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fantasy

Massimiliano Massa, "La guerra degli Elohim"

9 Marzo 2017 , Scritto da Simone Giusti Con tag #simone giusti, #recensioni, #fantasy

 

 

LA GUERRA DEGLI ELOHIM

Massimiliano Massa

(400 pagine, Amazon. E-book a 0,99; Cartaceo a 15,49)

 

Io ho detto: «Voi siete Elohim, siete tutti figli dell’Altissimo». Eppure morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti. (Salmi 82:6/7)

 

John Miller è un giornalista newyorkese di basso profilo. Passa le sue giornate occupandosi di servizi scadenti per la tv d’intrattenimento. La sua vita cambia di colpo non appena un tizio che neanche conosce gli chiede di poter rilasciare un’intervista molto particolare. Il tizio è un professore ed è in possesso di un video del KGB con rivelazioni scottanti.

La guerra degli Elohim parte come un thriller con tutte le carte in regola per trasformare la lettura in un’avventura intricatissima fra vecchi segreti della Guerra Fredda e realtà celate dietro il sipario di un complotto internazionale. Eppure dietro il thriller spionistico si nasconde un romanzo che affonda la sua ricerca fino all’origine dell’uomo.

La guerra degli Elohim è un romanzo con tantissimi strati di lettura. È un’avventura thriller-fantasy-fantascientifica, ma è anche uno sprone per porsi domande e iniziare a indagare, ed è ancora di più, è un passo per renderci consapevoli del Velo di Maya attraverso cui siamo abituati a filtrare la realtà. Insieme a John Miller avremo la possibilità di vivere un’avventura memorabile, ma non solo, di vivere un’avventura che ci cambierà così nel profondo da migliorare il mondo in cui viviamo.

Cambia te stesso e cambierai il mondo. Ma per farlo dovrai prima capire.

Questo è il messaggio del romanzo. Un messaggio cucito in una trama formidabile e in un intreccio da grandioso film d’azione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Niccolò Gennari, "L'incanto del tempo"

19 Gennaio 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #fantasy

 

 

 

L’incanto del tempo

Niccolò Gennari

 

Nulla die, 2017

pp 377

19,90

 

Orchi, gnomi, folletti, fate, streghe, stregoni, coboldi, draghi, nani, troll. C’è tutto il repertorio dell’high fantasy epico, in auge dagli anni 30 del novecento fino ai 90, quello di Tolkien, Terry Brooks, Marion Zimmer Bradley, ma ci sono anche influenze successive, come l’apprendistato dei maghi in stile Rowling e i draghi buoni di Christopher Paolini, in questo L’incanto del tempo di Niccolò Gennari, primo volume di una saga a venire, basato sulla quest della prima goccia - una delle bacchette elementali nate dall’Albero della Luce - capace di comandare l’acqua.

Gennari, astronomo e fondatore di una catena di negozi fantasy, tenta una sorta di ritorno alle origini del fantastico primigenio, ma il tempo è passato, l’autore inserisce realtà, come gli eccessi alcolici e il sesso, che non erano presenti – né pensabili – fino agli anni novanta.

La classica storia di ricerca è abbastanza lineare ma non eccessivamente coinvolgente, i personaggi sono quelli stereotipati del genere. C’è il giovane antieroe, c’è la fanciulla misteriosa e prodigiosa che nasconde un segreto, c’è la compagnia eterogenea impegnata nella cerca e ci sono tutte le altre creature buone o malvagie a far da contorno.

Forse perché l’autore è vissuto in un periodo in cui il fantasy si è espresso più che altro visivamente – attraverso il cinema, le serie tv, i videogiochi ed i giochi di ruolo – ma tutto è affidato all’azione, mentre mancano, almeno in questo primo volume della saga, l’approfondimento, l’introspezione dei personaggi e la costruzione di un mondo secondario affascinante e credibile, come se ci si limitasse a citare oggetti e creature magiche facendo affidamento sul fatto che il lettore avvezzo al genere già sappia di cosa si sta parlando.

Fanno eccezione due luoghi, cioè il “Bosco Rosso”, la foresta abitata dai folletti che altro non è se non una gigantesca caldera, e la “Fine del mondo”. Ogni fantasy che si rispetti ha un luogo che non si può dimenticare, dalla terra di Mordor di Tolkien, al gigantesco muro di ghiaccio di Martin. Qui resta infissa nella mente l’inimmaginabile cascata, dove tutta l’acqua del mare va a riversarsi in un vuoto senza fine. L’autore riflette che, se ci sembra normale avere il nulla sopra la testa, potrebbe esserlo anche vederselo di fronte come un immenso burrone sconfinato.

Lo stile del romanzo è piano, senza echi lirici né epici, con parecchie imprecisioni – che l’editore stesso in una nota invita il lettore a segnalare – e con la fastidiosa e sconcertante abitudine di ripetere la stessa parola ogni due righe.

 

NOTA BENE. In data 12 agosto 2017 l'editore ci informa che :

 

È stato completato un nuovo editing del romanzo “L’Incanto del tempo”, una revisione che ha individuato e corretto più di 300 errori di vario tipo, tra cui refusi, errori grammaticali, ripetizioni, ecc.

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Dissoluzione di un mito

29 Marzo 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #fantasy

Dissoluzione di un mito

Per fanfiction s’intende la continuazione di una storia cult da parte degli appassionati. I lettori affamati di altro materiale possono proseguire la storia, colmare le lacune, resuscitare i loro beniamini, creare sequel o prequel. Nel caso della fanfiction di Twilight di S. Meyer, ovvero il famigerato, inflazionato, Fifty Shades of Gray - dove Gray sta per Grigio ma anche per il cognome dell’algido, imbalsamato, stoccafissico protagonista - più che di una continuazione si tratta, a quanto pare, di una parodia che ha preso la mano alla scrittrice Erika James.

Nell’introduzione viene spiegato che ella “dreamed of writing stories that readers would fall in love with”. Bene, ci pare che sia proprio ciò che non ha fatto, mentre l’operazione era perfettamente riuscita alla Meyer. E tuttavia, quando un caso editoriale assume tale portata, quando ogni persona che incontri, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi studio dentistico o vagone ferroviario, tiene in mano una copia del romanzo incriminato, quando ogni libreria, ogni vetrina, ogni stand di autogrill trabocca di copertine tutte nere con un anodino groppo di cravatta, quando gli alberghi americani hanno sostituito la vecchia Bibbia con le Cinquanta Sfumature, allora non si può liquidare il fenomeno senza nemmeno tentare di capirci qualcosa.

Facciamo un passo indietro, torniamo all’originale, alla saga di Twilight, rivisitazione moderna ma ancora fascinosa del mito della Bella e la Bestia, dove la protagonista, appunto Bella Swan, è una ragazza qualsiasi, una Cenerentola capace di conquistare il principe dei vampiri, Edward, bello fino all’impossibile (cui l’attore del film omonimo non rende giustizia) non incenerito dal sole ma scintillante sotto di esso come un cristallo rifratto, puro di cuore, “vegetariano”, romanticamente lacerato fra i suoi istinti e l’input morale che lo spinge a sublimare il desiderio. Bella lo attira perché il suo sangue ha per lui il più dolce dei richiami, è nettare e delizia, è fragranza e rimorso. Pur di amarla, pur di starle vicino, soffocherà l’istinto omicida, lo trasformerà in protezione, che è poi quello che ogni maschio fa con la sua donna, tenendo a bada l’impulso sessuale, avvolgendolo di tenerezza. Bella Swan è vera, con problemi familiari tangibili, emozioni adolescenziali comuni a molte ragazze della sua età e una naturale propensione alla solitudine, alla malinconia.

Che resta di questi due personaggi in Fifty Shades? Edward Cullen diventa Christian Grey, privo di allure, sexy quanto un manichino da vetrina, maniaco sessuale sadico che si diverte a frustare le sue donne, ad appenderle al soffitto, a flagellarle, a inserire nella loro vagina sfere di piombo, a far loro firmare pedantissimi contratti sul ruolo Dominante/Sottomessa. Al contrario di Edward, Christian non sorride, ghigna, non è tormentato, non è romantico, “I do not make love”, dice, “I fuck hard”, ed è buono solo perché il suo maggiordomo compiacente ci dice che lo è. Christian Gray è un divoratore di fanciulle innocenti, come il suo ispiratore Alec Stoke in Tess dei d’Urbeville di cui, a quanto pare, la James è intenditrice. Christian regala alla sua vittima preziosissime edizioni del romanzo di Hardy forse per convincere lei (e pure noi) che nelle sue perversioni c’è qualcosa di letterario.

L’indomita, coraggiosa, Bella Swan diventa la brutta copia Anastasia Steele, un personaggio che non vediamo, che non ha volto, che è sempre tutto un bollore costante, che passa i suoi giorni ad arrossire, a mordersi il labbro e “andare in pezzi” per orgasmi multipli e stellari.

Quasi tutte le scene principali dell’originale Twilight sono fotocopiate nella fanfiction, stravolgendole e togliendo loro dignità. Non c’è trama, non c’è sviluppo, solo un susseguirsi di atti sessuali porno soft, sempre più ripetitivi al punto che, già al quarto o quinto, ci viene da sbadigliare: “oddio, no, lo fanno ancora.”

Bella Swan scopre, attraverso Edward Cullen e la sua gente, un mondo diverso, magico, sotterraneo, parallelo, dove vampiri e lupi mannari sono credibili e coerenti con questa nostra realtà moderna, con la realtà di tanti adolescenti americani.

La visita di Bella/Anastasia alla famiglia Cullen/Gray è un esempio di come l’inventiva, la fantasia e l’ironia della Meyer vengano trasformate dalla James in volgarità e pochezza. Persino i nomi dei padri dei protagonisti maschi si somigliano, Carrick, il padre di Gray, riecheggia Carlisle, il medico vampiro padre di Edward. Ma dove è finita la tensione morale, la lotta contro l’istinto che trasforma un vampiro potenzialmente letale in chirurgo compassionevole, sempre pronto ad aiutare chi soffre? Mentre Bella affronta con coraggio e ironia la famiglia vampira, sperando di non diventare lei la cena, confidando sull’istinto che le indica quelle persone come buone e capaci di proteggerla dal male, Anastasia Steele si presenta all’incontro senza mutande, fa piedino sotto il tavolo al suo dominante e sgattaiola appena può nella dependance per consumare l’ennesimo atto sessuale. Il divertimento è assente, il gioco è più osceno che erotico, la trama è solo un pretesto. Non c’è passione vera, solo l’iniziazione al sesso di una ragazzina che dice di volere di più dal suo mentore ma che, in realtà, ha in testa solo una cosa. Anastasia precipita in una spirale di perversione crescente, vittima consenziente di uno stalker, un uomo che gode a prenderla a cinghiate e la fa sentire umiliata e paga allo stesso tempo. Per riflettere, ella colloquia in continuazione con il suo subconscio e con la sua dea interiore, buona coscienza l'uno, cattiva l'altra, che sono, paradossalmente, forse i personaggi più vivi del libro, sebbene ce li immaginiamo come genietti saltellanti con un fumetto fuor dalla bocca.

Laddove l’originale vampiro sapeva commuovere, creare atmosfera, oscurità, amore, e dare corpi, volti e gestualità ai personaggi di una saga indimenticabile, qui tutto è narrato con un linguaggio ripetitivo, infarcito di una serie di mail soporifere, condito delle medesime esclamazioni infantili, “oh my”, dei medesimi aggettivi ed espressioni per descrivere scene ed emozioni sempre identici.

Quale sarà il motivo dell’incommensurabile successo planetario di una fanfiction, di una semiparodia nata su commissione? Per il primo libro la parte del leone la fa certamente la curiosità, stimolata dal passaparola, dalla sovrabbondanza di copie visibili ovunque, ma per arrivare a comprare il secondo e il terzo bisogna forse chiamare in causa lo stimolo sessuale cui si sottopongono le pruriginose lettrici, il voyerismo, il sadomasochismo latente in ognuno di noi. Oppure la voluta indeterminatezza della protagonista - la quale più che essere in realtà non è, non è bellissima, non è intelligentissima, non è brillantissima – fa sì che con lei si possano identificare milioni di donne anonime, desiderose di immaginarsi sessualmente irresistibili e capaci di catturare un bello-ricco-superfigo?

Non sappiamo la ragione di tanto furore e vorremmo che chi è arrivato alla fine della saga ce lo spiegasse perché, se errare è umano, perseverare fino al terzo libro pensiamo sia davvero diabolico.

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ALIA Evo 2.0

19 Marzo 2016 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #fantasy

ALIA Evo 2.0

ALIA Evo 2.0

Curatori: Silvia Treves e Massimo Citi

disponibile in formato .mobi, .epub, .pdf e .azw3.

Pagine 510 - € 5,99

ALIA è una parola che non esiste nella lingua italiana. Solo per il momento, forse. Ma per un gruppo di persone, autori e lettori, ha un significato ben preciso fin dal 2003, ovvero dalla data della prima edizione di un'antologia divenuta leggendaria. Significa fantastico - gotico, steampunk, space opera, distopia, horror, fantastico quotidiano, ghost story, fantasy, weird - scritto da autori italiani e autori stranieri. Dicono i curatori: “Siamo arrivati alla dodicesima edizione e alla seconda edizione in formato digitale. Ma questa dodicesima edizione ha una particolarità: è scritta soltanto da autori italiani. Diciassette autori che hanno deciso di unirsi in un'operazione bizzarra e inattesa nel panorama italiano, accostando i loro testi e creando un'antologia di cinquecento pagine. Un’antologia virtuale, perché l'edizione elettronica è una conferma alla nostra visione corale della narrativa. Siamo fuori moda, lo ammettiamo. Siamo superati; collaboriamo piuttosto che litigare, leggiamo prima di scrivere, pensiamo prima di parlare. Il risultato l’avete davanti a voi: un testo felicemente ricco di sfumature e carico di visioni: allucinanti, spaventose, remote o malinconiche. Il viaggio di ALIA continua”.

Gli autori di ALIA Evo 2.0:

Consolata Lanza: vive e lavora a Torino. Legge, scrive e tiene un blog, Anaconda Anoressica. È molto fiera di avere partecipato al progetto ALIA fin dall’inizio e di essere collaboratrice di LN-LibriNuovi nonché pubblicata da CS_libri. Tutte le sue opere, in cartaceo e in digitale, possono essere trovate su Amazon o presso la casa editrice digitale DuDag. Sempre più spesso i suoi lavori, anche quando non sono esplicitamente di argomento fantastico, come la maggior parte dei suoi racconti, sfumano nel surreale e, talvolta, nel fiabesco. E questo la dice lunga sul suo rapporto con la realtà.

Eugenio Saguatti: nato a Bologna nel 1968, in piena contestazione studentesca. I fumi delle molotov, respirati in fasce, hanno lasciato il segno. Per lungo tempo tenta di fare la persona normale, a modo, ma fallisce. Dopo una imbarazzante serie di insuccessi lavorativi - fabbro, venditore di enciclopedie, elettricista, tornitore, magazziniere in un atelier di moda (per cinque giorni), giornalista (per tre anni), pubblicitario, insegnante di grafica - si arrende: fare lo scrittore, o morire tentando. Ha pubblicato un centinaio di racconti e, nel 2010, il primo romanzo. Piuttosto che dare alle stampe il secondo, l’editore dichiara fallimento. Ricomincia daccapo, di nuovo. Al momento sbarcatore di lunario professionista, paga i conti con lavoretti da grafico, fotografo, verniciatore di ringhiere.

Vincent Spasaro: ha pubblicato il dark thriller paranormale Assedio (Mondadori 2011, ripubblicato nella versione originale da Anordest a Settembre 2014) e il dark fantasy Il demone sterminatore (Anordest 2013). È stato tre volte di seguito finalista al Premio Urania e una al Solaria. Ha curato per anni la collana di letteratura weird Fantastico e altri orrori delle Edizioni Il Foglio.

Danilo Arona: scrittore, chitarrista e critico cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Melissa Parker e l’incendio perfetto (Dino Audino), Black Magic Woman (Frilli), Palo Mayombe e Cronache di Bassavilla (Flaccovio), L'estate di Montebuio (Gargoyle Books), Ritorno a Bassavilla (Edizioni XII), Malapunta — L’isola dei sogni divoratori (Cut Up), Finis Terrae e Bad Visions (Mondadori), La croce sulle labbra (Anordest) in coppia con Edoardo Rosati, Io sono le voci (Anordest), Vento bastardo (Iris 4), L’autunno di Montebuio (NeroCafè) con Micol Des Gouges, Rock (Edizioni della sera), Km 98 ancora con Edoardo Rosati (Anordest), Un brivido sulla Schiena del Drago (Larcher) e Croatoan Blues (NeroCafè).

Maurizio Cometto: nato a Cuneo il 29.09.1971. Tra i suoi libri pubblicati, il romanzo Il costruttore di biciclette (Il Foglio 2006), la raccolta L’incrinarsi di una persistenza e altri racconti fantastici (Il Foglio 2008), e il romanzo per istantanee Cambio di stagione (Il Foglio 2011). Ha pubblicato numerosi racconti in antologie, siti internet e riviste. Laureato in Ingegneria Meccanica, vive a Collegno.

Massimo Citi: è stato essenzialmente un libraio, episodicamente uno scrittore. In questa veste ha pubblicato qualche racconto in antologie varie, vinto il premio nazionale Omelas nel 2001 e pubblicato, tra gli altri, l'antologia In controtempo per CS_libri, il romanzo UKR per DuDag, Luna lontana e Settembre del ciclo della Corrente presso Amazon.it, Il perdono a dio, Coralinda e La testa tra le nuvole presso LuLu. Appassionato di fantastico e di fantascienza ha pubblicato i suoi racconti nelle antologie Fata Morgana e ALIA. Questo racconto, come altri precedenti, è ambientato nei mondi della Corrente.

Fabio Lastrucci: nato a Napoli nel 1962. Scultore e illustratore, ha lavorato con le principali reti televisive nazionali e il Teatro lirico nei laboratori Golem Studio e Metaluna. Nel 1987 disegna il fumetto La guerra di Martìn, su testi di Francesco Silvestri. Come autore teatrale ha scritto lo spettacolo Racconti salati (con F. Rea e F. Fiori), inoltre ha pubblicato racconti in riviste e antologie edite (tra gli altri) da Il Foglio Letterario, CS_libri, DelosBooks e Dunwich. Nel 2012 pubblica il saggio I territori del fantastico con le Edizioni Scudo e nel 2015 il saggio Fantacomics con Delos Digital. Tra il 2014/15 pubblica con Dunwich edizioni l'horror L'estate segreta di Babe Hardy, e con Milena Edizioni i romanzi Precariopoli e Il ritorno dell'Arcivento. Collabora con interviste, recensioni e articoli con le riviste «Delos Science Fiction» e «Rivista Milena».

Chiara Negrini: mantovana di nascita e piacentina d'adozione, ha pubblicato racconti per Delos Books e per Edizioni Domino, esplorando vari generi: umoristico, fantastico, romance, drammatico. Nel 2014 esordisce per i tipi di Edizioni Domino con il suo primo romanzo, Il Vampiro della Bassa, urban-fantasy dal background umoristico che raccoglie l’eredità di un Giovannino Guareschi dai contorni fantastici; scritto in dialetto mantovano-viadanese e con traduzione italiana a fondo. Il lavoro le frutta il primo premio al Premio Nazionale Cittadella come miglior urban fantasy italiano. Attualmente alterna la scrittura al disegno, attività a cui non ha mai rinunciato, e allo studio della lingua giapponese.

Davide Zampatori: nato a Roma, nel 1986, lavora come sistemista in un parco divertimenti. Dal 2011 gestisce il blog di racconti a puntate Menestrello Itinerante, mentre dal 2012 è uno degli autori di «Rivista Fralerighe», collaborando nelle rubriche di fantastico. Nel 2014 Timeshifters, storia precedentemente comparsa su Menestrello Itinerante, viene pubblicata con Lettere Animate Editore. Il 2015 lo vede tra i fondatori del collettivo di scrittura «Scrittori in corso» di cui è anche curatore.

Vittorio Catani: pubblica fantascienza dal 1962. Dal 1990 collabora alla pagina culturale della «Gazzetta del Mezzogiorno» con articoli su nuove tecnologie, futurologia, fantascienza. Ha al suo attivo cinque romanzi, fra cui Gli universi di Moras (che vinse la prima edizione del Premio Urania Mondadori nel 1990); Il quinto principio («Urania», 2009, Meridiano Zero, 2015); Per dimenticare Alessia (romanzo non di “genere”, ed. CS Libri, 2007); inoltre sette volumi di racconti, tre di saggistica. Collabora a Fantascienza.com, a «Robot», al trimestrale di ecologia online «Villaggio Globale» con racconti di fantascienza su temi ecologici. È stato tradotto in Francia, Germania, Svizzera, Repubblica Ceca, Ungheria, Finlandia, Brasile, Giappone. Ha vinto 17 volte il Premio Italia per la fantascienza; alla sua opera sono dedicate alcune tesi di laurea.

Valeria Barbera: scrive dal 2011. Ha pubblicato un romanzo e racconti in antologie e riviste quali Robot e Writers Magazine Italia. È stata finalista al Premio Robot e al Premio Francis Marion Crawford.

Paolo S. Cavazza: informatico di professione, fotografo per passione, Paolo Cavazza sognava da ragazzo di diventare un emulo di Arthur C. Clarke. Il sogno è sbiadito nel corso della sua vita professionale, ma la voglia di scrivere è riemersa da quando ha lasciato il suo lavoro ed è, più o meno felicemente, in attesa della pensione. Oltre ad una disordinata collezione di file scritti negli ultimi venticinque anni su sistemi grandi e piccoli, da Windows al mainframe IBM passando per Unix, conserva una pila di dattiloscritti ingialliti e polverosi, che sono ora oggetto di accurate analisi stratigrafiche allo scopo di recuperare le cose migliori, ed eventualmente di riscriverle in una forma aggiornata.

Francesco Troccoli: autore dei romanzi Ferro Sette (Curcio 2012 e Delos Digital 2016) e Falsi Dei (Curcio 2013 e Delos Digital 2016), ambientati nel cosiddetto Universo Insonne. L'uscita di un terzo volume è prevista per aprile di quest’anno. Del 2012 è Domani Forse Mai (Wild Boar), raccolta di racconti a cura dell'associazione RiLL. Ha curato con Alberto Cola l’antologia Crisis (Della Vigna 2014) ed è membro della Carboneria Letteraria, con cui ha pubblicato il romanzo collettivo Maiden Voyage (Homo Scrivens 2014).

Mario Giorgi: nato a Bologna nel 1956, è stato co-autore e regista del gruppo comico Trioreno, ha scritto testi per radio e teatro, ha pubblicato Codice (Bollati Boringhieri 1994), Biancaneve (Bollati Boringhieri 1995), Sulla torre antica (Portofranco 1998),23 : 59 (Rai Eri 1999), Torpore (Portofranco 2001), Alter E (Un fagiano) (:duepunti 2010).

Fulvio Gatti: è un giornalista, project manager e networker torinese, ma di radici monferrine. Ha pubblicato un saggio su «Star Wars», racconti per svariate antologie, la sceneggiatura per un graphic novel edito in Italia e Francia, tradotto volumi a fumetti dall'inglese, scritto e coprodotto cortometraggi e video istituzionali. Ha collaborato con i più importanti eventi nazionali legati al fumetto e organizzato le manifestazioni «Libri in Nizza», «Festival del Paesaggio Agrario», «La notte degli ultracomics» e «Segno Critico» (le ultime due con il gruppo di lavoro Marley&Scrooge). Conduce il programma radiofonico e podcast «Sono solo nuvolette». È vicesindaco di un piccolo, ma meraviglioso, paese del Monferrato Astigiano.

Massimo Soumaré: Torino 1968. È scrittore, traduttore, insegnante, saggista e ricercatore. Suoi racconti sono stati pubblicati in diversi volumi tra cui ALIA (CS_libri), Igyô korekushon (Kôbunsha), Kizuna: Fiction for Japan (Brent Millis), Onryo, avatar di morte (Mondadori) e sono stati editi in Cina, Giappone e USA. Tra le sue ultime pubblicazioni, il racconto Kareena in Robot 76 (Delos Books) e i saggi in Aspects of science fiction since the 1980s: China, Italy, Japan, Korea (Trinity College Dublin /Nuova Trauben) e nel volume I mondi di Miyazaki-Percorsi filosofici negli universi dell’artista giapponese (Mimesis Edizioni) a cura di Matteo Boscarol. Il volume Sekai no SF ga yatte kita!! Nipponkon fairu 2007 (Kadokawa Jimusho) si è aggiudicato in Giappone il Premio Seiun 2009 nella sezione non-fiction e Il Vampiro della Bassa (Edizioni Domino) di Chiara Negrini, ha vinto il Premio Cittadella 2015 come miglior urban fantasy italiano.

Silvia Treves: scrive quando riesce a liberarsi del suo lavoro (docente di Scienze e Matematica, ma soprattutto produttore di scartoffie virtuali). Scrive un certo numero di recensioni per LN, frequenta pochissimo i social network e scrive racconti di genere fantastico, spesso di fantascienza, che sono quasi sempre troppo lunghi. Il suo obiettivo è mettere insieme un racconto breve. Ha pubblicato numerosi racconti su Fata Morgana e su ALIA e per CS_libri il romanzo Sarà ieri. Ha vinto il Premio Omelas nel 2001 con il racconto Cielo clemente.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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George MacDonald, "Sulle ali del vento del nord"

18 Marzo 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #fantasy

George MacDonald, "Sulle ali del vento del nord"

Sulle ali del vento del nord

George MacDonald

Traduzione di Lotte Vignola

Auralia edizioni, 2012

pp 323

15,00

È indubbio che sia in atto una rivalutazione delle opere dello scrittore scozzese George MacDonald (1824 – 1905) e, in particolare, di At he back of the North Wind del 1871.

George MacDonald, noto per le sue favole e i suoi romanzi di argomento fantastico, si mosse in quell’atmosfera preraffaellita di cui faceva parte William Morris e s’inserì nell’ambito di frequentazioni che annoveravano Mary Shelley, John Ruskin, Charles Dickens, William Thackeray, Mark Twain (del quale fu amico) e C.S. Lewis.

Quest’ultimo aveva una grande ammirazione per la produzione di MacDonald, lo considerava il suo maestro, a differenza di Tolkien che, come fa notare Roberto Arduini, aveva una vera e propria antipatia per la scrittura dello scozzese.

Il motivo di tanta crescente avversione”, ci spiega Arduini, “era proprio una delle caratteristiche principali di MacDonald, che divideva profondamente Tolkien da Lewis e Il Signore degli Anelli dalle Cronache di Narnia." Come scrive nella bozza di prefazione a La chiave d’oro, «MacDonald è un predicatore, e non solamente dal pulpito della chiesa; egli predica in tutti i suoi numerosi libri». A Tolkien andava di traverso l’allegoria morale: «Non sono molto attratto (anzi, direi il contrario) dalle allegorie, mistiche o morali» (R. A.)

Marco Gionta, della Auralia edizioni, ha scelto di ripubblicare il testo, già uscito nel 2011 con l’editore Raffaelli, compiendo un’operazione di rilettura, diremmo così, “personalizzata”. Per capirlo bisogna partire dalla scelta del titolo: At the Back of the North Wind, tradotto nell’edizione Auralia non più con “Al di là del vento del nord”, bensì con “Sulle ali del vento del nord”. Non è questo un particolare da trascurare. Tutto ruota, infatti, attorno a ciò che sta “alle spalle del vento del nord.”

Diamante è un bambino vittoriano, cresciuto in una famiglia modesta ma dignitosa, in mezzo a persone oneste e rette. Il padre, cocchiere, è un gran lavoratore, la madre un esempio di virtù. Diamante stesso, che porta il nome del cavallo di famiglia, è un “Bambino di Dio”. S’intende con questa espressione l’idea di un bambino geniale ma talmente candido da apparire quasi ritardato. Diamante ha una limpidezza, una bontà, una generosità angelica tale da colpire al cuore e redimere chi viene in contatto con lui.

La più grande saggezza sembra follia, a quelli che non la possiedono.”

Le persone buone vedono cose buone e quelle cattive cose cattive

Sarà proprio per questa sua caratteristica che verrà scelto da Vento del Nord, che altri non è se non la Morte, una sorta di dea gigantesca dalle molte personalità, terribile come Kalì e amorevole come Durga. Vento del Nord è capace di azioni benevole e letali allo stesso tempo. È bella e tremenda, minuscola e smisurata, capace di cambiare dimensioni da un istante all’altro come l’Alice di Lewis Carrol.

Vento del Nord è dunque la Nera Signora, alle sue spalle c’è la fine della vita, c’è un eden, dove si sta bene ma non si può essere del tutto felici perché l’esperienza terrena ci viene a mancare e ci vengono a mancare gli affetti.

Non poteva dire di essere felice, in quel posto, perché non aveva con sé né suo padre né sua madre, ma si sentiva tranquillo, sereno, quieto e contento e questo era forse meglio che essere felici.” (pag 102)

Ma l’edizione di Auralia sembra non voler far risaltare questo lato funebre della storia. Traducendo il titolo con “Sulle ali del Vento del Nord” si dà importanza al momento ludico, avventuroso, nell’ottica positivistica che caratterizza tutta la produzione della giovane casa editrice. L’accento è posto sulle peripezie, sui viaggi, sui voli di Diamante che, nascosto fra i capelli di Vento del Nord, o aggrappato al suo seno materno e accogliente, visita luoghi meravigliosi, a metà fra l’onirico e il reale, fra il sogno e la visione.

Per chi è buono, per chi è puro di cuore come il piccolo Diamante - il dolce bambino dagli occhi stellati - persino la Morte è amica. Anche il viaggio che egli compie alle sue spalle, nell’Ade, nella terra già visitata una volta da Dante - qui chiamato Durante – e descritta da Erodoto, nel gelido mondo dei più, non lo spaventa e non lo rende infelice. Diamante non è capace di spaventarsi, Diamante tutto ama e tutto comprende, Diamante trova il bello e il buono in ogni cosa. Solo chi possiede la sua ingenuità, la sua saggezza, la sua generosità e il suo amore per il prossimo, considera ogni cosa, anche la malattia, anche la morte, come inevitabile, equa, necessaria.

Diamante è una creatura angelica, dispensatrice di bene, capace di connettersi al resto del creato, di entrare in empatia con la natura, i bambini, gli animali. Ha un rapporto privilegiato con i fratellini, che ama come fossero suoi figli, ai quali canta canzoni preterintellettuali che sgorgano dal cuore. Sa anche comprendere il segreto linguaggio degli animali, riconoscendone la natura celestiale, serafica, affine alla propria. Diamante è una di quelle persone che vogliono bene senza aspettarsi nulla in cambio, che disarmano con il sorriso, con la gentilezza, che pensano sempre e comunque positivo.

Tutto in quel ragazzo, così pieno di tranquilla saggezza e al tempo stesso così pronto ad accettare il giudizio degli altri, anche a suo discapito, fece presa nel mio cuore e mi sentii meravigliosamente attratto da lui. Mi sembrava, in qualche modo, come se il piccolo Diamante possedesse il segreto della vita e che fosse lui stesso, come era pronto a pensare della più piccola creatura vivente, un angelo di Dio, con qualcosa di speciale da dire e da fare.” (pag 292)

Oltre al piccolo Diamante e alla sua famiglia, i personaggi che popolano la storia sono gli stessi di gran parte della narrativa vittoriana: ragazzine povere dai tratti dickensiani, cocchieri ubriaconi che picchiano la moglie, anziani benefattori che somigliano a quelli successivamente ritratti da Frances Hodson Burnett ne Il Piccolo Lord Fauntleroy e ne La piccola principessa.

Nel testo trovano posto anche fiabe, poesie, indovinelli, come sarà poi in Tolkien e com’è nella tradizione di Lewis Carrol e delle Nursery Rhymes di Mother Goose. Molti sono inoltre i topoi della letteratura fiabesca che ritroviamo qui, dal cavallo parlante, all’armadio fatato, (cfr Le cronache di Narnia ma anche un film recente come Monsters & Co), al vento turbinoso che trasporta in mondi fantastici (Il meraviglioso Mago di Oz di Frank Baum, 1900).

Riferimenti

Roberto Arduini, “George MacDonald e J.R.R. Tolkien, un'ispirazione rimpianta” , www.jrrtolkien.it

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Mary Shelley, "Frankenstein"

14 Marzo 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #fantasy

Mary Shelley, "Frankenstein"

Frankenstein

di Mary Shelley

1^edizione: 1818

2^ edizione (riveduta): 1831

C’è una storia d’amore che lega un poeta e una scrittrice entrambi inglesi: Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822) e Mary Shelley (1797 – 1851)

Mary è figlia della femminista Mary Wollstonecraft, ed è cresciuta secondo i libertari principi dell’ideologia materna, Percy è sposato con Harriet, dalla quale ha dei bambini che gli verranno poi sottratti. Quando s’incontrano, Mary ha diciassette anni, s’innamorano, fuggono insieme e riescono a sposarsi solo dopo l’improvvisa vedovanza di lui. Mettono al mondo molti figli di cui solo pochi sopravvivono ai genitori. Trovano rifugio alle loro peregrinazioni in Italia, dove Percy muore tragicamente in barca a largo di Lerici. Lo bruciano sulla spiaggia di Viareggio, in puro stile romantico, lei torna in patria giurando che curerà le edizioni delle opere del marito e porterà il suo nome fino alla fine dei suoi giorni.

Lui è uno degli esponenti di spicco fra i Lake Poets, insieme a Wordsworth, Keats, Coleridge. Scrive Ode to a Skylark e la tragedia The Cenci, ma quella che lascia un graffio, una zampata, un’orma nell’argilla dell’immaginario collettivo e nella storia del fantastico è lei, Mary.

La sorellastra di Mary, Claire Clairmont, diventa l’amante di Lord Byron, il quale comincia a bazzicare la casa degli Shelley, villa Diodati sul lago di Ginevra, insieme ad un altro amico, John Polidori. Piove, le serate sono tediose e fredde, la compagnia passa il tempo leggendo novelle tedesche di fantasmi. Viene lanciata l’’idea di una gara a chi scrive la storia gotica più spaventosa ed intrigante. Nascono così Il Vampiro di Polidori, ispirato alla figura di Byron e primo esempio di succhia sangue raffinato e malinconico, e Frankenstein di Mary Shelley.

Sul principio lei non ha idee, ogni mattina si alza e dice che non le è venuto in mente nessun soggetto da cui trarre una trama interessante, mentre tutti gli altri già scrivono. Sente però gli uomini che discutono di principio della vita, di darwinismo, di galvanismo. Poi, una notte, ha un incubo, vede un essere terrificante, assemblato da uno studente che gli sta inginocchiato accanto. Si sveglia sconvolta, capisce che, se riuscirà a trasfondere sulla carta lo stesso spavento che ha provato nel sogno, creerà qualcosa di potente.

Ed è così, infatti. A soli diciannove anni, nel 1817, Mary dà vita ad una creatura che resterà nel mito collettivo: il mostro senza nome plasmato dallo scienziato Victor Frankenstein. Il romanzo esce in forma epistolare e anonima e solo in un secondo tempo si scoprirà che l’autore non è Percy Bysshe Shelley ma la sua giovane moglie. Sarà un successo, al pari del più tardo Dracula di Bram Stoker (1897).

Il personaggio di Victor s’ispira a Percy Bysshe, ha, come lui, amore per la scienza, passione e anima spirituale. L’orgoglio lo spinge ad atteggiarsi a creatore, a voler superare la natura dando origine ad un essere più forte, più sano, più intelligente e longevo del normale. Accadrà l’opposto: dai pezzi di cadavere cuciti insieme e rianimati tramite la corrente elettrica (che allora doveva apparire come qualcosa di fantascientifico e magico insieme) esce una creatura orribile, dall’aspetto spaventoso e dai modi animaleschi, incapace di trattenere gli impulsi omicidi. Ossessionato dalla sete di conoscenza, Victor si è spinto oltre il lecito e la natura si è ribellata, l’uomo non può competere con Dio, non può infrangere le leggi dell’ universo, pena la morte, la distruzione.

A unire ancora una volta Mary e suo marito è il sottotitolo del romanzo, “The Modern Prometheus”. Nel 1820 Percy scriverà, infatti, Il Prometheus Unbound. È interessante vedere come entrambi i coniugi si siano ispirati alla stessa figura ma usando aspetti diversi del mito. In Mary, Prometeo non si limita a rubare il fuoco per donarlo all’umanità, ma lo usa per plasmare l’argilla e modellare l’uomo stesso. In entrambi i casi Prometeo è un simbolo di ribellione, di rivolta contro la volontà divina con tutte le conseguenze che ne derivano.

L’atmosfera del romanzo risente del romanticismo dei versi di Coleridge, in particolare The Ballad of the Ancient Mariner. Nella cornice fantastica del gotico si concretano angosce metafisiche e anticipazioni scientifiche distopiche, come quelle in seguito sviluppate da Wells nei suoi romanzi. (The Time Machine è del 1895)

Di là dalle implicazioni etiche, tuttavia, il testo ci colpisce per il profondo romanticismo della figura del mostro, che tutti tendiamo a chiamare Frankenstein, scambiandolo per il suo artefice.

Il mostro ha un’evoluzione: osserva gli esseri umani, impara da loro a parlare, legge Milton e il diario di Victor Frankenstein. Apprende la lingua, i sentimenti, le aspirazioni degli uomini, desidera frequentarli, conoscerli, aiutarli, farsi benvolere. Ma il suo aspetto lo condanna: tutti lo rifiutano, tutti fuggono atterriti davanti a lui, i suoi gesti gentili sono scambiati per aggressioni. Il dolore lo schiaccia, fa esplodere la rabbia ed egli ricomincia a uccidere, diventa completamente ciò che tutti credono sia. Solo e dannato vaga per il mondo, “Everywhere I see bliss, from which I alone am irrevocably excluded.”

La figura ha una grande valenza romantica, avvolta com’è nella sua immensa solitudine, ispira orrore e compassione insieme, perché capiamo che la sua cattiveria deriva dal dolore e dai rifiuti subiti. Chiede, infatti, al suo creatore di fargli una sposa, una femmina della sua razza. Victor Frankenstein si mette all’opera, ma poi ci ripensa, non volendo produrre una genia di obbrobri. Quando il mostro lo scopre, il dispiacere lo sopraffa e per vendicarsi gli uccide l’amata moglie Elisabeth.

Proprio leggendo il diario del dottor Frankenstein, l’infelice essere scoprirà quanto il suo creatore sia deluso di lui, quanto lo disprezzi e lo abbia voluto diverso. Come un figlio non amato dal padre, si sente ferito, solo e disperato.

Ci sarà poi lo scontro finale, con la creatura che ucciderà il creatore (come nelle ultime scene di Excalibur, il film di John Boorman, dove Re Artù e il figlio Mordred - nato dall’incesto con Morgana - si ammazzano a vicenda.) È l’eterno mito del Doppelgänger, l’alter ego maligno che incarna ed esterna tutto ciò che di oscuro e cattivo si cela nella nostra anima, è Mr Hyde per dr Jekyll, è Gollum per Frodo, è Voldemort per Harry Potter.

Ma quanto dolore, quanto rimpianto nella creatura che distrugge il suo creatore. Ci viene in mente il primo Star Trek (di Robert Wise, 1979) dove l'antica sonda Voyager 6, partita centinaia di anni prima dalla Terra, cerca disperatamente di riunirsi all’umanità che l’ha costruita.

Lo stesso desiderio di unità, di riappacificazione con il padre/creatore, e, insieme, di cupio dissolvi, si ha nel romanzo della Shelley.

He is dead who called me into being; and when I shall be no more, the very remembrance of us both will speedily vanish. I shall no longer see the sun or stars, or feel the winds play on my cheecks. Light, feeling, and sense will pass away; and in this condition must I find my happiness.”

Da non dimenticare, il bel film che, nel 1994, Kenneth Branagh ha tratto dal romanzo, se possibile addirittura migliorandone e portandone a compimento la trama. Il mostro miserevole vi è interpretato da Robert de Niro, Elisabeth Lavenza è Helena Bonhan Carter e Victor Frankenstein lo stesso Branagh. Si ricorda, infine, anche la riuscitissima parodia girata da Mel Brooks: Frankenstein Junior.

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George R.R. Martin, "Game of Thrones"

11 Marzo 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #fantasy

George R.R. Martin, "Game of Thrones"

Game of Thrones

di George R.R. Martin 1996

Harper Voyager, 2011

pp. 801

€ 14,40

When you play the game of Thrones, either you win or you die”.

Da una minestra riscaldata può nascere una zuppa appetitosa? La risposta è sì, nel caso di Game of Thrones, il romanzo fantasy di George R.R. Martin.

Se già nelle iniziali dell’autore sentiamo riecheggiare il nome del maggior esponente del genere, in altre parole Tolkien, possiamo dire che tutto il romanzo è la saga del già visto. Mai come in questo caso a ogni immagine, a ogni descrizione, a ogni ambiente, a ogni battaglia combattuta e arma brandita, si collega qualcosa di già sentito e già osservato, qualcosa che fa parte del bagaglio culturale di chiunque abbia dimestichezza con la fantasia e con l’immaginario. Ci vengono in mente associazioni di ogni genere, viste e udite non solo sui libri, ma in televisione, al cinema, ovunque.

I tornei, le armature, le cotte di maglia lucente, ricordano sir Lacillotto in film come Excalibur di John Boorman (1981), ma anche Il primo cavaliere di Jerry Zucker (1995). La giovane Sansa somiglia tanto a Meg che va alla “fiera delle vanità” in Piccole Donne di Louisa May Alcott. Il mezzo gigante Hodor è simile, anche nel nome, a Hagrid di Harry Potter (che però è del 1997 ed è quindi di poco successivo). I vari casati in lotta per il trono sono vicini agli abitanti del pianeta Cottman IV nel Ciclo di Darkover, o alla storica Guerra delle due Rose. Le atmosfere sanguinarie, erotiche e barbariche, del filone dedicato a Daenerys e a suo marito Drogo, ci ricordano sceneggiati televisivi ispirati alla figura di Attila e di Gengis Khan.

Insomma, è tutto un susseguirsi di déjà vu. Quindi si potrebbe pensare che il genere non abbia più niente da offrire, che il romanzo di Martin sia solo per aficionados influenzati dal successo dell’omonima serie televisiva. Invece non è così, invece era da tanto che non ci immergevamo in una lettura di ottocento pagine con la sensazione di essere precipitati davvero in un secondary world fantastico, curato nei minimi particolari e coerente. Chi scrive narrativa di genere, infatti, sa che, qualunque sia l’argomento trattato, non deve mai perdere la fiducia del lettore con errori grossolani. Un occhio non può essere vitreo, per capirci, né la volontà ferrea, in un universo dove vetro e ferro non sono stati ancora inventati. Ed era da tanto che non vedevamo in atto la subcreazione tolkieniana con tale forza da farci correre subito in libreria per comprare il secondo della serie e poi il terzo e via di seguito. All’interno di elementi già noti e riconducibili a un patrimonio di conoscenze comuni, a Martin va riconosciuta la capacità di aver sviluppato alcune figure e alcune situazioni in modo molto personale.

Fra i personaggi spiccano le due ragazzine dal carattere opposto, la mansueta Sansa e il maschiaccio Arya – davvero riconducibili agli archetipi Meg e Jo – e Tyrion, rielaborazione ovvia, e insieme geniale, del nano della fantasy. Tyrion è infatti un vero nano umano, figlio sgradito di un signore della guerra, con tutte le conseguenze psicologiche che la sua deformità comporta. Ci colpisce anche il piccolo Bran, che rimane paralizzato per mano nemica e affronta con coraggio la sua sventura, oppure Jon Stark, il figlio bastardo che morirebbe pur di essere amato dal padre quanto gli altri figli. I caratteri sono descritti a tutto tondo, hanno un passato, un presente e un futuro, hanno famiglie e motivazioni psicologiche profonde, come la misteriosa nascita illegittima di Jon, o l’infelice rapporto col padre dell’obeso, vile e goffo Sam (a ben guardare molti dei personaggi hanno relazioni conflittuali con i genitori). L’autore conosce tutte le sue creature, sa cosa direbbero in ogni circostanza, sa come agiscono, che posto occupano nello spazio e quali sono le loro movenze.

Al di là dei personaggi, ci sono poi alcuni elementi che caratterizzano la saga. Uno è costituito dai direwolves - i non estinti canis dirus, tradotti malamente con meta- lupi - ciascuno dei quali accompagna i rampolli della casa Stark. Li percepiamo, grandi e possenti, agili e spietati ma fedeli e affettuosi con i padroncini. L’altra immagine che ci rimane scolpita nella mente è quella del Wall, l’immensa muraglia di ghiaccio che da secoli divide le terre degli uomini dalle lande selvatiche e desolate del nord, nascondiglio di cose misteriose, pronte a ghermire nel buio e uccidere. Pare di vederlo, l’immenso muro traslucido, con i suoi camminamenti cosparsi di ghiaino che scricchiola sotto le suole dei Guardiani, con le incrinature, le crepe e i rivoletti di scioglimento, in un mondo dove le stagioni non sono quelle da noi conosciute, ma alternano grandi glaciazioni a lunghe primavere.

Rispetto alle altre cronache fantasy, grande spazio è dato alla sessualità, materia che, di solito, viene rimossa e sublimata. Qui amplessi e stupri sono frequenti ed espliciti, l’universo è selvaggio e insanguinato, al punto che la serie televisiva tratta dal romanzo è stata considerata “diseducativa” per i giovani. Non ci si tira indietro neppure di fronte all’incesto o alla pedofilia. Jaime e Cersei sono gemelli, come Cathy e Heathcliff (senza averne l’oscura potenza) si completano a vicenda e l’atto sessuale per loro è una sorta di riunione con la metà perduta. Daenerys va sposa al suo principe guerriero a soli tredici anni. Sansa ed Arya sono bambine ma già suscitano desiderio nei maschi adulti.

Anche la religione trova una collocazione, dimenticata nell’atea Terra di Mezzo e in altri universi fantastici. Il culto dei septon e delle septas, che sta soppiantando quella degli antichi dei, ricorda il conflitto fra cristianesimo e druidismo, così ben rappresentato non solo da Merlino e Morgana in Excalibur (che, non dimentichiamolo, si basa su La Morte d’Arthur di Thomas Malory) ma anche nei romanzi della Bradley e, in particolare, ne Le nebbie di Avalon e nel suo prequel, The Forest House, costruito sulla storia narrata nella Norma di Vincenzo Bellini.

Le tecniche narrative applicate nel testo sono le più comuni e collaudate del genere. I personaggi seguono il POV, cioè il punto di vista circoscritto alternato in capitoli, pratica affinata da Tolkien - il quale non perde quasi mai la focalizzazione hobbit - e portata avanti poi da Terry Brooks nel Ciclo di Shannara. La capacità narrativa si esplica con quello che possiamo definire “lo sguardo circolare”. Mentre racconta, l’autore non perde mai di vista la scena generale, ha un occhio capace di cogliere i particolari circostanti, si chiede che cosa fanno gli altri personaggi intorno, chi si sta muovendo nell’ambiente, e fa agire ed esprimere ogni figura secondo le proprie peculiarità.

Per concludere, possiamo dire che Martin, all’interno di un genere conosciuto e sfruttato, ha saputo trovare un’interpretazione personale, in grado di dare un senso a ciò che scrive, affinché non sia inutile, superfluo o, peggio, ridicolo.

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Islanda, Finlandia e i miti cari a Tolkien

3 Marzo 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #luoghi da conoscere, #fantasy

Islanda, Finlandia e i miti cari a Tolkien

Thingvellir: alle spalle il contrafforte di basalto nero, davanti l’immenso prato ricoperto di lichene dove si svolgeva l’Althing, il parlamento a cielo aperto degli islandesi. Nell’aria fredda e odorosa di zolfo, in questa terra di lava color asfalto, fra dune di pomice e sbuffi di geyser, necessita compiere una classificazione di ricordi e associazioni mentali che ci si affastellano confusi nella testa.

Cominciamo con l’Edda.

Il termine Edda, al plurale Eddur, si riferisce a due testi in norreno entrambi scritti in Islanda durante il XIII secolo. L’Edda poetica, o Edda antica, e l’Edda in prosa, quella di Snorri.

L’Edda antica trae origine dal Codex Regius, manoscritto composto nel XIII secolo, di cui si sono perse le tracce fino al 1643. La parte iniziale è la nota Völuspa, la profezia della veggente, fonte preziosa di conoscenza della mitologia e della cosmogonia norrena. La veggente parla con Odino e gli narra della creazione del mondo e del Ragnarök, il suo catastrofico destino. All’interno della Völuspa sei stanze sono dedicate a un elenco di nomi di nani, da cui Tolkien ha attinto a piene mani per la sua trilogia. Nel 2009 la Harper e Collins ha pubblicato un lavoro postumo di Tolkien sull’Edda poetica, intitolato La leggenda di Sigurd e Gudrun, in un inglese che cerca di riproporre il metro allitterativo del norreno.

L’Edda in prosa, scritta attorno al 1220 da Snorri Sturluson, poeta e politico facente parte dl parlamento islandese, comincia con una rievocazione dei miti e delle leggende già presenti nell’Edda antica ma poi evolve in un manuale di poetica, mirato a far capire i meccanismi della poesia scaldica.

Derivata dalla voce islandese skald, cioè poeta, la poesia scaldica è complessa, intricata, allitterativa, spesso composta in lode di un particolare signore. Abbonda in Kenningar, cioè metafore ermetiche, perifrasi poetiche e immaginative che sostituiscono il nome di una cosa. L’uso della Kenning è comune nella letteratura norrena, celtica e anglosassone, se ne ritrovano esempi anche nel Beowulf, e la poesia scaldica si avvicina a quella trobadorica e provenzale.

Snorri è anche noto per aver sostenuto che gli dei non fossero altro che capi militari poi venerati (in questo riproponendo la teoria del filosofo Evemero).

Occupiamoci adesso delle Saghe degli islandesi.

La forma letteraria più vicina al romanzo moderno avutasi nel medioevo, capace addirittura di coniare un termine nuovo, è, appunto, la “saga”, che ha nella sua radice il verbo “dire”.

Le Islendigasögur sono storie di famiglia - scritte su velli di pecora in un periodo dal dodicesimo al quattordicesimo secolo - che parlano di persone realmente esistite, di fatti accaduti alle prime generazioni di coloni trasferitesi dalla Norvegia in Islanda, di viaggi avventurosi in Groenlandia e Nordamerica (prima di Cristoforo Colombo), dell’insofferenza verso i re norvegesi e danesi, delle razzie compiute per conquistare terra, bottino e indipendenza.

La società descritta è simile alla borghesia del diciottesimo secolo in cui prenderà piede il genere del romanzo.

The society imagined by the Islanding sour is as precisely observed as those of Daniel Defoe and Jane Austen”. (Robert Kellog)

Dalle saghe apprendiamo la storia, la geografia ma anche dettagli minuti della vita quotidiana dell’epoca, le complicate relazioni familiari, il concetto di onore, il potere dei godi, a metà fra preti e capi politici.

Sia i due libri dell’Edda che le Saghe Islandesi sono tentativi di conservare la tradizione del passato pagano operati durante un medioevo già cristiano.

Contemporanee di Chrétien de Troyes, di Chaucer e di Dante, non sono scritte per un pubblico aristocratico ma per gente comune, proprio come il romanzo. Le saghe sono il prodotto del popolo, di agricoltori e pescatori che sedevano attorno al fuoco la sera e rievocavano le gesta di antenati e persone famose. I protagonisti non sono eroi semidivini ma contadini e possidenti terrieri, un universo maschile di rudi combattenti e fuorilegge, sebbene alcune storie diano spazio anche ad eroine femminili.

Se in spirito ricordano l’epica, non sono in versi bensì in una prosa che mescola ironia, umorismo e nostalgia. Si differenziano dal romance medievale per la poca attenzione data alla fantasia e all’amor cortese e per la mancanza del lieto fine.

Ospitano, tuttavia, molti elementi magici e fantastici, alcuni dei quali sono stati ripresi da Tolkien: i trolls, i fantasmi, i Berserker, ovvero feroci guerrieri scandinavi che avevano fatto giuramento a Odino.

La più famosa è l’Egils saga, da molti ritenuta opera di Snorri. Egil Skallagrimsson fu il più grande scaldo islandese. Molti degli eroi di cui si narra nelle saghe erano anche poeti, capaci di recitare versi celebrativi, ma non falsamente adulatori, in onore dei loro sovrani. E tuttavia le parole erano usate anche come armi per ferire e umiliare.

Gli autori delle saghe sono ignoti e le storie sono state prima tramandate oralmente e poi, solo successivamente, raccolte in forma scritta, dopo l’ introduzione della scrittura sull’isola nel XII secolo ma, anche su questo, non c’è nessuna certezza. Lo stesso concetto di autore è molto diverso dall’attuale, indicando solo “l’iniziatore” di una storia, che non impronta di sé e del suo stile personale la materia trattata.

Una prosa come quella delle saghe era rara nella letteratura del periodo, se si eccettuano il Decamerone e la vulgata francese del ciclo arturiano.

“The development of a prose fiction in medieval Iceland that was fluent, nuanced and seriously occupied with the legal, moral and political life of a whole society of ordinary people was an achievement unparalleled elsewhere in Europe.” (Robert Kellog)

Le storie non iniziano mai in medias res ma cercano di raccontare gli eventi in ordine cronologico. Il linguaggio è diretto e semplice, grande spazio è dato al dialogo. I personaggi sono introdotti da una complicata genealogia e dal patronimico, che Tolkien riprenderà e svilupperà nelle appendici. Una delle funzioni delle saghe era anche la trasmissione di queste genealogie, ed esse avevano un intento didascalico oltre che d’intrattenimento.

Di solito la saga si apre bruscamente, con un’introduzione banale: “C’era un uomo di nome etc”. La precisione nella localizzazione geografica del racconto e nell’individuazione dell’esatto contesto storico è massima. La storia racconta di un conflitto, nato per questioni banali e comuni, del suo sviluppo sanguinoso e di faide e vendette successive. I personaggi, tuttavia, mantengono qualcosa di mitico, capacità magiche nel loro canto, potere divinatorio.

Sebbene, come abbiamo detto, siano in prevalentemente in prosa, contengono al loro interno anche dei versi, inizialmente visti come una fonte d’informazione e autorità storica, in seguito divenuti mezzo di espressione della mente e dei pensieri dei protagonisti.

Concludiamo con il molto più recente Kalevala.

Nel 1835 Elias Lönrot riordina e pubblica sotto forma di poema una vasta collezione di ballate eroiche in careliano. La versione successiva, del 1849, è più completa. I Careliani sono finnici che hanno avuto contatto – guarda caso – con i vichinghi. La loro lingua, appartenente al gruppo ugrofinnico, non è di origine indoeuropea. Kalevala significa “Terra di Kaleva”, ossia, appunto, Finlandia.

Anche in questo caso si tratta del recupero di antiche tradizioni e antichi canti. Il poema è tuttora cantato da alcuni anziani bardi con valenze sciamaniche.

Fu tradotto da Igino Cocchi nel 1909 e nel 1010 dal livornese Paolo Emilio Pavolini (padre del famoso gerarca Alessandro). Quest’ultima versione, in ottonari - il metro originale del testo finnico - è disponibile in un’edizione curata da Roberto Arduini e Cecilia Barella per la casa editrice Il Cerchio di Rimini.

La storia dell’eroe e poeta Väinamöinen, del fabbro Ilmarinen e del guerriero Lemminkäinen ha in parte ispirato il poeta americano Longfellow, il compositore Sibelius e, infine, Tolkien con Il Silmarillion e la struttura delle lingue elfiche. Tutto gira intorno alla ricerca di una sposa per gli eroi protagonisti, e del Sampo, un mulino magico che assicura ricchezza a chi lo possiede.

Molti gli adattamenti e riduzioni per ragazzi, in particolare ci piace ricordare quella edita nel 1961 per i tipi di Malipiero, di cui riportiamo uno stralcio:

L’intrepido vegliardo Vainamonen, immensamente forte, era il cantore di Kalevala” (Per cantore intendiamo uno scaldo, un eroe poeta simile a quelli presentii nell’Edda e nelle Saghe islandesi, che ha nel suo canto anche capacità magiche e taumaturgiche). “Il suo canto era come il cielo: copriva tutta la grande regione di Kalevala, e la copriva di giorno e di notte, come un vento gagliardo capace di profferire parole musicate che tutti udivano anche chiusi dentro le capanne. La sua fama giunse lontano, come un’acqua che si spande nelle pianure. Giunse così fino alle terre di mezzogiorno, nei luoghi di Poiola.

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Riferimenti

Robert Kellog, Introduzione a “The Sagas of Icelanders”, Penguin 2000

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Bram Stoker, "Dracula"

1 Marzo 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #fantasy

Forse se Abraham (Bram) Stoker (1847 – 1912) non avesse sofferto di un’infermità che lo costrinse a letto fino agli otto anni, i temi del sonno senza fine e della resurrezione dal mondo dei morti non avrebbero tanto infiammato la sua fantasia. La guarigione miracolosa, la ripresa fisica di cui fu protagonista, capace di trasformare un infermo in un atleta, ha molto in comune col mito del vampiro che, attraverso il sangue, ringiovanisce, rigenera i propri tessuti, inverte il corso della natura.

Nato a Clontarf, in Irlanda - già terra di folletti e di banshee –Bram Stoker si laureò in matematica al Trinity College e fu critico teatrale per The Evening Mail. Sposò Florence Balcombe, per qualche tempo corteggiata anche da Oscar Wilde, dalla quale ebbe un unico figlio. Coltivò amicizie importanti con Arthur Conan Doyle, con il pittore preraffaellita Whistler, ed una, strettissima, con l’attore Henry Irving di cui fu segretario. Fin troppo facili le allusioni, certo è che il mito del vampiro si è sempre collocato in quell’aura di sessualità deviata, che va dalla pedofilia> - si pensi ai bambini di cui si nutre Lucy Westenra e alla vampirizzazione di Claudia in Intervista col Vampiro - alla necrofilia, ma sempre in una prospettiva di decolpevolizzazione, depenalizzazione dell’atto erotico. Da Bram Stoker ad Anne Rice, giù giù fino a buona parte della saga di Stephenie Meyer, il sesso diventa orale, si fa dalla cintola in su, in una voluttà che, oltre al piacere estremo, sovrumano, fornisce conoscenza, vita eterna, sapienza, bellezza. Almeno fino a quando Bella Swan e Edward Cullen non decidono che si può provare anche a consumare il matrimonio, generando una piccola ibrida umana - vampira.

Il manoscritto di Dracula circolava già fra la cerchia degli amici di Stoker nel 1890 ma fu pubblicato solo nel 1897, dopo sette anni di studi approfonditi sulla cultura e sulle credenze dei Balcani. Il romanzo si situa in una tradizione sia antecedente che posteriore, fa da spartiacque, da pietra miliare. Si collega a Goethe, a The Vampyre di Polidortrong>i, alle opere di Ann Radcliffe, di M</strong>onk Lewis, di Maturintrong>rong>, di Mary Shelleyong>, di Edgar Allan Poe e del di poco posteriore Rider Haggard. Racconta la ben nota storia del conte Dracula, un nosferatu, cioè un non morto della tradizione mitteleuropea. L’ispirazione era stata fornita a Stoker dall’ungherese Arminius Vambéry, (e, pare, anche da un incubo scaturito da una scorpacciata di gamberi), professore che lo aveva introdotto alla leggenda di Vlad Tepes Dracul, l’Impalatore. L’irlandese non visitò mai i luoghi che descrive nel suo romanzo, cioè Bistritza e la Transilvania, ma scrisse un romanzo molto realistico, quasi documentaristico nonostante l’argomento.

Le atmosfere sono cupe e oscure ma il tono è impiegatizio. Non bisogna dimenticare che il più famoso romanzo gotico è stato scritto dall’autore di I doveri degli impiegati nelle udienze per i reati minori in Irlanda. La lingua è appesantita da un’assillante cura del dettaglio e da un’eccessiva ripetitività dei termini. L’autore si dilunga per farci riflettere, l’imperfezione linguistica crea un senso di verità, di ansia crescente e anche di modernità inconsueta per l’epoca.

Ma quello che conta è la creazione di un personaggio mitico e archetipico. I personaggi minori non sono ben caratterizzati, solo Dracula spicca. Il vampiro è il male, è l’ignoto che si cela nella vita di ogni giorno e dentro di noi ma è anche l’eroe romantico byronico e satanico. Così come Lord Ruthven di Polidori s’ispirava proprio alla femminea, inquietante e diabolica figura di Byron, così come i moderni vampiri di Anne Rice – Louis, Lestat, Armand e la bambina Claudia, bambola immortale fissata in un’eterna immagine puerile - saranno circondati da un alone romantico, di malinconia, di disperazione senza confini, di eterno bisogno di redenzione mai soddisfatto, anche il conte Dracula è avvolto da un alone di solitudine e dolore. La stessa emarginazione e cupio dissolvi del mostro creato da Victor Frankestein.

Io non cerco né gaiezza né allegria, né la voluttuosa luminosità della luce dl sole e delle acque scintillanti che tanto piacciono a chi è giovane e gaio. Io non sono più giovane. E al mio cuore, logorato dagli anni di lutto per i miei morti, poco si confà la gaiezza. E poi, i muri del mio castello si stanno disfacendo; molte sono le ombre, e il vento soffia freddo attraverso le merlature e le finestre infrante. Io amo l’oscurità e le ombre, e per quanto possibile vorrei restar solo con i miei pensieri.

Il vampiro di Stoker, però, si discosta da quello di Polidori pur conservandone la malinconia aristocratica. Viene accentuato il legame con gli animali e le forze della natura, in particolare col lupo, legame che verrà poi ripreso dalla Meyer nella dicotomia vampiro Edward/ licantropo Jacob.

Il conte Dracula morirà per mano di Van Helsing e Jonathan Harker e la sua morte significherà espiazione. Il medesimo riscatto che, nel bellissimo film di Coppola, Dracula riceverà da Mina, reincarnazione della sua donna perduta. Il film, infatti, più che mai pone l’accento sul connubio amore e morte, eros e thanatos, così caro alle atmosfere romantiche e decadenti.

Quel che mi consolerà finché vivrò è stato scorgere sul suo volto, proprio nel momento della dissoluzione finale, un’espressione di pace che mai avrei immaginato di poter vedere.”

Più che di opera letteraria vera e propria, possiamo parlare di mito, di archetipo che attraversa la tradizione, sia arricchisce, muta e, insieme, si fissa, a ogni riscrittura, a ogni adattamento cinematografico o teatrale. Le atmosfere sono le stesse, haunted and ghosted, rintracciabili in Emily Brönte, con le brughiere dello Yorkshire che si trasformano nei dirupi innevati dei Carpazi.

"Ben presto ci siamo trovati racchiusi tra gli alberi, che in alcuni punti s’incrociavano ad arco sulla strada, tanto che pareva di passare in una galleria. Ancora una volta, grosse rocce si piegavano accigliate su di noi, scortandoci burbere a destra e a sinistra. Benché fossimo al riparo, sentivo il vento levarsi, gemeva e fischiava tra le rocce, e i rami degli alberi si scontravano tra loro al nostro passaggio. Si faceva sempre più freddo, e una neve impalpabile ha cominciato a cadere, ben presto noi stessi, e tutto intorno a noi, siamo stati ricoperti d’un bianco manto. Il vento penetrante ancora trasportava l’ululato dei cani, che tuttavia si faceva sempre più debole, man mano che procedevamo nel nostro cammino. Il verso dei lupi risuonava sempre più vicino, come se ci stessero accerchiando."

A ogni luogo (il castello del conte, la casa di Lucy Westenra, Carfax) corrisponde un’uccisione. La morte di Lucy, vittima innocente e inconsapevole, fa da discriminante fra chi è ignaro, e quindi in balia del male, e chi lo conosce per poterlo combattere. Lucy è il prototipo decadente dell’innocenza violata, della purezza corrotta, del fiore sgualcito dal profumo sottilmente erotico e proibito. Mina non è molto diversa nel libro ma acquista più spessore e valenza romantica nel film di Coppola, incarnando l’amore che va oltre la morte, diventando strumento attraverso cui opera la Provvidenza.

La struttura della narrazione sfrutta la forma epistolare ma non solo, utilizzando, oltre alle lettere, anche telegrammi e articoli di giornale, in un gioco di sfaccettature già molto moderno. L’io narrante è multiplo.

Il racconto, dunque, non è fatto per voce di un unico narratore, ma di molti, e questi non hanno come solo referente un ipotetico lettore, bensì di volta in volta se stessi (attraverso il diario, sorta di ripensamento e fissazione degli eventi), un altro personaggio (attraverso la lettura dei diari altrui e tramite lo scambio di lettere e telegrammi) e solo in ultima istanza il lettore che, come un accidentale spettatore o testimone, indirettamente viene a conoscenza degli eventi.” (Paola Faini)

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Riferimenti

Riccardo Reim Introduzione a Stoker Dracula, Newton Compton, 1993, 2006

Paola Faini, Prefazione a Stoker Dracula, Newton Compton, 1993, 2006

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Henry Rider Haggard, ovvero chi viene prima di Wilbur Smith?

16 Febbraio 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #fantasy, #recensioni

Le miniere di re Salomone

di Henry Rider Haggard

Donzelli editore, 2004

1^ edizione: 1985

pp. 230

€ 21, 80

Sappiamo tutti che Henry Rider Haggard (1856 – 1925) è considerato a pieno titolo, grazie al ciclo di Ayesha - in particolare al best seller She, ma anche a racconti gotico avventurosi come La signora di Blossome - il precursore del fantasy e della letteratura d’immaginazione, alla stregua di Lovecraft>, Poe, Verne e Stevenson.

Ma ci siamo mai chiesti chi c’era prima di Wilbur Smith, delle cacce, delle savane infuocate, delle lotte tribali fra zulu, del romanzo d’avventura per eccellenza? Ancora lui, Henry Rider Haggard, con la sua famosissima opera Le miniere di re Salomone, e il personaggio leggendario di Allan Quatermain.

Sia in She, che ne Le miniere di re Salomone, l’avventura trova il suo nucleo centrale nel rapporto con la natura selvaggia, incontaminata e vergine ma, soprattutto, nell’esplorazione e nella scoperta di mondi nascosti, “perduti”, in gran voga nel periodo vittoriano, ripresa da Kipling, Conan Doyle, Rice Burroughs, e amplificata in seguito da Hollywood (si pensi a film come Il mondo perduto: Jurassic Park). In Haggard si tratta di caverne, contenenti segreti e misteri rimasti sconosciuti ai più (come non pensare alle miniere di Moria?) fin troppo ovvi simboli di discesa nell’inconscio. Non stupisce che il ciclo di Ayesha abbia attirato l’attenzione di Freud e Jung.

I tòpoi della letteratura fantastica sono molti, come l’invecchiamento improvviso di Ayesha in She, che ci ricorda quello di Morgana in Excalibur, o lo Spirito della Fiamma che ci riporta alla scena finale di Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta. Anche qui è l’abuso di magia che corrompe e distrugge invece di vivificare e rafforzare. Altro topos è l’agnizione, con il riconoscimento di Umbopa /Ignosi come legittimo re dei Kukuana ne Le miniere di re Salomone.

Henry Rider Haggard nasce nei pressi di Norfolk, dove trascorre un‘infanzia poco felice a causa della salute malferma e delle difficoltà di apprendimento. Frequenta circoli parapsicologici e si convince di essere egli stesso dotato di facoltà straordinarie. Parte per il Natal dove verrà catturato dal fascino dell’Africa meridionale. Scrive Le miniere di re Salomone per dimostrare di saper inventare una storia alla pari con L’isola del tesoro di Stevenson, dopo che alcune sue novelle non hanno incontrato il successo da lui sperato. Il romanzo è dell’85 e diventa subito un best seller, seguito da She, nell’87.

Rider Haggard viaggia per il mondo, visita l’Egitto, come Wilbur Smith, e il Messico, traendo spunti per nuovi libri e imparando a confezionare velocemente romanzi d’intrattenimento e di successo. Il personaggio di Quatermain dà vita ad altre narrazioni, per la maggior parte inedite in italiano.

Quatermain, detto “Macumazahn”, colui che scruta nella notte, è il modello de “il grande cacciatore bianco”, non anticolonialista ma comunque giusto e buono con gli indigeni. Predatore infallibile ma non sanguinario, si definisce sempre “un uomo mite”, addirittura “un po’ vile”, e trova l’eccesso di massacro vagamente “nauseante.”

Haggard è un colonialista convinto, sente la supremazia bianca come indiscutibile e sono sgraditi per il nostro palato moderno certi suoi atteggiamenti di superiorità verso gli indigeni e certe scene di caccia che hanno la spietatezza di quelle di Hemingway senza averne la bellezza ma, almeno, senza il compiacimento cruento dell’autore di Verdi colline d’Africa.

Avventura, poca sottigliezza psicologica, nessun conflitto interiore, grandi scene di caccia e di guerra come si addice alla più tipica letteratura d’evasione. E, tuttavia, a tratti, è presente un’insolita riflessione filosofica sull’uomo, sul suo posto nel ciclo della vita e sulla sua caducità.

Eppure l’uomo non muore finché il mondo, allo stesso tempo sua madre e sua tomba, resta. Il suo nome è certo dimenticato, ma il suo respiro agita ancora le cime dei pini sulle montagne, il suono delle sue parole riecheggia ancora nell’aria; i pensieri nati dalla sua mente li ereditiamo oggi; le sue passioni sono la nostra ragione di vita; le sue gioie e i suoi dolori sono nostri amici… la fine, dalla quale fuggiva atterrito, sarà di certo anche la nostra! Certo l’universo è pieno di spiriti, non velati spettri da cimitero, bensì gli inestinguibili e immortali elementi della vita, che, nati una volta, non possono mai morire.” (pag 143)

Da ricordare che il nostro Emilio Salgari pubblicò con lo pseudonimo di Enrico Bartolini un adattamento del romanzo, dal titolo Le caverne dei diamanti nel 1899. Memorabile anche il film del 1950 con Stewart Granger nei panni di Quatermain, e Debora Kerr, sebbene, a detta dello stesso narratore, “non c’è una sola sottana in tutta la storia.”

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