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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

margareta nemo

Roberta Pilar Jarussi, “Il cuore in disparte”

25 Aprile 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #recensioni

Roberta Pilar Jarussi, “Il cuore in disparte”

Il cuore in disparte

Roberta Pilar Jarussi

Musicaos, 2013

pp 50

1,99 €

"Il cuore in disparte" di Roberta Pilar Jarussi è una lettura rapida e incisiva, che racconta l'incontro, o forse il mancato incontro, di due personalità affini. L'autrice descrive in maniera impietosa e graffiante i personaggi e gli ambienti che fanno da cornice alla vicenda e ne rivela con pochi tratti lo squallore e l'umanità, tracciando un racconto dal ritmo incalzante, che si sviluppa in un’alternanza ossessiva fra passato e presente.

Ossessivi, nel senso tecnico del termine, sono anche i due protagonisti, entrambi scrittori di nicchia ed entrambi legati a manie, abitudini e rituali quotidiani, descritti minuziosamente e con ironia dall'autrice. Anna e Filippo sembrano appartenere a una realtà altra, asettica e metodica, di chi vorrebbe “rassettare la città, innaffiare le aiuole spaccate, togliere la polvere dalle macchine, i vetri dai giardini e i cessi rotti dai cassonetti”. Si conoscono a un festival letterario in una sperduta località meridionale e danno vita a un fitto scambio di mail, che li terrà per anni in un rapporto intenso e indefinito. Le loro comunicazioni si limitano a scambi di manoscritti e conversazioni intime ma impersonali, in cui non trovano spazio né la vita privata, né i sentimenti dei protagonisti. Si tratta di una non-storia che è destinata a rimanere in sospeso, fatta di frasi aperte e lettere senza incipit e senza saluti. Allo stesso modo rimane sospesa e non trova espressione la tensione erotica che nasce fra i due durante il loro secondo incontro. “Certe relazioni durano in eterno se tieni le mani a posto” scrive l'autrice.

Il racconto di questa serata incompleta ritorna costantemente, alternandosi a quello del presente dei personaggi e gettando la sua ombra sul loro terzo, e si presume ultimo, incontro. Dopo nove anni di scambi di mail Anna e Filippo si concedono diciannove ore da passare insieme in una stanza d'albergo. A questo punto il ritmo ciclico delle descrizioni si interrompe bruscamente, lasciando il posto un incontro di corpi intenso e risolutivo. Ma come dice il titolo, il cuore rimane in disparte, e il lettore intuisce che ciò a cui sta assistendo non è l'evoluzione di una storia ma la sua fine.

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Imbarazzo a caso

23 Aprile 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #vignette e illustrazioni

Imbarazzo a caso

una piccola iniezione di gioia di vivere...

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See you next winter

19 Marzo 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #vignette e illustrazioni

See you next winter

Quando non riesco a scrivere disegno...

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Compromessi

13 Marzo 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #vignette e illustrazioni

Compromessi

compromessi

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Amori

11 Marzo 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #vignette e illustrazioni

Amori

Amori affidabili

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Cuscini

3 Marzo 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #racconto

- Ma dov'è l'altro libro? Quello con il soldato?

Nessuna risposta.

- Ehi, Mamma! Dov'è l'altro libro?

Silenzio.

La figlia chiude gli occhi, si tira indietro fino a sprofondare nel divano, e infila la testa fra i due grossi, gonfi cuscini. Sempre più giù, sempre più giù, fino a diventare invisibile, fino a non vedere più nulla. Se rimango così abbastanza a lungo, pensa, forse prima o poi sparirò. Devo solo rimanere immobile, finché non succede.

Ma questo lo pensa da quando aveva cinque anni e non ha mai funzionato. E sua madre sicuramente è ancora seduta là, con lo sguardo assorto.

Risponde solo:

- Tanto non lo leggi, non ci sono le figure in quello.

Poi:

- Ci sposiamo, io e Paolo. Domani ti porto da papà e rimani con lui.

Non guardarmi in quel modo, non puoi stare con noi. Papà si porta una ragazza ogni tanto, non gli dai nessun fastidio, e di certo non se le sposa. Puoi portarti dietro le tue cose. E di tanto in tanto verrà una donna per occuparsi di te.

- Se non mi avessi sempre trattata come un'idiota adesso non sarei così deficiente. - Dice la figlia fra i cuscini.

L'ha detto sua sorella una volta, mentre litigava con la madre: "Se non l'avessi sempre trattata come un'idiota adesso non sarebbe così deficiente". Non l'ha affatto capita, quella frase, ma le è piaciuta. Allora ha cominciato a ripeterla "Se non mi avessi sempre trattata come un'idiota adesso non sarei così deficiente". Ogni volta che c'è un litigio, o che sua madre ce l'ha con lei, ripete la frase.

- Se non mi avessi sempre trattata come un'idiota adesso non sarei così deficiente. - Ripete per un'ultima volta.

- Mi sono occupata di te per trent'anni - dice la madre - Ora semplicemente non ce la faccio più.

- Mi dispiace - Aggiunge, si alza ed esce dalla stanza.

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il MIO vuoto

23 Febbraio 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #poesia

mi mancherai per sempre

vorrei scrivere frasi che abbiano un senso e uno spessore
ma la sofferenza che ti ho inflitto non ne ha

questa non è una poesia
e io non conosco amore

ma se potessi uccidermi
per renderti la vita
le speranze
i sogni

per non essere mai stata
il tuo boia

NON
lo farei

ma il tuo vuoto
che non ho saputo riempire

mi mancherà per sempre

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non ho bisogno di amici

23 Febbraio 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #poesia

 

i miei amici camminano

rasentando il muro

a occhi bassi

 

non chiedono scusa

non dicono grazie

non lasciano tracce

 

nella mia vita

né io nella loro

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La finestra rossa

29 Gennaio 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #racconto

La prima cosa che ricordo è una finestra rossa nella notte. E di essermi stupita che in un casolare così grande, perso in mezzo ai campi, ci fosse un'unica finestra illuminata, per di più di una luce calda e intensa, di quelle che provengono da un camino o delle candele, ma più luminosa. Mi sono incamminata in quella direzione.

Non ricordo come sono entrata nel giardino davanti alla casa, né come sono arrivata ad avere la testa appoggiata al portone e lo sguardo fisso sul legno e su un liquido scuro e vischioso che si apriva lentamente una via tortuosa verso il basso. Da lì i miei occhi devono essersi spostati sul gatto. Un persiano dal pelo morbido e gli occhi scintillanti che si strusciava sulle mie gambe.

Tutta la frazione di tempo dal momento in cui ho visto il gatto al mio prossimo ricordo è stata inghiottita da un vuoto oscuro. L'immagine successiva è una stanza sprofondata in una luce intensa, proveniente da tante piccole lampade coi parlaumi di stoffa, sparse in tutti gli angoli e invasa da un odore di mobili vecchi e dalla presenza opprimente di pesanti tende di velluto rosso, ai lati della finestra che devo aver visto dai campi. Sono seduta, ho le braccia pesanti, incollate ai braccioli di una sedia a dondolo e le gambe che penzolano inermi sul pavimento, quasi estranee al mio corpo. Sulla poltrona di fronte a me è seduta una donna anziana, che accarezza la testa di un gatto addormetato sulle sue ginocchia. Non il persiano, che, mi accorgo, continua a girarmi attorno e fare le fusa. La donna sorride.

- Il tè ti ha fatto bene. - dice.

- Non so come sono arrivata. - rispondo, e mi tocco la testa, in un punto dove ho percepito un vago fastidio. Ritraggo la mano e vedo le mie dita macchiate di sangue. Passo il palmo sul viso e mi rendo conto che il sangue è dovunque, sulla mia faccia, sui miei vesiti, sui braccioli della poltrona. Il persiano miagola.

- Non importa. - Dice la donna - l'importante non è che tu sappia da dove vieni, ma dove sei.

Si alza, il gatto salta giù ed esce dalla stanza, lei viene verso di me. Cerco di decifrare la sua espressione, ma ho la vista confusa e noto appena la mano che si avvicina al mio viso. Scosta qualcosa, fra i miei capelli. Sposta una compressa, scioglie e riavvolge delle bende.

- Non è niente.- dice.

- Non so cos'è successo.

- Non importa cosa è successo. - Ha una voce pacata, profonda, che mi fa perdere il filo delle mie ansie.

Torna a sedersi e guardarmi.

- Io posso dirtelo, sai? Ma dovrai rinunciare a molte cose. -

Sposto lo sguardo sulle pareti. Ci sono dei paesaggi a olio stranamente familiari, che gli uni accanto agli altri per quanto insignificanti, sembrano ansiosi di raccontarmi una storia che conosco. I mobili sono tutti di legno massiccio e mostrano i segni di almeno un secolo di usura. Qua e la ci sono dei libri sparsi senza criterio e delle piante da vaso, seminascoste nel caos dell'arredamento. Sul tappeto la fantasia geometrica della lana è andata a confondersi con una distesa di macchie multiformi, alle quali si sono probabilmente aggiunte quelle del mio sangue. Vedo almeno altri tre o quattro gatti seduti e accucciati qua e la per la stanza. Vedo la tazza da cui devo aver bevuto il tè, di una porcellana spessa e una forma barocca che stona con tutte le altre cose attorno a me. La donna sorride. Ha denti e capelli bianchi e gli occhi grigi, circondati da una trama di rughe che scendono in un unico disegno dal viso al collo, fino a sparire in un vestito di stoffa pesante, con una fantasia vistosa di fiori rossi. Dico l'unica cosa che non sto pensando:

- Voglio andare via. -

Mi sono risvegliata nel letto dell'ospedale, accolta dalla luce fredda del neon e dall'odore pungente degli antisettici. Nessuno sa cosa sia successo. Non c'è stato nessun incidente quella sera e nessun evento particolare sul mio tragitto. L'autista non ricorda di avermi visto salire o scendere dall'autobus, ma devo averlo preso come al solito, o non sarei arrivata in campagna. Cosa mi abbia spinto a scendere a metà strada, quando come e perché mi sia procurata la ferita, non lo so. Ho rifiutato la visita dello psicologo.

Da quella sera il mondo è diventato insolitamente freddo e nitido. Le luci, i rumori, gli odori, sono tutti più intensi, definiti e pungenti, ma allo stesso tempo più distanti, come se una barriera invisibile mi separasse dalla realtà. Non importa come sono arrivata al casolare. Ogni giorno dai finestrini dell'autobus scruto il paesaggio alla sua ricerca o di un punto in cui potrebbe plausibilmente trovarsi, ma non trovo nulla. La sera al ritorno non c'è nessuna finestra illuminata di rosso. Mi sono presa le domeniche per cercare a piedi nella campagna. Sono scesa a ogni fermata e ho fatto chilometri e chilometri fra i campi, ma non sono riuscita a ritrovarlo.

Quando mi hanno trovata quella mattina non avevo nessuna medicazione sulla testa, ma l'emorragia si era fermata. Da giorni continuo a vedere l'apprensione negli sguardi dei miei familiari e cerco di sfuggirli. Sono preoccupati, ma non sanno, e non devono sapere, dei peli. I miei vestiti, quando li ho ritirati all'ospedale, erano pieni di peli di gatto, lunghi e grigi.

Non importa se il casolare e la sua proprietaria esistano o meno, sento che sono la chiave verso qualcos'altro e li ritroverò. Non mi importa sapere da dove vengo, ma ho bisogno di capire dove sono finita.

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Il Pianeta 11

23 Gennaio 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #racconto, #fantascienza

Si fermarono nel cuore della notte, in silenzio come avevano camminato, su un piccolo spiazzo aperto tra l’intrico della vegetazione. Usk e Deswo andarono a cercare della legna asciutta nella boscaglia per poter accendere il fuoco. Sapevano che gli altri non li avrebbero aiutati.

Resa non poteva. Ebbe appena la forza di lasciarsi cadere sul tappeto che Deswo aveva steso in terra e rimase lì ad aspettare raggomitolata per il freddo. Con un po’ di ritardo arrivarono Kizo e la sua amica Tari e si sedettero accanto a lei, già perfettamente ubriachi per quello che avevano bevuto durante il tragitto. Avevano trovato certe piante lungo la strada e Tari mescolandole con il dronk fermentato sapeva farne un intruglio disgustoso, che aveva un effetto molto simile a un forte alcolico o a una delle simpatiche droghe che si trovavano alla Stazione. Tirarono fuori la bottiglia e continuarono a bere, mentre si gridavano in faccia a vicenda, come fossero aneddoti, esperienze che avevano vissuto insieme pochi mesi prima. Tari di tanto in tanto prorompeva in una risata fragorosa, che rimbombava nelle orecchie di Resa come su un tamburo lacerato.

Ci stavano mettendo molto più del previsto per raggiungere la stazione d’imbarco. Fuori delle stazioni abitate l’aria sul pianeta 11 era pesante e torbida, per colpa di un specie di nebbia grigiastra e densa, che non si dissolveva mai del tutto e talvolta era così pesante da togliere il respiro. Anche la vegetazione bassa e intricata non rendeva più facile il viaggio, in alcuni tratti diventava talmente fitta che era impossibile andare oltre ed era perfino difficile trovare una strada per tornare indietro.

Poco distante dal loro provvisorio accampamento, Usk e Deswo sgusciavano tra i cespugli e raccoglievano legna. Quando si furono allontanati abbastanza Deswo si fermò a riposare.

- Non ce la faremo mai.

Usk non disse nulla.

- Finiremo come Liza. Lei voleva portarseli dietro a tutti i costi e poi ne ha pagato le conseguenze…

Come unica riposta Usk spezzò un ramo morto e lo lanciò all’amico, che portava in braccio la legna. Non gli piaceva parlare di Liza e non voleva perdersi in chiacchiere. Il loro ritardo si accumulava di giorno in giorno, il freddo, Tari e Kizo e la malattia di Resa lo irritavano già abbastanza.

Accesero un falò direttamente davanti agli altri tre, che sicuramente non si sarebbero rialzati per spostarsi altrove, e prepararono qualcosa da mangiare. Tari e Kizo continuavano a sghignazzare abbracciati, senza curarsi di nulla, e probabilmente non ricordavano perché erano partiti e quanto desideravano scappare da quel maledetto posto. Non sentivano neanche le scintille incandescenti che si alzavano a ondate dal fuoco e da cui gli altri cercavano di ripararsi il viso. Resa non riuscì a mangiare nulla. Se ne stava rannicchiata così vicino alle fiamme che il calore le scioglieva le ciglia, ma continuava a tremare per il freddo e la febbre. Le bruciavano gli occhi e l’odore del cibo le dava la nausea.

Dopo mangiato Usk e Deswo si alzarono per camminare un poco e sparirono quasi subito alla loro vista.

- Hai ragione. - disse Usk, rivolto all’oscurità tetra della vegetazione - Se non ci liberiamo di loro finirà male.

Deswo trasalì e rimase a fissarlo incredulo:

- Non possiamo abbandonarli, non sopravvivrebbero due giorni!

- Sei tu che quello che deve lasciare questo pianeta prima che ti trovino, no? - rispose Usk seccamente.

- Tu invece perché hai tanta fretta di andartene, d’improvviso?

Usk si voltò a guardarlo:

Quanta gente è partita dalla nostra stazione ultimamente? Due o trecento, vero? Ora se da tutte le stupide stazioni che hanno piantato su questo fottuto pianeta stanno partendo due o trecento persone, e se non sono tutti lenti come noi, all’imbarco cominceranno ad insospettirsi, senza contare che dovremo aspettare il nostro turno per giorni. E se non sbaglio sei tu quello che ha fretta di sparire…

- E che cosa vorresti farne di loro?

- Non l’ho deciso, ma dobbiamo liberarcene. Sei d’accordo, no?

Deswo si sedette in terra e nascose la faccia fra le mani. Scosse la testa.

- No.

Montarono la tenda senza scambiarsi una parola, evitando perfino di guardarsi. Di questo non si accorse nessuno degli altri, neanche Resa che era felice di potersi stendere a dormire, ma aveva i brividi al pensiero che avrebbero spento il fuoco.

Deswo non riuscì a prendere sonno per molto tempo. Sentiva gli altri respirare pesantemente fra le coperte e non poteva dimenticare quello che Usk gli aveva detto. Poi, lentamente, a forza di concentrarsi su tutti i rumori attorno, dal respiro dei suoi compagni alle raffiche di vento nella boscaglia, fino a farli confondere nella sua mente, si addormentò e fece un sogno ingarbugliato sulla sua fuga.

Usk aprì gli occhi. Deswo accanto a lui dormiva già profondamente. Si alzò e lo guardò per un istante, con un misto di rancore e rassegnazione, poi uscì furtivamente dalla tenda sgangherata e raccolse alcune delle sue cose. Lasciò tutte quelle che servivano per accendere il fuoco, le coperte e le provviste. “Fra due giorni sarò arrivato” pensò fra sé, poi rivolto all’ombra nera della tenda “mi dispiace gente”. Senza rimorsi prese con sé i pochi strumenti elettronici che avevano portato via dalla stazione e che solo lui sapeva utilizzare, e li infilò nel suo sacco. Gettò un ultimo sguardo all’accampamento e si incamminò da solo per la via più breve e accidentata.

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