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costantino delfo

L'inganno del primo dell'anno

1 Gennaio 2020 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #costantino delfo, #racconto

 

 

 

 

Aveva settant’anni, ma era ancora un giocherellone. Sua madre aveva cercato il suo nome guardando le stelle in una notte chiara, e aveva deciso per Castore, la stella più splendente. Abbaglio o inganno, Castore non fu così splendente, ma anzi proprio brutto, fin da ragazzino. Era piccolo ed esile come un fuscello ed era difficile dire quale dei singoli attributi del suo viso meritasse la sufficienza: gli occhi erano piccoli e neri come le pelose sopracciglia, il naso sporgeva grosso e adunco. Forse la bocca dalle grandi labbra o i capelli corvini tutti ricci meritavano la sufficienza, ma in un migliore contesto corporale. Di professione faceva il calzolaio: bravo ad aggiustare, lucidare e colorare scarpe, aveva la sua clientela e in città era conosciuto.

Nonostante l’età smanettava sullo smartphone e aveva più di mille amici su Facebook: con tanti chattava e scambiava opinioni, like e aneddoti. Soffriva di cuore e anche i polmoni non erano tanto in salute, ma non era ancora così mal ridotto da cedere alla paura della morte. Dunque, avvicinandosi l’età matura per morire, non era detto che quel termine così vicino dovesse per forza essere imminente, ma l'incertezza di quando, dove e come sarebbe morto gli impediva di vivere serenamente. “Si può morire da un momento all'altro, ma chi è vecchio e malato sa che tra un anno o dieci, forse anche fra un solo mese o un giorno, non ci sarà più. Potrei morire anche adesso se mi venisse un colpo” pensava.

Per il dove e come si era creato delle certezze: “Morirò nel mio letto a causa di un colpo al cuore o di una crisi di respiro” mugugnava. Era il quando che più lo turbava e così, poco a poco, cominciò a delineare un profilo della situazione alla sua morte: senza famiglia, solo al mondo, nessuno l'avrebbe pianto.

Si inventò allora uno stratagemma per eludere l’ora della sua morte e, forse, anche farsi piangere… ogni anno, al primo giorno di gennaio, prese a pubblicare sul diario di Facebook il proprio necrologio: Oggi è venuto a mancare all’affetto dei propri cari... , con tanto di croce nera e fotografia. Molti furono i ‘RIP’ e i commenti commemorativi alla sua anima, ma dopo un giorno o due Castore smentiva l’accaduto e tornava in vita. Durò così per anni, e, anche se molti amici non lo piansero più, altri se ne aggiunsero commossi, così Castore scordò ogni malinconia di morte.

Quell’anno il suo necrologio non fu più cancellato. Gli emoticon con le faccine tristi fioccarono, forse qualcuno lo pianse. Castore era riuscito ad ingannare il giorno e l’ora della sua morte.

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Click

3 Dicembre 2019 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #costantino delfo, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

 

Viviamo solo nel presente… la memoria vacilla... ci affidiamo alla rete per ricordare... Come sarà il nostro futuro? La tecnologia offuscherà le nostre menti? Scorderemo tutto?


Stava volando sopra l’oceano azzurro con il suo deltaplano e sentiva l’aria fresca che gli scompigliava i capelli.. era successo cinque anni prima durante una vacanza in Kenya: riprovava la medesima sensazione di frizzante libertà di allora, ma non riuscì a finire il sogno. Improvvisamente comparve la sigla ‘File not found’ accompagnata da un acuto e continuo segnale acustico, poi la visione si oscurò e Fenton si svegliò con una sensazione di smarrimento. Non sapeva dove si trovava e nemmeno che ci faceva in quel letto di una stanza sconosciuta. Schiacciò ripetutamente il pulsante sottocutaneo sul palmo della mano, click, click, click.

Era un meccanismo ideato nei tempi antichi e molto utilizzato negli apparecchi: strumento di precisione indispensabile di cui era fornito ogni utensile, meccanismo, congegno, apparecchio, arnese, serviva ad attivare o a disattivare la macchina. Spesso sul pulsante era indicato il verso: ON-OFF. Solo le macchine ne erano fornite, gli umani non si spegnevano o accendevano con un click, ma ancora seguivano l’antico rito del sole e della luna. A quei tempi ognuno regolava il suo ciclo vitale a piacimento e si sarebbe potuto anche continuare così, ma le scoperte scientifiche nel campo della medicina e della scienza sbalordirono. Furono introdotti nuovi farmaci e droghe, che rivoluzionarono i vecchi concetti di veglia e sonno, e fu il caos. Moltitudini di umani dormivano, rubavano e uccidevano alla luce del sole e altre moltitudini continuavano a dormire, rubare e uccidere nelle tenebre della notte.

Nell’anno del Giubileo 2115, proclamato dal Papa illegittimo Pio XXV, fu Jeremy Theodore Furfiack a vincere il premio Nobel Unificato per la Chimica, la Fisica, la Medicina, la Pace, l’Economia e la Letteratura, con la sua ricerca intitolata Un click per tutti. Pubblicò anche un libro di 100.223 pagine che andò a ruba e di cui furono rifatte 3456 edizioni; dieci film furono tratti da quelle pagine, con attori e registi di successo, uno di questi film vinse l’Oscar e seguirono ben sei serie televisive con circa 50000 puntate ciascuna. La gente impazziva. Tutti volevano farsi impiantare il nuovo congegno. Si racconta che, ai tempi di Furfiack, i capi di stato di USA, CINA e RUSSIA si fossero riuniti a Kyoto per parlare del nuovo mondo: tutti discussero e alla fine prepararono una bozza di comunicato della conferenza tramite una delle maggiori agenzie di stampa mondiali, la ‘Incorporated Agency for Public Affairs and Worldwide Olympic Games. I.A.P.A. & W.O, che così recitava: ‘Vedremo’.

Quell’unica parola lasciò spazio a varie interpretazioni e ognuno la intese come meglio credette. Vi fu ancora qualche calamità o disgrazia, qualche sventura, qualche disastro o tragedia, flagello o cataclisma, ma furono poca cosa e il mondo andò avanti, addirittura migliorando, lo sostenevano statistiche e sondaggi. Così miliardi di umani si fecero impiantare il nuovo dispositivo: con un semplice click si potevano fare sonni tranquilli di otto ore, per poi riprendere l’attività al mattino con un altro click, freschi e riposati. Alcuni modelli fornivano, con un modesto supplemento di spesa, sogni piacevoli e garantiti, ripescati nella memoria del singolo individuo. Si poteva dire che l’umanità vivesse al comando di un click. La App dei sogni era sicura e garantita dal contratto, scritto fitto fitto (Times New Roman 4) e composto di 100 pagine.

Però bisognava andarci cauti, perché ciò avrebbe implicato l’intrusione da parte del Server Mondiale nella memoria di ogni individuo e sarebbe stato un sopruso alla privacy. Ci furono infatti molti ricorsi alla Corte Suprema. Ma quando, dopo altri trent’anni, il presidente mondiale Jim Rudolph Theodore Furfliack, nipote di quel Jeremy che vinse il Nobel, emanò il decreto favorevole alla liberalizzazione dei sogni, vi fu comunque un’incredibile corsa all’acquisto della App, ormai legittimata alla archiviazione dei sogni e della memoria di ciascun individuo. Inutile dire che John Sebastian Click e Muhamed Alì della Columbia University, ideatori dell’App, diventarono ricchissimi.

Quella mattina, Fenton non capiva che cosa gli fosse accaduto, né riconobbe la donna che gli dormiva accanto nel letto. Si alzò e camminò nel buio tastando il muro, trovò la porta, uscì nel corridoio e si avviò alla scoperta della sua casa. La tenue luce dell’alba penetrava l’ampio salone e Fenton, avvicinatosi alla finestra panoramica, osservò dall’alto dei trenta piani la via sconosciuta che vedeva là sotto, l’Hudson e gli alti grattaceli che non riconobbe, poi i quadri, i mobili e gli oggetti della stanza. Nulla, non ricordava nulla, se non che stava volando alto nel cielo con il suo deltaplano. «Buon giorno, ti sei svegliato presto, eh?» disse la donna, stiracchiando le braccia. Lui la guardò e tacque. Lei andò in cucina a preparare la colazione. “Chi sei?” pensò. La seguì e si sedette al tavolo mentre lei era indaffarata. Quando arrivarono in tavola il caffè, i toast e le uova, lui le chiese: «Chi sei»? «Dai, Fenton, non fare lo stupido di mattina presto» gli rispose Ann. Lui non disse niente, continuò a mangiare, scostando i lunghi capelli che gli scendevano sulle uova.

(L’aveva pescato a Las Vegas, dove lei si esibiva in uno di quei locali minori, come ballerina e, dopo una settimana di follie, si erano sposati ad Austin. Lui lavorava come freelancer e copywriter per un giornale locale, e con i pochi soldi che avevano si trasferirono a NY city. Lei diventò una top model: era bella e il suo corpo vendeva bene, viaggiava molto e in tutto il mondo. Lui invece era un tipo schivo, solitario, e a vederlo com’era conciato nessuno gli avrebbe dato credito: portava i capelli lunghi fin sulle spalle, ed erano di un colore mal definito a causa della tinta variabile fra il giallo, il verde e il marrone aveva uno sguardo sornione e un gran nasone, gli occhi erano due brillanti spilli azzurri sotto le sopracciglia chiare. Ma era un punk travestito, dietro le sembianze nascondeva un intuito veloce, sicuro di certezze a cui non era possibile rinunciare. Quando prendeva parola nelle riunioni mattutine della Agenzia pubblicitaria, di cui era il vice, convinceva sempre tutti.)

Ora doveva convincere se stesso che quello che gli stava accadendo non era reale. Pensò di chiedere ancora qualcosa alla sconosciuta che gli stava di fronte, ma non disse niente. Finché lei tornò più bella di prima, truccata e vestita: «Oggi faccio presto, torno per le cinque» disse, e lo baciò prima di andarsene. Fenton riprovò a schiacciare il pulsante, che però non faceva più click. Era consapevole del mondo che lo circondava, ma era totalmente incosciente di sé, non ricordava proprio nulla. Trovò il bagno, si guardò allo specchio senza riconoscersi. Fece la doccia, si vestì con dei jeans sgualciti e una camicia hawaiana dai mille colori che aveva trovato sulla sedia in camera da letto, poi uscì. Prese l’ascensore, che lo depositò nell’atrio. «Buongiorno, signor Fenton, le chiamo un taxi?» gli chiese il portiere. «No, grazie, faccio due passi» rispose Fenton, e si avviò alla porta, sempre più smarrito.

Raggiunse la clinica ‘Ferramenta’ per farsi aggiustare il pulsante. Dopo le analisi il dottore lo ricevette nel suo studio: «Senta Fenton, la situazione è complicata, non è mai accaduto prima: l’esplorazione ha confermato il mal funzionamento del meccanismo, tuttavia non abbiamo potuto risalire alla causa del danno. Potremmo sostituirlo con uno nuovo ultimo modello, ma in questo caso perderebbe tutti i dati in quanto l’estrazione dal suo attuale meccanismo è impossibile. Bisognerà sostituire tutto». «Tutto il mio cervello?» chiese Fenton. «Sì, certo! Come è possibile che lei non abbia mai fatto un back-up del suoi dati? È una routine fortemente raccomandata in tutti i manuali, lo sa vero?». «Sì certo, dottore, lei ha ragione. Me ne sono scordato».

Fenton accettò di cambiare cervello, ma non poté recuperare la sua identità. Ricordi non suoi gli comparivano nei sogni: non erano ricordi della sua vita passata quelli che sognava, ma quelli della vita degli altri, e così non riuscì mai più a ricostruire la sua identità. Viveva le vite altrui.

Quello di Fenton fu il primo incidente, in seguito miliardi di altri meccanismi si guastarono. Il governo mondiale fu costretto a staccare la spina con un semplice click e il mondo rimase al buio, senza una memoria di sé.

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MISERY-INTERVISTA AL LETTORE

1 Novembre 2019 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #costantino delfo, #racconto

 

 

 

 

«Facciamo un gioco, le va?»

«Sì, certo» rispondo.

È giovane e bionda con taccuino e penna. Il taccuino è un block notes con spirali gialle e la penna è una bic con il cappuccio nero. Le gambe sono belle, accavallate e non porta calze, è estate. I piedi sono nudi con le unghie dipinte di rosso e uno poggia sul parquet, l’altro dondola nell’aria. Sta seduta sulla punta della poltrona, vicino a me e io, steso sul divano, la osservo attento e pronto a esaudire ogni suo desiderio. È molto bella.

«Quanti anni ha?» mi chiede.

«Cinquantanove, quasi sessanta.» 

‘Che cazzo c’entra l’età, io sono io. Va be’ è l’intervista. I lettori devono sapere.’

«Fuma?»

‘Che cazzo c’entra il fumo! Al telefono mi aveva detto che era una intervista sul mio lavoro, io faccio il lettore.’

«La pipa» rispondo e già mi sta sulle palle questa bambola bionda. Però ha due belle gambe che fa piacere guardarle e poi la pipa fa lettore e scrittore insieme, mi viene in mente Hemingway. Abbozzo un sorriso ma forse è venuto fuori un ghigno, non per colpa mia.

«L’ha uccisa lei?» 

Silenzio, mi ha sorpreso.

«No. Io leggo.» 

‘Devi dire la verità, la verità salta sempre fuori’ sussurra lo scrittore.

«Lei conosceva la vittima?»

«No, sì… Ma solo di nome. Mi pare si chiamasse Misery.»

«Allora chi è stato?» insiste.

«Lo scrittore» rispondo.

Con un rapido movimento accavalla le gambe al contrario. Ora il suo piede inquisitore, che prima dondolava guardando la finestra, mi fissa.

«Lei, come lettore, è corresponsabile dell’omicidio della povera donna!» strilla.

Si alza e se ne va quando il chiarore dell’alba si diffonde nella stanza e io mi sveglio.

 

 

 

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LEGGERE STEVENSON, LONDON E CONRAD A SETTANT’ANNI

3 Ottobre 2019 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #costantino delfo, #racconto

 

 

L’inverno era stato tanto tiepido, privo di avvenimenti climatici e personali, così io sentivo il bisogno di avventura. Mi rifugiai nella lettura di qualche libro. Rilessi alcuni classici: Dostoevskij, Joyce, Fitzgerald, Camus e altri che ho già dimenticato. Sono vecchio ormai, ho settanta anni, e poche cose ancora mi procurano l’attenzione dovuta.

Nello sgabuzzino pieno di libri e ricordi ho trovato alcuni libri dimenticati su una mensola. La copertina di uno raffigurava dei pirati con un titolo arabescato: L’ISOLA DEL TESORO. Proprio quello che cercavo, un tuffo d’avventura nei Caraibi! Mi sarebbe anche piaciuto andarci, ai Caraibi, ma mi accontentai del libro. Long John e capitan Flint e tutti gli altri erano affascinanti. Vedevo pirati e uomini rudi ovunque, io stesso lo ero diventato, ed era ormai mezzanotte quando finii di leggere il libro.

 

‘Quindici uomini sulla cassa del morto Yo-ho-ho, e una fiasca di rum!’

 

Ma questa prima avventura non mi arrestò, anzi. Inebriato d’esperienza senile, cercai e scovai un’altra avventura tra le macerie di libri nello sgabuzzino: MARTIN EDEN. Mi aspettavo, dalla copertina che raffigurava un veliero, un altro brivido nei mari del Sud, invece era un romanzo d’amore talmente bello che lo lessi d’un fiato per tutta la notte.

La luce dell’alba filtrava dagli scuri della finestra e ancora sognavo ad occhi aperti le visioni dei racconti che avevo letto. Andai in cucina a prepararmi il caffè, ma subito abbandonai la caffettiera sul fuoco per andare di nuovo nello sgabuzzino a cercare un altro romanzo, che trovai sulla mensola dove erano stati gli altri due: LORD JIM. Mi misi a leggerlo, sorseggiando il caffè, dimentico oramai della realtà che mi circondava.

Il battito di pendola mi fece capire che era già la mezza, dovevo scappare a fare la spesa al vicino supermercato. In fretta mi lavai e vestii e con il libro sottobraccio mi avviai. Avevo dormito solo due o tre ore, ma ero pieno di energia e le figure dei personaggi dei romanzi che avevo letto si fondevano nella mia mente: non stavo andando al supermercato, ma sulla tolda di un vascello, stavo solcando il mare dei Caraibi in cerca dell’isola del tesoro dove avrei incontrato una bellissima donna di cui mi sarei perdutamente innamorato. La mia vita era diventata tutta un’avventura mentre lei appariva e scompariva tra i corridoi degli scaffali del super.

 

‘Era una creatura eterea, pallida, aureolata di capelli d’oro, dai grandi occhi immateriali. Non vide com’era vestita; vide soltanto che la sua veste era meravigliosa come lei. E la paragonò a un fiore d’oro pallido, su uno stelo fragile. No! Era uno spirito, una divinità, un idolo!. Una bellezza tanto sublime non era di questa terra.’

 

Non esageriamo Martin, la tua Ruth sarà stata anche bella, ma la mia è una donna vera, di quelle fatte di carne con i muscoli dei polpacci che si gonfiano ad ogni passo su quei tacchi fini e veste avvolta in un tailleur blu, una coda di capelli neri le sobbalza sulla schiena. È una donna massiccia e forte, come piacciono a me. Come avvicinarla? Cosa dirle? Ecco, le avrei detto: “Scelga questo, signora, è di ottima qualità” e le avrei sorriso, proprio io che non sorrido mai. L’impresa sarebbe stata ardua, mi avvicinai e proprio quando lei stava per prendere una scatoletta “Ora o mai più” mi dissi e lei si voltò a fissarmi.

 

‘«Che cicatrice ha sul collo, signor Eden!», esclamò la giovane. «Come se l’è fatta? Certamente in seguito a un’avventura!». «È stato un messicano col suo coltello, signorina!», rispose.’

 

Fissava la cicatrice sulla mia fronte che mi ero fatto da piccolo. Mi venne un groppo in gola, non respiravo. E se mi chiede dei miei amori passati, come ha fatto Ruth, che le dico? Lascia perdere, quella non fa per te, avrà almeno trent’anni di meno. Vuoi finire come Martin?

 

‘Quando i piedi ebbero toccato l’acqua, si lasciò andare. Gli parve di scivolare lungo una china infinita, e in fondo in fondo sprofondò nel buio. Solo questo seppe. Sprofondava nel buio. E nel momento stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo.’

 

Ebbi il coraggio di risalire dalla profondità del mare e mi avviai alla cassa. Un cerbero donna stava contando dei soldi. Posai la mia spesa sul banco scorrevole su cui lei s’avventò. Infine disse: “Ventinove e ottantacinque.” Li avevo già preparati e glieli consegnai.

 

‘E cominciò a contare l'ammontare che le doveva il capitano, trasferendo il denaro dalla borsa da marinaio a quella che avevo in mano.’

 

“Mancano dieci centesimi” disse. Cercai furiosamente nelle tasche. “Ci sbrighiamo!” urlò una voce irosa uscita dal fondo della fila. Stavo rischiando la vita.

 

‘«L'ho visto morto con questi miei occhi», disse Morgan. «Billy mi portò dentro e lui stava lì disteso con delle monetine sugli occhi, Pew era morto, morto stecchito».’

 

Consegnai al cerbero i venti euro stropicciati che avevo ritrovato nella tasca. Lei mi ridiede il resto ed io rimasi lì imbambolato. I pirati non restituiscono mai nulla, i pirati rubano!

 

‘«Prendi le ghinee, Pew, e non startene lì a sbraitare».’

 

Con la fronte madida di sudore freddo presi i soldi e mi avviai all’uscita. Il tempo non era cambiato, un sole pallido svaniva tra nuvole grigie di pioggia. Dovevo resistere anche se sapevo che la bufera sarebbe arrivata e il libro mi cadde di mano. Il cielo si fece plumbeo, gli aliti di vento divennero soffi, il veliero si mosse. Saltai d’un balzo sul pennone di gabbia e liberai la scotta. La vela si spiegò, ma poi il vento calò di nuovo e una nuvola di nebbia mi avvolse e il vascello fu di nuovo fermo. La campana suonava a tempo in quella bonaccia. A tratti mi sembrava di scorgere un’ombra tra i buchi grigi della nebbia e poi lo vidi: Jim, Lord Jim. Lo riconobbi subito.

 

‘Il suo aspetto era impeccabile: vestito sempre di un bianco immacolato, dal cappello alle scarpe, era molto popolare nei vari porti d’Oriente in cui si guadagnava da vivere come procacciatore d’affari.’

 

“Jim” sussurrai. “Signore, signore si sente male?” mi chiesero, “No, no sto bene, grazie” risposi. Accanto a Lord Jim c’era Gioiello una ragazza dagli occhi esotici, il suo amore.

 

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Otto

3 Settembre 2019 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #costantino delfo, #racconto, #pittura

Disegno di Costantino Delfo

Disegno di Costantino Delfo

 

Nella vetrina del negozio era esposta la maglia con il numero 88, stampigliato grande e in bianco sul blu di fondo. Mario entrò con passo marziale, agitando le braccia come un soldatino. Aveva quindici anni e non parlava mai con nessuno, solo con la sua mamma formulava qualche semplice frase. Non aveva mai frequentato la scuola: all’asilo aveva strappato ciocche di capelli a un compagno e gli aveva quasi cavato un occhio. Autistico, dissero. Così la madre, insegnante di greco e latino al locale liceo, lo tenne a casa e gli insegnò tutto ciò che sapeva. Aveva superato l’esame di quinta elementare con parecchi mutismi e quello di terza media con risposte non gradite ai professori. Ora frequentava, con grande soddisfazione di sua madre, la prima classe del liceo dove lei insegnava. Con la sua la bicicletta sfrecciava come un fulmine, per lo più vicino a casa, ma talvolta anche per il viale della città e fino in centro, dove c’era il negozio con la maglietta numero 88.

«Otto.» disse alla donna dietro al bancone.

«Che cosa vuoi, tesoro?» chiese la donna.

«Otto!» ribadì, ma lei lo guardò ancora con aria interrogativa, senza capire.

«Otto! Otto! Otto!» gridò Mario. Toc, toc, toc: la scarpa sbatteva sul pavimento, cominciava a innervosirsi.

«Otto che cosa, caro? Dimmi» chiese ancora la donna simulando un sorriso.

“Otto, otto come l’ottavo giorno, ottovolante, ottavo girone dell’inferno. Taciti, soli, sanza compagnia n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo... ” pensava fissandola.

Il suo sguardo volse in fondo vicino alla vetrina, dove stava seduta nel buio una ragazzina che gli sorrideva. Si diresse verso di lei che prese la maglia dalla vetrina e gliela porse. Mario, con l’oggetto ambito tra le mani, tornò indietro e lo posò sul bancone.

«È questa che vuoi, caro?» chiese la donna.

Fece un cenno di assenso con la testa, pagò e uscì di corsa con la sua maglietta.

La ragazzina lo seguì e Mario la fece montare sulla canna della bicicletta e riprese a pedalare come un forsennato. Lei s’aggrappò al manubrio.

“Piano, ho paura!” pensò.

“Sì, scusa, non sono abituato a portare qualcuno, vado sempre da solo” le rispose nel silenzio e subito rallentò. Giunsero all’argine del fiume, che scorreva placido, e si fermarono sotto un salice piangente, sedendosi con la schiena appoggiata al tronco. I lunghi rami penduli dell’albero li nascondevano alla vista, avvolgendoli in un’atmosfera surreale di colore giallo a causa delle strette foglie dorate che erano anche distese intorno come un tappeto. Era infatti la fine dell’estate e il salice lasciava cadere le sue foglie come lacrime. Era una bella e calda giornata, il sole che filtrava tra i rami rendeva anche l’aria che respiravano dello stesso colore giallo oro. Mario disfece il pacchetto con la maglietta, la stese sull’erba per guardarla e infine la indossò.

“Grazie per la maglietta” pensò.

«Oh, di niente, ti sta bene. Come ti chiami? Io mi chiamo Sara» disse lei, e aggiunse: «Puoi anche parlare con la voce, se vuoi, tanto siamo soli, nessuno ci può sentire». La fissò meravigliato e le rispose: «S... sì, va b... bene, io mi chiamo Mario». Non era abituato a parlare, se non sotto minaccia come a scuola, e fu per lui una novità.

«Bello qui, pare di essere al sicuro, protetti... » disse Sara. Gli si avvicinò sfiorandogli la spalla e gli sorrise con quel sorriso enigmatico. Egli non resistette, le mise il braccio attorno alla spalla e le diede un bacio sulla guancia. Sara s’infuocò, divenne tutta rossa e ricambiò quel bacetto. Mario si distese felice, non sapendo che fare o che pensare. Allora Sara lo baciò sulla bocca. Un lungo bacio d’amore e lui l’abbracciò a lungo. Tutti i giorni, ogni pomeriggio alle tre in punto, per quell’intero mese di Settembre, Mario si presentò davanti alla vetrina del negozio ad aspettare Sara, e insieme tornavano al loro rifugio sotto il salice piangente.

Nascosta dietro la vetrina del negozio, la proprietaria stava ad osservare, controllando quello strano ragazzino che, dopo avere acquistato la maglietta, già un paio di volte era di nuovo entrato a chiedere di Sara e poi si era piazzato davanti alla vetrina in sella alla bicicletta. Fu facile per lei informarsi: il ragazzo era conosciuto e aveva una brutta fama, perché era malato e un po’ matto, dicevano. Allora telefonò.

«Buongiorno signora, mi scusi se la disturbo, sono la proprietaria del negozio in via Bixio. Si tratta di Mario». La madre, dall’altro capo del telefono, aveva già il batticuore sentendo parlare del figlio. «Signora, mi dispiace tanto ma devo dirglielo. Chissà quanti pensieri già le dà quel ragazzo.» La madre non seppe che pensare, riuscì solo a dire, già con gli occhi lucidi: «Che cosa è successo?»

«No, no, nulla di grave, non si allarmi, signora,» disse la donna, «suo figlio è venuto a comprare una maglietta un mese fa, però da allora, ogni giorno, quando apro il negozio, si piazza davanti alla vetrina e due o tre volte è anche entrato a chiedere di mia figlia Sara. Ma io non so chi sia questa Sara e non ho figli.»

Tacque. La madre si rilassò un poco: «Mi dispiace signora, a volte il mio Mario ha degli atteggiamenti strani, gli parlerò, non la disturberà più. Buongiorno, signora.»

Alle due del pomeriggio Mario era già pronto per recarsi all’appuntamento con Sara. Il tempo era cambiato: grandi nubi grigie, rigonfie di pioggia, spinte da folate di vento, solcavano veloci il cielo. Poi si udì il fragoroso rombo di un tuono e una pioggia scrosciante cadde dal cielo. La madre entrò nella cucina. «Mario, non devi più andare a quel negozio in centro,» disse, «la padrona del negozio non vuole che tu vada là,» e continuò, «dimentica quella storia, Mario, ti prego. Non esiste nessuna Sara, te lo sei inventato! Come fai sempre!» aggiunse. Poi si mise a piangere e singhiozzando disse ancora: «Non ne posso più delle tue bugie… delle tue fantasie!». Mario era incapace di dire una parola, la gamba iniziò a fremergli. Fece un cenno d’intesa, un segno espresso solo con una inflessione dei suoi occhi sbarrati e increduli. Di corsa uscì di casa.

Appena fuori dall’uscio, inforcò la bicicletta e si gettò sotto la pioggia battente.

“Sto arrivando, amore mio” pensava pedalando. Raggiunse il negozio ma era ancora chiuso; si apprestò ad aspettare Sara in sella alla bicicletta. Eccola spuntare dal vicolo adiacente, correva, fuggiva. Dietro c’era sua madre che gridava: «Te ne devi andare! Hai capito?» Sara salì sulla canna della bicicletta. Alcuni passanti si fermarono ad osservare la scena di quella donna che correva dietro al ragazzo gridando. Mario pedalava come un forsennato, credendo che ogni spinta sempre più poderosa data sui pedali avrebbe cancellato le urla della madre di Sara, che gli risuonavano per la testa.

Strinse spasmodicamente le bacchette dei freni appena prima della curva sull’argine del fiume. Poi volarono come angeli, aggrappati al manubrio della bicicletta, che scivolava via. Una frustata di ghiaccio sulla pelle, Sara si aggrappò a Mario ed egli la strinse forte. Precipitarono nel buio e freddo fiume. Ripescarono Mario due chilometri a valle, ancora con le braccia avvinghiate al suo corpo, come se avesse voluto abbracciare qualcuno.

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Sogni proibiti

3 Agosto 2019 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #racconto, #pittura, #costantino delfo

Disegno di Costantino Delfo

Disegno di Costantino Delfo

 

Quel lunedì mattina mia moglie era uscita presto, alle sette. L’acquirente sarebbe arrivato alle otto e si erano dati appuntamento al casello dell’autostrada. Ero contento: finalmente l’avremmo venduta. In due ore sarebbe stato tutto finito, con qualche euro in più e un’automobile in meno. Ma erano già le undici e lei ancora non era tornata. Preparai la tavola e misi a far bollire l’acqua. Venne l’una e ancora non era rientrata.

«Dov’é la mamma?» chiese mio figlio.
«Al PRA, a vendere la macchina» risposi.
«Cos’é il PRA?» chiese ancora.
La prima risposta utile e sincera che sfiorò la mia mente fu: “Il PRA è un casino”, ma in realtà risposi: «È il posto dove il detective Bud White telefona per informazioni», rievocando il sogno che avevo fatto quella notte. 
Cambiai voce e recitai: «Detective Bud White, polizia di Los Angeles. Una Mercury del ’49 targata DG114. Voglio sapere il nome del proprietario e l’indirizzo». Quindi feci la voce femminile della centralinista: «Subito, detective». 
«Capito?» chiesi sorridendo a mio figlio che mi guardò come fossi un marziano.

Le due, eccola finalmente. Mia moglie entra in cucina e lancia la borsa sulla credenza. La guardo curioso. «Zitto!» dice, puntandomi il dito in faccia. Abbasso lo sguardo, perché quando fa così è meglio obbedire. «Stronzi! Ladri! Scansafatiche! Puttana di una bionda!» urla. «Ma cosa è successo?» oso chiedere.

L’indirizzo era West Hollywood 142, il detective White vi si recò di corsa. L’edificio era una palazzina a due piani. Controllò le cassette delle lettere: il nome corrispondeva, era l’unica donna, interno quattro. «Polizia! Aprite!» gridò, impugnando la 38. Stava per sfondare la porta con un calcio, quando si aprì solo una fessura per il blocco di una catenella. «Detective White, omicidi» disse mostrando la patacca. La porta si aprì del tutto: davanti a lui apparve una bionda esplosiva dai lampeggianti occhioni azzurri, fasciata in un baby-doll rosso da cui prorompevano le sinuose curve del seno e il profondo solco fra gli esuberanti, candidi promontori.

Mia moglie mi fissa truce, come se fosse stata colpa mia. Poi inizia a raccontare: «Alle nove c’era già una fila lunga come la muraglia cinese. Faceva un caldo infernale senza aria condizionata. Alle undici il ragazzo ed io siamo finalmente di fronte allo sportello e quella stronza se ne va. Venti minuti è stata via! Torna, lentamente, e finalmente si risiede: bionda occhi azzurri con le tette grosse, che stanno poggiate sul banco. Cazzo, ma questa non suda? penso. Eh no, perché dalla fessura dello sportello esce un’arietta frizzante. La barbie gode di aria condizionata! Le allungo i documenti, infilandoli nel buco. Li guarda e chiede chi è l’acquirente. “Sono io” risponde il ragazzo. “Ma tu hai diciotto anni?” fa la stronza. “Ventitre” risponde lui. Lei gli fa un gran sorriso e si rizza in su gonfiando i pettorali. “Portati bene!” dice e gli strizza l’occhio».

«Green? Samantha Green?» chiese Bud, riponendo la pistola.
«Sììì» fece lei, meravigliata «posso esserle utile, detective?»
«Lei lavora alla motorizzazione?»
«Sììì» rispose la bionda ancor più meravigliata per la sagace intuizione del detective.

«E poi?» chiedo a mia moglie. «E poi si alza e se ne va, ’sta svampita. Sta via altri venti minuti, tornando poi con la faccia scura: “Manca la copia della patente” dice. Il giovane tira fuori la patente e gliela consegna. “Scusi, ma cosa c’entra la patente? Io gli vendo la macchina. Che la voglia guidare o no sono ca… problemi suoi” dico io, educatamente. La stronza manco mi degna di uno sguardo, sorride al giovanotto e dice: “Oggi hai vinto il primo premio. La fotocopia te la faccio io” e ancora gli ostenta il davanzale, quella puttana!»

“Lei è in arresto!” pensò Bud White, invece disse: «Lei ha vinto il primo premio!».
La bionda, con un sorriso smagliante e le braccia aperte, si avvinghiò al suo collo e lo baciò. «Lo sapevo! Lo sapevo!» disse «che cosa ho vinto?» Bud le prese la mano e si diresse verso la camera da letto. La bionda rideva e, con voce garrula, ripeteva «Lo sapevo! Lo sapevo, ho vinto il primo premio!»

«E poi?» chiedo.
«E poi è tornata». 
La guardo con curiosità per conoscere il seguito. Ma mia moglie tace.
«Allora?» chiedo «l’hai venduta?»
«Sì, sì ma le ho preso il nome! Ce l’aveva stampato sul cartellino. Me lo sono anche scritto, perché è un nome straniero». Rovista nella borsetta e ne estrae un bigliettino.
«Ecco! Si chiama Samantha, Samantha Green. Io la denuncio, quella lì!»

 

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Lezioni americane

24 Giugno 2019 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #costantino delfo, #racconto

Disegno di Costantino Delfo

Disegno di Costantino Delfo

 

 

Alcuni anni fa avevo venti anni e fui ospite nella casa di un amico di mio padre, a Seattle, nello stato di Washington. Ogni sabato sera comparivano amici di Mark e Helen, sua moglie.

Dopo i convenevoli, i sessi si separavano. Ciascun gruppo maschile o femminile, solitamente formato da sei o sette persone, si appartava in uno dei salotti della grande villa. Erano quattro i salotti dai vari colori e io, quella sera, stavo nel rosa con uomini dai pochi capelli. Le donne erano nell’altro salotto con Helen. Erano stati Mark e Helen a promuovere questi incontri in cui si parlava di tutto: arredamento, politica, moda, musica...

Gli incontri erano registrati, lo seppi dopo. Mark è uno scrittore e insieme a Helen avevano organizzato questi incontri serali da cui Mark avrebbe tratto ispirazione per il suo nuovo romanzo. Sarebbe stato un altro bestseller.

Quella sera, nel salotto rosa, eravamo in sei, seduti su divani e poltrone, ciascuno con il suo bicchiere di whisky. L’argomento della serata era: il sesso e la donna.

«Sex now!» esordì Mark. La risata corale mi stordì.

«John, comincia tu!» disse ancora.

John Harlowe era un prete con il collarino, dal volto smunto, bianco pallido, ma i radi capelli erano di un rosso fulvo a cui tutto il suo viso si uniformò, quando John lo incitò a parlare. 

“Irlandese” pensai.

«Bene, (gli anglosassoni cominciano sempre così i loro discorsi) non ne so molto. Tutti risero ma lui continuò: «Per me le donne sono il diavolo tentatore. Dio le punì per avere mangiato la mela. Full stop». 

Seguì un’altra fragorosa risata e molti dissentirono col capo.

«Arnold?» disse Mark, chiedendo l’opinione all’uomo seduto accanto a me sul divano. Arnold Buckner era grasso, occupava due delle quattro piazze del divano rosa, ma era di un grasso fresco in quella torrida estate, forse per via dell’aria condizionata. La pelle rosea del suo viso era glabra come quella di un neonato ed emanava un buon profumo di lavanda, pungente al punto giusto. Un profumo di gelsomino con un pizzico di peperoncino, che credo gli venisse dalla lozione dopo barba che usava. Era rigorosamente pelato e dava l’impressione di un pascià o di un eunuco.

«Sono belle, sono belle» sentenziò con una voce argentea, l’eunuco.

«Levin?»

Levin era assorto, ma si risvegliò al richiamo di Mark. Portava una papalina nera sul cocuzzolo che gli copriva in parte la pelata. Le folte basette che si congiungevano in una barbetta caprina, confondevano la sua calvizie. “Ebreo.” pensai.

Levin alzò il capo e la sua espressione dolente fu una certezza: naso adunco, occhi socchiusi, labbra fini.

«Ne ho un vago ricordo,» esordì, «ma è chiaramente scritto.»

Si alzò in piedi e iniziò a recitare con gli occhi spenti e con un ritmico dondolare la testa e il busto. Stava pregando: «Allora uno dei sette angeli che hanno le sette coppe mi si avvicinò e parlò con me: Vieni, ti farò vedere la condanna della grande prostituta che siede presso le grandi acque. Con lei si sono prostituiti i re della terra e gli abitanti della terra si sono inebriati del vino della sua prostituzione. Parola di Dio».

Rimasi stupefatto dalla sua teatralità e, del resto, rimasi stupefatto da tutte le sue parole e, dopo tutti quei discorsi sulla prostituzione della donna, alla fine anche io fremevo per dire la mia.

«A me piacciono le tette grosse» dissi e atteggiai le mani in una mimica indicativa. Nessuno rise, alcuni sorrisero, ma di quel sorriso compassionevole che ne fa capire il lato dispregiativo.

«Tu Johan?»

«Sììì,» rispose Johan, «ma gli uomini sono uomini.»

Così disse con una mossetta.

“Chiaramente gay” pensai.

Mark si alzò. «Cari amici, grazie per essere intervenuti a questa piacevole serata.»

Finì lì. Dopo i saluti notai Mark che sussurrava all’orecchio di una bionda vistosa, poi mi si avvicinò e mi chiese se potevo accompagnarla a casa. 

«Certo, sì» risposi.

Durante il tragitto, le raccontai della mia figuraccia durante la riunione, così, per farla ridere un poco. Non rise, né disse nulla, solo qualche: Yeah o Aye. Quando arrivammo mi invitò a salire: «Would you like a drink?» mi chiese. Come avrei potuto rifiutare. Era pur sempre una donna: alta, bionda, ben fatta, sui quaranta, le cui forme esuberanti ricordavano un aspetto giunonico ma non era brutta, solo un po’ rotonda, però a guardarla bene, aveva più dei quarant’anni che le avevo assegnato e somigliava un po’ a mia madre, da giovane. Ma aveva una bella facciona simpatica e delle tette semplicemente stupende. Arrivati in casa, mi disse di chiamarsi Jane e di accomodarmi e servirmi pure, indicandomi il carrello dei liquori, lei sarebbe tornata subito. Mi versai un bourbon e mi sedetti sul divano, sorseggiando il whisky. Arrivò e, senza una parola, ritta in piedi in mezzo alla stanza, gettò la parrucca bionda e si tolse il vestito. Sotto era nuda, senza un pelo o capello; con i ballonzolanti, grossi seni e le cosce più che piene. 

«Allora? Come è andata ieri sera?» mi chiese Mark, a colazione. 

«Be… huh, auh, …ne» risposi, m’era andata di traverso, la pancetta. 

«Jane è una cara amica da molto tempo,» continuò, «cara e brava, solo trecento…» disse. «Non preoccuparti, è stato il mio regalo per il suo compleanno. Ieri ne faceva sessanta, il tempo passa.»

 

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Rino

7 Giugno 2019 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #costantino delfo, #racconto, #vignette e illustrazioni

Disegno di Costantino Delfo

Disegno di Costantino Delfo

 

Al mattino non c’era anima viva e il fiume scorreva lento.

Al mattino raramente qualcuno entrava nel negozio, e se vi entrava ne usciva dopo un po’ in tutta fretta, quasi a non farsi scorgere, e la strada tornava immobile sotto il tremolio dell’aria torrida. Rino non usciva mai dal suo negozio: si faceva vedere solo al tramonto quando la via si animava, e si piazzava all’angolo dove il fiume faceva una pozza.

Era una bestia enorme, tutta muscoli e quell’angolo di fiume era suo. Gli altri animali bevevano un poco più in là, ma sempre con l’occhio attento.

Bello era bello, Rino, con i capelli neri e ricci che gli scendevano sulle spalle. Gli occhi non si vedevano, perché li teneva sempre socchiusi. Aveva un gran nasone, una bocca sensuale e due metri di fisico prestante, che spesso faceva vedere sotto il gilet indossato aperto sul petto. La pelle degli avambracci si gonfiava ad ogni movimento dei suoi muscoli.

Al tramonto, quando scendeva al fiume, sbirciava con gli occhi socchiusi le gazzelle che gli stavano attorno, ma anche qualche giraffa che passava con passo sinuoso e gli lanciava languidi sguardi.

Al calar della sera iniziava il lavoro vero e Rino non si distraeva più di tanto, continuando a sbuffare fumo dal sigaro che gli pendeva dalle labbra. C’era la fila lungo il marciapiede e Rino intascava i soldi, faceva un cenno alla ragazza più vicina, la quale prendeva a braccetto il cliente e insieme entravano nel negozio. Al bancone si trovava il vecchio, un cinese col codino e il pizzetto, che nonostante l’età avanzata provvedeva alla consegna della chiave. La coppia saliva per la stretta scala, che portava ad un corridoio ai cui lati si aprivano le porte della felicità.

Un’ombra scura si stava avvicinando alla pozza del fiume, era Oran, lo vide avanzare goffamente sulle quattro zampe. Quando il corpo si alzò eretto sulle zampe posteriori, apparve enorme. Rino lo riconobbe, Oran non doveva stare lì: viveva lontano dal fiume, dove la vegetazione era più folta, e aveva sconfinato. Quel tratto di fiume non era il suo territorio. Abbassò il capo e, ne era sicuro, il suo corno avrebbe infilzato l’intruso mentre sbatteva impavido i pugni sul torace. Attaccò e fu una sforbiciata del corno aguzzo a procurare il taglio all’arto del malcapitato, che si rimise sulle quattro zampe e scappò.

Era un nero grande e grosso quello che s’era avvicinato alla ragazza. “Guai in vista” pensò Rino “quello è Oran ed è improbabile che non sappia che questa è la mia zona e nessuno può introdursi qui.” Si avvicinò, scostando la ragazza: «Che fai qui negro? Sei un po’ lontano da casa tua» esordì. «Vaffanculo, bianco di merda» rispose il nero: non era una risposta gradita, ma Rino non si scompose e come per magia fece apparire la lama del serramanico tra le mani. Oran fece un passo avanti e si beccò uno squarcio sul braccio. Gli bastò e scappò via a gambe levate.

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Fine

11 Maggio 2019 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #costantino delfo, #racconto


 

 

 

 

Per lui era finita prima ancora che finisse. Giovanni, 68 anni, lo sapeva di essere messo già molto male e quest’ultimo attacco non ci voleva proprio. Accettò come una tomba lo stanzino buio dove l’avevano ricoverato: era ancora cosciente, ma ormai quasi cieco, impossibilitato a parlare e inibito a fuggire. Terminale: era la parola che aveva sentito pronunciare dal medico poco prima, insieme alle altre che gli risuonavano per la testa… ictus, tetraplegia, ospice.

Non avevano perso tempo e per fortuna c’era ancora un posto libero all’ospice. L’avevano portato a Santa Colomba, dove spedivano quelli come lui più di là che di qua. Steso sul letto, con la mente vuota, stava immobile ad aspettare, concentrato a respirare un breve e rapido respiro, e poi un altro, e un altro ancora, velocemente, senza perdere il ritmo, inalando aria preziosa. Inspirava come se fosse l’ultimo ossigeno concessogli.

“Sto forse per morire? Ciao Angela, come va? Ciao Angela, come va? Boh, questa mattina le gira un po’ storta. Ma perché non capisce! No, no, non aprire la finestra, per favore! Ho freddo e la luce, tutta quella luce, mi abbaglia.”

L'infermiera spalancò la finestra, gli rassettò il cuscino e uscì.

“No, no! Aspetta Angela! Non andare via, ti devo parlare, ti devo dire una cosa, aspetta! Mai nessuno che mi racconti qualcosa, anche poche parole. Ah, Angela, sempre indaffarata. Vai, vai, vai pure, mia cara: con te anche quella poca luce che c’era se n’è andata, ora solo ombre scure mi circondano… questa è la nostra camera, vero? Lo capisco bene, quell’ombra laggiù deve essere l’armadio, e lì c’è la finestra: l’avrà chiusa? Peccato che non riesco a muovermi, se no la chiuderei io. Quando torna devo ricordarmi di chiederle di accostarla; forse è aperta perché sento un gran freddo. È sempre sbadata, si scorda sempre tutto, la mia Angela. Che strana sensazione: mi sembra di ricordare che era giugno, no… forse maggio o agosto… non importa, comunque quel giorno non lo dimenticherò mai. Lei entrò di corsa ed era bellissima: grondante di sudore, indossava una maglietta bagnata che le aderiva al seno, aveva le belle gambe tornite in mostra, i capelli raccolti in una coda di cavallo, e con gli occhi grandi sbarrati mi guardava. E poi? Non ricordo. Sarà accaduto tanti anni fa. Non sono tanto in gamba oggi. Insomma, mi sembra di vederci meno del solito. È tutto buio qui, c’è solo un tenue chiarore laggiù. Rimpiango la luce del sole…  chi se lo ricorda più il sole, per me è diventato solo una parola spenta. Dovrei scriverla o farne un disegno: un cerchio tondo con le righe attorno, i raggi, uno corto e uno più lungo. Ma quelli disegnati non scaldano e io ho freddo. Cancello tutto: parole mai dette, linee mai scritte, soli mai visti che non scaldano. Non vedo, non sento, non riesco a parlare. Che c’è, che è successo? È capitato che… non ricordo. Ma queste voci che mi par di sentire sono come un’eco sussurrato.”

Come bisbigliando a bassa voce, ma in realtà senza parlare e quindi senza sentirsi, si faceva domande e si dava risposte.

“Perché ricordare? Sono morto, ormai, che importa ricordare. Polvere ecco che sarò. O pensavo davvero di potermi riprendere pensando nella polvere? Io sto morendo. Sciò, sciò, fff, fff, via, via.” Agitava le mani, schiaffeggiando l’aria per scacciare nuvole di mosche che credeva gli girassero attorno, ma in realtà non muoveva un dito.
“Amo gli animali, non farei del male nemmeno a una mosca. Gli animali si nascondono quando sanno di morire. E io sono ben nascosto? Già, tutto programmato, tutto perfetto: una simmetrica sincronia la morte, già sperimentata milioni di volte. Però dovrò avvisare tutti i miei amici. Basta! Ecco, sto male di nuovo. Ancora questo buio che abbaglia, questo silenzio assordante.”

I pensieri gli costavano fatica, non gli uscivano più dalla testa rendendogli la mente intorbidita, non riusciva a ritrovare la giusta disposizione e ricostruire i fatti reali e si addormentò.

“Devo aver dormito ancora, dopo quella breve crisi di scoraggiamento. D’altronde siamo qui per poco, poi saremo altrove, e il nostro posto al sole non sarà altro che in un pugno di polvere. Ma anche ora non sono messo tanto meglio: non vedo, non sento, non riesco a parlare. Mi sento come se fossi già morto. Mi scappa. Quando si è giovani non ci si bada, quando capita, capita, ma alla mia età ci si vergogna di tutto, anche di chiedere di andare al bagno. Chissà quando ci sono andato l’ultima volta… deve essere passato un bel po’… per forza, non mangio. Non ho fame, però ho sete: meno male che Angela ogni tanto mi bagna le labbra.”

L’infermiera gli bagnò la bocca e sostituì la sacca delle urine del catetere.
“Questo silenzio fa male alle orecchie, è un continuo brusio, un ronzio, a volte un altro ricordo… passavamo le serate sotto l’immensa quercia a pochi passi dalla casa, ciascuno disteso sulla propria sdraio in silenzio, sorseggiando un bicchiere di vino, e guardando spegnersi, uno dopo l’altro, tutti i raggi del crepuscolo. In quei momenti il tempo sembrava essersi fermato, tutto procedeva lentamente, avveniva a poco a poco finché calava il buio. Oh, Angela, sento una irresistibile voglia di chiudere gli occhi, di dormire.”

Finalmente le voci lo lasciarono andare e con un gorgoglio sembrò pronunciare il nome di Angela. “Dottore, venga è morto” disse l’infermiera. Il medico prese la pila dal taschino, gli alzò la palpebra illuminando la tonda, immobile pupilla vitrea. “Vado a chiamare il prete” disse l'infermiera e uscì. Nel corridoio incrociò la collega: “Che è successo?” le chiese. “Il numero cinque, andato” rispose. “Chi era?” chiese ancora. “Giovanni, mio marito” rispose Angela con gli occhi lucidi.

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Il viaggio di Marta

11 Aprile 2019 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #costantino delfo, #racconto

 

 

 

 

La busta della lettera, di un colore marrone, è sgualcita. Le immagini dei tre francobolli rappresentano un Buddha seduto, una montagna innevata e un serpente. Il mio nome e l’indirizzo sono scritti con la sua calligrafia. È di Marta. Marta era sparita.

Katmandu, 18 Maggio 1968

Caro Mario,

ti sarai chiesto dov’ero finita. Non ci crederai sono in Nepal! A Katmandu! Scusami se non ti ho reso partecipe della mia decisione. È stato tutto improvviso come un fulmine e sono partita. Da tempo volevo farlo e gli ultimi avvenimenti della mia vita hanno risolto il problema. Il viaggio è stato davvero bello. Avventuroso! Ma ce l’abbiamo fatta. Siamo in tanti, tutti giovani. Lui si chiama Karl, è un crucco. È il mio amore. Non capisce un cazzo ma ora sta migliorando. Lo amo! Stiamo davvero bene insieme. Qui però le scarpe è meglio tenerle su. Se no te le rubano. Quei pochi, qui molti, soldi li ho cuciti nell’orlo della sottana. Ma anche lì è poco sicuro. Bisognerebbe girare nudi. Alcuni lo fanno. Li ho visti! Le donne no. Girano avvolte in drappi colorati. Va be’. Comunque qui la vita costa davvero poco. Con un po’ di rupie ti compri la felicità e l’erba te la tirano dietro! E tu come stai? Non ho telefono. Scrivimi! L’indirizzo è quello sulla busta. Un bacio.

Marta

 

Marta la matta. Marta la hippy. Era vestita quasi sempre con ampie, lunghe gonne tutte colorate. Ricordo i suoi folti capelli castani e gli occhi pareva sempre che ti scrutassero, curiosi. Faceva il terzo anno di Medicina ed io Lettere. Quell’ultimo giorno mi accarezzò la guancia. «Ciao», sussurrò e quella fu l’ultima volta che la vidi. Per quei lunghi mesi Marta continuò a essere scomparsa e non potevo farci niente. Non sapevo nulla di lei. Ma la lettera mi riempì di ammirazione per lei,  per il suo viaggio. Marta ce l’aveva fatta. Arrivò poi un’altra lettera di Marta.

Katmandu, 28 Dicembre 1969

Caro Mario,

Karl è morto. Adesso sono sola. Sono stata lasciata alla deriva. Sono così prostrata che non riesco nemmeno a piangere. Karl era andato con gli amici a comprare un podi erba in un villaggio vicino. «Dai, proviamo la bianca», avevano detto. Morti, lui e Giò. Li hanno portati a casa su un carretto e li abbiamo bruciati. Parto. Se sto qui mi sembra di impazzire. Ho ancora un podi soldi. Vado. Mi chiuderò in un monastero. Ritroverò me stessa. Scrivimi.

Marta

 

Le scrissi. Le dissi che sarei andato. Sarei anch’io partito per il grande viaggio. Non era vero, cercavo scuse. Mi mancava l’energia d’afferrare quella occasione, quel viaggio che sembrava a portata di mano. Arrivò il 1972. Arrivò la terza lettera di Marta.

Lhasa, 15 Maggio 1972

Caro Mario,

sono in Tibet! Vicino a Lhasa. Da non crederci. Sto bene. Al monastero, qui a Lhasa, non mi hanno voluta, le donne non sono ammesse. Ho trovato un posto bellissimo tra queste montagne. Dista un giorno da Lhasa. È la pace che avevo sempre cercato. La casa è incredibile! Sono solo quattro pietre addossate alla roccia della montagna con una lamiera per tetto. Tumur viene ogni settimana a portami viveri, carbone e anche legna. Gli ho comprato un mulo. Tumur è un uomo molto gentile e ci capiamo, a segni. Di giorno, col sole, vago tra le montagne. La sera fa freddo, accendo il fuoco tra le pietre, scaldo il cibo, mangio e poi mi rifugio nella montagna, in una piccola grotta. Un bacio, caro Mario.

Tua Marta

 

Quella lettera mi procurò sollievo. Avevo ormai rinunciato al viaggio e sapere che lei stava bene era un balsamo, alleviava la mia codardia. Insegnavo l’italiano e il latino al liceo, mi chiamavano professore. Immaginavo Marta in una grotta tra le montagne dell’Himalaya. A Dicembre del ’73 arrivò l’ultima lettera di Marta.

Lhasa, 7 Dicembre 1973

Caro Mario,

se e quando riceverai questa lettera io non ci sarò più. Tumur mi aiuta e voleva portarmi a Lhasa con il mulo. Ho detto di no. Preferisco stare qui racchiusa dentro la mia montagna, ora però non manca molto. Quando succederà Tumur chiuderà per sempre la grotta e ti spedirà questa mia ultima lettera. Non ho più paura. Un bagliore immenso illumina la via di quest’ultimo mio viaggio. A Dio, Mario.

Tua Marta Temprandi

 

La pioggia picchiava sui vetri, lavava il dolore. Baciai la sua lettera. Quell’ultima lettera conteneva il suo cognome. Andai alla segreteria della Università. Giuseppe, il vecchio segretario, era ancora lì, dietro il vetro separatore. «Ohè, professore! Allora?» disse. «Ciao Giuseppe. Ho bisogno di un favore.» Gli allungai il biglietto su cui avevo scritto nome, cognome, facoltà e anno. «Dove abita?» gli chiesi. «Maaario, medicina è di sopra, su per le scale!» Feci la faccia implorante. Uscì e si avviò per la scalinata. Tornò dopo dieci minuti. «Marta Temprandi. Sette, dodici, millenovecentoquarantasette. Terzo anno. Via Ghisleri 28. Mi devi una birra.» Ero già alla porta quando mi gridò: «Fuori corso. Tutti trenta!» Era un vecchio palazzo,  sulla destra c’era una porta a vetri col portiere nel mezzo. «Scusi abita qui la famiglia Temprandi?» chiesi. «Chi è lei?» mi interrogò. «Sono un amico di Marta, studiavamo insieme.» risposi. «Ah, la Marta, brava ragazza! Sempre allegra, mi salutava sempre. Me la ricordo. Son passati più di cinque anni, ormai. Pensi che ha accudito la madre fino alla fine. Un brutto male! Poi se n’è andata, non l’ho più vista».

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