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marcello de santis

Fred Buscaglione

15 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica

Fred Buscaglione

Quell'anno io avevo ventun'anni, li avrei compiuti appena un mese dopo. Erano gli anni belli della giovinezza, e, per qualcuno di noi, del primo amore. E pure dei primi esami all'università. Io avrei voluto iscrivermi alla facoltà di medicina, e oggi, sono sicuro, sarei stato un ottimo chirurgo, conoscendo la mia voglia di arrivare, che già da allora mi sentivo dentro. Ma a casa i soldi non bastavano mai, e mio padre, infermiere, ripiegò, proponendomi giurisprudenza (ci teneva ad avere un figlio laureato), facoltà che frequentai alla meglio, ma che non portai a termine; senza rimpianti, ché non la sentivo mia, anche se le nozioni di legge mi servirono nella vita per il mio lavoro; lo feci felice ugualmente, mio padre, diventai direttore e funzionario bancario di alto grado.

Era, quello, il 1960. Il giorno: 3 del mese di febbraio. Un cantante, che stava andando alla grande, Fred Buscaglione, uscendo dal suo lavoro di night club, ritornava a casa, con la sua Ford, una Thunderbird tanto appariscente nel suo colore rosa shocking, e si schiantò contro un muro percorrendo le vie di Roma. Fu soccorso da alcuni passanti e, con un autobus urbano della linea 90, fu portato al pronto soccorso dell'ospedale più vicino; ma non ci fu niente da fare.

Poi si venne a sapere che era diretto agli studi di Cinecittà per girare una pubblicità (era già famoso per altri spot nei quali aveva recitato), l'aspettavano le maestranze, regista, segretaria e sceneggiatori, e la più famosa maggiorata dell'epoca, quel mammifero modello 103, come l'avrebbe definita lui nella sua celebre canzone dal titolo Che bambola!, quell' Anita Ekberg che, per il suo fisico esplosivo, si meritò il nome di Anitona e che di lì a poco avrebbe raggiunto l'apice del successo con la dolce vita di Federico Fellini.

Finì così, amaramente, la breve vita - aveva appena 39 anni - di Ferdinando Buscaglione.

Di famiglia torinese, trapiantato nella capitale, dove presto aveva raggiunto il successo con le sue canzoni fuori della norma, nelle quali si parlava di bambole, di pistole, di pupe, di whisky facili, di gin. Con quella sua faccia pacioccona, resa dura (almeno così pensava lui per apparire tale, un duro, per l'appunto, nei racconti delle sue canzoni) da un paio di baffetti alla Clark Gable. Ma dentro il petto gli batteva un cuore di panna, dolce e delicato come il suo sorriso bambino, sorriso che aveva ammaliato tutti i suoi fans, ma soprattutto le sue fans, che si sentivano morire alla sua elettrizzante presenza. Bucava il teleschermo, il buon Fred; bucava lo schermo di quegli apparecchi televisivi, grossi scatoloni con il catodo posteriore ingombrante, e con le valvole antiche che oggi sono solo un lontano ricordo di una vita diversa.

Sono Fred, dal whisky facile... cantava ammiccando con gli occhi socchiusi e il volto atteggiato a gangster, che gli riusciva così bene, mentre il sax del suo complesso lo accompagnava con un sottofondo vellutato, come solo un artista sapeva fare. E chissà se quella notte non sia stato proprio un bicchiere di whisky o di gin, (che lui amava tanto), stavolta un bicchiere di troppo, a offuscargli i riflessi e a condurlo a morire al volante della sua spider rosa. Una macchina degna di un divo di Hollywood, che non passava davvero inosservata, specialmente nelle sue uscite notturne, che non gli sarebbe servita più.

Era figlio di un modesto operaio torinese, e, prima di affermarsi nel mondo della canzone e della tivu - di quella tivu in bianco e nero che stava muovendo i primi passi in un'italia che stentava a uscire dai danni di una guerra devastante - aveva fatto di tutto: mille mestieri, dal fattorino all'apprendista alle dipendenza di un dentista. Ma non era quello il suo mondo, non poteva esserlo. Con quella faccia un po' così, come avrebbero detto più tardi i cantautori genovesi, doveva essere qualcuno. E si disse che sì, lo sarebbe diventato.
Intanto, al conservatorio Giuseppe Verdi di Torino studia il contrabbasso con il maestro Gino Filippini, e, per pagarsi gli studi e per non pesare sulle spalle della famiglia, comincia a cantare e suonare canzoni jazz presso i night club. Conosce Leo Chiosso, anche lui piemontese (Fred ha appena 25 anni), che diventerà uno dei migliori parolieri della canzone italiana, anche lui appassionato di jazz . Pensate, con Chiosso, Buscaglione scriverà una cinquantina di canzoni, quelle canzoni che chiameranno criminal songs, scenette e raccontini in musica, sceneggiati e interpretati magistralmente con la sua voce roca e accattivante, sguardo da duro, sigaretta tra le dita, e un bicchiere di gin o di whisky in mano, che beve appoggiato al pianoforte, recitando il duro davanti alla telecamera.

C'è la guerra, e i due si perdono di vista. Chiosso parte con gli alpini e, catturato dai tedeschi, sarà deportato. Buscaglione lo crede morto, poi lo sente per caso alla radio, suona, infatti, con la band degli alleati all'emittente di stato di Cagliari, e spera di incontrarlo alla fine delle ostilità. E' ciò che avviene; si ritrovano a Torino alla fine della guerra e comincia il loro sodalizio, che darà alla musica italiana canzoni indimenticabili. Canzoni ispirate alle gang americane, alle donnine facili, alle vamp, alle pupe e ai gangster (tutt'e due, ma più Chiosso, erano amanti dei romanzi polizieschi d'oltre oceano).

Fu a questo punto che Buscaglione pensò bene di creare il suo personaggio, che lo avrebbe reso famoso per la poca vita che gli restava: il bullo, lo spaccone. Ma il mercato discografico non era pronto per recepire quelle smargiassate in musica.

Solo quando una loro canzone Tchumbala bey raggiunge il successo grazie a Gino Latilla, ci si accorge di Fred Buscaglione, e di riflesso del suo paroliere, Leo Chiosso. E' il 1953. L'anno appresso la Cetra gli fa firmare un contratto e Fred inizia a volare. Due anni dopo, è il 1956, il primo grande successo: Che bambola!

Fred non avrebbe mai pensato che la sua effimera gloria sarebbe finita con lui solo quattro anni dopo. Una breve vita che fu sufficiente a fargli vivere giorni e sogni di gloria. Se ne andò così, come mille volte aveva descritto la scena nelle sue criminal song, lasciando una bella moglie, che era entrata a far parte del suo complesso musicale, gli Asternovas, (alla sua scomparsa si sciolsero e non se ne seppe più niente). Lei sognata, amata, lasciata (non la tradì mai, anche se si allontanò per ritornare a lui poco prima di quel tragico 1960), Fatima Robin's, una giovane ragazza marocchina, bellissima, seducente, affascinante, carnale, che interpretò il sogno erotico di Fred Buscaglione, e che incarnò la pupa di cui egli narrava nelle sue canzoni.

Fatima aveva nove anni meno di lui, e, pur essendo originaria del Marocco, era nata a Dresda, in Germania, aveva cominciato ad essere conosciuta come contorsionista in un gruppo che si esibiva nei circhi, il Trio Robin's, appunto, composto dalla sorella e dal padre. Conobbe Fred nel 1949, aveva 19 anni e lui 28, si frequentarono per alcuni anni e poi si sposarono nel 1954.

Fu così che entrò a far parte del complesso del cantante; anche Fatima si esibiva ai microfoni, con la sua bella voce calda eseguiva le canzoni che allora giungevano d'oltre oceano, The lady is a tramp, Pretty eyed baby,A foggy night on Saint Francisco, e altre, mentre Fred cominciava con le sue composizioni strane.

Gli Asternovas, Buscaglione li conobbe a radio Sardegna quando si esibivano con gli alleati, e da allora non si lasciarono più. Pensate quali nomi formavano il complesso: Fred suonava il violino, altro strumento che portava sempre con sé e non rinnegò mai, Franco e Berto Pisano, fratelli, rispettivamente la chitarra e il contrabbasso, Gianni Saiu la chitarra, Carlo Bistrussu la batteria; a questi poi si aggiunsero anche altri due elementi, Giulio Libano e Sergio Valenti. Poi Buscaglione abbandonò il violino e diventò la voce del complesso, affascinato da quel grande attore americano che risponde al nome di Clark Gable, creò il suo personaggio che non abbandonò mai. Nel tempo il complesso variò più volte, si aggiunsero altri elementi di vaglia, al piano, prima Dino Arrigotti poi Paolo Zavallone, alla batteria Bistrussu fu sostituito da Ulderico Rovero, poi il tocco finale fu dato da Giorgio Giacosa, che suonava il sassofono, il clarinetto e il flauto. La formazione, che girò l'Italia e l'Europa da cima a fondo, per approdare anche alla televisione di stato, si chiamava Fred Buscaglione e i suoi Asternovas.

Il nostro ci ha lasciato (con le parole dell'amico Leo Chiosso) canzoni indimenticabili, come Eri piccola!, Porfirio Villarosa (che per fare la rima facile, faceva il manoval a la viscosa), Il dritto di Chicago, Teresa non sparare. E le canzoni lente, melodiche, come ad esempio Guarda che luna; o come Love in Portofino, che poi fu ripresa dopo la sua morte dal grande Johnny Dorelli, il quale ne fece un suo personalissimo successo internazionale.

Quanti pomeriggi da bravi liceali passammo, abbracciati alle nostre ragazze, cullandoci su una mattonella, sulla voce roca di Fred Buscaglione, che sprigionava tutta la sua malia da quei quarantacinque giri! Sono passati cinquant'anni, e le sue canzoni non si sentono più molto nelle trasmissioni delle varie radio. Ma è stato un fenomeno che nessuno potrà mai dimenticare.
Quel gangster dal cuore tenero, quando cantava Guarda che luna, lasciava emergere la parte più malinconica della sua dolce personalità.

Guarda che luna, quando la ascolto, ancora oggi mi riporta indietro; ai miei vent'anni, che, come Fred, non torneranno più


marcello de santis

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Mario Riva

13 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #televisione

Mario Riva

Si chiamava Mariuccio, in verità, e di cognome faceva Bonavolontà. Eh sì, Bonavolontà, perché Mario era figlio del grande compositore napoletano Giuseppe Bonavontà, autore delle celebri canzoni 'E stelle 'e Napule - scritta su testo di Michele Galdieri (ricordate Munasterio 'e Santa Chiara, bene, l'autore delle parole è Galdieri)- e l'altra, che mise in musica le parole di Tito Manlio, dal titolo 'O mese d' 'e rrose.

Mario Riva cadde, mettendo un piede, in fallo dalla passerella del palcoscenico dell'arena di Verona, mentre sovrintendeva le prove per la sua trasmissione, che da qualche anno riscuoteva uno dei più grandi successi mai riscontrati in programmi televisivi, Il Musichiere; c'era una botola aperta e non la vide, rovinò da un'altezza di cinque sei metri.

Era il 21 agosto dell'anno 1960. Fu ricoverato in ospedale, dove gli riscontrarono fratture gravi e e lesioni interne ancora più gravi; i medici fecero di tutto per salvargli la vita, mentre tutti gli italiani restavano attaccati ai notiziari, che radio e televisione davano di continuo; ma non ci fu niente da fare, ché sopravvennero, come quasi sempre accade in questi casi, complicazioni ai polmoni e al cuore. Mario Riva aveva una forte tempra, ma, ciò nonostante, non resistette a lungo. Dopo una decina di giorni morì, era appunto il 1° di settembre 1960.

Lo ricordano quelli della mia età per il grande successo che riportò - in una televisione in bianco e nero - con quel suo programma musicale che si chiamava, come ho detto più sopra, Il Musichiere, dove due concorrenti, seduti in pizzo in pizzo ad una sedia a dondolo, per essere pronti a scattare, dovevano indovinare nel più breve tempo possibile il motivo suonato dall'orchestra in studio, diretta dal maestro. Una breve corsa e i concorrenti dovevano suonare una campana e dare il titolo della canzone. A volte indovinavano ascoltando sole due/tre note. E c'erano concorrenti davvero molto in gamba. Colui che vinceva la serata, tornava la settimana successiva, a confrontarsi con altri concorrenti; fino a che non veniva eliminato da un altro più bravo di lui.

Con Mario Riva se ne andò uno degli uomini di spettacolo più amati dagli italiani. Era un animo buono dentro un corpo alquanto robusto, una bella pancia, diciamo, e un viso paffuto che ti guardava con i suoi occhi non proprio allineati. E qualcuno glielo diceva, per scherzare, o (il malvagio) per rilevargli uno dei pochi difetti che riusciva a trovargli: ma con quegli occhi storti che hai… E lui, col sorriso sulle labbra e l'arguzia nel cuore, non facendo distinzione tra i due, rispondeva che il suo era uno strabismo di venere, ma che te credi!
Ricordo che, allora, io ragazzo di vent'anni o poco più, pochi mesi prima che lui cadesse, avevo fatto presso la Rai una delle tante selezioni per partecipare come concorrente al Musichiere.
La prova, davanti a due esaminatori, andò bene, anzi benissimo, ché ero un profondo conoscitore di canzoni, di autori e di tutte le formazioni musicali che allora si alternavano nelle varie ore della giornata in diretta alla Rai. In diretta, sì, perché ogni trasmissione a quei tempi andava in diretta; ricordo che si esibivano, ognuno per mezz'ora, con i propri cantanti, il maestro Cinico Angelini, Armando Fragna, Francesco Ferrari, Pippo Barzizza; e conoscevo tutte le sigle dei vari complessi, e i cantanti che facevano parte dell'orchestra. Tornai a casa, quindi, con la speranza di essere chiamato quanto prima, anche perché mi fecero capire che dovevo stare in campana ché avrebbero potuto telefonarmi in qualsiasi momento. Ma venne la disgrazia, e sfumò la vita di Mario Riva; e sfumò il mio sogno di ragazzo appassionato di musica

Era una trasmissione che veniva seguita da milioni di telespettatori, in quelle prime serate di fine anni cinquanta che vedevano ospite, tra una gara e l'altra, gente di cinema e di teatro, di circo e di sport, attori americani, campioni di ciclismo, cantanti italiani e stranieri. Ancora oggi c'è chi, come me, non ha mai dimenticato la sigla della trasmissione, che Mario cantava con quella voce che tutto era fuorché la voce di un cantante, ma sgorgava dal cuore. Con la mano tesa verso gli spettatori, Mario Riva donava la canzone e, con essa, quei quattro soldi di felicità a tutti i presenti in studio e agli spettatori davanti allo schermo nelle case. Mentre alle sue spalle, indimenticabile anche lui, il maestro Gorni Kramer, coi suoi baffetti che gli coprivano un perenne sorriso, lo accompagnava nei suoi viaggi musicali.

Domenica è sempre domenica,
si sveglia la città con le campane.
AI primo din-don del Gianicolo
Sant'Angelo risponde din-don-dan.

Domenica è sempre domenica
e ognuno appena si risveglierà
felice sarà e spenderà
sti q
uattro s
oldi de felicità.

Lo accompagnavano sulla barca piena di allegria e buonumore, oltre ai concorrenti e al maestro Gorni Kramer, due signorine di buona famiglia: Lorella de Luca e Alessandra Panaro, che furono le prime vallette successivamente approdate al grande schermo per tanti film di successo. I due cantanti ufficiali della trasmissione erano una dolce ragazza, che si chiamava Nuccia Bongiovanni, e un giovane di belle speranze dalla voce calda e vellutata, Paolo Bacilieri.

Quanti film ha girato, più di 50, il buon Mario, e con tutti i migliori registi italiani. Aveva fatto coppia, ma una di quelle inseparabili per quei tempi, con il suo grande amico fraterno Riccardo Billi; Mario Romano romanaccio, Riccardo Toscano toscanaccio, di Siena. Talmente bravi tutt'e due che non si sapeva chi fosse il comico base e chi la spalla (come si definiva il supporto indispensabile per gli sketch che proponevano due attori in coppia).

Per parlare di questo stupendo personaggio, su cui ci sarebbe molto da dire, ci vorrebbe spazio e tempo. Ma il mio intento è solo quello di far ricordare, a quelli che lo hanno conosciuto, che era un uomo buono e generoso che sprizzava allegria da tutti i pori; ai giovani, che non ne sanno niente, di destare la loro curiosità.

Andate a conoscerlo coi mezzi che la tecnologia moderna oggi pone a disposizione, internet e Youtube, soprattutto; troverete sketch, canzoni, interviste, fotografie, filmati, monologhi e duetti col suo grande amico Riccardo Billi.


Marcello De Santis

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Nilla Pizzi

11 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica, #personaggi da conoscere

Nilla Pizzi

Nel 1951 avevo 11 anni e già da alcuni mi interessavo alle canzoni, agli autori, ai cantanti, e alle orchestre. In quel periodo usciva dal giornalaio (il termine edicola non si usava ancora, a quanto mi ricordi), mensilmente, un piccolissimo libriccino con i testi delle canzoni più in voga, o almeno le più conosciute del momento; mi sembra che si chiamasse, se la mente carica di anni non m'inganna, "Il canzoniere della radio", una trentina di pagine o poco più.
Ed io, figlio di un padre prima senza lavoro e poi (fortunatamente) assunto come infermiere presso l'ospedale della mia città, non mi potevo permettere di comprarlo. Come del resto a casa mia non si compravano giornali o riviste per i grandi, per papà e mamma, intendo, (Grand Hotel, Gente) o fumetti (le famose strisce, ricordate? Corriere dei piccoli, Tex, Il piccolo sceriffo, L'uomo mascherato, Mandrake, Zagor, Cino e Franco).
Se qualcuno di questi giornali e giornaletti potevamo leggere o sfogliare, lo facevamo grazie all'ottimo rapporto di vicinato obbligatorio e scontato per quel periodo del primo dopoguerra, con la signora Adele, che abitava sotto di noi, che eravamo al primo piano. Abitava, lei e la sua famiglia, un piano terra che aveva davanti all'uscio un pezzettino di orto con galline e pulcini; e aveva due figli della nostra età, Marcella, la più grande, e Pierino, nel tempo diventato professore prima e preside di liceo poi, oggi in pensione, che ogni tanto incontro passeggiando per strada. Avevamo press'a poco la stessa età, anno più anno meno.

Bene, Adele, il cui marito Alessandro faceva il parrucchiere, comprava diverse riviste, soprattutto Grand Hotel, delle cui storie era appassionata tutta la famiglia; e per i figli, nostri compagni di giochi, non mancavano le strisce di cui sopra, soprattutto quelle de Il piccolo sceriffo.
E io e mio fratello più piccolo leggevamo le strisce; come del resto mia mamma, anche se non appassionatissima come loro, leggeva, tra una chiacchiera e l'altra tra donne di casa, il Grand Hotel, settimanalmente immancabile; che era un giornale-mito in quegli anni; ci aiutavano a sognare, grandi e piccoli, storie che tutti avremmo voluto vivere.
Intanto usciva in quell'anno il primo numero di Sorrisi e Canzoni, che da allora mi ha sempre accompagnato, per più di cinquant'anni, lungo la strada della musica leggera. Poi, verso l'inizio di quest'era moderna, la rivista, che ha preso il nome di TV Sorrisi e Canzoni, ha cambiato formato e contenuti; prima raccontava la vita dei cantanti con le loro canzoni; dal 2000 in poi tratta un po' di tutto, ma principalmente dei programmi della televisione.
Cominciai così a conoscere vita morte e miracoli, come si usa dire, dei divi della radio (che divi non erano davvero); la televisione non c'era ancora.
Adele dunque ci permetteva di accedere alle riviste e ai fumetti a strisce, e mia madre invitava molto volentieri tutta la di lei famiglia, compreso nonno Giggetto, a salire a casa nostra, a seguire la radio; quando c'erano, i gialli di Ellery Queen, ricordo, appassionati e paurosi, e noi lì a pendere dalla radio.

E poi il festival della canzone italiana di San Remo che presentava canzoni nuove, per mezzo dell'orchestra diretta dal maestro Cinico Angelini, con i cantanti Nilla Pizzi, Carla Boni, Il duo Fasano, Gino Latilla e Achille Togliani…
La sigla dell'orchestra era "C'è una chiesetta amor, di Castaldi e Rampoldi", sigla che divenne celebre per anni, e che il maestro sostituiva solo quando si presentava come "Angelini e otto strumenti", (la sua orchestra ridotta a otto elementi, appunto); la sostituì con Where end When, ossia Dove e quando.
Il Festival della Canzone Italiana veniva trasmesso in diretta dal Casinò di San Remo. E durava, se non ricordo male, al massimo due/tre serate, solo per il tempo delle canzoni, senza tanti fronzoli, ospiti d'onore, scenette più o meno sceme, gag, e altro.
Quando il grande Nunzio Filogamo faceva uscire la sua inconfondibile voce dal nostro apparecchio radio - un Geloso di quelli grossi, con sullo schermo le stazioni con i nomi di tantissime città italiane e stranier, sintonizzate girando una manopola che faceva scorrere una barretta scura sotto il vetro, l'altra era per il volume (apparecchio che noi tenevamo su un mobile in sala) - bene, quando Filogamo parlava, tutt'intorno in un silenzio da chiesa, noi e Adele e i suoi eravamo là, seduti, pronti all'ascolto; e io, con il numero di Sorrisi e Canzoni aperto sulle ginocchia, a leggere i testi della canzoni interpretate.
Ecco, San Remo era portato avanti solo dal maestro Angelini e i suoi cantanti. Per quattro anni, dal 1951 appunto, fino al 1954, il maestro fu il re incontrastato del Festival.
E regina indiscussa della Canzone italiana, divenne immediatamente Nilla Pizzi, dopo che la sua canzone Grazie dei fior vinse quella prima edizione. Debuttò giovanissima in Rai - allora si chiamava EIAR - diretta dal maestro Carlo Zeme, con una canzone dal titolo Casetta tra le rose. Cominciò a incidere dischi, con, tra l'altro, Quel mazzolin di fiori; ma solo nel 1945 incontra il maestro Angelini che la porta con sé in giro per l'Italia. Poi torna alla radio, dove le fanno un contratto esclusivo per due anni. Continua a incidere per diverse case discografiche.
Interpreta La vie en Rose, E' troppo tardi e altre, ma non disdegnando ritmi latino americani.
Ed eccola nel 1951 al Festival della canzone Italiana di San Remo. Festival della canzone italiana, dunque, ché, allora, vinceva "la canzone" e non, come oggi, il cantante. Tanto che ai cinque cantanti del maestro Angelini venivano assegnate tutte le canzoni in gara. Lei, per esempio, al primo festival portò al successo, oltre quella che vinse, anche "La luna si veste d'argento", in coppia con Achille Togliani, Ho pianto una volta sola, che, pur essendo molto bella, non andò in finale. Fu la trionfatrice anche dei Festival seguenti. Nel 1952, con Vola colomba. Al secondo posto fece classificare Papaveri e papere, e terza, sempre per la sua voce calda e ammaliante, Una donna prega. Nel 1953, fece classificare al secondo posto, con la sua calda voce e la sua grazie infinita, Campanaro.
Questo è quanto, ma non è tutto. Il festival andò avanti tra alti e bassi; e, bene o male, pure stravolto nei suoi canoni e nelle sue finalità, è arrivato fino ad oggi. Alla ribalta della città dei fiori si alternano big, cioè i grandi, spesso cantanti di nessun nome e di nessuna fama e che non la raggiungeranno neppure dopo la loro presenza sul palcoscenico tanto glorioso; e cantanti cosiddetti "giovani", di cui a mala pena salviamo - ogni anno - uno o due elementi su una ventina; talvolta, anzi spesso, emergenti solo successivamente alla manifestazione, tra quelli eliminati nelle varie serate; lunghissime e noiosissime. Giovani che durano l'espace d'un matin, come dicono i francesi. Questo è quanto, ma non è tutto, dicevamo più sopra. Ché Nilla, al contrario di buona parte di questi cosiddetti cantanti moderni, ha continuato a cantare deliziandoci con la sua voce eterna.
Vediamola e ascoltiamola ancora come allora, coi suoi deliziosi abiti di scena, che magari oggi ci paiono fuori moda. E la sua grazia, che non passa mai di moda. E' il miglior complimento che le possiamo fare.

marcello de santis

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Ria Rosa: parte terza

9 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #personaggi da conoscere, #musica

Ria Rosa: parte terza


Ria Rosa lavorò nella compagnia di Nicola Maldacea, grande attore di teatro, ma soprattutto grande interprete della canzone napoletana, il canzonettista per antonomasia dei palcoscenici campani; cantava con uno stile tutto particolare, adottando, talvolta, nell'eseguire i brani, il suo stile recitativo, che, pur imitato, non è stato mai raggiunto da alcuno; nascevano le celeberrime macchiette, che contraddistinsero in breve la personalità del grande artista.
Si fece conoscere così, tanto da essere ingaggiato, Maldacea, dalla compagnia del grande Edoardo Scarpetta, il padre di Eduardo de Filippo; e poté raggiungere in tal modo la fama, che lo portò ben presto ad esibirsi nel celebre Teatro Margherita.
Ecco, Ria Rosa lavorò nella compagnia di Nicola Maldacea, e proprio con lui affrontò per la prima volta il viaggio in America; qui, fattesi le ossa, mise su una propria compagnia teatrale, con la quale avrebbe recitato sceneggiate spassose; ma anche affrontando talvolta argomenti i più scabrosi del momento.
Del resto, come vedremo quando sarà in America, il coraggio non le mancava di certo. Era, diremmo oggi, nel suo DNA. Non poteva mancare di esibirsi e interpretare le più belle canzoni napoletane in alcune edizioni delle Piedigrotta, che iniziavano proprio in quegli anni.Ma non era sola a contendersi l'appellativo di regina della canzone napoletana, c'era in auge anche la sua rivale di sempre Gilda Mignonette. La rivalità era enorme, ma sempre rispettosa, tra le due dive.
Ria Rosa faceva viaggi continui tra l'America e l'Italia, Napoli-New York fu la sua vita per anni, fino a che decise di stabilirsi definitivamente laggiù; correva l'anno 1937. Fu l'anno del suo ultimo viaggio a Napoli; obbligata, si può dire; fu l'anno della morte dell'autore Ernesto Tagliaferri che tante canzoni aveva scritte, (ricordiamo: Napule ca se ne va, Mandulinata a Napule, Piscatore 'e Pusilleco), molte dedicandole a lei; e non poteva dunque mancare per l'ultimo saluto.
Tagliaferri stava finendo di scrivere per l'artista la sua ultima canzone dal titolo "Chitarra nera". E Ria Rosa, in quell'occasione, volle cantare per l'ultima volta in pubblico la canzone. Poi non la cantò più.

E la vediamo, dunque, l'artista, protagonista anche a Piedigrotta, in questa prima manifestazione pubblica della canzone napoletana (anche se alla rassegna c'erano pure alcune canzoni in lingua; del resto essa era organizzata da una casa editrice partenopea, quella di tale Francesco Esposito, il cui padre aveva un negozio di strumenti musicali in via Roma, a Napoli).

Furono invitati ad esibirsi una decina tra i cantanti che andavano più in voga in quel periodo. Di quella pattuglia di artisti oggi ne ricordiamo appena tre o quattro, che insieme a Ria rosa vinsero il tempo, e guarda caso due di essi donne. Una è senz'altro Gilda Mignonnette, di cui abbiamo parlato in questo saggio, che già era una vedette dei Cafè Chantant di Napoli; e poi la bella Tecla Scarano, che lavorava a teatro interpretando testi del grande commediografo Raffaele Viviani; una ragazza che molti anni appresso divenne una discreta attrice di cinema.
Le cantanti avevano una canzone a testa: Ria Rosa ebbe "E femmene masculine" (Barbieri-Giannelli), la Mignonnette cantò Sempe Napule sarrà (Mendozza-Gargiulo), a Tecla Scarano fu affidata Heart and heart (De Lutio-Ceryno) e l'altra cantante di cui si è persa la fama, il suo nome d'arte era La Zingara, presentò Cè vò cè vò (Vento-Recitano).
Una curiosità: le canzoni furono incise su dischi. Tranne sette, e tra queste tutte quelle eseguite dalle interpreti femminili.

Torniamo a quelli che raggiunsero una certa notorietà. Dobbiamo ricordare, e chi è molto addentro alla storia della canzone napoletana lo conosce bene, un certo Mimì Maggio, che fu nome di buona levatura nella Piedigrotta di quell'anno.

Proprio per questo essere un "minore" della scena artistica napoletana, egli merita qui qualche parola più degli altri di cui abbiamo appena parlato.
Mimì Maggio, a quei tempi, aveva 42 anni, dieci più di Ria Rosa, anche lui amico del Viviani, e lavorava già quattordicenne nelle rappresentazioni a teatro che si tenevano nei teatri di Napoli nelle memorabili matinée. Era un giovane dalle mille capacità, cantava, suonava il mandolino, recitava, e tutto lo faceva molto bene; mentre si esibiva lavorava anche come garzone di barbiere. A sedici anni abbandonò il lavoro e seguì la sua innamorata Antonietta Gravante, il cui padre portava in giro per i luoghi più disparati un moderno Carro di Tespi.
Ecco, Mimì aveva trovato la sua strada, sposò Antonietta, e a un certo punto se ne andarono per città e paesi a cantare e recitare; pensate, si esibirono perfino sul palcoscenico delle Folies Bergères a Parigi.
Fu, Mimì, il capostipite della famosissima famiglia dei Maggio, dei quali Beniamino e Dante, Pupella e Enzo, Margherita e Rosalia furono gli unici - tra i sedici che la coppia diede alla luce - che seguirono le orme dei genitori e divennero celebri.
Mimì morì a Roma nel 1943, ancora giovane, aveva poco più di sessant'anni.

Ria Rosa nel 1939 si stabilì, come detto, definitivamente a New York dove divenne famosissima, e da dove l'eco della sua fama correva continuamente a Napoli. Andate e ritorni interminabili, continuamente. Fu denominata la diva eccentrica proprio per i testi che proponeva, e per il suo coraggio nell'affrontare in essi argomenti scottanti di attualità, come nessuno osava fare. E, come detto più sopra, per la battaglia per i diritti delle femmine, gli attribuirono il tiolo di nonna del femminismo.


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Ria Rosa: parte seconda

7 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica, #personaggi da conoscere

Ria Rosa: parte seconda


Era il periodo, oltre che degli emigrati, anche dei celebri salotti napoletani, in quegli anni di quel primo novecento, salotti delle case dei ricchi, o dei benestanti, in cui si riunivano, tra parenti e amici del padrone di casa, poeti, parolieri, musicisti e cantanti, per fare ascoltare le loro composizioni, per recitare le loro macchiette, per cantare le canzoni nuove. E la gente comune, sotto per la via, ferma ad ascoltare, incantata, quelle melodie che poi continuavano a canticchiare andandosene via. Canzoni che col tempo sarebbero diventate eterne.
Era l'occasione che anche i padroni di casa aspettavano; era per loro la grande opportunità di poter mostrare l'eleganza delle loro sale fastose, i loro mobili importanti, il pianoforte di marca; e, come sempre avveniva, esibirsi alla pari degli artisti amici. Era tutta un'atmosfera che stava cambiando.
Fu in quest'atmosfera che iniziò i suoi primi passi la nostra giovane artista. E fu considerata la prima femminista della storia, grazie a ciò che porgeva al pubblico - soprattutto femminile - con la sua bella voce:

la libertà della donna, il diritto di truccarsi,
di mettersi il rossetto,
di poter "guardare" gli uomini"
e darne liberamente giu
dizi e pareri.

E anche in America i testi delle sua canzoni erano fin troppo liberi. Una volta ebbe il coraggio di presentarsi sul palcoscenico vestita da uomo, ma lo doveva fare, disse, del resto come porgere al pubblico la celebre Guapparia?

Scetáteve, guagliune 'e malavita...
ca è 'ntussecosa assaje 'sta serenata:
Io sóngo 'o 'nnammurato 'e Margarita
Ch'è 'a femmena cchiù b
ella d''a 'Nfrascata!

Non aveva scelta; hai voglia a convincerla che non poteva farlo, avrebbe suscitato l'ennesimo scandalo, ci pensasse bene, rinunciasse! Ma va! Sulla scena doveva presentarsi come un autentico guappo. E dunque? La vinse lei. Lo fece. Da quella volta lo ripeté spesso - facendo gridare ogni volta allo scandalo; la sua bravata ebbe anche un seguito penale, qualcuno la denunciò, oggi diremmo "per oltraggio", non si bene a che cosa…
Vogliamo riportare ancora un aneddoto, o meglio un fatto: era il tempo in cui i due nostri connazionali, Sacco e Vanzetti, al secolo Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, vennero arrestati con l'imputazione di duplice omicidio, si era nel 1927; e furono giustiziati sulla sedia elettrica nell'agosto di quell'anno, a Charlestown. Va detto che cinquant'anni dopo il governatore dello stato del Massachusetts riconobbe pubblicamente l'errore in cui era incorsa la giustizia americana, riabilitandoli tutti e due.
Bene, Ria Rosa ebbe il coraggio di cantare una canzone dal titolo "a seggia elettrica", dove metteva in evidenza il suo parere contrario alla pena di morte, dedicandola, appunto, a Sacco e Vanzetti.
Vogliamo riportarvi brevemente la storia di questa canzone, il cui titolo era in effetti Mamma sfortunata: nacque nel 1924 grazie ai versi di un certo Gaetano Esposito, messi in musica da uno dei più grandi napoletani di tutti i tempi: E.A.Mario. Il musicista ebbe a riconoscere la paternità della canzone molti anni dopo, nel 1932, ma tra gli amici e in gran segreto; il motivo era semplice: le autorità di polizia americane perseguitavano coloro che parlavano a favore dei due italiani condannati a morire sulla sedia elettrica. Erano considerati dei sovversivi, e quindi perseguiti a norma di legge; così come gli scritti relativi al triste fatto di cronaca nera. Pensate, E.A Mario aveva paura ancora ben trent'anni dopo, nel 1959, quando, in occasione dell'annuale Piedigrott, pubblicò la canzone, dando quell'anno come anno di nascita. Nei versi, la mamma di uno dei due giustiziati legge sul giornale della disgrazia e… riportiamo la prima strofa della canzone

Quanno liggette 'o nomme int'e giurnale
dette 'nu strillo forte 'nnanze a gente:
No! Nun è overo! Figlieme è 'nnucente…
chi l'ha accusato fa 'na 'nfamità!
'E core e tutt'e mamme nun senteno raggione:
si 'e figlie nun so bbuone, nisciuno ce 'o ppo dì,
ma chella mamma s'accurgette subito
ca 'ncopp
'a seggia elettrica 'o figlio jeva a murì.

Quando lesse il nome sul giornale/
fece uno strillo forte in mezzo alla gente/
no! non è vero! mio figlio è innocente…/
chi lo ha accusato ha detto una grossa bugia,
una infamità!/ i cuori di tutte le madri non sentono ragioni/
se i figli non sono buoni, nessuno ce lo può dire/
ma quella mamma s'accorse subito/
che
suo figlio andava a morire sulla sedia elettrica.

Ria Rosa ebbe il coraggio di incidere la canzone - alla faccia della polizia americana - lo fece come abbiamo detto più sopra, nell'anno 1924, in un settantotto giri che la polizia tentò in ogni modo di distruggere. Certo poteva farlo e lo fece con diverse copie del disco, ma alla matrice non arrivò mai, e altre copie ne venivano fatte e distribuite. La cantante ebbe guai grossi con la giustizia di quel paese, ma andò avanti e cantava la canzone, quando se ne dava l'occasione, nelle sue rappresentazioni teatrali.
Da una donna così ci si poteva aspettare un coraggio degno, all'epoca, solo di un maschio (se mai ne avesse avuto, ed E.A. Mario - ricordiamo per la cronaca, cosa da lui stesso confessata trent'anni dopo - non lo ebbe).

marcello de santis

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Ria Rosa: parte prima

5 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica, #personaggi da conoscere

Ria Rosa: parte prima

Cari amici, vengo a proporvi una breve storia di una cantante di Napoli di un centinaio di anni fa, Ria Rosa, che conobbi musicalmente nel mio soggiorno a Pozzuoli per lavoro, nei lontani anni '70 del 1900.
Avvenne per caso; scendevo dalla stazione della Cumana per via Pignasecca - e mi fermai a spulciare - come sempre facevo - nei contenitori dei dischi esposti sulla stradina in lieve discesa, rumorosa di traffico di motociclette, di bancarelle, di guaglioni che gridavano, e femmine che si chiamavano da un vascio all'altro - era il negozio del cantante Nunzio Gallo, che qualcuno di voi ricorderà - mi fermai a spulciare, dicevo, tra i tanti dischi a trentatrè giri.
Trovai un disco con sulla copertina la faccia di una giovanissima cantante che non conoscevo.
Io ero e sono un appassionatissimo della canzone napoletana, e allora andavo alla ricerca, nel tempo libero dal lavoro, passeggiando per le vie di Napoli con mia moglie, di tutto ciò che attteneva alla canzone napoletana,
Lessi il nome: Ria Rosa, lo girai e lo rigirai tra le mani, ma non mi diceva niente.
Lo comprai, e non sbagliai a farlo; a casa lo ascoltai e mi innamorai all'istante di quella voce. Inutile dire che il disco era una riproduzione, e frusciava in maniera impressionante, ciò che dava alla cosa una fascino tutto particolare.
Ecco, vi presento questa breve storia in tre parti, essendo un po' lunga, spero incontrerà i vostri favori. Grazie.



Ria Rosa. Nome sconosciuto ai più, ma artista napoletana di fama internazionale, in quegli anni del primo novecento, dove poco conosciuti erano i cantanti ma notissime cominciavano ad essere le canzoni.
Ria Rosa invertì questo canone, cominciò ad essere conosciuta prima lei che le canzoni che presentava. Ebbe una vita lunghissima, pensate, visse quasi cento anni, quando morì ne mancava uno a questo traguardo: ne aveva ben 99. Cominciò a cantare e recitare giovanissima, ad appena 15 anni. Ma stette poco nella sua città, la Napoli che le diede la luce alla fine del secolo, nell'anno 1899; perché nel 1922, sposatasi col suo produttore, si trasferì in America per seguire il capocomico della compagnia nella quale si esibiva, l'attore cantante Nicola Maldacea, che fu anche il suo maestro di scena. E là morì, a New York, nel 1998.
Il suo nome all'anagrafe era Maria Rosaria (di cognome faceva Liberti, ma questo per la nostra breve storia ha poca importanza; del resto nessuno lo sa, perché tutti la conoscevano così come amava farsi chiamare: Ria Rosa, appunto, prendendo la seconda parte del suo primo nome (ma) Ria, e la prima del secondo Rosa (ria).
Cominciò così, seriamente, non per gioco ma per volontà di affermarsi, a cantare; ché sapeva essere la sua voce calda e bene impostata - ma ditemi voi quale napoletano che si rispetti non aveva allora, e non ha ancora oggi, una voce adatta a recitare e cantare ingentilendoli ognuno a suo modo, i versi delle belle melodie del golfo…
Il suo maestro di canto la presenta al pubblico, perché ormai la ritiene pronta per il debutto artistico, grazie alla sua passione per la canzone, passione che emana da tutta la sua personalità, sul palcoscenico della sala Umberto; che già aveva visto esibirsi artiste di grande nome e caratura internazionale, come la Belle Otéro e la grande grandissima Anna Fougez.

Come detto, Ria Rosa era appena una signorinella, e per l'epoca, a ben guardare le sue poche foto che la ritraggono e che sono giunte fino a noi, era davvero una ragazza bella ed esuberante. Incontrò immediatamente il successo con la S maiuscola, ma è da dire "non inaspettato", non tanto dalla giovane artista, ma dal suo impresario, che ella sposò come abbiamo detto più sopra, di lì a poco; e questi non ci pensò due volte: la condusse in America, dove i napoletani erano davvero tanti, quegli emigrati che laggiù vivevano lavorando sodo, e masticando nel contempo pane e nostalgia. E chiunque portava loro l'aria di Napoli, le canzoni di Napoli, 'o còre 'e Napule, non poteva che essere il benvenuto; una bella ragazza poi, giovane, appassionata, con una voce da incantare, l'accolsero a braccia spalancate, e ne fecero in breve la loro beniamina. Maria Rosaria, ormai Ria Rosa, non lasciò più New York.
La sua voce viene immortalata sui dischi, quei primi dischi di vinile, fruscianti sotto la puntina di diamante che percorreva i settantotto giri con pignoleria; e i napoletani d'America ne consumavano a iosa, di quei dischi di Ria Rosa, fino quasi a non riconoscerne più la voce.
Allora chi era fortunato, o meglio chi aveva raggiunto un livello di modesta agiatezza si poteva permettere il grammofono, quello a tromba, per intenderci, e chi non lo aveva, si avvicinava a chi ne possedeva uno e si fermava da ascoltare, estasiato davanti alla grazia della voce di Maria Rosaria.
Ma la ragazzina non cantava ancora le canzoni d'amore che di lì a poco sarebbero entrate nel cuore di tutti; cantava invece canzoni allegre, dispettose, canzoni che strappavano un sorriso a aprivano il cuore a una vita più accettabile di quella di tutti i giorni, tra duro lavoro per tutti, e rimpianti per alcuni, e malinconia per altri.
Divenne in breve la regina del cafè chantant.

A Napoli, prima di partire, nello sguardo degli emigranti, perso nella cartolina del golfo che s'allontanava, sembrava di leggere, e di ascoltare, me ne vogl'ìi' a ll'A-merica… ca sta luntana assaje,

Me ne vogl'í a ll'America,
ca sta luntana assaje:
Mme ne vogl'í addó' maje
te pòzzo 'ncuntr
á cchiù.

Libero Bovio e Ernesto De Curtis li scrissero, questi versi, nel 1912, e ogni volta che un bastimento partiva dal porto di Napoli, per gli emigranti imbarcati erano cuori che si spezzavano.
La intitolarono, e a ragione, 'A canzone 'e Napule.
E pareva di sentire per l'aria sopra le loro teste, le note di questa canzone - e nel cuore le parole - che li accompagnavano fino a che il golfo scompariva; e non restava per loro intorno, se non mare e speranza.

marcello de saAscolta RIA ROSA

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Fenesta vascia

3 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica

Fenesta vascia

Erano gli amori dei poveri, amori di altri tempi in una Napoli di altri tempi.

Fenesta vascia narra appunto uno di questi amori, tra un guaglione e una guagliona che abita in una povera casa e che si nasconde dietro una finestra che resta chiusa. Siamo in un vicolo di Napoli e il ragazzo ha il cuore in subbuglio per quest'amore non corrisposto.
La canzone è di autore ignoto, risale al cinque-seicento, (forse al cinquecento, ma non è certo); si pensa che non sia mai giunta a noi così compiutamente come è stata pensata e scritta.
Se ce l'abbiamo, lo dobbiamo solo a un certo Guglielmo Cottrau, che dunque va considerato uno degli autori di essa. Cottrau scriveva, e tra le altre cose anche versi di canzoni in dialetto, oltre ad essere proprietario di una modesta casa editrice.
Era l'anno 1825, e questo signore si era preso l'arduo compito di cercare, studiare, e trascrivere - musicalmente parlando - le canzoni del secolo che lo vedeva vivere, e di quelli precedenti.
Egli dunque rintracciava testi antichi, o raccoglieva quelli che qualcuno gli portava, e li affidava, oltre a lavoraci su egli stesso, a collaboratori perché li rimettessero in sesto.
Questo testo lo passò al suo fido Giulio Genoino, poeta di un certo livello e conosciuto abbastanza all'epoca. Nato a Frattamaggiore, nell'entroterra napoletano, in una terra arsa dal sole e dimenticata da dio e dagli uomini, il poeta ci si mise sopra di buzzo buono, e riuscì in una impresa che gli fece onore: studiò a lungo le parole dialettali ormai dimenticate di quel testo, sorpassate da quelle attuali (ricordo, siamo nell'ottocento e trecento anni non erano passati invano), e le trasformò, le tradusse, possiamo dire, in altre che riscontravano più compitamente la lingua allora parlata.
Diciamo due parole sui due personaggi grazie ai quali oggi possiamo godere della canzone, Gugliemo Cottrau, che scrisse o trascrisse la musica, era nato nel 1797 a Parigi, per morire a Napoli ancora molto giovane, pensate aveva solo cinquant'anni quando avvenne la sua scomparsa, era l'anno 1847. Vi chiederete come mai giunse a Napoli dalla Francia, è presto detto: il Cottrau era di nobile famiglia e venne in Italia con i suoi; il padre era una persona molto appassionata di letteratura. Venne a Napoli al seguito di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone; e di Gioacchino Murat. Napoleone lo fece infatti re di Napoli nel 1806, e Giuseppe governò il Regno di Napoli per soli due anni, prima di essere nominato poi re di Spagna. Era già stato in Italia una decina di anni prima, sempre al seguito del fratello, e fu ambasciatore per conto di questi a Parma prima e a Roma poi. Girò a lungo per l'Europa come rappresentante dell'imperatore, fino a che nel 1841, tornò definitivamente in Italia, stabilendosi a Firenze, dove morì tre anni dopo. Murat, a Napoli, prese il posto di Giuseppe, quando questi ottenne il regno di Spagna, e dobbiamo dire che, grazie alle molte opere di interesse pubblico che realizzò, ma anche alla sua grande personalità - era anche una bella presenza - fu molto amato dalla popolazione.
I Cottrau facevano parte della corte dei due re di Napoli, e amarono molto Murat,che, tra le altre cose, riaprì la famosissima Accademia Pontoniana; ma non solo, fondò una nuova Accademia Reale delle Lettere. Peripezie belliche poi lo portarono in diverse guerre, e in fine a combattere in Calabria, dove fu arrestato e condannato a morte. Morì a Pizzo Calabro sotto i colpi della fucileria nel 1815 del governatore di quella regione. Ma torniamo a Guglielmo Cottrau, il quale proprio al seguito di Gioacchino Murat, grazie alla sua vasta cultura letteraria, assunse incarichi importanti nel campo dell'arte.
Il padre di Gugliemo, voleva fare di lui un politico, che seguisse in qualche modo la sua carriera, ma il giovane, appassionato di musica e di lettere, come il padre del resto, non volle seguire i suoi consigli e si dedicò interamente alla carriera musicale; in particolare, insieme ad altri amici, si dette alla ricerca e alla trascrizione di testi antichi. Il fatto che venisse da un paese straniero, contribuì a far conoscere i suoi lavori musicali sui testi napoletani, anche fuori d'Italia.
Abbiamo detto più sopra che molte sono le trascrizioni di versi non suoi, ma molte anche le musiche su canzoni che scrisse lui. Ma ad oggi non si sa ancora con precisione quali siano quelle e quali queste. Sicuramente gli sono attribuite due canzoni: una più bella dell'altra: questa, di cui parliamo, Fenesta vascia, e l'altra, celeberrima, Fenesta ca lucive, ispirata alla storia triste di origine siciliana, della baronessa di Carini.
Per la cronaca, va detto che tra i vari collaboratori del Cottrau, ci fu anche un certo Gaetano Donizetti.
Giulio Genoino, l'autore dei versi di tutte e due le canzoni sunnominate, come già abbiamo detto, era di Frattamaggiore, dove era nato nell'anno 1773, (morì a Napoli nel 1856.) E come Cottrau, collaborò col Donizetti per il quale scrisse i libretti per alcune sue opere liriche.
Di questi versi antichissimi, curò soprattutto la punteggiatura; e lo fece in maniera egregia, punteggiatura che, nel testo consegnatogli, era pressoché inesistente, e, laddove c'era, forse era stata distribuita a sproposito. I versi di Fenesta vascia sono sistemati in due strofe di otto versi l'una, con rime alternate, metrica propria delle storie di racconti popolari. Va detto che nel testo originale le rime c'erano anche se non erano propriamente giuste, fatte come si deve, ciò che forse era dovuto alla non perfetta preparazione dell'autore del cinquecento.
La musica è lenta, dolce e malinconica, proprio per meglio aderire alla storia raccontata, e meglio delineare la tristezza del ragazzo che implora amore dalla fanciulla, che lui sa nascosta dietro la finestra del basso, chiusa, povera; ragazza che lo vede soffrire ma non lo vuole aiutare.
Vogliamo riportare il testo della canzone qui sotto, perché il lettore possa gustarne tutta la dolcezza pur nella sua immensa malinconia, immaginando per ora la musica, che potrà ascoltare cliccando sul link che sta alla fine di questo saggio.

Fenesta vascia e patrona crudele
quanta sospire m'aje fatto jettare
M'arde sto core comm'a na cannela
bella quanno te sento annommenare
Oje piglia la sperienza de la neve
la neve è fredda e se fa maniare
e tu comme si tant'aspra e crudele?
Muorto mme vide e non mm
e vuò ajutare?

Vorria arreventare no picciotto
co na langella a ghire vennenno acqua
pe mme nne ì da chiste palazzuotte
belle femmene meje, a chi vò acqua?
Se vota na nennela da la 'ncoppa
chi è sto ninno che va vennenno acqua?
e io responno co parole accorte
so lagreme d'ammore, e non è acqua!

Finestra bassa di una padrona crudele/ quanti sospiri mi hai fatto gettare/
Quando ti sento nominare, bella mia/ mi brucia il cuore, come una candela/
Fai come la neve, ti prego / la neve è fredda, è vero, ma si fa accarezzare/
e tu, invece, perché sei così aspra, così dura
, così crudele?

Vorrei tanto farmi un guaglione/ che va a vendere acqua con un orcio/
per girare tra queste case a gridare/ belle femmine, chi vuole acqua?
S'affaccia una "nennella" da lassù/ e dice: chi è sto ragazzo che vende acqua?
e io rispondo con parole "accorte"/ so' lacreme d'ammore e non è
acqua

Il giovane appassionato vorrebbe farsi acquaiolo, così da passare per quelle case gridando, belle signore, c'è l'acquaiolo, chi vuole bere acqua fresca? E sperare che apra la finestra - bassa, chiusa - anche la giovane di cui è innamorato. Risponde - a una ragazza che s'affaccia da un piano superiore di una casa chiedendo chi è quel bel ragazzo che vende acqua, con uno dei più bei versi di tutta la canzone napoletana:

Sono parole dettate dal profondo del cuore, di un cuore "spezzato" per un amore non corrisposto.
Adesso, cliccando sul link qui sotto, potrete ascoltare una bellissima interpretazione della canzone "Fenesta vascia" eseguita dal grandissimo Roberto Murolo, in una esecuzione "matura", di quando cioè l'artista era all'apice della sua incomparabile carriera.

marcello de santis

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Sibilla Aleramo

1 Ottobre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #personaggi da conoscere

Sibilla Aleramo



Sibilla Aleramo
(1876-196
9)





28 dicembre 1959, mattino

Il dottore ha trovato un peggioramento nello stato generale… fuori c'è il sole… Sento che sono vicina alla fine… sono stanca, tanto stanca. Non ho neppure la forza di un sorriso per gli amici che vengono a trovarmi. Però… ho avuto tanto dalla vita… sono contenta… E' dicembre, sento che non vedrò l'anno nuovo… è il mese più dolce per morire. Dicembre, la fine di un anno, come la fine di una vita, della vita… come agosto, che è il tempo più bello per nascere. Io, poi, sono nata di mezz'agosto! Che gioia per chi mi era intorno…ma sono stanca, come sono stanca! Anche il ricordare mi è di peso… i ricordi, poi… Quanti amici! quanti amori! Dino… Dino su tutti. Dino, il mio Dino! E gli altri… tutti amorevoli, tutti cari…
Giovanni Cena, il buon Giova
nni! Quanto tempo abbiamo passato insieme a combattere l'analfabetismo nelle paludi della campagna romana infestate di insetti malefici, zanzare che davano la malaria… tutt'e due a portare un poco d'istruzione a quei poveretti… Eravamo all'inizio del secolo… quanti anni sono passati… io ero là, insieme a Giovanni, due apostoli della cultura, pieni di amore, di entusiasmo. Sì.. d'amore… il nostro amore…… come eravamo giovani… e belli!
E' vero, anch'io ho dato il mio contributo a questa Italia letteraria, cominciando proprio da quell'Italia là! Cominciando dal nulla, dal vuoto; a combattere l'analfabetismo di una terra disastrata, che tanti bravi poeti avrebbe generato di lì a poco. Io. Una donna! Come è semplice pronunciare "una donna"; che poi è il titolo del mio libro, è stata per tutta la mia lunga vita la mia carta d'identità; una novità assoluta e inaspettata per il tempo, una donna che scrive, e che si afferma in mezzo a tanti uomini, o meglio, a so
li uomini.
Quanti complimenti! Alfredo Panzini, la cara Ada Negri, il buon Arturo Graf! E poi Ugo Ojetti! E il burbero Giovanni Papini; e Massimo Bontempelli! Quanti, quanti amici!
E Giovanni Cena, il maestro. Quanto male gli ho fatt
o, a Cena. Ma la mia inquietudine d'amore mi chiudeva gli occhi… e mi spingeva sempre tra le braccia di altri… quanti amori! Quanti grandi, indimenticabili amori miei! Cardarelli, mi scriveva pieno d'ardore: "Io vi amo! quando mi voleva amante!… Io ti amo, come… come.. … poi si confessò ché mi voleva come sorella!
E poi… come posso scordare il "furore" del ragazzo Joe; scacciò come "chiodo scaccia chiodo" la mia violenta passione per Papini; l'ho amato come nessun altro mai, il tempo di una notte stellata! Il fuoco mi ha bruciata e consumata tutta. Aveva 19 anni e i più vividi occhi verderame ch'io abbia mai vedutoIo ne avevo trentasei, di anni, ed ero bella, nella pienezza della mia bellezza fisica, e il desiderio di sesso mi scoppiava nelle vene… il mio corpo era perennemente un fremito d'amore…
Sono stanca… anche di ricordare… perché sonno, non vieni, lungo… e silenzioso… perché non vieni a rapirmi…
Boccioni, il caro Umberto Boccioni! che trovai a perdetti in un giro di sole… io nascevo di mezz'agosto, e lui, povero caro, a mezz'agosto moriva… cadendo banalmente da un cavallo imbizzarritosi al passaggio di un carro militare, mentre faceva una esercitazione… vittima immolata alla guerra. Aveva trentaquattro anni, e tanto amore ancora da offrire…
Resta Umberto, il mio amore di un giorno, nelle sue tele piene di sole e di vita…
E come scordare il poeta per eccellenza, il vate Gabriele… ricordo amaro, invero… forse il solo ricordo veramente amaro per un amplesso mai avvenuto; che roccia sul mio petto, questo lo ricordo! atroce…
E gli altri, ecco, mi scorrono davanti agli occhi socchiusi, uno dietro l'altro, in una passerella che fino alla fine non potrò mai dimenticare: Rebora, Boine, e Cascella, che bel ritratto mi fece in quel tempo fe
lice… Ho amato tutti, e tutti mi hanno amato…
Dino! Dino Campana. Con le sue follie, i suoi scatti d'ira, le sue pazzie, ma anche il suo amore sfrenato… quanto amore gli ho dato! Quanto! La passione e il fuoco ci facevano più giovani di quel che eravamo.

Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,
liberi singhiozzando, senza mai vederci,
né mai saperci, con notturni o
cchi.

La sua vicinanza, il suo viso sofferente, gli occhi profondi, i capelli rossi, i dolci versi che rincorreva follemente non raggiungendoli mai… Quei versi mi struggevano… mi struggevano d'amore! E per amore poi l'ho dovuto fuggire, per non impazzire con lui, per non morire d'amore con lui… ero giovane, e volevo vivere, se fossi rimasta vicina a lui ci saremmo uccisi a vicenda. Io volevo vivere… quanto male mi ha fatto! E quanto male gli ho fatto! Anch'io ho le mie colpe…
Se potessi tornare indiet
ro…
E Quasimodo, ed Enrico Emanuelli... e Franco … Franco Matacotta, con la sua spensierata giovinezza… vicina ai miei sessant'anniFranco l'ho tenuto sul mio seno per dieci lunghissimi anni, come una mamma, prima che volasse lontano da me, che lo tenevo in una gabbia d'oro…
Sono stanca.. tanto stanca…
Vieni sonno… por
tami via…

marcello de santis

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Giovanni Boine

29 Settembre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #personaggi da conoscere, #poesia

Giovanni Boine



Giovanni BOINE
(1887-19
17)



Questi ulivi arrampicati al monte, che il vento affatica soffiando dal mare, mi somigliano molto.
Io sono forte, come questi ulivi della mia terra. Ma qualcosa si è rotto dentro, lo so. Non ho scampo. La vita breve che ho vissuto m'è costata cara; e la sto pagando con la sola cosa che ho: la giovinezza.
Non si direbbe a vedermi, vero? Forte, alto, - mi dicono - e con gli occhi dolci, e duri allo stesso tempo. I miei occhi dolci!Mi permettono di esistere ancora, i miei occhi!
Per me, adesso, vivere vuol dire guardare il mio bel mare di Liguria; dall'alto di questa collina; e bagnarmi il viso col vento che spira dalle sua acque chiare. Dolce brezza che mi tiene sveglio e vivente… ancora…
Morire a trent'anni!
Perché?
Che male ho fatto?
O esiste un disegno più grande di noi, cui dobbiamo la fede…o esiste il nulla... il nulla… e nulla più… Morire… e non ho che trent'anni…

La mia fede la getto alle ortiche, come suol dirsi… ma voglio… voglio gridare gridare gridare… gridare ancora, fino a che mi è concesso di farlo… gridare senza stancarmi al cielo infinito… anche se so che è inutile…
Morirò, lo so, e lo sento più forte nelle mie notti insonni… notti di pensieri, a volte di lacrime… quasi sempre notti permeate da un incubo ricorrente: la mia piccola morte.
Di me, lascio poco, molto poco: "i frammenti", i "frantumi, che m'hanno accompagnato passo passo, in questi brevi anni, per le colline della mia terra, che dal mare s'arrampica al cielo.
"Torbido nell'agonia, è il mio corpo, enorme…", scrivevo. E ancora: "… quando ti stringo la mano e tu ripigli sicuro il discorso di ieri, non so qual riverbero giallo di ambigua impostura colori di dentro l'atto di me che t'ascolto. Fingo d'essere con te e non ho cuore a dirti d'un tratto: "Non so chi tu sia !". Amico, in verità, non so chi tu sia. E come tu vuoi ch'io rinsaldi l'oggi all'ieri labbra d'abisso, ferita divaricata dell'infinito?
Sentivo già la fine?
Tento spesso di non pensarci, ma la cosa mi torna martellante.

"… giungono a volte le lente sere della malinconia,
che vado zitto per l'ombre, e tutto è scord
ato…".

Sono attimi di tregua mentale, ché, tosto, ritorna il pensiero della morte…

E per "Plausi e botte", non me ne vogliano quelli delle "botte", quelli che sono stati da me bastonati; ho cercato di colloquiare con loro, perché seguendo i miei consigli, diventassero scrittori veri, poeti veri. Gli altri, quelli dei "plausi", abbiano nella vita, la fortuna che … io non ho.
Per me, vedo solo il buio, davanti.
Le altre modeste opere da "Il peccato" a "la ferita non chiusa" siano solo per un mio ricordo, agli amici.

Scrissi un giorno: "… quando la sera mi corico, è così placida l'ombra e così buono il sonno! Ma ora, com'è ora? Com'è ora? Ne buio un gemito gonfia, con freddi e brividi; non so com'è: nel nulla nero, un gemito!" Lo scrissi un giorno - sembra tanto lontano - ma è oggi, o è già domani, è il destino, che mi precede e mi segue. Come vorrei tornare bambino, quando - ricordo - mi lasciavo baciare dal sole, disteso per terra, lassù, sulle colline dov'era la casa del nonno! Le donne parlavano e correvano per casa, affaccendate, e fuori i fichi bianchi e neri seccavano al sole. Il mare, di sotto, in lontananza, emetteva il richiamo d'amore che m'addolciva il cuore.
Come vorrei tornare bambino… quando ancora la sorte segnata non m'era conosciuta, e godevo la gioia di vivere… e sognare… Oggi non più.
E tu, caro Mario Novaro, ricordati quanto t'ho chiesto e tu m'hai promesso. Lascia per istante la tua "Riviera Ligure". La Riviera Ligure! Che bella rivista letteraria abbiamo fatto e cresciuta, come una figlia comune, io e te, insieme! Io, te e i cento poeti e i cento scrittori e i cento amici! Lasciala dunque per un attimo, e aiutami! Aiutami! E ricorda soprattutto quell'angolo di cimitero che t'ho indicato - dove voglio posare. Stammi vicino e sorridimi.
Ancora per un poco…

marcello de santis

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Dino Campana

27 Settembre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #personaggi da conoscere, #poesia

Dino Campana



Dino CAMPANA
(1885-1932)



Sono già dieci anni che sono qui, dieci anni che la guerra è finita; dieci anni che anch'io ho perduto la mia guerra. Oggi mi è concesso solamente di guardare laggiù all'orizzonte, dove il sole che scende mi riporta alla mente - non più sana, dicono - la mia vita randagia.
I miei "Canti Orfici…", dolce ricordo della "mia letteratura". Era il mio passaporto per la vita

Sento forte, ora, la nostalgia dei miei versi vestititi di musica europea!

E Binazzi! Bino Binazzi che mi ha riempito il libro di errori, nella sua nuova edizione. Era meglio forse, tenerli per me, i miei versi…non li avessi mai pubblicati!
E mio padre, il mio povero papà maestro di scuola che ha raccolto i soldi tra i colleghi di lavoro tra gli amici e i conoscenti, per farmi contento! Per fare stampare i miei versi. i miei versi incompresi… Nessuno li ca
piva.
Ma come possono capirli! Se sono matto! Quante volte nel mio gironzolare per il mondo, sono stato fermato dagli sbirri; quante volte sono stato preso con la forza, trasportato di peso, riportato a casa, ricoverato! Eh, sì… sono matto! Dicono che sono matto.

Certo, talvolta ho ecceduto, è vero, nei miei comportamenti; lo riconosco. Ma pure gli altri, però!
Mi scansano, mi ridono dietro, mi sberleffano, mi additano come uno spostato… mi fanno i versi…
Sono dispiaciuto. Ma non di morire.
Chiederei scusa - se potessi - a tutti quelli "male capitati" tra le mie mani, quando mi trovavo nei tristi momen
ti di follia.
E i litigi!
I litigi con la mia cara adoprata Sibilla, e gli insulti. Come me ne dispiaccio! … E le percosse… e le follie… più folli!
Ma anche, e sopra ogni cosa, l'amore! Io ti scopersi e ti chiamai Sibilla! Come ti ho amato, cara Sibill
a!! Come ti amo, cara Sibilla!

Mi sono messo in viaggio questa mattina con un tempo magnifico e per tutta la mattina ho pensato a te come per raccoglierti intorno gli ultimi splendori della bella stagione nei prati umidi,
… un verde intenso di velluto.
Non ti dirò le sciocchezze che servivano di pretesto al mio amore,sono di quelle che non mi vuoi perdonare. Cantavo.Figurati che avevo per ritornello “io ti scopersi e ti chiamai Sibilla”… Volevo anzi telegrafartelo senz’altro questo ritornello, come una protesta brutale della sanità vitale del nostro amore, unica ambigua e chiara risposta alle tue possibili ansie.
Mi avvicino al mio fatale paese. Addio amore, ritroverò forza tra le braccia della
mia Sibilla. ..io ti amo. Tuo Dino

Dove sei? Mi pensi ancora? Potrò mai rivederti, riaverti tra le mie braccia… magari lassù, nella nostra casetta… Come vorrei cara Sibilla, non essere mai esistito! (Dove sei, ora? Mi ami ancora? Ami ancora il tuo Dino Dino Dino…).

Soltanto le mani sono ancora dolci. Stanotte, ti daranno il sonno? Nel tuo paese.
E poi addormentarmi — e svegliarmi il mattino di Natale, bimba.
… oh Dino, Dino, che cosa si scioglie nel cuore di Rina?
Silenzio, tienmi le mani.
Nessuno m’ha detto mai, da bimba, una favola bella.
Guardavo le stelle, come te.
Stanotte non ci saranno.
Ci saremo noi, favole, stelle, cose lontane, irraggiungibili.
Nessuno mai più ci coglierà, anche se crederà vederci, sentirci.
Stelle.
Tienmi le mani, prendine tutta la dolcezza, toglimi tutto, sono tanto felice di morire, ma tu ma tu…
Tremo, mi guardo
intorno, non vieni ancora, l’acqua scorreva…

Se esistere voleva dire soffrire e farti soffrire!
Io ti amavo, io ti amo!
E sono qui, in questo ricovero per matti, che gli altri, quelli "per bene" chiamano impropriamente casa di cura; ipocriti che sono!
Questo dove m'hanno rinchiuso è un manicomio; questa è la parola giusta; eh, sì, se sono matto!
Lontano da te da tutto e da tutti, lontano da tutto ciò che amavo.
La nostra casetta, ricordi?
i nostri amplessi, ricordi?
Il nostro breve intenso amore carnale…
… è finita questa specie d'amore, ma io … io ti amo! Io ti amo!

Sul più illustre paesaggio
Ha passeggiato il ricordo
Col vostro passo di pantera
Sul più illustre paesaggio
Il vostro passo di velluto
E il vostro sguardo di vergine violata
Il vostro passo silenzioso come il ricordo
Affacciata al parapetto
Sull’acqua corren
te I vostri occhi forti di luci.

Ho quarantatrè anni. E la mia vita è finita, da dieci anni è finita, definitivamente finita.
Vegeto. E attendo la notte che venga amica ad inghiottirmi nella sua follia. Cerco la notte… disperatamente.

Ecco la notte: ed ecco vigilarmi
E luci e luci: ed io lontano e solo:
Quiete è la messe, verso l'infinito
(Quieto è lo spirto) vanno muti carmi
A la notte: a la notte: intendo: Solo
Ombra che tor
na, ch'era dipartito.

Cerco il sonno… disperatamente. Il sonno… che duri, eterno, a sciogliermi nel sogno dei miei lunghi viaggi per le terre, dove soli amici erano a me il bastimento, e la pampa... e i silenzi degli spiriti, e il russo e Olimpia e le torricelle rosse altissime, e Marradi paese maledetto che m'ha dato una vita amara, che vide nascere all'infelicità un poeta nuovo, un poeta incompreso! Paese cattivo, dove i ragazzi mi deridevano e mi schernivano; dove solo rimedio alla solitudine erano per me le andate per i monti, le fughe, e i ritorni… e i miei versi tormentati…

Oro, farfalla dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un tramonto di torricelle rosse perché pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù?
Dei fiori bianchi e rossi sul muro sono fioriti.
Perché si rivela un viso, c’è come un peso sconosciuto sull’acqua corrente la cicala che canta.
Se esiste la capanna di Cèzanne pensai quando sui prati verdi tra i tronchi d’alberi una baccante rossa mi chiese un fiore quando a Berna guerriera munita di statue di legno sul ponte che passa l’Aar una signora si innamorò dei miei occhi di fauno e a Berna colando l’acqua, lucente come un secondo cadavere, il bello straniero non poté più sostare?
Fanfara inclinata, rabesco allo spazio dei prati, Berna.
Come la quercia all’ombra i suoi ciuffi per conche verdi l’acqua colando dei fiori bianchi e rossi sul muro sono spuntati come tra i fiori del cardo i vostri occhi blu fiordaliso in un tramonto di torricelle rosse perché io pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la
prima volta che la vidi nella prima gioventù.

Non mi hanno compreso. Nessuno mi ha capito. "… io facevo un poco di arte…" Poi ho dovuto smettere perché la testa non mi sorreggeva più. Io facevo un poco di arte, ma non la capivano, i signori di Firenze, i signori delle lettere, essi che erano "il putridume della poesia". Giudicavano "nulla" la mia poesia, ma era perché non la capivano, né si sforzavano di capirla…"… la mia poesia nuova europea musicale…"
Se potessi, tornerei tra i tavoli notturni delle Giubbe Rosse, a vendere ancora le copie dei miei Canti orfici. Lo farei ancora. E a Marinetti, a Papini, a Soffici, tornerei a dare - gratis - la sola copertina e uno - al più due fogli - le sole cose che fossero in grado di capire…

marcello de santis

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