duille leaf
La granitica certezza dell'inevitabile
Bentornati Argonauti, bentornati nel magico (si fa per dire) regno dell’ansia sociale. Sì, lo so, non è proprio come fare un viaggio a Narnia, ma non sarebbe carino immaginarlo come una versione 2.0 del Paese delle Meraviglie? No? Va beh, io ci ho provato! Ma di cosa parliamo oggi? La scorsa volta vi ho raccontato della paura, di come essa sia l’emozione dominante dell’ansia sociale e di come possa essere considerata una paura fuori controllo, ad un passo dal panico ma non ancora panico, più simile ad un taser sul cuore che ad un sacchetto in testa. Mi sono resa conto però che questo, di per sé, non la rende molto diversa da qualsiasi altra fobia che popola il mondo della sua deliziosa quanto inutile presenza. Il vero problema dell’ansia sociale infatti sta tutto nella sua inevitabilità. Questo è il cuore del dilemma: noi non possiamo semplicemente aggirare l’ostacolo. Non possiamo fare le scale invece che prendere l’ascensore, non possiamo stare alla larga dai cani, non possiamo scappare da minuscoli ragnetti appollaiati sul muro, non possiamo evitare come la peste i circhi, non possiamo ridurre all’osso il numero di volte a cui siamo esposti agli aghi. Aggirare l’ostacolo per noi significa fare una scelta estrema, optare per una vita monacale, da eremita, da santone che ha fatto voto di silenzio, da vecchio dell’alpe, per intenderci. Significa chiudere a tripla mandata la porta, ingoiare la chiave e poi cementare serratura (e sfinteri) con il calcestruzzo. Perché la paura dell’ansioso sociale, ormai l’avrete capito, riguarda l’interazione sociale. E badate bene, non la paura del colloquio di lavoro, di difendere la propria posizione di fronte al saccente di turno o dell’incontro con l’esaminatore della scuola guida. Qui si parla del terrore provato ad andare a comprare il pane, del richiedere un libro in biblioteca, di passare in mezzo ad un capannello di persone, di chiedere ad un passante di spostarsi dal centro del marciapiede in cui si è parcheggiato con carrozzina e buste della spesa. Non sono tanto le persone fisiche a farci drizzare i peli, quanto il dover interagire con loro. Rivolgeteci la parola e ci troverete ad improvvisarci gatto soffiante con il pelo ritto. Diteci un caloroso “ciao” e ci trasmuteremo in legni fossili del paleolitico. Lanciateci uno sguardo di curiosità e ci scioglieremo nei nostri sudori freddi. Non ci vorrà molto perché facciate due più due e vi rendiate conto di quanto avere paura per noi sia inevitabile. Perché, come direbbe Shylock “un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano? Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?” Ecco. Shakespeare la sapeva lunga e ha dato a Shylock un monologo tanto logorroico quanto aderente a molte situazioni, compresa la nostra. Infatti avere l’ansia sociale non ci renderà certo ebrei per osmosi ma nemmeno ci esenta dall’essere organismi biologici che si nutrono e che si ammalano e purtroppo, essendo anche (nostro malgrado) animali sociali, siamo pure vincolati, come gli aracnofobici, i cinofobi, i claustrofobici, ad una serie di obblighi sociali: bollette, lavoro, scuola e, solo per il fatto di essere in Italia, burocrazia imperante e burocrati dalla faccia annoiata. Che fortunelli che siamo, vero? Se almeno l’ansia ci rendesse delle specie di Wolverine che se la fanno nei pantaloni ad ogni pulce incontrata per strada, avremmo se non altro più chances di vivere una vita dignitosa, scegliendo la famosa via ascetica. Potremmo interrompere i contatti con tutti e diventare amici di una noce di cocco come il protagonista di Cast Away. Io, per esempio, chiamerei la mia Amanda. Ci faremmo grasse risate insieme, ci confideremmo i segreti, ci faremmo le trecce a vicenda e alla fine le farei incontrare un bravo noce di cocco e sarei la damigella d’onore al suo matrimonio. Ma purtroppo questa non è la storia di una pazza delirante che vive dissociata dalla realtà con una noce di cocco come migliore amica, ma è la storia di persone terribilmente lucide e con bisogni a cui non possono rinunciare. Potremo anche ignorare la cima della piramide di Maslow, ma per la base non esiste ancora una soluzione. Non si possono annullare i bisogni fisiologici. Forse solo il sesso potrebbe essere depennato dalla lista. Ma il resto…il resto è inevitabile. Paradossalmente, quindi, sono proprio i bisogni animali a spingerci ad allungare il naso nel mondo e a regalarci momenti di qualità quando la cassiera ci darà il resto (leggi: tremori, sudori, faccia tirata come un colletto inamidato). Insomma, abbiamo tutti contro, bestie e umani. Come vi dicevo, è inevitabile. Sta a voi, e a me con voi, capire se questa inevitabilità sia un colpo di sfiga bionico, tipo frammento di meteorite sulla testa, o piuttosto se sia la conferma della saggezza del proverbio “non tutti i mali vengono per nuocere”. Volete sapere la mia opinione? Diciamo che è un work in progress.
Duille
La paura ha ali da pipistrello
Ciao Argonauti! Eccoci pronti per un nuovo viaggio nei meandri dell’ansia sociale. Vi voglio avvertire però: quella di oggi sarà un’esplorazione che a molti di voi potrà sembrare stranamente familiare. Non preoccupatevi se sentirete odore di casa tra le righe del mio discorso, vorrà solo dire che siete umani, non che state imboccando il crinale che vi farà entrare nell’Ansia sociale fan club! Coloro però che sono di animo sensibile e preferiscono aspettarci all’autogrill vicino al bosco in cui stiamo per entrare, facciano pure e ordinino cornetti e cappucci per tutti. Saremo affamati quando torneremo! Ma ora, bando alle ciance ed iniziamo!
Se chiedete ad un ansioso sociale qual è l’emozione che prova più spesso, vi dirà che è l’ansia. Non a caso è parte integrante dell’etichetta che fodera le nostre maglie e ci rende comprensibili. Ma “ansia” è una di quelle classiche parole che non significano niente. E’ una porta chiusa dai contorni sbiaditi e dalla vernice scrostata a furia di passarci sopra le mani. Di solito ci limitiamo a gironzolare intorno a quell'uscio di legno convincendoci che quella targhetta racconti esattamente ciò che sentiamo. Ma se scaviamo più a fondo, noi ansiosi sappiamo benissimo che non è "ansia" la parola che vorremmo dire davvero. E’ solo quella più semplice da pronunciare, quella più vaga e forse più accettabile dalle orecchie che ne sentiranno il suono. Ma la vera parola, quella che sentiamo urlare rabbiosa come un piccolo Hulk dentro il nostro vestito da Bruce Bannister, è PAURA. Sì, proprio lei. Una parola tabù come i peggiori improperi e le più oscene bestemmie. Paura. Un termine che produce più vergogna che essere beccati a conoscere per filo e per segno tutte le vicissitudini amorose dei personaggi di Jersey Shore e dei suoi variopinti spin-off. Una sequenza di lettere alquanto bizzarra poi, se ci si pensa bene. Quasi un ossimoro, oserei dire. Un paradosso incredibile quelle lettere panciute e rotonde, scivolose e morbide se comparate ai pugni nello stomaco che riesce a sganciare con precisione da ninja, lasciandoci con il fiato corto e piegandoci in due come un panino cotto e maionese. La paura, oltre ad avere un posto d’onore negli scaffali vietati ai minori della nostra psiche (i ripiani alti per intenderci) detiene anche il monopolio della nostra mente come lo Stato spadroneggia sui tabagisti più incalliti. E’ innominabile come Voldemort ma costante come un porro sul naso particolarmente affezionato. Io me la immagino come un pipistrello nero che ci accompagna in ogni momento della giornata: ci tiene compagnia durante le notti insonni, ci porge il caffè fumante non appena apriamo gli occhi, ci accompagna mentre cerchiamo di incastrare un minuscolo biscottino nello stomaco improvvisamente della dimensione di una noce pecan e si aggrappa felice alle nostre tasche da canguro sottoculari mentre cerchiamo di scolpirci un'immagine che ci permetta di non essere scambiati per sopravvissuti ad un attentato. Il pipistrello non ha una voce propria, ma questo non significa che sia meno efficace nel suo intento: ci lancia ultrasuoni che interferiscono con i battiti cardiaci, accelerandoli e mandando troppo ossigeno al cervello, iperventilandoci, insomma. E mentre stride inudibile, svolazza allegramente sopra la nostra testa oscurando il sole e marchiando tutto ciò che vediamo con una curiosa ombra a forma di batsegnale, che non fa altro che allarmarci di più perché tutti sanno cos’è un batsegnale, anche chi non si considera un nerd. E’ una richiesta di aiuto, il segno di un pericolo imminente che solo un supereroe potrà sventare. Ma per noi che viviamo nella vita reale, non esiste alcun eroe della Marvel che ci possa aiutare, sappiamo già che non si presenterà nessuno, neanche il più spelacchiato cosplayer con abito comprato al mercato delle pulci. Siamo solo noi in questa trincea chiamata vita. Niente superpoteri contro lo tsunami di realtà che ci circonda, siamo equipaggiati con il peggior impermeabile giallo mangiato dalle tarme ed un ombrellino comprato per strada che si ribalterà al primo tocco di vento. E anche se non fosse così, anche se fossimo alla guida di un transatlantico e avessimo in una mano una ciambella salvavita e nell'altra un diploma di bagnino, il piccolo pipistrello ci svolazzerebbe intorno come un uccello del malaugurio, come uno di quegli avvoltoi che stanno nei paraggi quando la bestia di turno sta per tirare le cuoia, dandoci la sinistra impressione di non avere esattamente la fortuna dalla nostra. Ed è esattamente questo lo scopo del pipistrello: creare il dubbio, mostrarci uno scenario diverso dalla realtà, depotenziarci, renderci deboli come Superman dopo essersi strofinato una roccia di kriptonite per tutto il corpo. E proprio come la kriptonite, il passo successivo sarà l’attacco del villain di turno, che nel nostro caso è il Rimuginio, che ci farà sentire piccoli, insignificanti e con un leggero alito agliato. Il pipistrello è un mago dell’illusionismo, un genio dell’arredamento con una particolare predilezione per il gotico, che non aspetta altro che giocare con le luci per gettare ombre sinistre su tutto ciò che ci circonda, creando ambientazioni alla Edgar Allan Poe, smorzando i colori e slavandoli come dopo un giro di lavatrice particolarmente disastroso.
La paura ci mostra tutto in una tonalità meno brillante e più sinistra, dai colori scuri illuminati solo dalla luce della luna; trasforma proposte allettanti in prove di abilità, incontri romantici in valutazioni del nostro fascino e feste con gli amici in campi di battaglia con tanto di zombie e sangue finto ad arredare le pareti. Agisce trasfigurando il mondo, aggiustando i battiti del cuore come degli ingranaggi di un orologio ottocentesco, calibrando i filtri dei nostri occhi scegliendo un antiquato color seppia, fino a trasformare una normale giornata in università in un percorso ad ostacoli tra le tombe della Transilvania in una notte di luna nuova, muniti solo di una matita spuntata. La paura crea ambienti spettrali, proietta ombre e definisce il mood della giornata, seguendo le sue più esaltate tendenze dark. E nel fare ciò riesce ad accomunare ansiosi sociali e non. Perché diciamocelo, la paura non è proprietà esclusiva dell’ansia sociale. Semplicemente, l’ansia ha pensato di dotarsene in grandi quantità, di ingrassare il suo pipistrello fino a renderlo capace di trasportare comodamente una coppia di nutrie con figli e bagagli. Ma in realtà siamo tutti circondati da pipistrelli neri che si salutano reciprocamente dalle nostre spalle e che, di tanto in tanto, spiccano il volo per creare quegli ambienti tetri e lugubri alla famiglia Addams, trasformando edifici in grandi lapidi nere, facendo spuntare un canino vampiro all'angolo della bocca della persona con cui stiamo parlando, allungando il fischio di una teiera fino a diventare l'ululato di un lupo nella notte. Ciò che ci distingue l'uno dall'altro non è la presenza o meno della paura, ma dove il pipistrello proietterà la sua ombra. Per alcuni potrebbe essere una proposta di matrimonio che trasforma il più bel principe azzurro in un rospo butterato che si è rigirato per giorni nella vaselina, per altri potrebbe essere fermarsi in un posto per più di qualche mese, per altri ancora potrebbe essere l'esame di maturità, visto come il tentativo legalizzato di mettere alla gogna dei poveri giovani ad un passo dalla libertà. Per me è tutto ciò che riguarda la socializzazione. Se vivessi in un bosco deserto sarei capace di lasciare il mio pipistrello sul primo ramo di passaggio, con un pacchetto di topini morti e un foglio di raccomandazione per il suo futuro impiego. Ma l'eremitaggio costa e io sono tutt'altro che ricca, quindi mi tocca continuare a tenere il pipistrello a tempo indeterminato, lasciando che giochi con le luci e le ombre così da creare scenari gotici anche in un negozio dell'IKEA. Però ho imparato una cosa in questi anni di convivenza con il pipistrello: la sua ombra ha un confine. Esiste un punto oltre il quale non può più intervenire. La paura funziona a corto raggio, a breve termine. Sui compiti imminenti e più prossimi riesce a dare il meglio di sé, a proporre ambientazioni alla Tim Burton, catapultandoci direttamente in una scena del Sesto senso o in una delle stanze della Casa infestata dal demonio. Ma se guardiamo un po’ più in là, oltre la punta delle nostre dita, potremo vedere un mondo molto più luminoso di quello in cui ci muoviamo, fatto di strade trafficate, tramonti accecanti e persone con le braccia aperte. Un mondo di possibilità eccitanti, di colori sgargianti e di sorrisi assolati, ben lontano dalla lugubre e pericolosa terra di Mordor in cui sembriamo intrappolati. Quello che dobbiamo fare è continuare a guardare oltre la punta delle dita, puntare gli occhi su quel faro dai colori vivi che brilla di libertà, che vibra di energia, che fa prudere la pianta dei piedi e che stuzzica le gambe invitandole a correre libere. Insomma, dobbiamo inscenare con noi stessi la celebre scena del Re Leone ("Guarda Simba, tutto ciò che è illuminato dal sole è il nostro Regno"). Se teniamo gli occhi fissi su quella Terra promessa e ci rigiriamo in bocca le parole di Mufasa, continueremo ad avanzare ignorando il pipistrello e ci ricorderemo che quello che passa sotto le sue ali non è la realtà, ma solo una distorsione della vista, è uno specchio deformante che ci spinge a desistere. E ricordarci che siamo già immersi in quella Terra magica ci potrà aiutare a cercare qua e là punti non oscurati dalle ali del pipistrello: un angolino di marciapiede illuminato dal sole, una ciocca di capelli ricci che ci prende bonariamente in giro dalla testa di uno sconosciuto, un cane che ci fissa altezzoso da sotto la sua barba. E’ tutta una questione di prospettive, tutta una questione di sguardi. E di mani tese in avanti.
Duille
La convinzione del soffione
Ciao Argonauti! Eccoci pronti ad un nuovo viaggio nel favoloso mondo dell’Ansia Sociale! Siete pronti? Avete farfallini, vanghe e scarponi comodi? Bene, perché oggi parleremo di un tema scottante per molti ansiosi sociali. Come sapete, ci sono domande a cui universalmente non è facile rispondere. Perché piace tanto il caffè? Cos'è il rosso? Cosa si prova guardando l'oceano per la prima volta? E questo, senza addentrarci nel magico mondo delle domande esistenziali, tipo "Che senso ha la vita?" "Esiste Dio?" "Perché non ci diamo tutti al baratto?" e via discorrendo. Ma gli ansiosi sociali hanno un piccolo corredo personale di domande irrisolvibili che rende loro la vita un po' difficile. Oltre al solito "Perché sono così?", vero evergreen nelle nostre solitarie serate tutte fazzoletti, gelato e telefilm, c'è anche la domanda delle domande, il Santo Graal delle interrogazioni: "Cosa si prova ad essere un ansioso sociale?". Domanda difficile, incognita che tormenta le nostre giornate e che stropiccia migliaia di maglie sotto le nostre nervose mani intente ad assistere il cervello a corto di idee. Come spiegare ad una persona che non ha questo problema cosa significhi vivere in compagnia di questa simpatica burlona convinta che sia Halloween tutto l'anno? E come fare a trovare una definizione che permetta di riassumere in poche parole anni di rabbia, cisterne di lacrime ed un campionario di rinunce da far invidia al più inconcludente degli esseri umani? In fondo, a nostra disposizione abbiamo solo delle minuscole letterine, segni che, in queste circostanze, si ricordano di essere solo scarabocchi sulla carta, movimenti di penna che sembrano aver perso tutta loro capacità espressiva. Parole, dove avete lasciato il vostro pathos? Voi, che siete gli He-men (He-words?) della situazione, di colpo vi riducete a piccoli vermetti neri che si spalmano sulla pagina bianca. E io che me ne faccio di questo pugnetto di vermicelli al nero di seppia? Eh? Qualcuno può venire ad aggiustarli? Come dite? Non si può? Ah. Ho capito. Allora mi tocca arrangiarmi. Mi inventerò qualcosa alla McGiver, o mi improvviserò Doc di Ritorno al Futuro. E nel caso di un blogger, diventare McGiver significa una cosa sola: RICORRERE ALLE IMMAGINI. Quando le parole ti danno il benservito e ti lasciano in mezzo alle sabbie mobili della spiegazione interminabile, la soluzione è mandarle bellamente a quel paese e affidarsi alla forza primordiale delle figure. Loro di certo non dimenticano a casa la borsa contenente l'impatto emotivo! E quindi, ecco qui:
Li vedete quelli della foto? Sono Soffioni. Soffici, delicati soffioni. Tanto belli quanto fragili. Bisogna avere una laurea in delicatezza per poterli cogliere. Si devono avere mani di nuvola per sfiorarli, perché anche le carezze possono farli sciogliere in pulviscoli volatili. Quante volte, da bambini, presi dall'entusiasmo, li abbiamo afferrati con energico amore, con "intenso trasporto", come direbbe la buona Carmen, ritrovandoci con un mucchietto di ciuffi bianchi in una mano ed un stelo tutto spelacchiato ancora attaccato al suolo? E questo perché i soffioni sono fiori tremendamente sensibili, si stressano con un niente. Vanno protetti dal vento di maggio che fa il solletico ai prati, ma anche dal soffio gentile di chi li protegge. I soffioni vanno colti lentamente, facendo attenzione che non si accorgano di noi, e vanno guardati un po' di sottecchi, per evitare che il nostro respiro li spogli della loro bella chioma di sogni. Possiamo avvicinarci, ma non toccarli davvero, se non con la punta delle dita, affidando a quei piccoli polpastrelli tutta la nostra energia cuoriciosa. Questi fiori sono una prova di autocontrollo, di disciplina. Ci impongono un limite alla passione. Possono essere amati a distanza, toccati solo da nebbia di amore, rugiada di affetto, polvere di sguardo.
E la cosa più inspiegabile è che loro, così inadatti a questo mondo di vichinghi, esistono e vivono. Veri misteri che popolano i prati, all’ombra di margherite, rose e primule.
Ed in fondo, è questo che un ansioso sociale sente di essere: un soffione al vento, sempre intento a trattenere i suoi semi, moderno coniglio bianco floreale. Naturalmente un ansioso sociale DOC (e DOP) non si paragonerebbe mai ad un soffione. Si sentirebbe più affine ad un tubero. Una patata per esempio, oppure lo zenzero. Avete mai visto lo zenzero? E' piuttosto bruttino, poverino. O magari, se proprio si sentisse in vena di complimenti, si sentirebbe un po' lumaca. Di certo non un tenero e delicato fiorellino che accende i sogni e la fantasia. Ma io ho all'attivo 5 anni di terapia e sono stata contagiata da un germe di autostima che mi fa scegliere immagini un po' meno viscide di una lumaca! E quindi, lasciate che raccatti con il cucchiaino tutto l'amor proprio che ho (poco e ben nascosto per i momenti di vera necessità) e vi racconti cosa significhi sentirsi fragile come un soffione. E attenzione, ho detto proprio sentirsi. Perché la verità è che siamo più forti di quanto pensiamo. Nella realtà abbiamo una corazza di ferro battuto che, di fronte al peggiore degli starnuti naneschi, non ci smuoverebbe neanche un capello. Ma la convinzione è tutto in questi casi. Sapete come si dice, no? Se ti senti bella e attraente, avrai la fila degli uomini dietro la porta, anche se sei la sorella brutta di Maga Magò. E questo vale anche al rovescio naturalmente. Quindi, anche se avrai la corazza di Iron man fatta in Mithril appositamente per te, se non crederai nel potere di quella armatura sarai davvero solo un soffione al vento tra le mani di un bambino troppo entusiasta. E noi siamo proprio questo: gente convinta nel non essere convinta della durezza della propria corazza. O, per essere più chiari, persone certe di essere fatte di carta velina, di vetro soffiato, come quelle terrificanti palline di Natale che i genitori si ostinano a comprare ma che tu, povero figlio, non devi assolutamente far cadere/rompere/scheggiare, pena lo stordimento eterno a suon di predicozzi sul costo della suddetta opera d'arte dicembrina. Siamo davvero convinti che una parola un po' più spinosa o uno sguardo un po' più duro potrà mandarci in pezzi. La conseguenza è che finiamo coll'andare davvero in frantumi di fronte alle persone. Pur non essendolo, diventiamo soffioni (o lumache, scegliete voi). E per questo, se mai vorrete toccarci, dovrete farlo come si fa con un soffione: dolcemente, teneramente, rinunciando a tutto, se non al tocco di due dita sulla corolla. Considerateci come quei pacchi contenenti le porcellane della trisnonna defunta e seguite le sagge indicazioni sul nostro scatolone corporeo: FRAGILE. MANEGGIARE CON CURA. E con amore, aggiungo io.
Duille
Singolarmente multipla
Ho sempre trovato riduttivo identificarsi con il proprio disturbo. Appiattisce, rende bidimensionale, ci trasforma in cartonati di noi stessi, immediatamente comprensibili proprio perché dietro l’immagine non c’è nulla. Ma spesso finiamo comunque con il cadere nella trappola dell’identificazione facile e, guardandoci allo specchio, vediamo davvero quel sorriso di cartone che ci fissa, tanto falso da far quasi ridere. Ma la volete sapere una verità? Voi non siete quel cartonato. Big surprise, direte voi. Il punto è che lo specchio non mente, lo sapeva anche la povera Grimilde. Certo, ma lo specchio non può riflettere ciò che non vede davanti a sé, e voi siete proprio lì, aggrappati al retro di quel cartonato. Belli nascosti, rannicchiati in un angolo come piccoli pulcini, ma ci siete. E poi, In fondo, chi può dire di essere unico? Siamo multipli per natura, siamo forgiati così dalla nostra storia, dalla cultura, dalla società, dallo stesso scorrere del tempo. Oggi siamo qualcosa di diverso da ciò che eravamo ieri, e domani saremo altro ancora, in un continuo processo additivo di crescita. Quindi posso dire, in tutta onestà di essere la mia ansia sociale? Posso affermare che non ci sia altro oltre questo? Sono davvero SOLO la mia ansia sociale? E’ con un moto di stizza che mi esce un bel “No” alla braveheart, un No guerriero, con il kilt, i colori di guerra e le treccine.
Sono un mondo di cose io. Sono la sognatrice persa nei suoi pensieri, la scrittrice in erba che passa il suo tempo in treno a scribacchiare sul suo quaderno, la lettrice che divora i libri in metropolitana, sono la tizia che sogna di finire in un libro di Tolkien. Sono quella che balla come un fenicottero ferito mentre cucina (sentendosi tra l’altro una gran figa), e quella che conserva miliardi di foglie secche nei libri senza sapere davvero cosa farsene.
Questo dimostra che non sono solo la mia ansia sociale, ma d’altronde, sono ANCHE questo. E’ una parte di me, come la mia sbadataggine e la mia risata alla pippo. Solo, è più ingombrante. Tipo elefante in un monolocale.
Ma d’altronde, neanche l’ansia sociale è soltanto una manciata di segni su un foglio bianco. E’ un universo con luoghi e regole proprie. Consideratela come una terra inesplorata e un po’ primitiva, popolata da emozioni purissime, come pantere indiane che vagano alla ricerca dei popoli che la abitano.
Oppure, se vogliamo vederla in modo più nerd, è una realtà alla dottor Who, con quei buffi personaggi che popolano i vari mondi che i due viaggiatori visitano.
Comunque la vogliate vedere, sia che siate esploratori con fucile e completo color senape, sia che siate dei signori del tempo con il papillon, per poter capire ciò che accade dovete sospendere il giudizio e cominciare ad ascoltare. Perché io, terricola di questo mondo misterioso e primitivo, sono pronta a mettermi davanti ad un fuoco e spiegarvi (nei limiti delle mie capacità e di quelle della lingua italiana) cosa si sente ad essere un’ansiosa sociale. Impresa ardua, ammettiamolo, e per tutta una serie di ragioni: primo, la vergogna che si prova nel raccontare una fobia che ha, oggettivamente, del ridicolo. Non crediate che non siamo consapevoli di essere fuori come balconi! Insomma, avere paura di entrare in un negozio semivuoto, di chiedere un’indicazione o anche solo di passare in mezzo ad un capannello di persone non è esattamente una cosa che consideriamo naturale. Forse ci sentiremmo più in pace con noi stesse se avessimo un disturbo un po’ più alla moda. Ma per le ansiose sociali non c’è onore. Nessuna medaglia d’oro al disagio. Siamo solo strambe. E quindi tendiamo a tenere la bocca sigillata. E confrontarci con altri come noi? Non se ne parla nemmeno! Non c’è neanche da prendere in considerazione un’ipotesi così ridicola! Il nostro problema esclude gruppi di auto mutuo aiuto, confronti sorseggiando un caffè o outing davanti a persone che supponiamo abbiano il nostro stesso problema. In una parola: FIFA. (o Fifaf, come direbbero i vichinghi di Asterix e Obelix) Quindi, l’unica via che ci rimane è il salvifico internet, vero miracolo moderno per le sociofobiche come me! Ma anche qui, ragazzi, la cocente delusione: non esistono blog che parlino dell’ESPERIENZA dell’ansia sociale. Volete una definizione diagnostica? Ecco che fioccano i siti specializzati, psicologi di tutti gli orientamenti che ne parlano in ogni modo possibile, snocciolando i sintomi che ci affliggono come se sgranassero un rosario e consigliando le più disparate terapie per “risolvere il problema”. Ma come si sente un’ansiosa sociale? Cosa prova? Come agisce? Cosa teme? Come si alza ogni giorno e come va a dormire la sera? Non lo sa nessuno. O meglio, lo sappiamo solo noi. E quindi, se sono una ragazzina con la sintomatologia classica dell’ansia sociale, ma non so cosa ho, come lo cerco nel motore di ricerca? E soprattutto, se non voglio essere etichettata solo come una disagiata e volessi un po’ di calda comprensione umana, dove cercare? Se volessi consigli su come affrontare la quotidianità, o se semplicemente volessi sentirmi meno sola, a chi rivolgermi? Ed è qui che subentro io, aggiungendomi allo splendido lavoro che sta facendo il blog di Signora dei Filtri. Bisogna parlare il più possibile di ansia sociale, proprio perché se ne parla troppo poco. A volte un’etichetta, per quanto rassicurante, non risolve il problema, non ci fa sentire meno soli. Ma sapere che esiste qualcuno che, come te, vive gli stessi grattacapi, che si fa venire gli occhi a palla a furia di piangere per l’ennesima occasione sprecata, è liberatorio. E quindi parliamone, analizziamo tutti gli aspetti di questo poliedrico puzzle, confrontiamoci, guardiamolo dalle diverse angolazioni, compresi gli incredibili (quanto impensabili) lati positivi. Sì, vi assicuro che esistono. Bisogna impegnarsi un po’, scavare in profondità, ma ci sono. Ma questa è un’altra storia. Nel frattempo, imbracciate le vostre vanghe, mettete le scarpe comode, indossate il vostro papillon, e preparatevi a questa avventura. Buon viaggio, argonauti!
Duille