persone. E in parte continuò a crederci, nei fiorentini, anche dopo che venne esiliato a vita. Andò in tutte le città che fossero vicine alla sua Firenze, alla sua terra madre: mai l'abbandonò.”

B: “Oh, Cristo…”

A: “Alcuni storici credono che lui fosse giunto perfino a Montegemoli, nella casa di sua madre. Dove con molta probabilità anni prima nacque, e, dopo, nel suo esilio, vi iniziò a comporre la Commedia. Eh, sì, lì nacque probabilmente sia l'uomo, sia il poeta. E forse anche il figlio. Per quanto si allontanò dalla madre, terra o città che fosse, lui non se la dimenticò.”

B: “Credo che dovrò chiederle scusa.”

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Il coltello all'inverso e l’uso dell’analitica

26 Aprile 2018 , Scritto da Niccolò Mencucci Con tag #niccolò mencucci, #racconto

 

 

 

 

Quando uno comincia a soffrire di una noia composita e avvolgente, il solo porre lo sguardo sul primo dettaglio possibile porterà a scoprire difetti non prevedibili e abbastanza inusuali.

Tipo tenere nella propria mano sinistra il coltello colla lama in direzione opposta a quella tipica.

Il soggetto in questione (l'autore dell'articolo non è tenuto a rilevarne l’identità) mantiene per tutta la cena questa andatura digitale, tagliuzzando geometricamente i filetti di carne sull’anonimo piatto plastificato, con velocità e forza quasi ipertrofica.

Nel Galateo l’imposizione del coltello dovrebbe essere “a destra del piatto, […] e che la lama va posta verso l’interno e non verso l’esterno” (Accademia Italiana del Galateo); oggi c’è molta confusione riguardante il suo uso: “alcuni pensano che debba essere tenuta come una penna stilografica […] altri pensano che si debba tenere con tutta la mano come un pugnale”.

Si potrebbe supporre che la persona tenga tale postura perché incolta di galateo o sofferente di difficoltà manuali. Questa credenza generica, ingenua e popolaresca, fortunatamente non ha nulla a che vedere con questi.

Nel caso del soggetto in questione è altamente probabile che la scelta sia relativa ad una personale frettolosità, davanti al rischio di incorrere in una qualche forma di asimmetria temporale, avendo davanti un gruppo di commensali coi piatti vuoti e interessati alla chiacchiera serale.

Oltre a questa ipotesi si può avvalorare l’idea che:

-              questi nutra un certo gusto totalmente individuale nel taglio atipico delle carni, forse nell’interesse di seguire una composizione geometrica, un suo frutto mentale;

-              questi si sia concentrato nella stessa attività motoria, intesa in senso quanti-tativo (direzionalità, spinta vettoriale, profondità…);

-              questi prediliga il conseguimento di un personalissimo galateo per comodità e sostegno psicologico atto alla distensione nervosa dopolavoro.

-              questi voglia impressionare visivamente con tale performance il pubblico attorno, forse per saziare una normalissima piega narcisistica e protagonistica.

Da un punto di vista interpretativo le possibilità analitiche possono spingersi in più direzioni, e navigare anche su più fronti. Tuttavia, come ogni ricerca che si rispetti, l’interpretazione prevede un obiettivo funzionale, cioè il perché di una simile analisi, grottescamente profonda e interessata.

A essere sinceri oltre alla noia citata a inizio testo il movente di ricerca è facilmente individuabile nella semplice congettura che generalmente, pur di risollevarsi l’umore, ci si fa tranquillamente i cazzi degli altri.

E questi cazzi degli altri non hanno uno scopo risolutivo o conoscitivo, o costruttivo o esemplificativo. Tutt’altro, essi vertono nel voler far volar via tale noia da se stessi, utilizzando la sempre ambigua e aleatoria arte della comica: se il riso, come sostiene Bergson ne “Il riso”, ha la capacità di rimettere a posto le pieghe dei costumi sociali, è altresì vero che può diventare arma per criticare distruttivamente la persona altrui, negando altre forme di identità se non quella prefigurata dal comico-buffone di turno.

Perché spingersi a descrivere minuziosamente la innocua e tranquilla maniera di un soggetto a caso, se è ovvia la rotta sciocca e pressapochista di un simile studio.

È perciò lampante come un discorso del genere sia del tutto inutile, nonché patetico, e come l’autore in questione ancora non capisca perché si sia sbattuto per una stronzata del genere.

 

 

Niccolò Mencucci

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