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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

ida verrei

Ida Verrei: "Un fantasy atipico"

24 Gennaio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #poli patrizia, #recensioni

Ida Verrei:  "Un fantasy atipico"

Bianca come la neve

di Patrizia Poli

Ilmiolibro.it

pp 74

12,00

Prefazione

di Ida Verrei

Patrizia Poli è una scrittrice versatile: passa con facilità da romanzi d’argomento mitologico, come “Signora dei Filtri”, a opere complesse e corali, come “Il Respiro del Fiume”, a racconti fantastici, pregni di metafore esistenziali, come in quest’ultimo libro che contiene due delle sue più belle e suggestive narrazioni.

Da sempre il racconto fantastico è depositario di archetipi dell’immaginario, ed è quindi la narrazione che più d’ogni altra si presta a diversi livelli di lettura, proprio attraverso il ricorso ad elementi simbolici e allegorici.

È quello che si ravvisa in entrambi i racconti di Patrizia Poli.

Il primo, “Bianca come la neve”, potrebbe sembrare, ad una lettura superficiale, semplice rivisitazione di fiabe già note (Biancaneve e i sette nani, Rosaspina dei fratelli Grimm; I cigni selvatici di Andersen). In realtà ne è la rielaborazione originalissima dei simboli più nascosti, delle metafore occulte, tradotte in immagini forti e poetiche, con ambientazioni sospese nel tempo e nello spazio, dove la condizione esistenziale del personaggio è rivista in chiave psicoanalitica.

La narrazione, così, assume il significato del “perturbante” freudiano, diviene rivelazione del “rimosso” e proiezione di paure, ansie, incubi, ma anche risoluzione dell’eterno conflitto bene- male.

Patrizia Poli si accosta al fantastico e al surreale partendo dalla suggestione del romanzo gotico moderno, in specie quello di Anne Rice. Ne attinge esperienze ed immagini, trasferendole, attraverso un linguaggio e strategie personalissimi, in figure, soprattutto femminili, dal fascino sconvolgente e misterioso.

I suoi personaggi trasgrediscono regole e valori, compiono incesti, uccidono, negano ogni senso della vita, ma lo fanno conservando una sorta di innocenza e, nell’attraversamento della parte più oscura di sé, raggiungono il riscatto, ritrovano l’umano:

l’acqua chiara è ciò che crediamo di essere, ciò che vorremmo gli altri vedessero di noi. La melma è il nostro nucleo oscuro. Ma, toccando il fondo, poi sono risalita. Dovrei disperare ma, in un modo o nell’altro, sono viva” (pag 37)

Il secondo racconto, “Il volo del serpedrago”, ancor più del primo è un susseguirsi di allegorie e simbolismi, dove il magico, il fantastico, sin dalle prime scene, avvolge i protagonisti e li inonda di una luce di mistero arcano, mentre sospinge a cercare il percorso che condurrà al finale catartico.

Nello scenario esotico di un deserto immaginario, si snoda una storia di ricerca esoterica di verità celate, di scoperte di identità perdute. Personaggi inquietanti assumono, di volta in volta, sembianze di eroi e antieroi, del bene e del male, in una visione tra l’onirico e l’immaginario.

Ritroviamo qui tracce del vasto cosmo di Paradise Lost: il serpedrago, sorta di Satana asservito allo Spirito del Deserto, dio crudele e vendicativo, riesce ad apparire in una luce eroica e, in un capovolgimento della tradizione biblica, a trasformarsi, attraverso il sacrificio, nell’angelo salvifico che riconduce all’Eden perduto.

il serpedrago stende le ali… non ha mai provato a volare, non ha mai pensato di poterlo fare… Destinato a servire, a tentare, e poi a scegliere…” (pag 66)

Io, il braccio più servile dello Spirito del Deserto” (pag 69) “Volo libero, io che ho tradito e mi sono affrancato…” (pag 70)

Ancora una volta scopriamo la predilezione dell’autrice per le metafore e le simbologie: il drago non è solo l’animale leggendario per antonomasia, nelle teorie psicoanalitiche rappresenta le forze oscure, l’istintività incontrollata, l’inconscio, la forza castrante da combattere e vincere per raggiungere una maturità cosciente, ma possiede anche un senso maggiormente legato alla potenza protettiva della natura, alla sua forza creativa. E che il mitico animale sia rappresentato in un connubio con il serpente, ne rafforza il valore simbolico della coesistenza di bene e male, di caduta e redenzione, fino al raggiungimento della luce.

Atipici fantasy, quelli di Patrizia Poli, sia per l’ambientazione che per la presenza di elementi di solito estranei al genere. Al centro della narrazione non vi è il magico o l’orrido, ma, piuttosto, la metamorfosi, il cambiamento, la mutazione, che è incubo, ma si risolve, poi, in ritorno allo stato più puro dell’innocenza.

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Ida Verrei, "Le primavere di Vesna"

23 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #ida verrei, #recensioni

Ida Verrei, "Le primavere di Vesna"

Le primavere di Vesna

di Ida Verrei

Fabio Croce editore

"Vieni qui Vesna, profumata di monti, vieni e stringimi, regalami il futuro, regaliamoci il futuro, amore mio."

C’è chi scrive per andare via e chi scrive per tornare. Ida Verrei scrive per tornare, per un risarcimento tardivo, per farsi cullare “dalla sicurezza di una bugia”.

Quando, mentre leggi, ti salgono le lacrime agli occhi più e più volte, sai che hai fra le mani un libro buono, un libro giusto, dove tutto è al suo posto, dalla memoria storica, alla ricostruzione d’ambiente – accurata ma mai pesante – alle scene montate con sapienza e maestria narrativa, ai dialoghi senza una sbavatura – colloquiali e letterari insieme – all’uso dei dialetti, alla psicologia dei personaggi, alla poesia, quasi mistica, del paesaggio, al linguaggio elegante e dal sapore antico.

Si vedono le vette scintillanti di neve, i lunghi sci di legno, i giovani montanari con i pantaloni alla zuava, si sente l’odore del terriccio sloveno attaccato ai gambi dei funghi, in questa zona di confine, selvaggia e mitteleuropea allo stesso tempo. Nell’aria frizzante, fra i barbagli del nevaio, Liana si affaccia alla vita con la sua sfrenata voglia di godere e la capacità di auto proteggersi comunque, di dimenticare ciò che la fa soffrire, lasciandolo indietro.

Non è “una rinunciataria”, come lei stessa afferma con forza, con un sussulto di dignità, ma una donna che, semplicemente, sa scansarsi un poco più in là, quando la vita minaccia di travolgerla. Sa tenere per sé le proprie convinzioni, sospendere i giudizi, purché la si lasci libera di seguire la sua natura che è sanguigna, semplice, amorevole.

Così non sarà la guerra a farle più male - la guerra che ti schiaccia ma che può anche far emergere risorse inaspettate e stimoli – non sono i monti aspri della Slovenia a soffocarla, bensì la luce vivida e troppo calda di Napoli, l’odore dei limoni strappati con le unghie per ritrovare una parvenza di umanità in mezzo alla famiglia del marito, che è un clan che avvolge e snatura, che impone regole, che indulge e protegge la vigliaccheria, che imbriglia l’amore e lo trasforma in disprezzo.

Fugge, Liana, si riprende quello che le rimane della sua umanità, fa riemergere, tramite il rozzo Manuel, l’istinto animale che era già esploso con Michele, che era stato sublimato dall’amore profondo per Giovanni. Pur in un’esistenza abietta, infelice, Liana riscopre la sua forza, la corrente che la tiene legata alla realtà. Sarà con un ultimo scatto di orgoglio, con un indennizzo tardivo e segreto che ella parteciperà, nascosta, al matrimonio della figlia, riprendendosi ciò che le spetta di diritto.

Perché Vesna, la primavera, ritorna sempre.

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Bambino-arcobaleno (ricordi) - di Ida Verrei

19 Gennaio 2013 , Scritto da ida verrei Con tag #ida verrei, #educazione

 

 

Nveid è seduto tra i banchi dell’istituto; incolla su un foglio piccoli pezzi gialli e azzurri di carta lucida. A guardare, diresti che è un cilindro capovolto da cui escono fiori, cuori, stelle e un volto arricciato in un sorriso strano.

Ma Nveid non sorride, ha un’espressione assente, lontana, di un vecchio che abbia vissuto cent’anni, che perde la sua storia passata ma cerca nella memoria una traccia che lo possa ricondurre alla sua realtà emotiva, che pure è incisa nella mente, nel corpo.

Ed è proprio col corpo che Nveid comunica il suo vissuto e racconta la sua storia, che è poi la storia di tanti bambini “che si perdono nel bosco”.

Ha otto anni, è magro, spalle gracili che s’indovinano attraverso il maglioncino rosso; il viso appuntito e la bocca sottile che, per le finestrelle dei dentini mancanti, accentua l’impressione di un  volto senza età, attenuata solo dal ciuffo di capelli nerissimi, lisci, un po’ dritti sulla testa: ha l’aria buffa di un pagliaccio triste. Gli occhi cerchiati di scuro si perdono nel vuoto; talvolta, ansiosi e mobili, cercano, chiedono, aspettano.

Nveid è un bambino rom. È arrivato in un gelido mattino di febbraio, accompagnato dai servizi sociali. Lo hanno trovato all’estrema periferia della città, non lontano da un campo nomadi mentre si aggirava, solo, tra cumuli di rifiuti che rovistava con un bastone. Aveva lividi, graffi e morsi d’animale sul corpo.

Nveid ha terminato il compito; lo osserva dubbioso, poi me lo mostra, solleva lo sguardo alla ricerca dell’approvazione.

La rassicurazione dipende per lui dall’apprezzamento delle persone che gli sono vicine: insegnanti, compagni, personale dell’Istituto: ogni successo gli dimostra che le sue possibilità costruttive hanno la prevalenza su quelle distruttive. Ed è per questo che mette la massima concentrazione in ogni impegno gli venga richiesto: il “compito” rappresenta un elemento di legame con gli altri ed esprime il desiderio di “donare” qualcosa di gradito; anche le sue modalità di rapporto con i coetanei sono connotate dal desiderio di “dare”. Spesso distribuisce la sua merenda, i pastelli, le matite, le sue piccole cianfrusaglie; forse per “sedurre” e conquistare l’amicizia, la simpatia, o forse per negare la propria aggressività che si rivela, a tratti, in situazioni ludiche, attraverso fantasie di onnipotenza e di forza fisica.

Ora Nveid è in cortile. Non piove più; c’è un vento leggero; l’aria è pungente, ma limpida e serena.

Non corre con gli altri; mi si accuccia accanto, alza il capo verso l’alto, indica qualcosa con una mano. Guardo: c’è l’arcobaleno.

«Le nuvole camminano», dice. E non so se è un’affermazione o una domanda.

«Le spinge il vento», spiego, poi: «non te n’eri mai accorto?» chiedo.

«No, non avevo mai guardato il cielo».

D’improvviso, un aereo rompe la quiete, sfreccia attraverso l’azzurro. Nveid s’alza di scatto, allarga le braccia, prende a correre per il cortile.

 Corre e corre e corre:

«Voglio volare, voglio volare!» grida. Poi si arrampica sul muretto e salta, salta come se volesse slanciarsi verso l’alto.

 

Nveid non c’è più, un destino ignoto lo ha condotto sotto un altro cielo. E non c’è più neanche l’Istituto.

 Ma io lo vedo ancora, lo riconosco in ogni lavavetri, in ogni accattoncello all’angolo delle chiese, in ogni piccola mano bruna che si tende. E non voglio pensare ad un’emotività lacerata, voglio ricordarlo come bambino azzurro e giallo, bambino-arcobaleno, bambino che voleva volare e guardava il cielo sognando nuvole di zucchero filato.

Ida Verrei

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di Ida Verrei: Un viaggio allucinato nell'impossibile

15 Gennaio 2013 , Scritto da ida verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

di Ida Verrei: Un viaggio allucinato nell'impossibile

Fiori Ciechi

Maria Antonietta Pinna

Annulli Editori, 2012

pp.137

9,00

di Ida Verrei

Due racconti lunghi, un viaggio allucinato nell’impossibile, “Fiori Ciechi” di M. A. Pinna, è una singolare avventura letteraria.

Il primo racconto, che dà il titolo al libro, non è un romanzo, pur se ne possiede la struttura e ne conserva alcuni elementi; non è una fiaba, non si conclude con “…e vissero felici e contenti…” Ma della fiaba ha la suggestione e il mistero: immaginario e reale si fondono come nella dimensione onirica e possiedono lo stesso valore; niente appare arbitrario, ma necessario e fatale; tutto esiste, perché la trasfigurazione fantastica, legata al paradosso, rende verosimile l’illogico.

In un tempo non-tempo, in uno spazio non-spazio, parallelo e avvinto alla realtà, si consuma un dramma-rappresentazione, proiezione fantasmatica del mondo contemporaneo.

Nonno Petalo, racconta”.(pag.11)

“… Sì. Dimmi dei garofani bianchi, come sono nati?”

Tanto tempo fa, agli albori della nostra civiltà, esistevano soltanto garofani rossi (o almeno così sembra), e i fiori-Dei circolavano liberamente per le strade di Florandia…” (pag. 13)

Inizia così questo inconsueto viaggio nel surreale, tutto sembra lieve, delicato, un mondo fatto di petali colorati, delle lacrime di Skotos (la notte) che danno origine a garofani neri, e di quelle di Rais (il sole) che generano garofani gialli; un mondo senza padroni, “dove ci si accontenta di poco. Del vento, del sole, di poca terra, di un flebile raggio di luna…” Ma Florandia non è questo universo idilliaco, è una Repubblica di fiori ciechi, aridi, incapaci di vedere il lato poetico della vita… perché per loro la vita è la canzone stonata di un solista… (pag. 25)

Man mano che si procede nella vicenda, ci s’imbatte in inquietanti analogie con la società attuale: lotte per il potere, il prevalere d’interessi individuali, della forza e della sopraffazione. Ma a leggere con attenzione, non sono questi i temi principali del racconto. Guerra, prepotenza, odio razziale, elaborati dalla fantasia dell’autrice, calati in un fantastico paradossale, rimandano ad angosce esistenziali che da sempre tormentano l’uomo: la ricerca dell’identità; la conservazione della memoria, perché

chi è senza memoria non ha futuro. E un oggetto in sé non è niente…”(pag.72)

il terrore del tempo che passa:

“… qui si cattura l’ombra, così si elude in qualche modo la sorveglianza che il tempo esercita su di noi… L’immagine è nostra, non invecchierà mai… Si esorcizza la morte…” (pag.71)

la ricerca dell’Idea, che non è soltanto riconducibile allo struggimento dello scrittore che scava dentro e fuori di sé, ma è soprattutto ricerca del senso della vita, bisogno di indagare il destino, il suo acre sapore escatologico… E l’espediente narrativo a cui ricorre l’autrice, è l’irrompere di un improvviso io narrante, Tibbs e Tibbs, l’artista e la sua ombra, un “doppio” inconsueto, dove la dualità non riguarda la distinzione tra bene e male, ma tra possibile e impossibile, un mezzo per abbattere i limiti della corporeità.

Inizia così un viaggio allucinato del protagonista all’interno del proprio cervello, un percorso nell’assurdo per raggiungere il luogo della creatività, alla scoperta di quell’Idea che non muore perché non si può ammazzare un’idea, sia essa buona o cattiva… L’idea ride… sul cadavere di chi avrebbe voluto ammazzarla… va… e si perde nel mondo. (pag.99)

Anche nel secondo racconto, Probobacter, forse meno fantasioso del primo, ma altrettanto al di fuori di ogni logica convenzionale, ci addentriamo in un mondo delirante: immagine amplificata di ciò che l’ottusità dell’uomo può causare. Anche qui due piani di narrazione: il mondo soffocato dai rifiuti urbani, in un parossismo di allucinazioni iperboliche, e la ricerca scientifica per la soluzione del problema, sperimentazione esasperata che condurrà alla distruzione dell’uomo stesso, con la creazione di un batterio killer che finirà col divorare uomo e rifiuti.

Visioni d’incubo, il sogno, la malattia, e ancora un “doppio”, ma questa volta è il riflesso nello specchio e il suo significato allusivo:

“…mi guardo e vedo un tizio che non conosco, un corpo estraneo…” “Chi sei?” “Io sono tu, e tu?” “Anch’io…” (pag.133)

Anche qui, al messaggio palese del tema ecologico, si affianca quello più profondo dell’angoscia di morte; del silenzio; dell’incomunicabilità, la paura di perdere “occhi e bocca”, “…un silenzio affilato di lama che uccide senza rumore”. (132)

In entrambi i racconti, Maria Antonietta Pinna è molto abile nella tecnica dello straniamento:

“Pistillo, fiore cieco e arido si è comprato uno Stradivari senza neanche saperlo suonare; (pag.76) oppure: l’Idea, sì, l’ha vista, è passata di qua. Le è sembrata… come dire… Un po’ incinta; (pag.75) o ancora: Questa povera mosca moribonda… Probabilmente pensa che siamo repellenti. In una parola le facciamo schifo… “ (pag.134)

L’autrice gioca con la fantasia, con le parole, con le immagini; sovrappone i livelli semantici; contrappone primi piani e punti di vista; usa dialoghi a più voci. Il tutto dà origine a un insieme singolare, insolito, che confonde il lettore, lo costringe a leggere e a rileggere, a fermarsi e a riflettere, a decifrare messaggi e simbolismi e, attraverso uno stile veloce, immediato, ma armonioso e musicale, restituisce il gusto della lettura.

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Uno sporco lavoro

11 Gennaio 2013 , Scritto da Franca Poli Con tag #Laboratorio di Narrativa, #franca poli, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto

La protagonista di “Uno sporco lavoro” di Franca Poli, è una poliziotta come se ne vedono tante nei telefilm americani: è tosta, è scabra, è maschia nei modi di fare. Però è italiana e si ritrova alle prese con la triste, purtroppo ben nota, realtà degli sbarchi clandestini a Lampedusa. Si chiama Rachele e questo la dice lunga sull’ambiente in cui, probabilmente, è cresciuta, sulla sua ideologia di fondo. Compie il proprio dovere considerandolo dall’ottica del pre-giudizio, inteso come giudizio antecedente, a priori. Il lavoro che è costretta a fare non le va, subisce l’immigrazione, vive a disagio il contatto con il diverso, con l’altro da sé, sente insofferenza per la divisa che la infagotta, non sopporta i continui e improvvisi cambiamenti di programma, i colleghi maschi che ironizzano sulla parità pretesa dalle donne. E sfoga il proprio malumore con un “linguaggio da caserma”: “È un lavoro del cazzo…”, quasi si rammarica di aver vinto il concorso.La spediscono a Lampedusa, ad accogliere la massa di disperati che lei non accetta. È imbevuta di pregiudizi, Rachele, di rabbia e intolleranza verso i “diversi” che arrivano a gonfiare le fila della malavita organizzata e che considera dei “rompicoglioni”. Ma quando si trova a dover soccorrere un gruppo di clandestini, “stremati, le guance incavate, gli occhi fuori dalle orbite, per la prima volta non brontola nel fare il proprio lavoro, e quando, poi, il caso la conduce ad affrontare l’emergenza di assistere una partoriente di colore, Rachele sente vacillare le proprie certezze, sente crollare difese e pregiudizi, e riscopre, attraverso le lacrime, la propria umanità negata. Sarà proprio a causa della prossimità con ciò che non conosce e non le piace, che capirà quanto il fenomeno immigrazione sia impossibile da contenere in un solo sguardo e in un solo parere. Il mondo con cui viene a contatto forzato è fatto, sì, di uomini dalla mentalità maschilista, arretrata - non molto diversa, tuttavia, da quella dei suoi stessi colleghi - ma comprende anche donne dall’aspetto elegante, dagli occhi tristi, dal coraggio animalesco, istintivo.La donna nera partorisce una creatura indifesa, piccola, che ci sfida con l’audace caparbietà del suo stesso venire al mondo in mezzo a chi la rifiuta, addirittura dalle mani di chi la rifiuta. La mamma le imporrà il nome Rachele, legandola a chi l’hai aiutata a nascere, compiendo a ritroso un percorso inconsapevole che lega la nuova bimba a vecchi echi, fatti di guerre d’Africa, di regine nere, di veneri abissine. La madre stessa, da oggetto di derisione, assurgerà al ruolo di prima Madre, di Madonna col Bambino. È un racconto ben strutturato e dal contenuto attuale che rende perfettamente le diffuse resistenze all’accettazione di realtà che ancora provocano rifiuto e diffidenza. Ci sono la rabbia, l’ansia, la paura, il sospetto che spesso dilagano di fronte al “diverso” sconosciuto, ma c’è anche la pietas, l’insopprimibile impulso al “dono di sé”, che va oltre il pregiudizio, oltre ogni irrazionale chiusura di mente e cuore. La storia è compiuta nel suo insieme, procede da un punto all’altro, da un inizio a una conclusione, lasciando intendere che esiste un prima e ci sarà un dopo, uno sviluppo, una trasformazione. Lo stile è funzionale alla narrazione, con qualche immagine forte che colpisce, come la vagina che sembra “inghiottire il bambino” invece di espellerlo.

Patrizia Poli e Ida Verrei

Uno sporco lavoro

“È uno sporco lavoro. Porcaccia Eva io non ci vado laggiù. Senza nemmeno interpellarmi poi… Non ci vado. No!”Rachele si stava annodando la cravatta, era la cosa che più odiava della sua divisa. Si era già infilata i pantaloni e, come sempre, li aveva trovati larghi, deformi. La camicia era un po’stropicciata e con la giacca addosso, poi, si sentiva un sacco di patate.“È un lavoro del cazzo!” imprecava mentre stava uscendo dallo spogliatoio femminile del reparto di Polizia dove era stata distaccata. Da quando si era arruolata, aveva acquisito anche il comportamento e il linguaggio tipico “da caserma”, glielo rimproverava sempre sua madre.In mattinata aveva ricevuto l’ordine e sarebbe partita per Lampedusa. Sbarchi continui di immigrati imponevano rinforzi e, a turno, tutti i colleghi erano andati in missione per una quindicina di giorni. Ora toccava a lei.Renato, il suo compagno di pattuglia, la vide uscire come una furia e subito capì quanto fosse arrabbiata: “Avete voluto la parità? Eccovi accontentate!” Rachele non rispose, alzò semplicemente il dito medio e lo sentì allontanarsi mentre nel corridoio risuonava la sua risatina ironica.“Stronzo! È colpa di quelli come te se ogni giorno di più mi pento di aver vinto il concorso” pensò. Lei non si sentiva adatta a quell’incarico. Amava le indagini, era arguta e attenta a ogni particolare quando seguiva un caso, ma andare al centro di accoglienza per occuparsi di quelli che considerava dei “rompicoglioni” che dovevano restarsene a casa loro, lo riteneva insopportabile. Arrivata suo malgrado a destinazione l’umore non migliorò. Al contrario vedersi attorniata da nordafricani che le lanciavano occhiate lascive, la infastidiva. La mandavano in bestia i sorrisini e le battute in arabo a cui non poteva replicare. “State qui a gozzovigliare alle nostre spalle, col cellulare satellitare in mano, tute nuove, scarpe da tennis, magliette, cibo in abbondanza: ovviamente dieta rigorosamente musulmana, e pure la diaria giornaliera!” mentre si incaricava della distribuzione rimuginava e si rendeva conto senza vergognarsene che non era affatto umanitaria nello svolgimento del suo compito e non voleva assolutamente esserlo. Era sempre stata piuttosto convinta che non si potesse accogliere chiunque. La delinquenza in Italia era aumentata. I clandestini non erano prigionieri al centro, spesso alcuni se ne andavano e molti di loro finivano a rafforzare le fila della malavita organizzata. E, se era vero che non tutti i mussulmani erano terroristi, era pur vero che tutti i terroristi erano musulmani!“È un cazzo di sporco lavoro! Ma datemene l’occasione e vi faccio pentire di essere venuti fin qua.” Pensava mentre uno di loro le faceva l’occhiolino.Durante la notte segnalarono la presenza di un barcone in difficoltà al largo delle acque territoriali italiane e si doveva intervenire a portare soccorso. “Perché, dico io? Lasciateli affogare o che rientrino in Africa a nuoto…” Arrabbiata più che mai a causa di questa emergenza durante il suo turno di lavoro, salì sulla nave per obbedire agli ordini e, quando fu il momento, instancabile come sempre, aiutò chi ne aveva bisogno. Avevano soccorso un barcone con 80 clandestini per lo più somali fra cui anche alcune donne. Li avevano aiutati a salire a bordo, passavano loro coperte e acqua. Alcuni erano stremati, le guance incavate, avevano gli occhi fuori dalle orbite e, per la prima volta, Rachele non brontolò nel fare il proprio lavoro.Fu chiamata con urgenza dal medico di bordo. Una donna incinta stava partorendo e gli serviva l’aiuto di una donna.“Lo sapevo io… Solo questa ci mancava. Proprio ora hai deciso di mollare il tuo bastardo?” E imprecò, come sempre, contro i superiori e contro la scarsa volontà politica di risolvere questo annoso problema.Quando si trovò di fronte la donna con le doglie vide che era piuttosto bella. Alta, nera, ma con i lineamenti fini e delicati. Occhi grandi e scuri come la notte, sgranati per la paura e per il dolore , la fronte imperlata di sudore. Aveva gambe d’alabastro, lunghe e sinuose che si intravedevano da un caffetano di colore azzurro sgargiante aperto sul davanti, soffriva molto.Il medico si doveva occupare di alcuni feriti e le chiese di stare vicino alla donna, di controllare la distanza fra una doglia e l’altra e di chiamarlo se l’avesse vista spingere. “Calma Naomi!” le disse Rachele prendendola in giro per la sua leggera somiglianza con la bella indossatrice, “Non ti mettere a spingere proprio ora, capito?” le inumidiva le labbra con una pezzuola bagnata e quando la donna in preda a una doglia forte e persistente le strinse la mano, lei provò quasi un senso di ripulsa e voleva divincolarsi, ma la stretta era forte e allora strinse anche lei, mentre la donna emetteva un rantolo roco e continuo.A un certo punto la partoriente inarcò la schiena e cominciò a spingere. Era quasi seduta con le gambe allargate e si teneva alle sue spalle con tutta la forza.“Aiuto dottoreee! Presto venga, questa non aspetta più!!” chiamò Rachele cercando di attirare l’attenzione del medico.La donna urlava e spingeva e Rachele, guardando fra le cosce allargate, vide spuntare la testa del bambino. Compariva e scompariva a ogni respiro. Un ciuffetto di capelli neri, che spingeva e allargava quel sesso deforme, arrossato, quasi a sembrare una bocca affamata che lo stava ingoiando e non espellendo.“Dottore!! Presto...” la voce le morì in gola. Non c’era più tempo. Il bambino stava uscendo e allora Rachele prese la testina fra le mani e provò a tirare piano piano per agevolare lo sforzo della donna. Niente da fare, urlava la poveretta e parlava nella sua lingua chiedendo aiuto o chissà cosa altro. Allora si fece coraggio, infilò una mano dentro la donna, afferrò il bambino per le spalle e tirò con forza. Fu un attimo e tutto il corpo del piccolo, rosso e viscido di sangue scivolò fuori e la donna, stremata, si lasciò cadere all’indietro con un ultimo profondo sospiro. Rachele si ritrovò con quell’esserino fra le mani e lo guardò: era una bambina. Nera come la pece e con gli occhi sgranati e grandi come quelli della madre. La prese e gliela poggiò delicatamente sul petto.“Dottore!! Cazzo quando si decide a venire qua?” aveva ritrovato la voce e urlò con tutta la forza.Il medico arrivò, si occupò della madre e della figlia, mentre Rachele, rapita, continuava a fissare gli occhi di quelle due creature. Così grandi e vuoti, così imploranti e tristi. Per la prima volta non era arrabbiata con loro, con i diversi, era solidale. Una donna come loro sola e arrabbiata e si sentì percorrere da un brivido di tenerezza e commozione.“È un maledetto sporco lavoro” disse questa volta senza convinzione.Stavano caricando la donna su una barella, erano al porto e un’ambulanza col lampeggiante la stava aspettando per condurla all’ospedale. Rachele si sentì prendere per una mano. Era la giovane mamma che la guardava e le faceva cenno, indicandola con l’indice puntato e con una muta domanda negli occhi.“Non capisco… Cosa vuoi ancora?” le chiese infastidita e poi d’improvviso, un lampo d’intesa fra loro e capì. “Rachele… Mi chiamo Rachele “ rispose.Allora la donna che, fino ad allora, aveva solo urlato e pianto, sorrise illuminando la notte con i suoi denti bianchissimi. Sollevò la sua piccola bambina, puntandola verso di lei e stentando ripeté: “Rachele.”Fu allora che le lacrime sgorgarono finalmente anche sul suo viso, Rachele piangeva a dirotto e cercando invano di asciugarsi il viso bofonchiò:“È un cazzo di sporco lavoro.”

Franca Poli

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Alessandro Seveso, "Parole Infinite" recensione di Ida Verrei

10 Gennaio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

 “Parole infinite”

 di Alessandro Seveso

 

“Il tempo porta con sé tutti gli elementi della vita, può capitare che persone del passato tornino, prima o poi…”

La nostalgia è l’elemento dominante nell’opera di Alessandro Seveso, una nostalgia velata di malinconia, di mestizia, ma con la dolcezza di memorie dissepolte, che tornano lievi, in una sorta di mescolanza con l’onirico.

Due amiche, un viaggio in Norvegia, un’isola dal fascino misterioso, una casa accanto al mare, con l’anima benefica e protettiva; il ritrovamento, tra mobili impolverati, di fogli ingialliti dal tempo: lettere, inconsueta corrispondenza tra un vecchio e una giovane donna, uno zio e una nipote.

Inizia così un singolare romanzo epistolare, dove l’io e il tu si raccontano, una sorta di  diario a due voci, dove le distanze spazio-temporali sembrano non aver peso: due mondi lontani, che non si incontreranno mai, si incrociano e si rivelano.

È un intreccio di emozioni. Da un lato “lei” , la donna giovane e vitale che parla di un universo fatto di cromatismi, di suoni, di voci e volti, dove il Fado portoghese fa da colonna sonora e il tramonto variegato di Coimbra da scenografia; dall’altro “lui”, l’anziano uomo che vive nel freddo, tra le brume di Capo Nord, in una dimensione surreale, nel paesaggio di scogliera, dove prendono corpo i fantasmi del passato, ma anche simbologie che sono tensione verso la vita, “parole infinite” per “soddisfare una fantasia che vorrebbe andare oltre…”

Una miriade di personaggi accompagna la vita di Cristina, la nipote; un susseguirsi di eventi, di storie quotidiane, ma anche straordinarie; di sogni che si realizzano, di incontri che esaltano.

Più sfumato appare il mondo di Federico, lo zio: come appannato dalle nebbie dell’isola di Gørenleskine, un puntino quasi invisibile, dovei i giorni trascorrono lenti, segnati dalle maree, dal rumore delle conchiglie sul muro sospinte dal vento, dal volo dei gabbiani. E su tutto domina il Faro, metafora di luce salvifica, bagliore che illumina il cammino, ma che rischiara anche il passato, riporta i ricordi.

Alessandro Seveso costruisce, così, un insolito carteggio, dove la comunicazione è condivisione, ma anche scavo interiore, flusso di immagini, di parole, Ed è molto abile  nel coniugare il dialogo interpersonale con l’espediente letterario dell’epistola, dove la presenza dell’altro, continuamente evocata, libera il fluire del racconto dalla necessità di una voce narrante.   

Autore e lettore diventano insieme spettatori dei due mondi che si raccontano: le due vite separate si snodano in percorsi lontani, che pure appaiono legati da un motivo comune: l’attesa di un ricongiungimento che sia risoluzione del dualismo; di “quell’io e quel tu”, ricomposti in una dimensione atemporale. 

Sarà ancora una missiva, l’ultima, a riannodare quei frammenti di vita.

 L’autore, con vero talento narrativo, riesce a donarci nella conclusione del romanzo l’emozione di una scoperta, che è rivelazione, appunto, della coincidenza possibile tra realtà e fantasia: se narrare è comunicare, le parole infinite, nella finzione letteraria, possono misteriosamente creare l’illusione consolatoria di un dialogo senza fine,  superamento di ogni limite, lenitivo della solitudine interiore.

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