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franca poli

La conquista dell'Ortigara

31 Gennaio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

La conquista dell'Ortigara

L’Ortigara è stato il Calvario degli alpini, l’inizio di un vecchio canto di guerra recita:

Venti giorni sull’Ortigara
senza cambio per dismontà:
ta-pum ta-pum ta-pum
ta-pum ta-pum
ta-pum…"

Sulla cima brulla e sassosa del monte, nel 1920, è stata eretta a ricordo una colonna mozza. Per non dimenticare che tra il 10 ed il 29 giugno 1917, tra assalti e contrassalti sugli aridi crinali tra l’Ortigara ed il vallone sottostante dell’Agnella, vennero falciati dalle mitragliatrici migliaia di giovanissimi soldati italiani e austroungarici.

Nella notte tra il 9 e il 10 giugno 1917 l’artiglieria iniziò il suo “ta-pum” contro le linee austriache, preparando l’attacco degli alpini e dei bersaglieri che si sviluppò nei giorni seguenti. I razzi illuminanti cercavano di rischiarare il cielo e l’obiettivo in quelle ore buie e di nebbia fitta, ma il bombardamento preparatorio fu di modestissima efficacia. Le truppe italiane scattarono all’attacco verso le tre pomeridiane del 10 giugno. Anche la nebbia e la pioggia, frammista a gelido nevischio, si erano schierate contro, forse un segno del destino, come un estremo tentativo per farli desistere da un impresa così ardua e giudicata impossibile già sulla carta. Le perdite furono di proporzioni drammatiche. Complessivamente la 52a Divisione perse nella Battaglia dell’Ortigara oltre dodicimila uomini, dei quali quasi seimila, soltanto l’ultimo giorno.

Errori tattici, previsioni sbagliate , manovre che portarono tante giovani vite al massacro e, mentre i comandanti e tutti gli artefici di una delle più sanguinose battaglie mai combattute dall’esercito italiano, si ricoprirono di infamia che difficilmente nessun revisionismo riuscirà mai a cancellare, moltissimi furono gli eroi, i soldati che pieni di ardore caddero combattendo, donando fino all’ultima goccia del loro sangue per difendere il suolo natio.

Scriveva il Tenente Don Luigi Sbaragli, cappellano militare: “Giù il parapetto delle trincee. Ecco i nostri petti saldi e compatti, che rimpiazzano le trincee. Ancora tre minuti. Via i reticolati! Eccoci pronti per la corsa alla gloria. Un bacio al Maggiore, un bacio agli altri ufficiali, un augurio; e gli aquilotti spiccano il volo. Ho come un fremito in tutta la persona… Cominciano a mitragliarci.”

E ancora riporta l’allora Tenente degli Alpini, Paolo Monelli, nel suo celeberrimo “Le scarpe al sole”: “I soldati s’allineano lungo la strada, contro la roccia. Non guardo che facce abbiano: ma sento al di là la tranquilla rassegnazione all’inevitabile. Da quindici giorni si assiste allo stesso spettacolo: escono battaglioni, rientrano barelle e morti, e dopo qualche giorno o qualche ora, i pochi superstiti…”

Una delle testimonianze più toccanti, che ci sono state trasmesse, è quella del Tenente Adolfo Ferrero, del battaglione Val Dora. Ferrero, come tutti i soldati che caddero in quel tragico giugno, non si faceva alcuna illusione. Nella sua ultima, straziante lettera inviata ai familiari affidandola a un attendente, si dichiarò pronto al sacrificio estremo, in nome della Partria.

Quando riceverete questo scritto, fattovi recapitare da un’anima buona, non piangete. Siate forti come avrò saputo esserlo io. Un figlio morto in guerra non è mai morto. Il mio nome resti scolpito nell’animo dei miei fratelli; il mio abito militare, la mia fidata pistola (se vi verrà recapitata), gelosamente conservati, stiano a testimonianza della mia fine gloriosa.”

La lettera del tenente Ferrero non fu mai consegnata ai familiari e fu ritrovata solo pochi anni or sono, conservata nei resti del suo povero attendente. Leggere le sue parole, i saluti ai genitori e la sua rassegnazione, riempie di commozione, fa rivivere gli eventi di quei giorni drammatici, ma è anche e soprattutto una riscoperta dei valori che albergavano nel cuore degli alpini, schietti, genuini, uomini veri.

Furono tanti gli eroi dell’Ortigara, ne riporto qui il ricordo di uno per tutti, un alpino dimenticato e per il quale non è stata eretta eretta nessuna stele, né è stata affissa nessuna lapide sull’Altopiano, eppure è proprio in questo luogo che egli offrì la sua giovane vita alla Patria.

Gli ordini erano quelli di conquistare la Cima di Puntale onde poter rientrare in possesso delle posizioni perdute e necessarie a evitare lo sbocco in pianura delle truppe nemiche, alle spalle dell’esercito italiano. Si trattava dunque di evitare la catastrofe, così il 10 giugno del 1917, per lui e per tutti gli alpini fu il giorno della cieca obbedienza e del sacrificio. Sotto il fuoco del nemico dovevano scendere di corsa le pendici occidentali del monte, oltrepassare il Vallone dell’Agnelizza e risalire quelle orientali del Monte Ortigara. Oramai pronti, aspettavano soltanto l’ordine di attacco, erano le prime ore del pomeriggio di un giorno in cui anche il tempo aveva mostrato la sua cattiveria e li aveva tenuti in attesa per ore sotto la pioggia. Lui, sottotenente, si manteneva calmo davanti ai suoi: non era la prima volta che sfidava la morte. Aveva già ricevuto encomi e meritato una Medaglia d’argento al valor militare nel maggio del 1915, quando, da poco iniziate le ostilità, si era messo in luce per coraggio e spirito di sacrificio. A dicembre dello stesso anno, durante un’azione notturna, salendo in cordata, una pallottola che lo aveva colpito alla guancia, gli era entrata in bocca ed era uscita dalla mandibola, frantumandola. In ospedale fu un paziente assolutamente poco tranquillo, smaniava di andarsene il prima possibile e, ancora convalescente, alla notizia della morte del fratello Attilio, ucciso sull’Adamello, raggiunse la trincea. Solo la speranza di poterlo vendicare mitigava il suo immenso dolore. Sono molteplici le azioni in cui si distinse: quando, prendendo alle spalle una batteria nemica con un manipolo di Alpini, aveva sollevato da terra il comandante austriaco agguantandolo per la collottola. O ancora quando, al comando del proprio reparto, incurante del pericolo, sotto il fuoco nemico, si era gettato alla conquista del Monte Campigoletti, a sud dell’Ortigara e fu decorato con la medaglia di bronzo al valor militare.

E così via, in atti di eroismo e in azioni spericolate, fino a quando venne il suo giorno. “Vedrete, oggi, come sanno morire gli ufficiali degli Alpini Italiani” disse prima di lanciarsi in battaglia.

Alle 15 del 10 giugno 1917 quando iniziò l’assalto, alla testa dei suoi appariva invulnerabile, correva avanti mentre intorno a lui fischiavano le pallottole, uno ad uno, cadevano i suoi uomini, cadevano i comandanti ma egli avanzava, imperturbabile. Finalmente, dopo cinque tentativi, gli Alpini riuscirono a raggiungere e a prendere la postazione delle mitragliatrici nemiche che li teneva sotto tiro. Il terreno era coperto di morti. Il giovane tenente fu colpito alla fronte e a una spalla ciononostante incitava ancora i suoi con tutto il fiato che aveva in gola gridando: “Avanti, avanti, Alpini della valanga!”. Un’altra palla lo colpì, questa volta al cuore. Egli capì che era giunta la sua ora e con estrema serenità e rassegnazione ironicamente disse: “Chesta l’è chela giosta” (Questa è quella giusta). Aveva ventidue anni appena compiuti. Il suo nome era Santino Calvi.

Ricevette un’altra Medaglia d’argento, questa però alla memoria e ora riposa nel cimitero di Piazza Brembana, suo paese natale, accanto al fratello che aveva con onore vendicato.

Furono giorni di sangue, di dolore, di conquiste e riconquiste, da una trincea all’altra.

Cimitero di noi soldati
forse un giorno ti vengo a trov
à.

Ta-pum ta-pum
Ta-pum ta-pu
m”

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Salonicco

21 Gennaio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

Salonicco

All’inizio della grande guerra, quando l’Italia non era ancora scesa in campo, la strategia dell’impero britannico mirava al controllo, oltre che del canale di Suez, anche dei pozzi petroliferi dell’Arabia, dell’Iraq e della Persia, quindi ritenne utile che lo stretto dei Dardanelli, quale accesso al Mar Nero, dovesse essere conquistato. Sottraendo i Dardanelli al dominio turco, le forze dell’Intesa avrebbero avuto passaggio libero per i rifornimenti alla Russia che, conseguentemente, avrebbe potuto incrementare la pressione sul fronte orientale ai danni di Austria e Germania.

Lo stretto dei Dardanelli era una roccaforte delle difese turche e Churchill, allora in carica come primo Lord dell’ammiragliato inglese, inviò per la battaglia un corpo di spedizione della Royal Navy denominato ANZAC, dalla nazionalità dei componenti tutti soldati australiani e neozelandesi. Il contingente sbarcò nei Dardanelli per quella che fu una delle più sanguinose pagine della guerra: la campagna di Gallipoli.

I soldati ricevettero una pessima accoglienza dalle mitragliatrici e dalle mine turche e caddero a migliaia sulla spiaggia nel tentativo di prendere terra, il resto lo fecero le condizioni ambientali e climatiche; il caldo e la scarsità d’acqua causarono disidratazione, dissenteria e un’epidemia di colera. La battaglia si concluse dopo 259 giorni col reimbarco delle truppe inglesi e dopo aver lasciato sul campo 205.000 caduti.

Resosi impossibile conquistare i Dardanelli e venuti a mancare i rinforzi provenienti dalla Russia, le truppe dell’Intesa si concentrarono in uno sforzo unanime nei territori dell’Epiro greco a sostegno degli alleati ivi impegnati. Si rese necessario dunque sollecitare l’Italia, appena scesa in guerra, all’invio di aiuti e il nostro esercito approntò un corpo di spedizione di 44.000 uomini che sbarcò a Salonicco ai primi di agosto del 1915.

Negli anni successivi molti furono i bersaglieri che si fecero onore in terra di Macedonia. Desidero ricordare, uno su tutti, il Maggiore Tonti Ulrico, di Forlì del Sannio (IS), un molisano che venne insignito di Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: «In aspro combattimento preparava una colonna d’assalto di forza superiore alle competenze del suo grado con ammirevole calma e grande riflessività, infondendo fiducia in tutti, e, alla testa di essa, percorrendo terreno scoperto e sconvolto dal violento tiro nemico, con meraviglioso slancio e magnifica opera personale, brillantemente occupava gli obiettivi assegnatigli. Si poneva poi, di sua iniziativa, alla testa di un’ulteriore ondata d’assalto formata di due sole compagnie, per la conquista delle seconde linee e delle artiglierie nemiche, dando fulgida prova di coraggio, e, nel momento in cui raggiungeva lo scopo, rimasto colpito a morte, noncurante di sé, continuava ancora ad eccitare i suoi uomini, fin quando cadde esanime. Eroico esempio di suprema virtù militare ». — Nord Meglenci (Macedonia), 9 maggio 1917

La nostra discesa in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa, col Trattato di Londra, prevedeva come condizione finale il ritorno di parte della Dalmazia all’Italia, l’occupazione di zone minerarie in Anatolia (Smirne),oltre ai possedimenti delle isole del Dodecanneso e della Libia. Con l’entrata in guerra della Grecia, a metà 1917, e degli Stai Uniti, che non ci riconobbero la validità di quanto firmato, tutti gli “accordi preliminari” saltarono e finì come sappiamo…

Salonicco
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Guerra modernissima

17 Gennaio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

Guerra modernissima

Durante la Prima guerra mondiale, una guerra come più volte ripetuto detta di posizione, avvenivano pericolosi attacchi da una linea all’altra, scagliando ordigni direttamente nelle trincee, sia per uccidere i soldati nemici che per rendere inagibili i ricoveri sotterranei, soprattutto le infermerie. I soldati furono dotati di primordiali armi chimiche, secondo le stime ne usarono per un totale di più di 50 mila tonnellate di materiale, più o meno come se venissero consumate per intero più di 300 mila bombolette di deodorante spray dei nostri giorni. (Prima Guerra Mondiale – La chimica in trincea) In particolare la guerra chimica nel 1914 si faceva con tre sostanze chimiche: il fosgene, l’iprite e il cloro, lo scopo era quello di uccidere il nemico o di metterlo almeno fuori combattimento.

Questi gas velenosi venivano impiegati in due modi: per emissione a getto continuo come una nube, oppure per mezzo di proiettili, granate o qualsiasi sorta di ordigni da trincea. Anche se studiate prima della guerra e preparate con finalità di pace, molte sostanze rivelarono proprietà tossiche sorprendenti e nettamente superiori ai prodotti normalmente usati in chimica industriale o come veleni per altri scopi e applicazioni. Per esempio il gas Fosgene, fu scoperto miscelando cloro e ossido di carbonio per la preparazione di colori e la colorazione dei tessuti. Gli effetti del fosgene sull’uomo sono molto aggressivi e portano a pesanti lesioni all’apparato respiratorio, irritazione alla bocca e una tosse convulsiva persistente. La morte quando veniva inalato sopraggiungeva entro 72 ore per emorragia interna delle vie respiratorie.

L’iprite, invece era un liquido di color bruno-giallognolo estremamente vescicante. Veniva detto “gas mostarda” per il suo caratteristico odore. Anche questo terribile gas veniva già impiegato dal 1910, nell’industria tedesca, per la creazione di vernici e medicinali. Oltre ad avere effetti vescicanti di enorme intensità, ristagnava sulle divise, sull’intero campo di battaglia e persino nel sottosuolo, aumentando la sua potenzialità d’offesa per settimane e settimane. Anche il Cloro, quello che oggi comunemente utilizziamo come disinfettante nelle piscine, è stato responsabile durante il primo conflitto mondiale della morte di molti soldati, procurando asfissia.

Dopo il termine del conflitto spesso metodi e mezzi sono stati messi sotto accusa, ma anche prima e durante, la guerra stessa era stata messa in discussione, ci furono diverse correnti di pensiero, gli interventisti e i neutralisti quelli che si spesero anima e corpo per la vittoria e quelli che si rifiutarono di combattere, un fenomeno avvenuto non solo in Italia.

Mi sono imbattuta in un libro scritto dal giornalista Will Ellsworth-Jones che racconta la storia di due giovani inglesi: uno ha combattuto con i suoi soldati contro l’esercito tedesco nella battaglia della Somme sul fronte occidentale francese, l’altro al contrario ha rifiutato di combattere a causa della propria fede ed è stato condannato a morte come traditore. Un libro affascinante e commovente che l’autore ha scritto dopo aver trovato interessanti graffiti in alcune celle inglesi, fra cui il viso di una giovane donna.

I fratelli Brocklesby, Philiph e Bert, erano stati cresciuti dagli stessi genitori, con le stesse regole e gli stessi valori. Erano educati, colti e pieni di aspirazioni per il futuro, molto uniti fra di loro, ma lo scoppio della guerra e le loro diverse prese di posizione causarono una frattura nella famiglia. Anche in Gran Bretagna, i giovani erano pieni di caldo entusiasmo patriottico e le ragazze regalavano piume bianche di “pollo” agli uomini sospettati di sottrarsi al servizio militare per codardia.

Philiph come milioni di altri giovani, prese le armi contro i nemici del suo paese, mentre Bert, insegnante, maestro del coro, più avvezzo ai libri che alle armi, divenne un obiettore di coscienza, la cui profonda fede religiosa impedì di combattere e uccidere. A 25 anni, era un giovane di successo, già fidanzato e con un promettente futuro da insegnante anche se fra i suoi sogni vi era quello di andare in Africa, a fare il missionario. Una certezza comunque l’aveva: mai e poi mai avrebbe potuto imbracciare un fucile per sparare a un essere umano.

Partito volontario per combattere, Philiph non aveva spesso notizie del fratello che, invece, avendo rifiutato l’arruolamento quando era diventato obbligatorio, era stato imprigionato ed era in attesa di giudizio, che si paventava il peggiore. I due fratelli si rividero, con molta emozione, mentre si trovavano in Francia, Philiph per andare al fronte e Bert sul punto di essere condannato a morte, perchè si rifiutava persino di preparare il cibo per i soldati inglesi che combattendo uccidevano altri esseri umani.

Nel frattempo, una delegazione, guidata dall’amante del leader pacifista Bertrand Russell, fece pressione sul Primo Ministro inglese Mr. Asquith, raccontandogli cosa stava succedendo, egli ascoltato l’appello, diede istruzioni affinché nessun obiettore di coscienza in Francia fosse fucilato per essersi rifiutato di obbedire agli ordini. E questo salvò Bert da un plotone di esecuzione. La pena fu commutata in reclusione e lavori forzati per dieci anni. In realtà, nel 1919 venne rilasciato e fece ritorno a casa.

Dopo la sentenza Philip, era partito per il fronte con “un cuore più leggero” e due mesi più tardi condusse con coraggio i suoi uomini all’attacco, vedendo cadere sotto i suoi occhi il comandante di compagnia, che fu solo uno dei 60.000 soldati britannici uccisi o feriti durante il primo giorno dell’offensiva della Somme.

Philip, nonostante avesse partecipato alla battaglia rischiando la vita e avesse visto due terzi dei suoi compagni morire attorno a lui, non provava rancore per suo fratello pacifista, quando fu di ritorno in patria, sopravvissuto alla guerra, la famiglia era di nuovo unita, e senza recriminazioni.

Bert continuò con le sue aspirazioni e la sua coscienza lo portò in Austria per aiutare le vittime della guerra. In seguito divenne missionario in Africa. Aveva perso l’amore della sua fidanzata Annie, che sposò invece un eroe di guerra, la stessa di cui aveva lasciato un rudimentale ritratto inciso sulle pareti della prigione dove era stato per tanto tempo.

Philip avviò una propria attività e prosperò negli affari, ma per tutta la vita fu turbato dai ricordi degli orrori della guerra che continuarono a dargli incubi e sofferenze . Due scelte diverse che condizionarono per sempre le loro vite.

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Il Piave Mormorava

12 Gennaio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

Il Piave Mormorava

Sfogliando un dépliant turistico, recapitatomi a casa per pubblicizzare un evento, ho reperito diverse immagini riproduttive di tavole illustrate realizzate per la Domenica del Corriere da Achille Beltrame (1871-1945).

Il 2014 è l’anno nel quale sono iniziate le commemorazioni della prima guerra mondiale e questi disegni, guardati uno dopo l’altro, sembrano quasi istantanee scattate dal vero: gli atti eroici, le marce nella neve, le battaglie, i bombardamenti. Eppure, Beltrame dalla sua sedia di Milano non si spostò mai per recarsi sui luoghi che riproduceva, da grande professionista quale era, si documentava con articoli e fotografie e “inventava” scene così reali da restare nella storia. Tale fu il gradimento del pubblico, che la sua collaborazione con la testata giornalistica che le pubblicava durò dal 1899 al 1944 e durante la sua lunga carriera produsse ben 4662 tavole illustrate.

Non sono una esperta di storia della prima guerra mondiale, o una studiosa di cose militari, ma una semplice amante e appassionata delle vicende del nostro passato recente, così queste copertine e ciò che c’è dietro mi hanno incuriosito e affascinato. Potrei definire questo semplice tentativo un primo approccio per chi si interessa di storia, “quella che a scuola non si studia”. Le mie saranno pillole, piccole dissertazioni che accompagnano l’immagine riprodotta, o ancora pensieri in libertà da queste scaturiti, brevi storie in ricordo della Grande guerra, che poi, potrà mai una guerra dirsi veramente “grande”? Nessuna pretesa, quindi, di essere una nuova Mirella Serri o Brunella della Casa, ma semplicemente una donna che sente ancora vivo un legame ideale con quei suoi fratelli in armi, un secolo prima, per la sua stessa Patria.

Con questo spirito vi invito sì a leggere i “fatti” narrati, reperiti su vecchi libri o nel web su siti dedicati (specialmente per quanto riguarda dati tecnici e numeri), ma anche e soprattutto a prestare attenzione al “sentimento” con il quale li ho raccolti e riportati. Basti pensare alle vite di ciascuno di quelli che, rappresentati o no nelle illustrazioni di Beltrame, la guerra l’hanno vissuta veramente, combattendo al fronte, ma anche nelle retrovie e negli Ospedali, e restando al lavoro nei campi o nelle fabbriche. Un pensiero e un ricordo profondo rivolto a tutti: agli uomini in divisa, alle famiglie a casa, alle donne alle prese coi figli da crescere, che combatterono una dura battaglia per la sopravvivenza, alle madri che videro partire i figli giovanissimi, “i ragazzi del 99”, alle mogli e ai figli di soldati che non fecero mai ritorno. Un pensiero particolare rivolgo ai friulani, per i quali la Grande guerra fu veramente assurda, arruolati nell’esercito austriaco nel 1914, furono mandati a combattere sul fronte orientale e l’anno dopo si trovarono a fronteggiare l’Esercito italiano, per una crudele guerra fratricida.

E pensare che il 1914 si prospettava anno di innovazioni e benessere. Per darne solo alcuni riferimenti, con l’avvento del grammofono in campo scientifico e la nascita dell’espressionismo in campo culturale, il mondo sembrava proporsi rinnovato e pieno di energia positiva e invece venne la guerra, e si impose quella “cattiva idea” che divide e distrugge.

La prima guerra mondiale è stata uno dei conflitti più sanguinosi e cruenti dell’umanità, la sua indelebile traccia è rimasta nelle storie di combattenti ricostruite attraverso lettere dal fronte, diari e memorie di umili fanti o raffinati letterati come Gadda, Ungaretti o Junger, per citarne solo alcuni.

C’è tuttavia qualcosa di particolare di cui si conserva il ricordo: lo si avverte immediatamente quando si attraversa il campo aperto. La guerra ha il suo odore inconfondibile, un sentore del tutto singolare. Lo si riconosce come quando, sognando, ritornano in mente altri sogni completamente dimenticati. La guerra è una di quegli ambiti in cui si riscoprono i suoni originari, come quello del vento che spira e volteggia al di sopra dei campi a folate sempre più sottili, sempre più oscure. Non c’è melodia più profonda.” (da Prima Linea, p. 101- Ernst Junger)

Gli Italiani, durante la grande guerra, conobbero se stessi nella vicinanza della trincea dove, per la prima volta nella nostra storia, si mischiarono dialetti, racconti popolari e musiche. Furono tanti i canti che risuonavano nelle prime linee, echi trasmessi dal cuore semplice di uomini che cercavano conforto proprio nelle nostalgiche note che ricordavano le loro case e le loro vite. Furono composti canti contrari alla guerra o patriottici come, quelli di Trilussa e di E.A.Mario, autore de “La Leggenda del Piave” che, non sembri retorica dirlo, fa ancora oggi fremere i nostri cuori. Voci diverse, echi che giungono a noi e non si spengono e hanno ispirato, anche in tempi recenti, poeti e cantanti come Fabrizio De Andrè nella notissima melodia “La Guerra di Piero”.

L’atteggiamento verso la guerra è oggetto di interesse a vari livelli, dall’arena internazionale, alla dimensione soggettiva e di coscienza. Non starò qui a dire delle ciniche differenziazioni che alcuni fanno tra la prima e la seconda guerra, giudicando sbrigativamente “onorevole” quella vinta nel 1918 e memoria da cancellare quella persa nel 1945.

È semplicemente soggettivo il rifiuto in toto della violenza, o è giusto ritenere che esista invece la necessità di imporre l’ordine anche con le armi? Io non posso e non voglio rispondere, mentre continuo a sfogliare le immagini che ho qui davanti, mi pare di sentire una voce che canta, accompagnata una antica melodia di fisarmonica, un suono pieno di ricordi, vecchio, eppure sempre nuovo.

Solo questo, modestamente proverò a fare, ricordare vite, uomini e gesta. E mentre ascolto quel canto, quella musica, scorgo la scalinata del Sacrario di Redipuglia, che si fa voce: oltre mille gradini o forse seicentocinquantamila come i caduti della Grande guerra, che, all’unisono pronunciano una sola parola, un grido, lanciato attraverso la storia, che ora e per sempre rimbomba come il rumore lontano dell’artiglieria… “PRESENTE”.

********

L’aspetto più terribile e sanguinoso del primo conflitto mondiale fu rappresentato dalla guerra di trincea. Durante la Grande Guerra, infatti, migliaia di uomini persero la vita per conquistare e difendere pochi metri di terreno, esposti al freddo, alle intemperie, compiendo pericolose scalate, morendo colpiti non solo dalle pallottole, ma anche dalle malattie.

La trincea, un fossato scavato nel terreno al fine di offrire riparo dal fuoco nemico, è un antichissimo sistema difensivo utilizzato nelle guerre di posizione. Durante la prima guerra mondiale raggiunse il massimo utilizzo. I nostri militari furono costretti a starci dentro, con gli scarponi affondati nel fango, per quattro lunghissimi anni, in pessime condizioni:

- Vittime della sporcizia: la mancanza d’igiene trasformò le trincee in un ricovero per topi che si aggiravano per i camminamenti, giorno e notte, senza nessuna paura degli uomini, in cerca di qualche cosa da mangiare. I militari bevevano da antigieniche borracce di legno, col freddo, dormivano ammassati per non disperdere il calore e le tende per dormire (quando c’erano) erano inutilizzabili con la pioggia. Per non parlare dei problemi con il rancio che, preparato nelle retrovie, arrivava ai soldati che era immangiabile.

- Esposti alle intemperie climatiche, poiché d’estate il caldo, d’inverno la neve, il gelo, la pioggia erano insopportabili. Dotati di calzature completamente inadeguate per resistere al fango o al terreno pietroso di quelle montagne, le suole s’indurivano e si bucavano facilmente provocando seri problemi ai piedi dei soldati. Le ferite, così come i congelamenti, erano curati con lo stesso grasso che avrebbe dovuto servire per lucidare le calzature.

- Soggetti a uno stato di tensione continua che logorava i nervi, con il costante terrore di essere alla fine colpiti da un cecchino o dal ricevere l’ordine di prepararsi all’assalto. Esperienze che segnarono molti uomini per tutta la vita. L’ombra costante della morte sempre in agguato, l’incertezza continua di sentirsi “come d’autunno sugli alberi le foglie” scriveva Ungaretti, rendeva le sofferenze inaccettabili. Per di più un soldato aveva davanti a sé uno spettacolo agghiacciante: i cadaveri dei compagni rimanevano tra le opposte trincee, nella zona chiamata terra di nessuno, per giorni, talvolta per sempre.

A volte i soldati, per la paura delle mitragliatrici nemiche o per lo stress subito nei giorni di trincea quando arrivava l’ordine di andare all’attacco, non riuscivano, in preda al panico, a lasciare le loro postazioni, erano così accusati di diserzione e spesso fucilati sul posto.

Si trattò di un fenomeno diffuso che coinvolse centinaia (e forse migliaia) di uomini. Luigi Cadorna aveva, fin dall’inizio della guerra, dato disposizioni severissime per mantenere la disciplina. I soldati che si rifiutavano di uscire dalle trincee durante un assalto, ad esempio, potevano essere colpiti alle spalle dai plotoni di carabinieri.
I tribunali di guerra potevano essere istituiti in poche ore, e in altrettanto poco tempo la giustizia militare era in grado di emettere le sentenze che frequentemente erano la pena di morte tramite fucilazione. Inizialmente questo provvedimento fu preso solo in casi di estrema gravità, ma in seguito si estese anche a casi apparentemente meno gravi.

Sull’innocenza di quei poveri giovani fucilati, si potrebbero spendere volumi di parole in quanto la giustizia sommaria portò ad affrettate sentenze, tese più a essere di monito per i commilitoni che a punire veramente i colpevoli e i fatti, per volere delle gerarchie militari, passavano sotto silenzio.

Dopo i primi anni di guerra molti aspetti migliorarono come le dotazioni di vestiario che divennero più idonee, così come la quantità di cibo che, anche se di scarsa qualità, fu sempre abbondante, peggiorarono invece i trattamenti a volte disumani e le punizioni subite dai militari per il rispetto dell’autorità “a ogni costo” e fu instaurata una pesante censura, per non far ricevere notizie inadeguate ai combattenti e allo stesso tempo alle famiglie, così tutte le lettere venivano vagliate da un severo controllo.
L’episodio che segue può rendere l’idea di quanto fosse iniqua, la giustizia militare:

il 6 agosto 1917 a San Vito di Leguzzano, provincia di Vicenza avvenne uno dei citati episodi rimasti sconosciuti e poco ricordati.

Un cappellano annotò sul suo taccuino: “Corre voce che stanotte, dovendo partire l’8° reggimento di marcia accantonato a San Vito, i soldati si siano rifiutati; abbiano fatto le fucilate e si siano sbandati nei dintorni. È partito per San Vito il plotone dei carabinieri (…) e il nostro Tribunale di guerra…”. Il giorno dopo scrive: “(…) Il prof. Dalla Zanna è tornato stamani da S. Vito, prostrato fisicamente e moralmente. Il processo contro i primi responsabili dell’ammutinamento si è svolto sul campo dalle 7 di ieri mattina fino alle 10 di sera. Furono condannati alla fucilazione sette soldati e la sentenza fu pronunziata alla presenza di tutto il reggimento ed eseguita in un campo vicino al paese…

Non si sono mai conosciuti i nomi dei sette soldati.

I soldati andavano puniti per dare l’esempio a tutta la truppa. “Colpirne uno per educarne cento” un triste motto che ci riporta a un’epoca ancora più recente. La grande guerra venne “governata” male da capi spesso spocchiosi e con mentalità retrograda, che li portò a sacrificare ostinatamente migliaia di giovani vite pur di conquistare un metro di terra o a ordinare di sparare alla schiena a chi non obbediva ciecamente.

Un’intera nottata

buttato vicino

ad un compagno

massacrato

con la bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore.

non sono mai stato

tanto attaccato alla vita

Veglia – Cima 4 – 23 dicembre 1915 – di Giuseppe Ungaretti

Il Piave Mormorava
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Il passator cortese

30 Novembre 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #saggi, #personaggi da conoscere

Il passator cortese



Romagna solatia,dolce paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator Cortese,
re della strada, re d
ella foresta”

Con questi notissimi versi, che concludono la poesia “Romagna”, Giovanni Pascoli, romagnolo verace, ha costruito, forse involontariamente, la leggenda del “Passator cortese”, il mito del brigante spietato e crudele con i ricchi ma altrettanto generoso con i poveri. Infatti è proprio a questa poesia e al poeta che la cantò che Stefano Pelloni, in arte Passatore, deve gran parte della sua notorietà, poiché queste rime sui banchi di scuola le abbiamo imparate tutti a menadito, magari abbiamo dimenticato chi fossero i Guidi e i Malatesta, ma le immagini del Passatore e della “azzurra vision di San Marino” difficilmente sono state cancellate dalla nostra memoria.
In Romagna il mito del passatore era ancora vivo quando Pascoli, da fanciullo, nelle lunghe serate invernali, seduto davanti al caminetto, avrà sentito gli anziani raccontarne le avventure, le sue clamorose imprese, i suoi delitti, le sue gesta, le sue astuzie e la sua generosità. Il Passatore fu un autentico protagonista del suo tempo, amato e odiato, rispettato e temuto, il suo cappellaccio, la sua barba nera e il micidiale schioppo ne fecero l'emblema della Romagna. C'è chi giura, ancora oggi, che fosse un ragazzo bello e affascinante, dallo sguardo accattivante e dai profondi occhi scuri.
Ma chi era veramente questo Passatore? Certamente per quanto riguarda il nord è stato il più noto brigante che abbia movimentato la cronaca di quel periodo, siamo a metà del 1800 quando raggiunse l'apice della notorietà .
È chiaro che se la gente ne parla ancora, se la sua immagine compare sull'etichetta di un vino pregiato, significa che le sue vicende hanno colpito la fantasia del popolo, ma in realtà Stefano Pelloni fu lui stesso un prepotente, che usava spesso l'arroganza, che compì crudeli vendette e che perseguì con feroce accanimento e freddezza le persone che gli si opponevano o cercavano di contrastarlo.
Non starò ad elencare tutte le rapine e le razzie che compì nel corso della sua carriera, furono molteplici e ne ricavò un bel bottino. Ad ogni impresa il maltolto veniva in parte diviso fra i briganti, una porzione era destinata ai fiancheggiatori, alle “coperture” o alle persone che avevano dato le “dritte” , e il resto veniva nascosto nel bosco, seppellito in punti precisi che conoscevano solo il Passatore e i suoi più fidati gregari.
A quei tempi la Romagna era ben lontana da quella che conosciamo oggi, fatta di spiagge di velluto e di estati spensierate, allora al mare non ci andava nessuno e l'acqua serviva soltanto a ricavare il sale dalle saline di Cervia o a sfamare qualche famiglia di pescatori. Molte zone in provincia di Ravenna erano ancora coperte da acquitrini malsani e la popolazione moriva di malaria. La romagna tutta era da circa tre secoli sotto il dominio dello stato pontificio, tolta la parentesi napoleonica, che non aveva di certo migliorato le condizioni della popolazione, le terre erano sempre state dominio dei Papi. Non esisteva libertà di stampa, né tanto meno di pensiero, nei paesi più piccoli erano i parroci a farla da padroni e la povera gente ravvisava nelle tirannie che subiva il rappresentante diretto del despota che stava a Roma. Si spiega anche con questo l'insorgenza di un forte sentimento anticlericale che ancora permane nella gente di romagna. In seguito, non a caso la Romagna divenne il primo focolaio dell'idea repubblicana, e sempre non a caso si tenne proprio a Rimini il secondo congresso degli anarchici italiani, nel maggio del 1872 durante il quale si mise in luce il giovane imolese Andrea Costa.
Stefano Pelloni dunque crebbe in un contesto di malcontento generale, era nato il 4 agosto del 1824 ultimo di dieci figli. Il padre possedeva un piccolo podere con casa e stalla e guadagnava benino avendo in concessione il diritto di traghettare su una zattera i passeggeri da una parte all'altra del fiume Lamone. Da questa attività, ereditata in famiglia da generazioni, derivò a Stefano Pelloni il nomignolo di Passatore, appellativo che era già del padre e che non lo abbandonò mai.
Fin da piccolo fu astuto e disubbidiente, un carattere inquieto. Dotato di un'agilità sorprendente, nelle liti fra compagni primeggiava sempre per forza o per astuzia. Non aveva paura di nessuno ed era anche capace di mentire al momento giusto. Il padre, disperato per i suoi comportamenti violenti, decise di allontanarlo da casa, per farlo studiare, ma senza successo alcuno.
Ancora giovanissimo, il Passatore si trovò coinvolto in quello che oggi verrebbe definito un “omicidio colposo”, pare che durante una rissa, scagliando una pietra verso il suo avversario, colpisse invece una donna incinta che, per conseguenza, prima perse il bambino e poi morì a causa di un'infezione. Accusato di omicidio e tratto in arresto fu condannato a tre anni di carcere. Evaso, si dette alla macchia e iniziò la sua carriera di brigante. Forse la realtà degli eventi che portò il Passatore in galera per la prima volta fu leggermente diversa, questa leggenda dell'omicidio involontario servì solo ad alimentarne il mito. In realtà di certo c'è che Stefano Pelloni aveva solo 15 anni quando iniziò a fare i conti con la giustizia pontificia e a 19 era già un brigante discretamente quotato. Successivamente fu arrestato ed evase diverse volte acquisendo sempre più fama e diventando il ricercato numero uno. In tutte le parrocchie fu diffusa una circolare che lo descriveva, una serie di dati che fanno sorridere se paragonati agli odierni identikit :

“Stefano Pelloni
nativo del Boncellino
domiciliato in Boncellino
surnomato Malandri o Passatore
condizione bracciante
statura giusta
anni 20
capelli neri
ciglia idem
occhi castani
fronte spaziosa
naso profilato
bocca giusta
colore pallido
viso oblungo
mento tondo
barba senza
corporatura giusta
segni particolare sguardo truce”

I simboli sono importanti, sintetizzano significati complessi che richiederebbero lunghe spiegazioni, sono rivelatori dell'animo di chi li elegge in propria rappresentanza ed è tristemente rivelatore per i romagnoli che essi si siano dati quale personaggio simbolo la figura di questo brigante, che nella realtà storica non fu nient'altro che un bandito feroce e inutilmente crudele. Un torbido figuro, sifilitico, privo di intelligenza e spessore storico, il quale rubava ai ricchi perchè rubare ai poveri equivaleva a “cercare il grasso nella cuccia del cane” (come si dice in Romagna) e che ai poveri non ha mai dato il becco di un quattrino se non per comprare la loro omertà. Ben sapendo che solo con le minacce non avrebbe ottenuto uguale fedeltà, rimborsava adeguatamente e abbondantemente chi lo proteggeva, in modo da attirare le “simpatie”di sempre nuovi contadini poveri disposti ad accoglierlo nelle loro case, a nasconderlo nei loro capanni. La sua generosità dunque era suggerita da un preciso interesse, così come per comprarne favori e complicità pagava le donne che lo seguivano e che servivano ad allietare lui e la sua banda.
In conclusione, il Passatore non fu veramente né “cortese”, né eroe, compì rapine in ogni paese della Romagna seminando terrore e lasciando morti sul suo cammino, se ne contano almeno una ventina a suo carico, ma sia ben chiaro che la sua avventura di politico non ebbe nulla, non si interessò di liberare la sua terra dall'oppressore ma semplicemente di arraffare quanto più possibile ai cittadini benestanti e solo per tornaconto personale.
Dopo che molta parte dei componenti la sua banda erano stati arrestati, per uno strano scherzo del destino, fu denunciato proprio da un pover'uomo, senza casa, preda delle peggiori tribolazioni e della miseria più nera, fu scovato nascosto in un capanno, ucciso dai gendarmi e portato in giro su un carretto a dimostrazione, per tutto il popolo, che la sua epopea era terminata: era il 23 marzo 1851.

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Immagini d'autunno

23 Novembre 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #poesia

Immagini d'autunno

Una poesia di Assunta Castellano scritta alla vigilia dell'autunno.

Suoni rumori e colori che prendono vita dal succedersi delle parole e gli odori dei frutti di stagione sembra di poterli annusare. (Franca Poli)

Immagini d'autunno

Assunta Castellano

Ambrati colori di foglie
sotto un cielo che a tratti s'adombra...
velati pensieri nascosti
ora dentro diventano d'oro.

Sulla pelle v'è un brivido dolce
come vento che tocca e non tocca...
sono rosse le bacche...

sono chiuse nel mallo le noci...
ma più bello sei tu... Melograno...
come il rosso vermiglio dei fiori
ora sgrani il tuo triste Rosario.

Lì nel bosco... ricciute castagne
ora piano si schiudono al sole...
ed i funghi a piè delle querce
abbracciati nell'umida terra.

Ci vedremo quest'anno?
Io lo spero!
Ti preparo quel letto di foglie
che scricchiolerà sotto i piedi...
ed avremo guanciali d'amore
e le more per colazione...
come foglia che non vuol cadere...
al tuo ramo mi terrò stretta!

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Il ranocchio e la zanzara

7 Ottobre 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

La rana
La rana

Qualche tempo fa nel centro dove abito successe un fatto curioso e a mio avviso molto simpatico, uno di quegli episodi tipici da film di Fellini. In paese da qualche tempo avevano eretto il “monumento” alla rana, divenuta un po' un simbolo in quanto ogni anno si tiene in città una sagra in suo onore, famosa in tutta la Romagna. La rana di notevoli dimensioni era stata prima posta in mezzo al parco pubblico comunale, poi, siccome i bambini l'avevano scambiata per un cavallo a dondolo, è stata spostata al centro di una rotonda situata all'ingresso del paese.

L'anno scorso, il fatto. Durante la notte un buontempone posò davanti alla rana un altrettanto “bella e importante” scultura raffigurante una zanzara. In paese si formarono subito due correnti: chi riteneva che fosse stato un gentile pensiero, “la rana doveva pur nutrirsi”, e chi invece non la prese di buon grado, come il sindaco, e la fece rimuovere. Per nulla scoraggiato l'anonimo artista, dopo poco, ne pose un'altra nella stessa posizione, giusto davanti la bocca della rana, ma stavolta di dimensioni molto più grandi. La rana avrebbe avuto così di che cibarsi per un bel po'. Il caso oramai aveva assunto una risonanza tale che l'allora primo cittadino, stanco degli sghignazzamenti che accompagnavano il suo passaggio e delle chiacchiere da bar, si vide costretto a prendere un provvedimento sottolineando : “Fa piacere che ci sia ancora chi ha uno spirito umoristico, in un momento così difficile, ma ciò non toglie nulla a quanto già affermato con la posa della precedente "zanzara": per quanto ben fatta – e qui ringrazio l'anonimo artista – ci sono regole che vanno semplicemente rispettate. Questo semplice condizione mi ha obbligato a fare una denuncia verso ignoti, a difesa del patrimonio pubblico a cui è iscritto anche il monumento al ranocchio. Non c'è nessun pregiudizio, nessuna paura, come qualcuno ha insinuato in qualche blog, ma solo rispetto delle regole, dove non può accadere che un cittadino si senta legittimato a posizionare in un monumento o in qualsiasi luogo pubblico quello che più gli pare.”

E così anche la seconda zanzara venne rimossa, tutto sembrava di nuovo essere stato messo a tacere , come sempre accade dopo le accalorate discussioni dei residenti al bar, o in piazza, o sul posto, davanti alla povera rana rimasta a digiuno, su ranocchio e zanzara calò il velo dell'oblio. Senonchè il sindaco in un tardivo impeto di umorismo, decise un bel giorno di porre entrambe le zanzare, ristrutturate, dipinte e lucidate, in un'aiuola di nuova costruzione di fronte allo stadio comunale: una, la piccola, posata sul ramo di un albero, e la grande in bella mostra al centro di un tappeto di bianchi ciottoli. Si era scusato in anticipo ”siamo in ritardo nel posizionare la prima zanzara in quanto non sono ancora risolti problemi di sicurezza. Ma questo lo si farà – come già detto – tutelando l'incolumità dei bambini e dei loro giochi, a fronte di materiali ferrosi che possono creare problemi. Ed anche questa sarà un occasione per superare polemiche noiose e dare smalto e “onore” all'anonimo artista locale, permettendo così a tutti i cittadini ed ospiti di ammirarle.”

Prima lo aveva denunciato e poi si era incredibilmente ravveduto, scoprendo nel buontempone un “artista” di futura fama. Tutto risolto dunque con buona pace delle chiacchiere di paese, anche se un senso può avere una zanzara di fronte a una rana e un altro non ne ha assolutamente una zanzara, da sola, al centro di un crocevia. Non è raro infatti che chi la vede per la prima volta, spontaneamente, chieda “ma chi ha speso dei soldi pubblici per erigere un monumento alla zanzara?” Insomma per farla breve non c'è pace per questi animaletti, insetti o anfibi, così poco simpatici e per nulla amati. Tutta la storia non finisce in un apologo, come una favola di Esopo, qui siamo in un piccolo centro della bassa Romagna dove il tempo scorre lento e le “cose” paesane acquistano importanza, animano e dividono l'opinione pubblica, si discute, si formano schieramenti, si prendono posizioni che non mutano come nei film di Peppone e Don Camillo, dunque credo di non sbagliare dicendo di tale episodio se ne parlerà ancora.

Già perchè da noi ci sono gli “incontentabili” quelli che trovano sempre da ridire su ogni iniziativa. Pensate che tempo addietro quando fu eretto il monumento alla mondina e allo scariolante con il quale si volevano ricordare i primi moti bracciantili e le rivendicazioni che sfociarono nell’eccidio avvenuto in paese nel 1890, una voce in mezzo alla folla, il giorno dell'inaugurazione alla vista della scultura, trattenendo una risata, ebbe a dire “Sembran due che aspettano la corriera.....”

La rana e la zanzara

La rana e la zanzara

La zanzara

La zanzara

La mondina e lo scariolante

La mondina e lo scariolante

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QUESTA VANA STAGIONE DI MIA VITA

4 Ottobre 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #poesia, #marcello de santis

QUESTA VANA STAGIONE DI MIA VITA

Marcello De Santis, ci ha abituato ai suoi saggi sempre interessanti su personaggi della musica e dello spettacolo, ma oggi ci regala una bella poesia, un malinconico pensiero sulla vita che scorre e che spesso vediamo passare veloce come il panorama dal finestrino di un treno in corsa. Una riflessione sugli anni che volano via e ci lasciano invecchiati, inariditi in attesa dell'ultima stazione. (F.P.)

QUESTA VANA STAGIONE DI MIA VITA

Stride un treno in frenata

vagoni arrugginiti

che sanno solo la monotonia

dei binari infuocati

e della scia

del fumo che si scioglie nell’azzurro

mentre sonnecchio chino sul mio petto

e non so come e quando

raggiungerò la meta

conosco solo il tempo

che azzurra i miei capelli

e inaridisce dentro i sentimenti

e si mangia i ricordi

e li trasforma in lacrime silenti

la stazione è deserta

e il treno non riparte

solitario ristà al binario morto

come l’anima mia

arida nella brina che scolora

definitivamente

questa vana stagione di mia vita

marcello de santis

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Pierluigi Spagnolo, "Bobby Sands il combattente per la libertà. Una storia irlandese"

1 Ottobre 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #recensioni, #personaggi da conoscere

Pierluigi Spagnolo, "Bobby Sands il combattente per la libertà. Una storia irlandese"

Bobby Sands Il combattente per la libertà. Una storia irlandese

Pierluigi Spagnolo

Editrice L'Arco e La Corte

pp. 119

Leggere la storia di Bobby Sands è come ricevere un pugno nello stomaco. Nel libro vengono descritte e approfondite la figura e la vita di Robert Sands, giovane irlandese di Belfast, morto nel 1981 mentre era detenuto nel carcere britannico di Long Kesh, dopo uno sciopero della fame durato 66 giorni e vengono portate alla luce attraverso citazioni e racconti le condizioni disumane della sua prigionia. Bobby, nato a Rathcoole, un quartiere di Belfast, il 9 marzo del 1954, era cresciuto in una famiglia cattolica e fin dalla prima giovinezza si vide costretto a subire l'astio, il risentimento, il rancore settario di un paese diviso da conflitti, tuttora esistenti, che affondano le loro radici in motivazioni non solo religiose, ma anche culturali, nazionali, sociali e politiche. Crebbe in una città spesso messa a ferro e fuoco dalle parti in lotta, divisa da steccati, frammentata da barricate erette non solo sulle strade, imparò a convivere coi problemi di una terra presidiata dall'esercito britannico e dilaniata dal conflitto fra cattolici e protestanti, ma vedendo la madre piangere, soffrire per le enormi ingiustizie, non si abituò e non accettò mai tale assurda realtà. Insieme alla sua famiglia fu costretto a cambiare casa più volte a causa delle vessazioni dei vicini che, appena scoprivano la loro appartenenza religiosa, li umiliavano e li perseguitavano. Come lui tanti erano i giovani cattolici irlandesi che, alla disperata ricerca di un lavoro, si trovarono di fronte a porte sbarrate: fabbriche, cantieri, negozi sui cui ingressi erano affissi cartelli con la esplicita scritta :”Non si assumono cattolici”. A soli diciotto anni, per reazione a queste sopraffazioni Bobby si arruolò volontario nel Movimento Repubblicano, decisione questa che decretò l'inizio della sua fine. La militanza lo portò, in due anni, a subire due arresti e affrontare altrettante condanne, con la seconda gli furono comminati 15 anni di carcere per la presunta partecipazione a un attentato avvenuto nell'ottobre del 1976, seguito da un conflitto a fuoco con la polizia inglese. Fu condannato sulla base di prove assolutamente indiziarie, senza testimonianze e senza che lui rendesse mai una confessione diretta, nonostante le torture e le sevizie subite durante gli interrogatori.

Mi fu ordinato di allargare le gambe e di poggiare sulla pianta dei piedi e delle mani, faccia verso il muro; un poliziotto visibilmente ubriaco continuava a sferrarmi violenti pugni sui reni, fianchi, collo, sulla schiena, in effetti dappertutto. L'altro agente mi teneva per i capelli sputandomi in faccia raffiche di domande (...) iniziarono a sferrare violenti calci sulle gambe e le mie parti intime, così forte da farmi mancare il respiro e farmi cadere due volte solo per essere pestato di nuovo e rimesso contro il muro.(...)

Vi risparmio la durata e l'intensità dell'orribile trattamento che gli riservarono prima di processarlo, carcerazione preventiva che durò in queste condizioni per undici lunghi mesi. La condanna, come già detto, venne emessa senza che vi fossero legami accertati fra Bobby e l'attentato, la rabbia con cui accolse la severissima e immeritata sentenza, gli causò l'aggravio di pena di un ulteriore periodo di sei mesi. In realtà il ragazzo fu condannato non per la certezza della colpa, bensì per la certezza della sua appartenenza all'I.R.A., la più nutrita e meglio organizzata milizia del Movimento Repubblicano Irlandese. L'esercito di liberazione, che combatteva nell'Ulster (Irlanda del Nord) per porre fine alla presenza britannica sull'isola, per difendere la minoranza cattolica e ricongiungersi alla Repubblica d'Irlanda già libera e sovrana. Bobby aveva, innegabilmente, partecipato a quelli che comunemente venivano definiti “the trubles”, cioè i disordini, i problemi di ordine pubblico, ma è altrettanto certo che nessuno cadde mai sua vittima o morì sotto i colpi della sua pistola. L'Europa ha ignorato per anni la realtà di Belfast, del Nord Irlanda, ultima colonia inglese del vecchio continente, permettendo così l'instaurarsi di una vera e propria “apartheid”. La Gran Bretagna, in modo subdolo e ipocrita, giustificava, agli occhi del mondo, l'utilizzo del suo esercito quale deterrente a movimenti violenti, per favorire la convivenza tra due diverse comunità, in realtà con la sua massiccia presenza e con il suo atteggiamento, spesso brutale, da esercito di occupazione alimentò violenze e dissensi. Bobby Sands aveva iniziato a lavorare molto presto come apprendista carrozziere per contribuire ad innalzare il modestissimo tenore di vita della sua famiglia, ma amava leggere, trai suoi autori preferiti Kipling e Oscar Wilde.

Grande appassionato di poesia, ne compose molte negli ultimi anni della sua breve vita trascorsi in carcere, dove scrisse anche un “diario”, una raccolta di pensieri vergati di nascosto su un rotolo di carta igienica e fatti uscire clandestinamente dalla cella. Il libro venne pubblicato poi col titolo “Un giorno della mia vita” in cui si ha uno spaccato esatto e fedele di quello che succedeva all'interno.

“ …i soffocanti mesi estivi, quando le celle si trasformavano in forni e il puzzo della della spazzatura e del cibo ormai rancido diventava insopportabile. Era allora che migliaia di vermi bianchi uscivano fuori dai mucchi di rifiuti, striscindo e contorcendosi tutti (...) mi stavano strisciando sui capelli, sulla barba, su tutto il corpo. Erano ripugnanti,e, a prima vista facevano paura (….)”

Come tutti i ragazzi della sua età amava la chitarra, aveva una passione per il canto e portava lunghi capelli neri, che gli cadevano ribelli sulle spalle, capigliatura che gli valse il nomignolo di “Geronimo”. Dotato di un fisico forte e muscoloso era uno sportivo, praticava con successo attività in cui eccelleva per il suo spirito agonistico, come il rugby e il football, suoi sport preferiti. Era un lottatore inarrestabile e non si arrendeva di fronte a nulla, caratteristica che gli costò molte persecuzioni dagli aguzzini del carcere in cui fu detenuto e fu proprio questa sua incrollabile determinazione a portarlo alla morte. Nei durissimi anni di reclusione Bobby divenne l'emblema della guerra contro il Regno britannico, lui e gli altri “prigionieri politici” ingaggiarono una lotta senza frontiere con le autorità inglesi, protestavano per le inumane condizioni di trattamento del carcere e per attirare l'attenzione del mondo indifferente sul quello scorcio di Irlanda. Nel libro non mancano le testimonianze di altri detenuti e i documenti sulle torture subite dai prigionieri in quello che fu un vero e proprio “lager” inglese.

Che trovino un nome a questo tipo di tortura pensai (…) le percosse, l'acqua gelida degli idranti, la fame, le privazioni, che provino a dare un nome a questo terribile incubo..”

Così Bobby, risolutamente, un giorno mise in pratica l'estremo atto di protesta iniziando uno sciopero della fame che lo portò alla morte alle ore 1 e 17 minuti del 5 maggio 1981, quando aveva solo 27 anni e ormai, completamente disidratato, pesava una cinquantina di chili. Poco meno di un mese prima durante le elezioni suppletive per un seggio circoscrizionale era stato candidato ed eletto, ma nemmeno questo era servito a farlo desistere e a interrompere la sua battaglia. Oramai aveva deciso: il mondo doveva sapere e seppe, ampie furono le testimonianze a livello internazionale di cordoglio e sdegno. Il Papa Giovanni Paolo II mandò in dono una croce pastorale d'oro massiccia che gli fu messa tra le mani il giorno del funerale svoltosi il 7 maggio nella chiesa di San Luca a Belfast, ove parteciparono oltre centomila persone giunte da ogni dove per portare un fiore al “digiunatore, morto per la fame di libertà”.

Questo è il personaggio che esce dalle pagine del libro, un giovane controverso valutato un “terrorista senza scrupoli” dagli Inglesi , Margaret Thatcher ebbe a pronunciare tali parole anche il giorno della sua morte, e ritenuto, al contrario, dai propri sostenitori un moderno martire per la libertà. Chi era dunque Bobby Sands?

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Giovanni Guareschi

17 Settembre 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #saggi, #personaggi da conoscere

Giovanni Guareschi

La poesia bisogna sentirla, non capirla.” (Guareschi da “Diario Clandestino” pag.35)

Ho una “passione” segreta per Giovannino Guareschi scaturita inizialmente dai film tratti dalle sue opere, in particolare dalla saga “Peppone e Don Camillo”, poi dalla lettura dei suoi libri e non solo. A poco a poco ho apprezzato l’uomo che faceva satira politica, a cui alcune “denunce” sono costate il carcere e non sotto il regime fascista ma proprio nei primi anni dell’Italia democratica .

Guareschi sapeva colpire a destra e a sinistra con i suoi articoli pungenti nel “Bertoldo” prima, nel “Candido” poi, e con i suoi molteplici racconti. Non temette infatti le grane che gli vennero dal dire apertamente verità scomode: le polemiche con il presidente Einaudi per una vignetta sul “Candido” gli costarono nove mesi di carcere che si andarono ad aggiungere agli altri dodici, comminatigli per la pubblicazione delle lettere autografate da De Gasperi in cui lo stesso avrebbe chiesto agli inglesi un’azione di bombardamento allo scopo di eccitare gli animi alla rivolta contro i nazi-fascisti. Pena scontata con testardaggine e senza volersi abbassare a chiedere la grazia, in 13 mesi e 9 giorni, cioè fino al raggiungimento degli sconti previsti per buona condotta.

Nelle storie che raccontava Guareschi c’è un realismo tangibile, selezionato dalla vita di tutti i giorni dei paesi emiliani del dopoguerra, nei quali sapeva vedere e descrivere le sfumature dei gesti e dei pensieri di un popolo diviso fra comunisti inneggianti la rivoluzione e democristiani attaccati alla tonaca e al campanile. Storie viste, forse, con un po’ troppa giuliva illusione di un mondo sempre buono e disposto alla comprensione. Vicende umane narrate come lo scorrere del grande Fiume che costeggia i paesi della bassa e placido e indifferente porta tutto verso il mare e che, spesso, per l’imprevedibilità della vita, diventava lui stesso protagonista.

Guareschi non fu solo Peppone e Don Camillo: nel 1963 realizzò un cortometraggio dal titolo “La rabbia” curato insieme a Pier Paolo Pasolini, il nobile intento era quello di commentare fatti di cronaca con ottiche diverse da destra e da sinistra, ma il lavoro ebbe scarso successo e poca risonanza. Qualche anno orsono ricomparve, restaurato a un Festival del cinema, magicamente solo nella parte riguardante il regista, i commenti “scomodi” di Guareschi erano stati tagliati. Ancora, dopo tanto tempo, risulta difficile accettare la sua voce “fuori dal coro”. I suoi articoli gli avevano attribuito l’etichetta di fascista, io non so se lo fosse, di certo era un uomo scomodo, capace di assumersi personalmente la responsabilità dei propri gesti e delle proprie parole, capace di andare sempre contro corrente, di analizzare e giudicare qualunque atteggiamento o azione che si rivolgesse contro “la persona” da qualunque parte venisse. Maggiormente se la prese con gli appartenenti al partito comunista, è vero, coniando anche un termine polemico per definirne gli aderenti: i “trinariciuti.” Cioè persone con tre narici, non umani nemmeno nei caratteri somatici, cercando così di ridicolizzare chi segue solo le direttive del partito senza usare il cervello. Criticava questo modo di “non essere” così come era stato ostile nei suo diari al regime tedesco che lo aveva internato dopo il 1943. Non dimentichiamo infatti che Guareschi è stato in un lager nazista per quasi due anni. Arrivato a Czestochowa, sotto gli occhi delle guardie un bambino gli offrì una mela su cui Guareschi vide il segno dei dentini e pensò al figlio lontano. Scrisse in seguito “Lo zaino non mi pesa più, mi sento fortissimo. Lo debbo rivedere, il mio bambino: il primo dovere di un padre è quello di non lasciare orfani i suoi figli. Lo rivedrò. Non muoio neanche se mi ammazzano!”. (da “Chi sogna nuovi gerani? Autobiografia” pubblicata postuma a cura dei figli nel ’93).

E non morì, soprattutto non morì il suo animo ribelle, conservò vivo lo spirito d’osservazione e l’occhio critico dimostrandolo ampiamente nel dopoguerra. Andrea Baroni che, alternandosi al colonnello Bernacca, ci ha raccontato per tanti anni le previsioni del tempo, lo ricorda come compagno di internamento. Racconta che ricevevano acqua calda al mattino. Poi una sbobba di rape (la domenica fiocchi d’avena) 5 patate lesse e un pezzo di pane. Il cibo era scarso, ma in due anni, con precisione tedesca, non è mai saltata una razione. In quanto ufficiali che si erano rifiutati di collaborare, Hitler li definiva traditori e internati militari, non prigionieri, così la Croce Rossa non poteva intervenire sui termini della prigionia, ma di contro non erano costretti a lavori forzati, avevano molto tempo libero e, per non oziare, il grande Guareschi pensò di tenere occupati i prigionieri. Racconta Baroni: “A Sandbostel: Giovanni Guareschi baracca 29, Andrea Baroni baracca 28. Era bravissimo, faceva teatro con i prigionieri. Un giorno lo fermo: “Potrei recitare anche io?”. Mi guarda: “Con questa voce dove vuoi andare? Non ci sono gli altoparlanti a teatro!”

Nonostante il grande successo di pubblico, gli intellettuali radical chic e la critica lo snobbarono, sottolineando il suo linguaggio semplice, le sue storie troppo “naif”. Solo una rivisitazione “postuma” lo ha ampiamente rivalutato. Guareschi non era un semplice umorista, ma un uomo che aveva saputo affrontare disagi, tradimenti, (non ultima l’infondata attribuzione al servizio della CIA) e riusciva a portare nei suoi racconti le vicende umane che lo avevano segnato profondamente. La rivista “LIFE” lo definì "il più abile ed efficace propagandista anticomunista in Europa". Basti ricordare per esempio il manifesto elettorale che diceva “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no.” (Manifesto elettorale 1948, da Mondo Candido 1946-1948, a cura di C. e A. Guareschi) Indro Montanelli che ne fu amico personale ebbe a dire : "C'è un Guareschi politico cui si deve la salvezza dell'Italia. Se avessero vinto gli altri non so dove saremmo andati a finire, anzi lo so benissimo".

Guareschi era nato a Fontanelle di Roccabianca il 1º maggio 1908, giornalista, scrittore, umorista, disegnatore, vignettista ha pubblicato 20 milioni di copie in 80 lingue con oltre 100 milioni di lettori in tutto il mondo, eppure fu circondato da tanta solitudine culturale e istituzionale al momento della sua morte, avvenuta a Cervia dove si trovava con la figlia e il nipote nell’estate del 1968. Pochissime le personalità che si recarono al paese per le esequie. Enzo Ferrari fu uno dei pochi illustri ai funerali, a fargli apprezzare l’opera di Guareschi era stato proprio il figlio Dino,scomparso già da una decina d’ anni, ma per il quale portò a vita il segno del lutto sul viso.

Anche Giovannino Guareschi oramai riposa al cimitero dei galantuomini. È un luogo poco affollato. L’abbiamo capito ieri, mentre ci contavamo tra di noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita delle due mani.”

Baldassarre Molossi, storico direttore della Gazzetta di Parma terminò con queste amare parole il suo articolo il giorno dopo i funerali. Spero serviranno queste poche righe a far conoscere, soprattutto ai più giovani che avranno la pazienza di leggere, un bravo scrittore che seppe trasfondere tanta umanità nei suoi libri, un uomo caparbio che pagò sempre in prima persona le sue scelte, affrontando grandi battaglie e senza mai ricavarne un soldo bucato, in un tempo in cui in Italia ci si occupava di politica per passione e non per denaro e ci si animava al punto da avere il coraggio di difendere e propagandare le proprie idee.

L’Unità ebbe a scrivere il giorno successivo alla sua morte che era morto uno scrittore che non era mai nato. Io rispondo oggi con un motto che fu di Guareschi nel Candido “Contrordine Compagni “

Giovanni Guareschi
Giovanni Guareschi
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