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Cristò, "La meravigliosa lampada di Paolo Lunare"
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La meravigliosa lampada di Paolo Lunare
Cristò
Terrarossa Edizioni, 2019
Paolo, nonostante il suo ominoso cognome, decide di inventare una lampada che produca luce solare, per regalarla alla moglie per il loro quindicesimo anniversario di matrimonio. Dopo tre anni l'opera è compiuta, ma non è ciò che il pover'uomo aveva immaginato: la luce prodotta è fioca, pallida e mostra immagini di un'altra dimensione. Petra, ignara di ciò che suo marito fa ogni notte da tre anni e sospettando addirittura una di lui relazione extraconiugale, nel suo rimuginare ci rivela una storia lunga almeno trenta anni, fatta di omissioni e di bugie nei confronti di Paolo. Ognuno di loro, grazie alla prodigiosa lampada, scopre che la propria vita non è proprio come gliel'avevano raccontata. E quindi? Cambierebbe davvero qualcosa se scoprissimo che qualcosa di fondamentale nella nostra vita è falso? Soprattutto cosa è fondamentale? Come noi ci raccontiamo la nostra vita o come ce la raccontano gli altri? Cristò non ci offre una sua risposta. Ci suggerisce che alla fine sono più importanti i sentimenti, ecco, su quelli sarebbe meglio non mentire. Nel racconto le persone mentono per debolezza, per non fare soffrire gli altri, per non ammettere le proprie paure. Perché sono umani in definitiva. E per questo motivo finiscono per espiare questi momenti di omissione o menzogna con una infinita e alienante coazione a ripetere gesti stereotipati e ormai svuotati di senso, secondo la migliore morale cattolica. Anche qui lo scrittore non ci fornisce la sua opinione ma parrebbe accettare questa etichettatura come ragionevole o corretta. Morire di sofferenze dopo avere vissuto nella sofferenza della bugia, senza nemmeno la possibilità di redenzione. Una vita privata di senso in ogni sua manifestazione quindi. Una vita che non auto-ripara le sue ferite perché, nonostante la storia proceda su un binario di salvezza, l'ultima parola del racconto rovescia di nuovo qualsiasi apparenza evolutiva nei nostri comportamenti. Per quanto possiamo specchiarci in certi sprazzi della luce fisica che la lampada di Paolo ci regala, non credo di avere visto il riflesso di ciò che è la Vita. Non per il senso che le do io almeno.
Ferenc Karinthy, "Epepe"
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Qualche settimana fa ho letto la notizia di una signora sordomuta che doveva andare a Bologna ed è finita in Polonia. Mi è tornata in mente questa assurda notizia leggendo questo libro di cui sentii parlare qualche anno fa, a seguito della pubblicazione di Adelphi. A Budai, linguista ungherese, accade la stessa cosa, con la differenza che lui finisce in una nazione misteriosa dove si parla un idioma incomprensibile e di cui lui non riesce a cogliere nemmeno i suoni, tanto sono pronunciati in maniera bizzarra, e dove la gente conduce una vita caotica e frenetica, perennemente in coda o occupata ad accapigliarsi, litigare e inveire. Budai usa ogni trucco possibile per cercare di ricostruire l'oscura sintassi facendo ricorso a tutte le sue conoscenze di poliglotta, insegnandoci diverse sottigliezze sullo studio delle lingue e la loro classificazione ma non risolvendo nulla di fatto. Nemmeno i gesti sono un linguaggio universale e ammesso che l'amore, inteso in senso più fisico che mentale, lo sia, non offre che una pausa ristoratrice nella confusione da cui Budai è avvolto. La situazione precipita abbastanza velocemente, il protagonista si accontenta di sopravvivere e Epepe, sempre che si chiami così e non Dede, Eveve o altro, l'unica persona con cui era riuscito ad avere un rapporto emotivo, sparisce dalla sua vita inghiottito dalla Storia di questo strano Paese, dedito a caos e rivoluzioni come pochi altri, tanto che lo stesso Budai inizia a ipotizzare che forse nessuno riesca davvero a comunicare in maniera efficace in quella incomprensibile comunità. Più volte durante la lettura mi sono chiesta se la storia fosse fine a se stessa o ci fosse un secondo livello di lettura, tipo, che so, l'incomunicabilitá nella società dell'individualismo o l'ego che si sente perso quando si scontra con i diversi punti di vista della realtà oppure se, come dice Carrére nella prefazione, Epepe "rientra nella narrativa pura, ammesso che una cosa simile esista: narrativa da orologiaio, ludica, chiusa sul proprio risultato". Non so, certamente è una piacevole lettura che consiglio.
The Fall
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Fa uno strano effetto vedere dopo venticinque anni la protagonista di X files, sempre nel ruolo di una poliziotta molto capace, dare la caccia a Mr Grey, quello delle cinquanta sfumature, qui un assistente sociale con famiglia a carico che durante le ore notturne si diverte a identificare tra giovani professioniste di Belfast le sue future vittime da serial killer strangolatore. Si può guardare come un noir, godendosi la suspense del gioco ad alta tensione tra l'agente Stella e il predatore braccato, che non esita a esibire quel lato narcisistico che caratterizza spesso questo tipo di criminali. Si può apprezzare l'introduzione psicologica del serial killer, molto curata, e dei vari personaggi, credibili e le cui fragilità vengono esposte ma mai dichiarate apertamente. Oppure si può leggere tra le righe un'amara constatazione di quello che è il ruolo imposto alle donne e ai loro corpi nella nostra società. Stella è una donna con un lato maschile molto sviluppato e non lo nasconde. Non esita a contattare uomini che ritiene attraenti a prima vista per notti di sesso che non si ripeteranno più, non esita a soddisfare i suoi desideri "più particolari", non si fa intimorire da altri uomini. Rifiuta le etichette che si danno in genere alle donne per pietismo, la vittimizzazione e l'agiografia delle sante contro le puttane, sa di avere scelto di combattere sia contro il crimine sia all'interno di una organizzazione maschilista e paramilitare, sa che la debolezza è richiesta al suo sesso, che ne sa fare un'arma al momento giusto, ma che è anche ciò che la condanna alle critiche feroci di chi accusa le vittime di "non avere reagito". Sa che essere assertive, quando si è donne, si paga col giudizio di arroganza e freddezza da parte degli altri. E lo dice, abbastanza spesso, durante tutte e tre le stagioni. Basta sapere ascoltare.
Midnight Mass
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In una piccola isola di pescatori in crisi economica da anni giunge un giovane prete a sostituire temporaneamente l'anziano reverendo che è stato ricoverato in ospedale durante un pellegrinaggio. La comunità è inevitabilmente autoreferenziale, cattolica, affamata di fede, poco collegata col continente. Pochi sono i non praticanti o di fede diversa ma convivono serenamente. L'unica bigotta invasata sopravvive nonostante sia antipatica anche alla sua immagine riflessa. Ma subito è palese che qualcosa è arrivato insieme al parroco: un'entità oscura che scatena eventi latori di funesti presagi. E, subito dopo, il primo miracolo durante la messa, davanti a tutti, agognato e inspiegabile, come tutti i miracoli. Come prevedibile la gente rinnova il fervore verso la chiesa ma alcuni strani comportamenti del religioso e misteriose sparizioni notturne ci fanno intuire che la distinzione tra bene e male non è così evidente. Questa miniserie in 7 puntate, che mi ha ricordato il romanzo "Hex" ma che di horror ha poco e nulla, ha molteplici piani di lettura che si svelano in un bellissimo dialogo sulla morte tra due ex che si rivedono, e un bellissimo monologo finale su cosa sia la vita, con riflessioni che molto devono a certa psicoanalisi di Hillman e filosofia orientale. Il prete, che come un pappagallo ripete il mantra dell'accettazione all'ex alcolista, è il primo che la infrange sconvolgendo la comunità con un miracolo, inteso come un vero e proprio atto devastante che avrà ricadute sulla vita di tutti. I miracoli non sono desideri. I miracoli, di qualunque natura siano, vanno contro le leggi della fisica o dell'etica, e i vantaggi che essi comportano ricadono per forza sulla comunità con costi spesso insostenibili. Sia che invertiamo il processo dell'entropia, sia che godiamo di vantaggi economici, sociali o sanitari, da un'altra parte paghiamo noi o i nostri simili. E se rincorriamo ciecamente questi sogni, se ci facciamo condurre da persone che celano uno spirito corrotto dietro la rispettabile patina di costrutti sociali accettati dalla maggioranza, sanciremo in breve tempo la nostra distruzione. Il mondo si può sicuramente cambiare ma solo dopo averlo accettato per ciò che è, riconoscendo nella nostra vita non un vuoto simulacro da proteggere egoisticamente, bensì un dono molto meno materiale da offrire alla bellezza a cui viene continuamente esposto. Ma anche quella va prima trovata, e la serenità, la non appartenenza a nessuno degli schieramenti in gioco, di qualunque gioco si parli, l'eresia in senso etimologico, sono l'unico modo efficace.
Matthew McConaughey, "Greenlights"
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Non mi interessano particolarmente le autobiografie, tantomeno di gente bella, ricca, famosa che, immagino io, non avrà granché da dirmi. Se non mi avessero messo la pulce nell'orecchio con i principi dello Stoicismo che il buon Matthew segue e applica, non avrei mai immaginato di leggerlo. E invece adesso lo sto pure consigliando. Trentacinque anni di aneddoti, sfide, cadute, attese, riflessioni e introspezione incollate da diverse foto dell'epoca e parecchi "adesivi da paraurti" come li chiama lui, cioè quei motti, frasi che contengono verità e consigli utili a vivere. Una vita trascorsa in una famiglia di sani valori cristiani anche se tra padre e madre ogni tanto il salotto buono si trasformava in un ring e i rituali di crescita avvenivano con risse degne di un saloon (per me le scene più esilaranti) ma anche una vita da bravo ragazzo americano fatta di pochi agi e molta azione. La filosofia dell'attore è semplice: la vita è come una mappa cittadina, piena di semafori rossi a cui DEVI fermarti. Chiamala pandemia, disoccupazione, lutto in famiglia, tutti noi abbiamo vissuto momenti, più o meno lunghi, in cui il traffico si è bloccato. Ma tutti i semafori rossi hanno un pregio: prima o poi diventano verdi. E la transizione avviene col tempo, che però, come ci insegnano i fisici, non è una costante, per cui se quello dell'orologio tarda troppo, possiamo noi ribaltare la situazione prima scorgendo il lato buono, rendendo l'attesa attiva (un po' come quando ascolti una musica o rifai mentalmente la lista della spesa in attesa che scatti il colore del via), creandoci degli obiettivi. Tutto ma NON vittimizzarci, compiangerci (piangere sì però), rimpiangere. L'attesa costruttiva fa sì che sia il bersaglio a colpire noi. Per cui desiderare in maniera sincera, ma soprattutto viaggiare, seguire l'istinto e l'intuito, provare, fallire, capire quando ci si sta allontanando da ciò che si è. Cercare di restare fedeli a noi stessi il più possibile, accettare quando ce ne allontaniamo, perdonarci, girare la barra di quanto basta e riprendere la via. Tutto qui? Sì, un tutto che però non è per nulla facile, richiede dedizione, umiltà, coraggio come lo stesso autore sottolinea. Ciò che ne viene è una vita degna di essere vissuta e raccontata anche nelle sue parti più meschine e luride, un viaggio gratificante di amore per sé stessi.
Claudio Lagomarsini, "Ai sopravvissuti spareremo ancora"
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Carmen Totaro, "Un bacio dietro al ginocchio"
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Giri /Hagj, la serie.
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Giri/Haji significa Dovere/Vergogna. È una serie mi pare poco nota ed è davvero un peccato perché merita tanto. Esiste solo una stagione, la seconda è stata cancellata, ma ciò non costituisce un problema visto che a restare irrisolti sono dei piccoli dettagli di alcun peso sulla trama. La storia inizia in Giappone con il detective Kenzo Mori che scopre che il fratello, ritenuto morto da un anno, è in realtà vivo e molto attivo come gangster della yakuza a Londra: a lui viene imputato l'omicidio del nipote del suo ex boss. Mori si reca nella metropoli sotto copertura come studente di criminologia ma la sua docente capisce che qualcosa non va e le loro vite si intrecciano insieme a quelle di un ragazzo sbandato e della figlia di Mori stesso. A parte l'intreccio e gli attori giapponesi uno più manzo dell'altro, che se non era tornato il Covid a Tokio mi ero già fatta il biglietto ed ero partita piantando tutto, a parte queste cose, dicevo, ho trovato questa serie davvero sopra la media sia per i temi trattati che per la regia, la colonna sonora e alcune scene davvero incredibili. Si esplorano i rapporti familiari, la sessualità, il nostro bisogno di connetterci con gli altri, il destino, le cui onde si propagano da azioni di cui nemmeno ci accorgiamo, tanto sono insignificanti, e quanto le apparenze siano ingannevoli. Nella prima metà della serie i personaggi ci vengono presentati in un modo tale per cui noi, automaticamente, assegniamo loro un ruolo e dei connotati. Dalla 5a puntata, tramite flashback, scopriamo che le nostre idee erano state troppo frettolose: il cinismo a volte è un'armatura per non farsi spezzare dal dolore per una perdita, presunte vittime sono in realtà meschine vendicatrici, i cattivi hanno agito per amore e i buoni hanno lastricato la proverbiale strada infernale con buone intenzioni (e qualche omicidio). La nostra simpatia va a tutti, umanissimi, fragili, imperfetti, divertenti, amari, deludenti. La nostra meraviglia va alla scena dell'ultimo episodio con le musiche di Ólafur Arnalds che non posso svelare perché completamente imprevedibile, un piccolo pezzo di arte incastonato in una serie televisiva davvero originale e intensa.
Giulia Blasi, "Manuale per ragazze rivoluzionarie"
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Manuale per ragazze rivoluzionarie
Giulia Blasi
Rizzoli
2020
"No, guarda, per favore, anche basta col femminismo" e "NON MI PARLARE DELLE FEMMINISTE, LE ODIO" e "Ma davvero c'è ancora bisogno di scrivere roba simile?". Questi sono i commenti di 3 donne a cui ho provato a suggerire la lettura/ascolto di questo libro. Provato, perché nemmeno mi hanno lasciato finire. Il femminismo è morto, ridicolo, inutile e fascista. E proprio a chi la pensa così questo libro è dedicato. Giulia Blasi, scrittrice e interprete su Storytel del suo saggio, spiega esattamente come e perché nasce il femminismo, cosa è diventato, perché è tanto osteggiato dalle stesse donne, cosa è il femminismo da giardino, dove sta sbagliando. E fin qui si potrebbe pure accusarla di scrivere sue opinioni personali con cui abbiamo tutto il diritto di non essere d'accordo. Ma fa di più. Ci tira fuori dalla caverna, una delle tante in cui siamo belli comodi sdraiati, e ci mostra come ciò che sappiamo o pensiamo di sapere sia solo un teatrino di ombre, frutto di un marketing preciso e spietato che ha come unico scopo quello di farci fessi e contenti. Lo stesso che ci manipola facendoci beare del fine settimana in cui andremo a fare una gita fuoriporta e distogliendoci dal fatto che come somari abbiamo sprecato 40 ore delle nostre vite davanti a un PC a memorizzare protocolli. I giorni sono tutti uguali, è il valore che il capitalismo dà loro per la sua sopravvivenza che cambia. Le persone sono tutte uguali ma il patriarcato ha tutto l'interesse ha discriminare donne e minoranze di ogni sorta per proliferare meglio. Il saggio insegna a diventare più consapevoli, aiutare chi non lo è, come gestire gli attacchi sul web, la sessualità, come sono nati certo fenomeni al di là di certa propaganda che li ha sviliti. Ma soprattutto fa il punto su un Paese rimasto agli anni '50, dove gli uomini sono ancora più vittime di certa mentalità in quanto, a differenza delle donne che si sono evolute, non capiscono più il mondo che sta loro attorno. In un momento storico cruciale come questo, capire che la rivoluzione di una delle tante masse emarginate dal sistema è uno dei grimaldelli per scardinarlo, è fondamentale. Almeno prima di esprimere un'opinione su un movimento che non conoscete (perché non lo conoscevo manco io prima di leggere il libro) leggetelo. Poi se ne riparla.
Matt Haig, "La biblioteca di mezzanotte"
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