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ida verrei

Livorno Magazine intervista Il Laboratorio di Narrativa

18 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #ida verrei, #Laboratorio di Narrativa, #interviste

Livorno Magazine intervista Il Laboratorio di Narrativa

Vogliamo presentarvi un’esperienza - nata e cresciuta nella rete - che è per metà livornese: il Laboratorio di Narrativa. Le responsabili, Patrizia Poli di Livorno e Ida Verrei di Napoli, hanno accettato di rispondere alle nostre domande.

LM. Patrizia, innanzi tutto che cosa s’intende per esperienza virtuale?

P.P. Oggigiorno la rete offre possibilità sconosciute fino a pochi anni fa, tutte le partite si giocano sui tweet, sugli status di Facebook e sulle realtà “virtuali”, ma sono convinta che la parola virtuale, intesa come realtà simulata, cioè esistente solo in una rete di computer, sia ormai superata. Virtuale e reale non si distinguono più, amicizie nate sul web, come quella fra me e Ida, si consolidano anche nella vita. Il KLit, festival dei blog letterari, dove si sono incontrati fisicamente blogger da tutta Italia che fino a pochi giorni prima si scambiavano opinioni solo in rete, ne è un esempio, come ne è un esempio la stessa Livorno Magazine. Al giorno d’oggi anche per creare una rivista ognuno può lavorare da casa propria, comodamente nel suo studio, e le riunioni di redazione si fanno on line.

LM. Parliamo dunque del Laboratorio di Narrativa.

P.P. Sì, dopo una lunga pausa, dovuta a gravi problemi familiari, prima di Ida e poi miei, da settembre ha ripreso a pieno regime l’attività del Laboratorio che, proprio in questi giorni, compie due anni.

LM. Puoi dirci com’è nata l’idea?

P.P. Per capire che cos’è Laboratorio di Narrativa – Ida ed io lo chiamiamo affettuosamente Lab – dobbiamo fare un passo indietro. Due anni fa, una mattina di ottobre vicina al ponte dei morti, stanca di inviare i miei racconti a destra e a manca senza più saperne nulla, decisi di offrire a coloro che scrivono – si badi bene, non ho usato il termine scrittore – una cosa che, forse, ormai non s’usa più: il rispetto. Lanciai quasi per gioco una sfida dal mio status di FB: “Mandatemi i vostri racconti, li leggerò comunque, che siano belli o brutti, e vi dirò che ne penso”. Aprii un gruppo chiamato Laboratorio di narrativa e chiesi la collaborazione di Ida Verrei, amica scrittrice talento, sulla cui serietà, competenza, sobrietà e cultura sapevo di poter contare. Con sorpresa, nel giro di un’ora erano già arrivati i primi racconti e Ida ed io ci mettemmo subito al lavoro sui testi.
In seguito, visto il successo dell’iniziativa oltre ogni nostra previsione, aprimmo pure la Pagina Laboratorio di Narrativa dove poter mostrare i racconti esaminati e parlare anche di libri, di mondo editoriale, di narrativa intesa sotto tutte le sue forme, dal racconto al romanzo, dal classico al best seller, dal cinema alla fiction, senza dimenticare qualche incursione nella poesia, nella musica, nel teatro e nelle arti figurative.

LM. Come funziona, dunque, il Laboratorio di Narrativa?

P.P. Non appena ci giunge un testo, diamo immediata conferma all’autore della ricezione e dell’inserimento in coda di lettura. Sembra una cosa banale e invece è importante. Ogni autore sa quanto sia sgradevole affidare il proprio lavoro al nulla, senza più averne notizia, chiedendosi che fine abbia fatto, se sia stato letto, cestinato, archiviato, rubato.
Nei primi tempi l’attesa era più breve ma oggi, visto il numero di racconti che riceviamo, siamo costrette a far aspettare di più gli autori, però diamo sempre una risposta a tutti. Per ovviare all’inconveniente, potremmo allargare il parco dei lettori (conosciamo alcune persone la cui collaborazione sarebbe davvero preziosa) ma, siccome quello che ci piace di più e che dà buoni risultati, è proprio il pacifico e prolifico lavoro a due teste e quattro mani, i nostri autori ci scuseranno.
I racconti vengono esaminati in rigoroso ordine di arrivo, senza favoritismi per nessuno. Se, però, un autore ci invia contemporaneamente più di un brano, lo alterniamo con altri, per dare spazio a tutti. Ogni testo viene letto almeno due volte da entrambe. La lettura è attenta, parola per parola. Stiliamo poi giudizi separati e ogni volta mi stupisco di come non ci accavalliamo mai, di come ognuna sappia cogliere aspetti diversi. I due giudizi vengono poi fusi in uno solo. Inviamo sempre e comunque all’autore una scheda privata con il nostro commento e, spesso, anche alcuni suggerimenti che preferiamo non condividere con tutti.
A questo punto, se il racconto è di qualche interesse, viene editato, corretto per eliminare i refusi e pubblicato nella Pagina e sul blog Laboratorio di Narrativa arlara.blog, corredato dalla nostra recensione. In questi anni siamo state indulgenti e abbiamo scartato pochissimi testi, davvero improponibili. Non abbiamo mai gridato al talento ma non abbiamo nemmeno mai stroncato nessuno, neppure gli autori non pubblicati. Crediamo che non sia nostro compito e che il giudizio resterebbe comunque soggettivo. Cerchiamo piuttosto di analizzare la struttura del testo, metterne in evidenza le scelte stilistiche e contenutistiche. “Ogni autore”, ci piace ripetere, “ha il suo mondo da raccontare il suo modo per farlo”. Ci basiamo, tuttavia, solo sul testo, non chiediamo bibliografie dell’autore, curriculum, età o professione. Non chiediamo neppure il nome, se l’autore non desidera fornircelo. Ci interessa solo la parola scritta e non pretendiamo inediti assoluti.

LM Ida, a due anni di distanza che bilancio puoi farci dell’esperienza?

I.V. Positivo, certo: più di cento racconti letti, riletti, studiati, commentati. Sempre facendo ricorso alle nostre esperienze, alle competenze maturate, cercando di mantenere la maggiore obiettività possibile, ma anche, è ovvio, lasciando pure che prevalesse, talvolta, il nostro gusto personale.

LM. Quali sono stati i generi e le tematiche che vi siete trovate ad affrontare?

I.V. Diversi sono i generi in cui ci siamo imbattute: storie d’amore, di sesso, d’amicizia, di vita vissuta; fantasy, narrazioni surreali o fiabesche. Se dovessimo fare una statistica, potremmo dire che prevalgono i racconti che hanno come tema: solitudine, angoscia, ansie esistenziali. Il che fa comprendere il valore anche terapeutico della scrittura, che diventa, così, non solo passione da condividere, ma strumento sostitutivo di comunicazione, richiesta d’attenzione, sommesso singhiozzo di dolore. Né sono mancati racconti divertenti, pieni di spirito, arguzia e autoironia. Insomma, una varietà di contenuti che hanno alleggerito e reso piacevole il nostro lavoro.

P.P. Intervengo per dire che i maschi prediligono sempre il sesso mentre le donne, come c’è da aspettarsi, sono più sognatrici. Ma ci sono dei cliché cui si fa ricorso senza distinzione. Fra questi vanno per la maggiore soprattutto farfalle e rose, chissà perché.

L.M. E che mi dici degli stili, Ida?

I.V. Per gli stili il discorso non cambia: si passa dalla scrittura accurata, elegante, con ritmi e strategie narrative sapienti, proprie di quegli autori che sono veri e propri scrittori con esperienze di romanzi già pubblicati (cosa che ci ha gratificato), a stili più naif, qualche volta con tentativi di linguaggio moderno, giovanilistico, ma ancora tutto da costruire. Spesso abbiamo avvertito più attenzione ai contenuti che non alla forma. E in letteratura, si sa, i due elementi devono coesistere.

L.M. Tu, Patrizia, a livello personale che bilancio faresti dell’esperienza?

P.P. Come ha detto Ida, in due anni abbiamo letto e recensito circa un centinaio di racconti. Alcuni scrittori ci hanno visitato una sola volta, altri ci hanno inviato più testi e sono diventati “nostri autori”. Ci teniamo a dire che tutto il lavoro è completamente gratuito. Non abbiamo mai chiesto tasse di lettura né mai lo faremo, ci accontentiamo di un “mi piace” sulla Pagina, che, se non obbligatorio, è molto gradito anche perché, senza di esso, l’autore non può interagire con noi e con gli altri iscritti. Siamo davvero felici quando gli autori ci scrivono per commentare la nostra scheda, dando così credito e valore a una fatica che, seppur gratuita, non è per questo dovuta.
Nonostante in questo ultimo anno siano maturati per me altri progetti, come la collaborazione a www.criticaletteraria.org e l’ingresso nella redazione di www.livornomagazine.it, tengo particolarmente al nostro “Lab” e, finché ne avrò la possibilità e finché gli autori ci onoreranno con il loro appoggio costante, lo porterò avanti. Quindi, anche per me, il bilancio è senz’altro positivo, gratificante, e ringrazio tutti per la fiducia accordataci, per la pazienza e per la serietà con cui hanno accolto i nostri suggerimenti e persino le critiche.

L.M. Ida, vuoi dirci qualcosa per concludere?

I.V. Sì, ci auguriamo di essere state di qualche utilità per i nostri autori, con i commenti, le valutazioni e i consigli, sempre dati senza alcuna presunzione, ma come pareri soggettivi dettati da un pochino di esperienza e da tanta passione per la buona scrittura. Noi ci sentiamo certamente arricchite da questo nostro impegno nel Laboratorio: leggere, commentare, valutare il lavoro degli altri e confrontarsi con i diversi generi, aiuta l’autovalutazione, l’autocritica, l’autocorrezione.

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Ida Verrei: Fiori di agave sulla Collina delle Fate, uno scivolamento dal reale all'onirico

14 Marzo 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

 

 

 

 “Fiori di agave sulla Collina delle Fate

di Sandro Capodiferro

 

Fabio Croce Editore

 

Recensione

di Ida Verrei

 

 

 

 

 

Sandro Capodiferro racconta due donne, due vite, due percorsi che convergono in unico universo.

Un singolare cammino, uno scivolamento dal reale all’onirico, da una finzione letteraria all’altra. Frammenti di vita che si rincorrono e si intrecciano, quasi un puzzle, dove “il libro” è tragitto, via per la riscoperta del sé sconosciuto, rimosso, tacitato per la sopravvivenza quotidiana.

 

Felicita, una donna qualunque, educata al culto della famiglia, degli affetti, dei valori più tradizionali, morbida, materna, ci appare, sin dall’inizio, di una tristezza inconsapevole, una figura- simbolo, come il suo nome, del resto,  che richiama la placidità apparente di un mondo malinconico, dove l’unico ideale di vita è l’equilibrio domestico. Il suo è un universo interiore nascosto, tutto da scoprire, che si percepisce attraverso lievi segnali, pensieri sparsi, memorie, immagini, ritratti del passato che irrompono nella mente, quasi a distoglierla da un presente, ancora negato.

Ma a Felicita la vita riserva un incontro, un piccolo libro bordeaux da cui balza fuori, prepotente, Adele, immagine in uno specchio deformato, proiezione inconscia di bisogni e pulsioni. Due donne, mogli e madri, con destini apparentemente diversi, due destini- trappola, entrambe destinate al dramma.

E l’incontro per Felicita si fa confronto, ricerca, scoperta, fino a quando l’irrompere di analogie inquietanti, confonde finzione e realtà, sconvolge la mente, rivela sconfitte senza appello.

 Quanto conosce dell’animo femminile l’Autore? Tutto, o quasi, tanto da far dimenticare che chi scrive è un uomo.

La sua non è soltanto denuncia di una condizione femminile che persiste anche nei tempi attuali, quanto, piuttosto, analisi compassionevole, fatta con raffinata sottigliezza psicologica, di una crisi di identità, di ruolo, di prospettive. Le due protagoniste, Felicita ed Adele, reale l’una, costruzione fantastica l’altra, così diverse eppure complementari, chiuse ciascuna in una prigione senza uscita, diventano simboli di se stesse e di tutte le altre cui alludono.

Elegante, la scrittura di Sandro Capodiferro, abile nella scelta di strategie narrative. Scrive in terza persona, ma ricorre continuamente al monologo interiore; sicché, mentre il lettore viene trascinato in un’onda di suoni ed immagini, si lascia lentamente trasportare dalle emozioni, da un desiderio di

conoscere, di comprendere, di arrivare alla fine.

 E nel finale, inaspettato e amaro, con un imprevedibile colpo di scena, la follia trasforma il virtuale in reale: “L’agave per anni nasconde un segreto nel cuore: il suo unico fiore, germoglio ignaro dell’intenso dolore che lo fa nascere… mentre lei ne muore”. Resta soltanto la Collina delle Fate.

Sandro Capodiferro ha scritto un bel libro, un romanzo particolarissimo e avvincente. Ma non solo.

Rivela anche una sensibilità di vero artista quando sceglie di aggiungere al libro un’appendice con una serie di foto di quadri d’autore con le relative biografie. “L’arte nel suo mistero le diverse bellezze in sé confonde...”  E Sandro sa cogliere quel mistero e tradurlo in immagini e parole: “… Credo che l’incontro tra la materia di una creazione artistica e i nostri occhi sia come l’impatto morbido di una dolce risacca su una spiaggia, e che i colori colpiscano la mente, rinnovando nei nostri pensieri dolci ricordi o dolorosi trascorsi…”

 

Ida Verrei.

Ida Verrei: Fiori di agave sulla Collina delle Fate, uno scivolamento dal reale all'onirico
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Ida Verrei: Cheikh Tidiane Gaye, Il poeta di due mondi

1 Marzo 2013 , Scritto da ida verrei Con tag #ida verrei, #poesia

Ospitiamo Cheikh Tidiane Gaye, poeta italo-senegalese, con una delle sue belle poesie. Scrive nella nostra lingua e il suo verso possiede la musicalità che pare nutrita dal nettare dell’antico Vate.

Canta il Giorno, Gaye, quasi una danza propiziatrice, un richiamo al sole, alla luce dolce dei ricordi.

 

 

 

 

Vorrei lodare il giorno

 

di Cheikh Tidiane Gaye

 

 

Il giorno mi ospita nella sua locanda di tenerezza,

m’incanta il soffio dell’uccello, mi sdraio sul letto dell’onore

e colgo l’alito di ogni primavera per covare nel nido

dell’alfabeto le parole dolci poiché a qualcuno devo la rima

sfornata nell’alveare.

 

  1.  

 

Avessi solo la notte nel mio bicchiere

avessi visto l’onda della disgrazia inondare il mio fiato

avrei pesato ogni sillaba prima di lodare l’alba

che mi spalanca la mattina:

il giorno, una stella immensa che cade, che si alza

a volte titubante, tante volte vacillante

a volte va col vento ma rimane sempre la stella,

la duttile ala per volare nei ricordi.

 

  1.  

 

Lungo è il giorno e il suo dorso pieghevole,

stiamo camminando ma non ci arriveremo mai.

È una chiave, una finestra, una porta, una stanza

infine una camera che ci ospita e  un giorno lasceremo.

Mi avvolgo nei meandri del giorno,

il suo viso la mia chioma

fiorirò la mia gioia nel suo petto accogliente.

Giorno, ti chiamo e ti chiedo: “Dammi il tuo sole e appenderò il mio quadro;

riscalda il mio mezzogiorno triste convivente della solitudine

prestami la tua ala, volerò nei tuoi prati d’allegria;

ascolta il mio battito per raccogliere le mie ansie;

disegna il mio cammino così non inciampo nell’incognito”.

I miei sogni le farfalle colorate che addobberanno il pallido sentiero.

 

  1.  

 

Però, sollevami dal  peso della notte prima che il mio sguardo si scurisca,

così ti lodo poiché sei il principe delle mie memorie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Di Ida Verrei: un amore oltre il tempo

28 Febbraio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #racconto

Di Ida Verrei: un amore oltre il tempo

1) L’Addio

Tramonto cilentano: l’antico sole rosso e tondo scolora lentamente nel mare increspato, regala balenii di fuoco alla spuma di onde leggere.

Il cielo si tinge d’arancio.

L’uomo è alto, curvo, i capelli bianchi scomposti si diradano sulla nuca. La camicia a scacchi fuoriesce dal bermuda beige. Il viso segnato, stanco, racconta il tempo.

Il cane bianco, lungo pelo appannato, ha occhi dolci e tristi, fremiti nel corpo pesante.

Vanno insieme, affiancati, l’uomo e il cane, lenti: la stessa andatura fiacca, vecchia. Il cane di tanto in tanto alza il muso verso il padrone, lo guarda con muta domanda. L’uomo ricambia lo sguardo, allenta il guinzaglio.

In fondo al viottolo, dal mare, una nebbia lattea: profuma di salmastro.

Camminano nella bruma marina: due sagome barcollanti, malinconiche ombre che oscillano rassegnate, vinte.

Nel loro incedere lento, la sconfitta di giorni perduti, il pianto arido del distacco.

Il cane avanza, precede l’uomo, si solleva; acqua e nuvole si confondono. L’uomo prosegue. Solo, nella nebbia.

2) Ritrovarsi.

“Eccomi, sono arrivato amico mio”

“Ti aspettavo, padrone”

“Lo so, è stato un lungo cammino…”

“Sarai tanto stanco, povero padrone! accovacciati qui, accanto a me, poggia la fronte sul mio collo, riposa. Ora puoi farlo”

“Quanto mi sei mancato, amico mio… quante volte ti ho chiamato, ti ho cercato. Sei andato e mi hai lasciato solo”

“Dovevo, era giunto il mio tempo. È stato un percorso doloroso, il mio come il tuo”

“Ma io ti sono stato accanto nel passaggio, ho cercato di renderlo più lieve, ho accarezzato il tuo muso, ho accompagnato i tuoi fremiti, ho stretto la tua zampa, fino alla fine. Ti ho lasciato andare, non ho cercato di trattenerti. Il tuo cammino è stato dolce. Io invece ho lottato. Dio, quanto ho lottato… Loro non volevano che io andassi, e non capivano che già non c’ero più. E quanto pesava il corpo! E quale battaglia per spezzare i lacci d’amore che stringevano stringevano. E tu non eri con me”.

“E no, padrone! Io c’ero, ci sono sempre stato: ero nella tua mente sconvolta, tra i tuoi fantasmi, nelle tue urla disperate, nel gorgoglìo dei tuoi polmoni, nei rantoli della tua gola arsa, negli umori che ti inondavano il volto; alitavo sul tuo collo, sulla tua fronte; ti davo calore quando brividi scuotevano quel povero guscio che si erodeva;

leccavo le tue mani scarne che si agitavano nel vuoto. Cercavi di afferrarmi e non lo sapevi. Io ero lì, quando il petto ti scoppiava; ero lì, quando il fiato si è fatto soffio; ero lì, quando le pupille dilatate ingrigivano”.

“ E ora? Ora cosa sarà di noi, amico mio? Non sentiremo più il rumore del mare? Il profumo dei fiori? Non udremo più le voci squillanti delle mie principesse? Quei suoni armoniosi che erano musica? Non ci cullerà più la brezza sulla nostra amaca sotto il gelso? Non vedremo più il nostro paradiso colorato?”

“Guarda giù, padrone, guarda bene. Vedi? È tutto lì, come lo hai lasciato.

Noi potremo sempre correre lungo la riva, potremo rotolarci nella sabbia come un tempo, senza che i granelli ci restino nel pelo e tra i capelli, senza che la risacca ci trascini via; potremo alzare il capo verso il nostro sole rosso e guardarlo all’infinito; sentire il profumo delle rose e vedere i colori del glicine; e giocare coi guizzi dei pesci rossi sotto il mandorlo; ascolteremo le voci, le risa rutilanti delle principesse; sfioreremo le loro gote di velluto, come alito di vento. Una pioggia dorata sarà il nostro dono: sarà pioggia d’amore.

Stringi il mio collo, padrone, il mio pelo non è più appannato, le tue mani hanno ancora vigore. Lascia che le nuvole ci sollevino. Il cielo già trascolora, tutto è lieve.

Riposa, noi non saremo assenze; laggiù non resteranno cornici vuote.

I:V:

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di Ida Verrei: Integrazione o inclusione?

23 Febbraio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

 

"Prendi quello che vuoi, ma lasciami la mia pelle nera"

di Cheikh Tidiane Gaye

Edit. Jaca Book – collana Terra Terra

pp. 121

10,00

Recensione

di Ida Verrei

Scrittore e poeta italo-senegalese, Cheikh Tidiane Gaye ci regala una narrazione che è insieme letteratura e poesia, analisi sociologica e storia, testimonianza del presente e incursione nella memoria. Un libro intenso, colmo di moniti per le coscienze individuali e collettive.

È un romanzo epistolare insolito; una lunga lettera senza risposta all’amico-fratello Silmakha, una sorta di diario, dove si alternano riflessioni profonde e amare, ricordi dolci, storie nella storia. È uno spietato atto di accusa alla civiltà occidentale, e alla città di Milano in particolare:

“I miei primi mesi in Italia sono stati difficili (pag. 18) … Mi sono perso e non mi sono ritrovato…

Ho anche paura di uscire da casa mia e girare in città. Milano, che tanti cantano come una città integrata, è il luogo delle disuguaglianze… (pag.22)

Ma è anche un’ accorata dichiarazione d’amore al paese che lo ospita e che vorrebbe sentire suo, senza però perdere la propria identità:

“quando un cuore batte per una nazione, non può essere che la conferma di una reale integrazione” (pag.      

Integrazione, però, non è omologazione, rinuncia alle proprie radici, negazione della propria cultura;  integrazione è inclusione, afferma Gaye, è riconoscimento dell’altro, è rispecchiamento nei sentimenti, nelle pulsioni, nei diritti di ciascun essere umano: è empatia.

E attorno a questo tema si dipana una storia di disagi, angosce, rifiuti, offese brucianti, vissute sempre con coraggio e dignità, con l’orgoglio di non aver mai “steso la mano, perché un vero  gor (onesto) mangia col sudore della propria fronte”(pag.36); l’orgoglio della sua “pelle nera, il colore dell’ebano, non delle tenebre…” ( pag.82).

 

Cheikh Tidiane Gaye dai suoi compatrioti è considerato “uno che ce l’ha fatta”; e forse è così: ha un buon impiego in banca, un posto riconosciuto nel mondo letterario italiano. Ma continua a subire molestie razziali per il colore della pelle, non si sente libero, percepisce la diffidenza dell’altro. E non si tratta solo di chiusura mentale di derivazione xenofoba, non è soltanto ignoranza, non-conoscenza. Altre storie diverse eppure simili alla sua, lo dimostrano. E allora ci racconta di Michel, laureato in scienze bancarie, uno dei tanti extracomunitari di seconda generazione, che si considera “un marciapiede inondato dai passanti con rifiuti” (pag.25); o quella dell’anziano Salifu, della Costa D’Avorio, amato e rispettato nella propria comunità, ma diventato dopo vent’anni apolide, perché il suo paese spaccato da una politica scissionista lo rifiuta e il nostro lo respinge; o ancora, quella di Ibraim, il giovane professore che ha abbandonato i propri alunni in patria e ora vende merce su un telo steso sui marciapiedi di Genova, e porta in tasca il dizionario Italiano-Francese, per imparare la lingua di Dante.

La grandezza di un popolo si misura dal suo modo di trattare gli ospiti.

 Nelle nostre tradizioni il bene più prezioso è l’estraneo… Mi diceva mio nonno: all’ospite veniva offerto il latte appena munto della mucca più grassa; la capra era immolata in segno di buon augurio e accoglienza. Prima, all’ospite veniva data una sedia o la stuoia e tutta la famiglia era lieta di avere una nuova persona con sé. Era considerata come la rugiada “ (pag.31)

 

Cheikh Tidiane Gaye attibuisce un significato sociologico e politico al proprio concetto di integrazione, noi potremmo aggiungere che è riconducibile anche a un concetto teologico di ispirazione pasoliniana: “ Noi possiamo conoscervi solo attraverso Dio perché i nostri occhi sono troppo abituati alla nostra vita e non sanno più riconoscere quella che voi vivete nel deserto e nella selva, ricchi solo di prole. Noi dobbiamo sapervi riconcepire e siete voi a testimoniare Dio ai fedeli inariditi, con la vostra allegrezza, con la vostra pura forza che è fede”  (S.Francesco-  dal film Uccellacci e Uccellini di P.P.Pasolini)

E a questo si riferisce Gaye quando parla di “inclusione”: si tratta di “riconcepire”  la presenza dell’immigrato extracomunitario come fatto organico, parte della nostra vita, un altro sapere, non addomesticato, che ci stimoli a un confronto con culture altre, che possono soltanto accrescere e valorizzare la nostra, perché “ la somiglianza è monotona, la diversità è ricchezza” (pag.33)

 

Le argomentazioni di Gaye non sono solo cronaca, letteratura, fredda osservazione di eventi, sono vita,  legate al filo rosso della storia: “il nostro passato è l’unico in grado di testimoniare il nostro presente e il nostro futuro. (pag.70) E del passato ci parla l’autore, attraverso il racconto di un viaggio nella terra d’origine, richiamato da eventi tristi e luttuosi. Ci racconta incontri, emozioni, ricordi che lo travolgono; ma con onestà ci parla anche di realtà che non sente di condividere: la bigamia, il maschilismo, i rituali esasperati. Per un attimo il suo cuore vacilla, da qualcuno viene anche accusato di essere diventato un vero tubab (uomo bianco), ma un pellegrinaggio all’isola magica di Gorée, lo riconduce alle sue più autentiche radici.

Un tempo l’isola serviva ai colonizzatori in Africa come punto di vendita degli schiavi africani ai mercanti europei in partenza per il nuovo continente americano. Prima di essere venduti, gli schiavi venivano rinchiusi nella Maison des Esclaves; lì, le famiglie venivano divise, gli individui perdevano la propria identità, prigionieri dei negrieri, in attesa di oltrepassare la “porta del non-ritorno”, verso le coste americane, o, se non ritenuti idonei, buttati in un mare invaso dagli squali. Un commercio durato tre secoli; milioni di africani strappati alle loro terre;  una storia dimenticata, occultata. Gaye si chiede perché l’Occidente cancelli le proprie colpe, come possa  non sentire il peso di crimini contro l’umanità che gridano vendetta al cospetto di Dio:

Cara Europa, ascolta il battito del mio cuore, leggi nei miei occhi, apri il tuo cuore e abbracciami. Cara Europa, amo i tuoi figli e amerò la tua terra, ma non so come dire al mondo dei danni che hai causato al mondo…(pag.80)

Insegna ai tuoi figli la storia,  la verità …ad accogliere, non a respingere

Non ti chiederò il risarcimento, ma il rispetto. (83)

 

Il libro di Cheikh Tidiane Gaye è una denuncia dura, ferocemente lucida, un j’accuse senza appello, che sgomenta e scuote, ma è anche poesia.

 Le pagine più belle, struggenti sono quelle che dedica alla propria terra. Lì, il linguaggio si fa lirismo puro. Io non so se l’essere poeta in quel modo sia qualcosa che gli appartiene, proprio in quanto poeta, o se gli venga  dal suo sangue africano, dalla sua pelle nera: “Sono nato poeta, ho il verso sulle mie labbra, la rima nelle mie mani, la strofa nei miei occhi…(pag.82), quello che è certo, però, è che emoziona e commuove come il canto antico degli Aedi greci:

“…rivivrò con le mie danze da negro, racconterò le fiabe, le favole indigene e raccoglierò i passi di tuoi valorosi lottatori.

… Prenderò un cavallo tutto bianco e percorrerò da imperatore il mondo e inviterò l’umanità a cantare il tuo illustre nome. Nel braciere d’incenso purificherò non solo i passi dei tuoi degni figli e, all’ombra dei tuoi griot, affileremo le corde delle Kora e percuoteremo i balafon…

…Chiederò a Dante, Hugo, Leopardi e Rousseau, e al resto dei grandi cantori del verbo, di diventare il tuo poeta.” (pag 87)

 

In chiusura, una tenerissima lettera al figlio mulatto. È un padre che racconta, insegna, ammonisce, indica: “tu, oggi non seguirai il percorso di tuo padre, ma, credimi, sei l’ombelico del mondo, sei il linguaggio della creazione umana. Non pensare troppo alla tua ibridità. Non pensare di non esistere: tu sei la linfa della vita, partorita tra due culture e civiltà. Il mondo appartiene a te.”(pag.120)

 

È una speranza che, come dice Giuliano Pisapia nella sua bella prefazione, deve tradursi in realtà.  È un augurio, al quale mi piace aggiungere il mio:

Che la tua vita nel nostro mondo, che è anche il tuo, sia sempre colma di miele!

Ida Verrei.

 

 

 

 

 

 

di Ida Verrei: Integrazione o inclusione?
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Lorenzo Spurio e Sandra Carresi, "Telefonate anonime"

12 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #ida verrei, #recensioni

Lorenzo Spurio e Sandra Carresi, "Telefonate anonime"

di Patrizia Poli e Ida Verrei

Un’opera narrativa a quattro mani, “Telefonate anonime” di Lorenzo Spurio e Sandra Carresi, frutto della singolare collaborazione fra un’autrice esperta e più matura e un giovane scrittore. Insolito sodalizio, che dà vita ad un breve romanzo dal sapore minimalista, dove freschezza ed ingenuità narrative si mescolano ad una sapiente strategia descrittiva, che riesce, attraverso il racconto di una normale quotidianità, ad imbrigliare l’attenzione del lettore.

Il testo parte come romanzo giallo-rosa ma elude entrambe le premesse evolvendo in una storia di agnizioni, di parentele riscoperte, di eredità. È soprattutto sviluppo e presa di coscienza di una giovane personalità femminile, un po’ timorosa all’inizio, ma più strutturata nel finale. Giada è una giornalista della moda, non donna in carriera, soltanto una ragazza che vive senza particolari ambizioni la propria routine lavorativa e sceglie solitudine e autonomia in un piccolo centro Toscano. Ma quando il caso la conduce ad intraprendere una nuova, breve esperienza nella Capitale, accoglie con entusiasmo l’occasione che le viene offerta, certa di ricavarne un arricchimento professionale e personale. Conosce e sfiora un mondo che l’affascina e la intimidisce nello stesso tempo, ma ne scopre ben presto falsità ed ipocrisia. Tuttavia non sarà questo a sconvolgerle la vita, quanto un inaspettato evento che viene dal passato e che la costringerà a interrompere la sua avventura romana.

La storia si snoda attraverso momenti dall’apparenza insignificanti, circostanze ed episodi che vengono descritti minuziosamente, quasi avessero valore simbolico proprio di quella normalità che appartiene al quotidiano di una persona qualunque: il caffè preso in un bar con un’amica, una brioche che si sbriciola, un uomo sudaticcio che sfoglia un giornale, un abito macchiato d’inchiostro. Certe rappresentazioni scrupolose dell’arredamento diventano quasi sostituto di emozioni.

La notizia di un delitto arriverà a colorare di giallo la narrazione. Ma anche questo rientrerà presto in quell’ordine di eventi in cui ci si imbatte ogni giorno.

“Le telefonate anonime”, alle quali si accenna nell’incipit, restano per tutto il corso della narrazione un accadimento ignoto e inesplorato; soltanto nel finale troveranno la loro collocazione e condurranno al recupero di emozioni e sentimenti, prima sconosciuti o rifiutati.

Lo stile è necessariamente standard, si sente lo stacco fra una mano maschile e una femminile ma questo arricchisce di spunti la narrazione.

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Mauro Biancaniello, "Hai smesso i pantaloni corti"

9 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli e Ida Verrei Con tag #poli patrizia, #ida verrei, #recensioni

Mauro Biancaniello, "Hai smesso i pantaloni corti"

di Patrizia Poli e Ida Verrei

Sono molti e universali i temi che attraversano la raccolta di liriche “Hai smesso i pantaloni corti” di Mauro Biancaniello: l’amore, la memoria, la guerra, il dolore, il fulgore dell’estate, un eros fantasticato e represso in un legame concreto e maturo.

“Il ricordo è poesia e la poesia non è se non ricordo”, recitava G. Pascoli. Ed è attraverso la rievocazione di un vissuto recente, attraverso quella facoltà affascinante e misteriosa che è la memoria, che Mauro Biancaniello ci regala nel verso un flusso d’immagini, quasi fotogrammi di un film a colori. Cattura frammenti di vita quotidiana e li trasfigura in messaggi poetici, ingenui e lievi, ma palpitanti di emozioni. E così si dispiega il filo dei ricordi: dalla visione onirica della nonna, che “sale le scale del paradiso”, all’immagine dolente della madre, insieme alla quale “non ha mai distolto lo sguardo”, dai balenii luminosi di un’adolescenza svanita, insieme ai pantaloni corti ormai smessi, ai sogni dell’incerto futuro di un’età adulta.

I ricordi, “l’adolescente ritorno”, appartengono a un giovane che da poco “ha smesso i pantaloni corti”, e sta ora osservando, stupito e fiero, il proprio divenire uomo. La giacca e il pantalone lungo, stesi sul letto, sembrano diventare “una persona, un adulto”. In quel “sembrano” c’è tutta l’incertezza della crescita e il timore che la maturità porti con sé il “grigio” di un vivere senza più slanci. A questo proposito, torna più volte l’immagine dell’incrocio, del “crocevia infinito”, fatto di scelte temute e non ancora compiute, mentre certezze infantili crollano, ideali perdono consistenza, affiorano cinismo, egoismo e supponenza, per essere compresi, sublimati e rimossi, in un tempo che corre, “che non è infinito” perché “si è già dopo mai ora”.

C’è tutta la freschezza della giovane età nell’opera di questo sensibile artista, che riesce a cogliere nella realtà il segno dell’umana condizione, fatta di istanti di gioia, ma anche di un tempo che “è solo attimo da mordere”, “lacrime piante senza vergogna”: non solo, quindi, dolci nostalgie, ma anche un tuffo nel dolore, forse vissuto e non solo intuito. D’altra parte, come dice Alda Merini, la poesia nasce anche dai graffi dell’anima.

Contraddistingue la poesia di Biancaniello un’estrema semplicità, che è limpidezza e purezza di parole, sgorgate dal cuore e dalla mente così come le si sente e le si pensa. Un esempio è quel “abbiamo visto tanto” rivolto alla madre, capace di racchiudere un’intera vita di amore e sofferenze patite. E ancora il dolce commiato dalla nonna, con la terra che cade sulla bara. È un linguaggio facile ma ricercato, quello del nostro poeta; il verso si fa mezzo dell’esigenza comunicativa, di voglia di narrarsi; il ricordare è un rivedere, un rivivere, un rivisitare attimi di vita, ma è anche approccio a temi universali.

Questo giovane uomo ha una speranza, una forza tutta sua. Sa che, quando “si riesce a oscurare il proprio io per dar luce a un’altra persona”, allora, davvero, “si può dire di amare.”

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Patrizia Poli, "Signora dei filtri"

8 Febbraio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

Signora dei Filtri

 Patrizia Poli

 

Marchetti Editore, 2017

 

Singolare romanzo, romanzo colto, intenso, rivisitazione del mito attraverso un’esplorazione anche di tipo psicologico.

La storia di Medea e Giasone, il viaggio degli Argonauti: storia forte e delicata allo stesso tempo; percorso di anime tormentate; personaggi potenti, scolpiti con un linguaggio che ti trasporta in terre, in mondi, in tempi ed atmosfere che affascinano ed incantano.

In una struttura narrativa robusta, costruita con grande abilità linguistica, si intrecciano mito e affabulazione, fantasia e verosimiglianza, sogno e ricordo, sempre sostenuti da una ricerca accurata del particolare, dall’aderenza al fatto storico.

Prendono vita, così, e si umanizzano i personaggi, rivisitati ma fedeli al mito; sospesi in una dimensione dove elementi fantastici e realismo descrittivo contribuiscono a dar loro spessore e concretezza.

Si intrecciano vite e destini, s’incontrano figure emblematiche, si susseguono eventi epici e drammatici, si compiono profezie ed oracoli. E ogni personaggio, ogni elemento della storia, anche minore, possiede incisività e significato.

Su tutti, giganteggia Medea, principessa della Colchide: madre-terra e lupa. Governata dai contrasti: figlia del sole, quando ama; figlia delle tenebre lunari, quando è posseduta dalle forze oscure della sua “magia”. Tragica figura, che porta in sé, sin dall’infanzia, il presagio di un destino funesto.

Sei tu la lupa che azzannò i suoi cuccioli?” chiedono, “Sei la Signora dei filtri?” “Sono io…” rispondo, “…ma un tempo, ero la Figlia del Sole”.

“…Si, Orfeo. Medea di Colchide NON SI DIMENTICA”.

 

 

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Ida Verrei - La drammaturgia dell'assurdo: una proposta teatrale che oltrepassa i confini del reale

30 Gennaio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

Ida Verrei - La drammaturgia dell'assurdo: una proposta teatrale che oltrepassa i confini del reale

Mister Yod non può morire

Maria Antonietta Pinna

Edizioni La Carmelina

pp.83

10,00

Recensione

di Ida verrei

“Mister Yod non può morire” di M. A. Pinna è una proposta teatrale che coniuga elementi realistici con quelli simbolici e surrealisti.

Nella nota introduttiva l’autrice stessa fornisce una prima chiave di lettura del suo dramma e ne sottolinea il significato allegorico: è un Dio creato dall’irrazionalità dell’uomo che, nella perdita della concezione del tempo e dello spazio, non riuscendo più a reggere il peso della propria identità, diviene “altro” e cerca nella morte la risoluzione della sua crisi esistenziale, “per poi scoprire di voler vivere ancora”. (pag.11 nota dell’autore)

Yod, il cui nome è la prima delle quattro lettere che in alfabeto ebraico compongono il nome di Dio, oscilla tra due nature: quella divina e quella umana; sembra non trovare una propria collocazione; tenta di proiettarsi nelle realtà che incontra, ma trova solo cliché e luoghi comuni, il vuoto. Tutto il suo percorso mostra una dualità inscindibile di ripulsa e amore verso la vita: è un dialogo interno di due parti scisse, il divino e l’umano, l’oggetto buono e quello cattivo, in un’angoscia derivante dalle pulsioni di vita e di morte.

La rappresentazione si dispone su tre piani temporali: un tempo lontano, in cui si smarrisce la ricerca di memorie; un presente incomprensibile; un futuro illusorio.

È un tempo ciclico nel quale niente si risolve e tutto ricomincia.

L’azione del primo atto si svolge in un luogo privo di definizione: cinque sedie vuote, cinque personaggi. In questo spazio scenico, carico di valenze simboliche, dove si condensa la mancanza di comunicazione, si muove Yod, tra maschere pirandelliane, che incarnano i membri di una stessa famiglia, estranei tra loro, isolati, indifferenti, incapaci di riconoscersi. Lo scambio verbale sottolinea un distacco disincantato, l’inconoscibilità, la fuga nell’irrazionale:

“Ma tu chi sei?”

“non lo so e tu? (pag.20)

“io cosa?”

“tu sai chi è quell’uomo?”

“a occhio e croce direi che è mio marito” (pag.21)

I dialoghi sono basati sui suoni e sul ritmo di frasi brevi che frantumano la percezione del reale. L’autrice usa luoghi comuni quotidiani;

“Davvero? Non ci si crede. Certe volte, i casi della vita…”

“Chi l’avrebbe mai detto?”

“Ma guarda che combinazione!” (pag.16)

battute brevi, frammentarie, con proposizioni indipendenti, per lo più interrogative; una comunicazione che sembra derivare dalla difficoltà dei personaggi di agganciarsi a una logica convenzionale; parole reiterate, slegate, che assumono la forma dell’enumerazione con effetti sonori:

“Inamovibile, incrollabile, imprescindibile,

innominabile, immangiabile,ineliminabile...

e sentite questa: inesautorabile!”

“Inesautorabile? Questa non vale perché non esiste!

“Se l’ho detta vuol dire che esiste!” (pp.34-35)

In questo groviglio di non-senso, Yod, cerca la soluzione del suo problema. Il suo ruolo, però, appare all’inizio sfocato, abbozzato, più spettatore che attore. Ma è proprio attraverso la demenzialità dei dialoghi, l’incoerenza delle parole, che si giunge ad individuare il protagonista-soggetto dell’opera.

Yod urla la sua ribellione, la sua richiesta di aiuto, ma si scontra con l’indifferenza, l’egoismo di parenti stretti , che fanno male come scarpe:

“Mister Yod non può morire, lo sappiamo tutti”

“Ma io devo morire!”

“Non puoi”.(pag.33)

Non gli resta che cercare altrove.

Si rifugia nell’antro di Paracelso, medico alchimista che funge da contrappunto ironico alla voce di Yod; è proiezione del “magico”, colui che, alla ricerca degli elementi basilari della vita, tenta di “separare il vero dal falso… Spirito e materia”.(pag.47)

Qui (secondo atto), cambia completamente la scenografia: una tenda sullo sfondo, colma di simboli: quelli cinesi, YANG e YIN, emblemi degli opposti, della dualità presente nel cosmo; i quattro elementi della vita (fuoco, acqua, aria, terra); simboli alchemici ed egizi; e l’Ouroborus, il serpente che si morde la coda, simbolo dell’eterno ritorno, della natura ciclica delle cose. Yod spera finalmente di uscire dalla noia universale e perenne dell’immutabilità: “L’inizio coincide con la fine che è un principio che è una fine che è un principio che è la fine… Separare l’inizio dalla fine, questo è l’arcano!”(pag.49)

“Ma lo scienziato-mago-stregone compie una ricerca inversa a quella di Yod: cerca la formula dell’immortalità, che tenta di strappare dal corpo stesso del Dio. La scienza, quindi, è inadeguata alla comprensione delle oscure profondità dell’animo, a risolvere problemi esistenziali e pulsioni dell’inconscio.

Ancora una volta Yod, deluso, sparisce.

In una fusione perfetta tra comico e farsesco, avviene l’incontro con don Abbondio (terzo atto), rappresentante della Fede, ma eroe della paura, esponente di quel clero che appare più interessato ai beni materiali che ai problemi dell’anima. Yod spera in un consiglio dell’uomo di Chiesa, vuole “uscire dall’eterno ciclo della vita” (pag.61) ma i due viaggiano su piani diversi: “Io scanso tutti i contrasti e cedo a quelli che non posso scansare”(pag.62), dice il religioso, e si aggrappa alle regole: “ La legge è legge… Avanti, un uomo qualunque lo capirebbe”(pag.67). E l’Uomo qualunque, non più sinonimo di una negatività indeterminata, ma quasi alter ego di Yod stesso, evocato dall’urlo di don Abbondio, fa la sua comparsa. Socraticamente, con domande incalzanti, attraverso associazioni e quesiti continui, scava nell’io segreto dell’uomo-dio.

In un tragico assurdo, immerso nel flusso dei ricordi, Yod è costretto a naufragare nel passato; si tuffa nel ventre caldo e scuro della balena, che allude a simboli prenatali e ad antiche leggende Inuit.

Qui inizia la parte più visionaria del dramma, il suo autentico significato allegorico: alla ricerca delle proprie origini, il Dio creato dalle pulsioni inconsce dell’uomo, intraprende un viaggio a ritroso. E si perde, non riesce a ritrovarsi in ciò che gli appare, nelle colpe, nel male perenne che l’uomo infligge all’uomo. L’orrore lo travolge; scivola in una dissoluzione che rende incerto il confine tra vita e morte.

Ed allora, in un delirio finale, emerge il disperato bisogno di sopravvivere: perire per ritornare sempre identico a se stesso non ha senso. Vivere, per ritrovare l’illusione di un mutamento che sia catarsi, liberazione dalla condanna dell’Ouroburos, il serpente che si morde la coda.

Maria Antonietta Pinna costruisce un testo teatrale sperimentale; sente il fascino delle Avanguardie simboliste, nei contenuti e nello stile. Ma, con felice intuizione creativa, trova una propria originalità. Rielabora in modo personalissimo tematiche e linguaggi, riuscendo a darci testimonianza di un autentico talento.

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Ida Verrei, "Un, due, tre, stella!"

29 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #ida verrei, #recensioni

Ida Verrei, "Un, due, tre, stella!"

Una grande capacità narrativa. Si vedono gli arredi, si sentono gli odori, i sapori, i rumori. Bella la premonizione che c'è in ogni personaggio, già tutto il destino in nuce, fin dal primo apparire sulla scena. Descritto benissimo l'animo infantile, con uno stile che ricorda Niccolò Ammanniti: la repulsione per gli adulti, la lacerazione di Annarella fra i diversi affetti che, ella non capisce perché, non possono convivere. Sopra ogni altro sentimento, l'odio per Wanda, la matrigna che avvelenerà tutta la sua vita, fino all'ultimo gesto di strappare l'album di famiglia, togliendole persino la pace dei ricordi. Malcelato il disprezzo per il padre, vile, succube e sottilmente crudele. Un linguaggio asciutto, ma poetico, pulito, pregnante, "concluso". Uno stile semplice ma attentissimo, ogni parola ricca di peso e valore, non una virgola fuori posto o di troppo.

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