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Emilio Guardavilla marinaio, scrittore arenato a Piombino

9 Novembre 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #racconto

Emilio Guardavilla marinaio, scrittore arenato a Piombino

Emilio Guardavilla vive e lavora a Piombino anche se è nato nel cuore della Maremma. Attualmente, dopo vent'anni di mare, oltre la metà come Commissario di Bordo, conduce una vita regolare sostentata da un lavoro sedentario nell'ambito della siderurgia e allietata dai suoi due passatempi preferiti: scrittura e cucina. Collabora con la rivista Costa Etrusca dove scrive articoli di cronaca, attualità e recensioni. Ha pubblicato due libri: Il lessico della Talassa - Mille voci da un popolo di navigatori, santi e poeti (Graus 2009) e Uomo a mare (Del Bucchia, 2012). In questo racconto - poetico ed evocativo - Emilio Guardavilla tratteggia un dialogo tra due persone, a tratti surreale, a tratti concreto, un colloquio tra un ascoltatore e un affabulatore. Non è difficile intravedere nel secondo ruolo l'autore del racconto, per molti anni lontano dalla sua terra, che ricorda il tempo passato navigando sul mare, incontrando uomini, donne, ricette e nuovi paesaggi. Nelle parole del personaggio c'è la narrazione incantata di un'esistenza, vissuta con il desiderio del ritorno, adesso realizzato, con la tazzina di caffè tra mani, al tavolo di un bar, davanti a un vecchio amico, mentre osserva il mare, antico amore della sua vita. (Gordiano Lupi)

Dov'eri quando non c'eri?

- Dov'eri quando non c'eri?

- Ero via da qui. Ero via da te. Ero via da tutto. Ero dove tutto è via. Lontano da dove sono nato, lontano da dove sono stato. Molto lontano da come sono sempre stato. Sono stato giovane, adulto e vecchio quando ero là. Poi sono diventato io, quello di ora, un vecchio ragazzo, anziano con il cuore giovane; e non sono più cresciuto. Assomiglio poco tanto a mio padre quanto a mio figlio; loro due si assomigliano di più. Io sono in più. Io sono più vecchio del primo e più giovane del secondo; meno adulto di entrambi, più triste e più felice di entrambi. Dove ero io ero sempre solo; insieme a me c'ero solo io. Non c'era né mio padre né mio figlio, nemmeno quando pensavo che fossero lì con me. Né quelli che non ho più, quelli che sono stati sempre insieme a me da quando se ne sono andati. Con me non c'erano né vivi né morti. Dove ero io c'erano persone che respiravano e che gli batteva il cuore però non erano vivi. Dove ero io i padri e figli non si distinguono perché fanno tutti le stesse cose e dicono tutti le stesse parole. I padri lavorano con i figli degli altri e i figli parlano con i padri degli altri come se fossero davvero padri e figli. Io sono stato padre di figli che non parlavano neanche la mia lingua e allo stesso tempo sono stato figlio di padri che non parlavano per niente. Ho imparato a rispondere ai loro silenzi con frasi sempre più corte, con sempre meno parole e parole con sempre meno sillabe. Dove ero io i padri e i figli facevano finta di non essere tristi e la domenica mattina si sorridevano anche. Invece erano tutti in un mare di guai, brutto e grosso come quello che avevano sotto il letto dove non dormivano mai. Dove ero io il mare era attaccato al cielo e non si capiva dove finiva uno e cominciava l'altro perché erano sempre dello stesso colore. Erano di un colore che non era mai blu. Tutti avevano paura delle paure che li avevano fatti andare via da casa. Tutti avevano paura del mare e del cielo e anche io ma loro sembrava che ne avessero meno di me. Lo soffrivano anche loro ma ne soffrivano meno di me e non ne parlavano mai. Neanche io ne parlavo mai ma avevo tanta voglia di parlarne con qualcuno però nessuno voleva. Io ho paura del mare anche ora che lo vedo da lontano. E quando penso che il mare è lontano ho paura lo stesso.

Certe notti me lo sogno e quando lo sogno non è mai brutto ma nel sogno ho paura lo stesso perché penso che possa diventare brutto. Dove ero io non ho mai sognato un sogno. Dove ero io, quando dormivo, non ho mai sognato niente, nemmeno di non essere lì. Dove ero io dormivo vestito per non perdere il tempo della veglia e con il salvagente come cuscino per non perdere il tempo del sonno. Dove ero io il sonno non avvertiva, arrivava all'improvviso senza farsene accorgere e poi mi scaraventava così lontano che quando mi svegliavo non mi sembrava nemmeno di aver dormito. E la mattina che seguiva era piena di buongiorno incerti e senza speranza fino al pomeriggio e anche di sera perché dove ero io a qualsiasi ora c'era qualcuno che si era appena svegliato. Prima di prendere sonno pensavo sempre a qualcosa da mangiare anche se non avevo fame. Dove ero io si mangiava bene, si mangiava e si beveva tutto con lo stesso sapore. Quel sapore non lo so che sapore era però era un sapore che mi piaceva e allora ne mangiavo tanto e ne bevevo tanto. Però non sono ingrassato, forse ho perso qualche chilo e ho sviluppato i muscoli di sopra; forse anche quelli delle gambe, non lo so. Ero in forma. Quando ero lì sono fatto i crescere i baffi per sembrare più grande. Mi sono fatto i crescere i baffi per sembrarmi più grande. Mi guardavo allo specchio e con i baffi credevo di più a quello che mi dicevo e a quello che facevo perché me lo diceva uno con l'aspetto da grande. Dove ero io la barba me la facevo col sole alto perché prima non volevano che me la facessi. Forse perché portava male o perché non stava bene agli occhi di loro. Io facevo come dicevano loro, come dicevano quelli più anziani di me. Poi piangevo. Dove ero io, quando non lavoravo e ero da solo, molte volte piangevo. Ora piango molto meno ma appena posso lo faccio anche qui. Dove ero io piangere era più facile, avevo più tempo e un posto tutto per me dove poterlo fare. Lo decidevo io quando piangere o quando ridere; ero padrone di piangere e ridere quando volevo io ma di ridere mi succedeva sempre di meno. Ridevo di cose che non facevano ridere nessuno. Piangevo per cose che non facevano piangere nessuno. Piangevo perché piangendo ero veramente io e non quello che vedevano gli altri. Mi sentivo meglio perché mi riconoscevo e tornavo a essere io anche se per poco; anche con questi baffi che non mi fanno sembrare me per niente. Non lo so se gli altri piangevano, secondo me piangevano anche loro ma non so se piangevano per dolore o per gioia. Io piango per gioia e per dolore anche se non so ancora riconoscere quando piango per una cosa o per l'altra. Dove ero io c'erano anche donne, tutte senza età e senza sorriso. Le donne che c'erano dove ero io sorridevano solo con la bocca, non le ho mai viste sorridere con gli occhi. Erano donne senza malinconia, belle e brutte ma senza malinconia. Donne belle e brutte col sorriso e con gli occhi muti. Erano donne con lo sguardo in bianco e nero come il pavimento di quella terrazza sul mare laggiù.

- Per me un caffè.

- Per me un caffè basso.

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"Piccole Donne", il trascendentalismo di Louisa May Alcott

2 Aprile 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi

"Piccole Donne", il trascendentalismo di Louisa May Alcott

Little Women, 1869

di Louisa May Alcott

Collins Classics 2010

La regione intorno a Boston era semplice e genuina campagna. “Lì”, afferma il Cunliff, “l’aspirante scrittore poteva vivere con pochissimo, coltivando un pezzo di terra per trarne il necessario al proprio sostentamento […] e facendo di tanto in tanto un viaggio a Boston per prendere libri in prestito, o incontrarsi con un editore.[…] fu in quella cerchia di comunità colte e intimamente collegate, nei dintorni di Boston, che apparve il fenomeno del trascendentalismo, termine impreciso e difficilmente attribuibile ad una qualsiasi fra le figure di maggior rilievo del tempo.”

Si tratta di scrittori imbevuti di filosofia kantiana, convinti di vivere in un universo benefico, in collegamento con la natura, di sostanziale stampo romantico ed in costante movimento verso la perfezione, ottenibile, per altro, solo in America. Fu Emerson a formulare con maggior completezza la teoria trascendentalista. Fra i tanti appartenenti al movimento, dallo stesso Emerson a Thoreau, a Hawthorne, a Whitman, c’era anche Amos Bronson Alcott, padre di Louisa May, l’autrice di Piccole Donne.

Louisa May nasce a Germantown in Pennsilvania nel 1832, poi si trasferisce a Concord, a ovest di Boston, con la famiglia, la seconda di quattro sorelle. Cresce in un ambiente “illuminato e progressista”, fieramente abolizionista e vive la realtà della Guerra Civile. Il padre fonda una scuola conosciuta per le sue idee rivoluzionarie, dove si applica il principio del rispetto della spontaneità del fanciullo.

Così Silvano Ambrogi descrive Louisa, come la si coglie in un ritratto:

La vediamo all’angolo di una scrivania, con un vestito ad ampie, lunghissime gonne, una candida e voluminosa pettorina arricciata, capelli ondulati e gran crocchia alla nuca, insomma l’aspetto di una signora della buona società del tempo. Il braccio appare del tutto disteso, con languore quasi dannunziano, ma la grinta viriloide fa da aperto contrasto: lo sguardo infossato, che punta diritto davanti a sé e la bocca strettamente serrata. La penna appare fra le dita impugnata come fosse uno stiletto o una pistola.”

Amos Bronson trasforma la casa in un cenacolo trascendentalista, frequentano il salotto Thoreau, Hawthorne ed Emerson.

Louisa fa scuola alle figlie di quest’ultimo e ha libero accesso alla biblioteca, dove legge di tutto, da Platone a Dickens, il suo idolo, che incontrerà durante un viaggio sul vecchio continente e di cui ricreerà Il circolo Pickwick, attraverso la società segreta fondata per gioco dalle protagoniste del suo libro più famoso.

Lavora come infermiera, si ammala di tifo, scrive molti libri di successo, contenenti tutti gli elementi dei classici romanzi d'appendice ottocenteschi, con avventure gotiche ed eroine tragiche. Durante un viaggio in Europa come dama di compagnia - descritto nella seconda parte di Piccole donne, quella che in Italia è stata pubblicata come Piccole donne crescono – vive un amore con un musicista che diventa il Laurie del romanzo. Morirà nel 1888, per un’infreddatura, mentre corre al capezzale del padre senza sapere che egli è deceduto due giorni prima.

Pubblicato nel 1869, e poi nella versione completa nel 1880, Piccole donne si rifà alla vita che si svolgeva in casa Alcott/March, negli anni della formazione delle quattro sorelle e ci offre con immediatezza l’immagine dell’America nella seconda metà dell’Ottocento. Delle quattro ragazze, solo Beth conserva il nome originario e, come la sfortunata sorella minore di Louisa, anche lei morirà (sebbene non nella prima parte).

Ognuna delle protagoniste ha una personalità spiccata e differente dalle altre, benché cresciute tutte nello stesso ambiente e sotto l’occhio vigile e saggio della madre. Fin dal loro primo apparire sulla scena, i termini usati per riferirsi a ciascuna di esse indicano subito i loro caratteri, le modellano e le fanno risaltare agli occhi del lettore.

Christmas won’t be Christmas without any presents’ grumbled Jo, lying on the rug.

“It’s so dreadful to be poor!” sighed Meg, looking down at her old dress.

“I don’t think it’s fair for some girls to have plenty of pretty things, and other girls nothing at all”, added little Amy, with an injured sniff.

“We’ve got father and Mother and each other”, said Beth contentedly, from her corner.

In queste prime righe c’è già tutto il romanzo, i pregi e i difetti delle sorelle, le mancanze che condizioneranno la trama, il loro modo di agire, di porsi, le loro movenze.

Jo, il maschiaccio, sta sdraiata sul tappeto. Per lei l’autrice sceglie il verbo grumbled, brontolò, a fissarne fin dal principio il carattere bellicoso.

La romantica e saggia Meg, (sighed) sospira sulla ricchezza che non può avere che la condurrà in tentazione.

La viziata e capricciosa Amy si presenta con un injured sniff, “un offeso tirar su col naso”, mentre per la buona Beth, che timidamente se ne sta in un angolo, è usato l’avverbio contentedly, cioè con contentezza, appagamento, mansuetudine.

Il personaggio principale è Josephine (Jo) March, nella quale la Alcott si rispecchia. Tramite lei, l’autrice dà voce al suo femminismo, protestando contro le ingiustizie subite dalle donne. Jo è un ragazzaccio, la sua unica bellezza sono i capelli, di cui si priverà in un impeto di generosità. Goffa e sgraziata, impulsiva e furiosa, capace di alternare slanci e collere, sogna di andare all’università, di combattere al fianco del padre nella Guerra Civile. È l’intellettuale di casa, la scrittrice piena di fantasia che compone le sue novelle e le legge in soffitta alle sorelle.

Seguendo gli insegnamenti del padre Amos, la Alcott crede profondamente in Dio e nella possibilità di migliorarsi, di compiere una sorta di pellegrinaggio in vita verso la trascendenza, la sublimazione e il perfezionamento, di cui è simbolo il libriccino regalato a Natale dalla madre alle figlie. Ciò comporta una lotta per tutte e quattro le ragazze, ma soprattutto per Jo, che ha il carattere più difficile. Le sarà di grande aiuto e conforto scoprire che anche la madre, all’apparenza infallibile, ha dovuto come lei combattere per tenere a freno e riformare la propria natura. Alla fine il bene trionferà sulle debolezze, sulle invidie, sui capricci e le sorelle si ritroveranno più unite che mai, alla fine il cammino trascendente del pellegrino sarà compiuto.

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Aldo Dalla Vecchia, "In nome di Maria"

1 Novembre 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #televisione, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

In nome di Maria

Aldo Dalla Vecchia

 

Graphe.it, 2021

pp 75

9,00

 

L’ultimissima fatica di Aldo Dalla Vecchia, di cui seguo la carriera letteraria fin dagli esordi, è dedicata alla mia coetanea Maria De Filippi. Antidiva per eccellenza, voce ruvida, aspetto dimesso, piglio di razza anche quando defilata e seduta su una scala, la De Filippi è l’icona della televisione commerciale, quella conosciuta e amata da Dalla Vecchia.

Il saggio tratta la materia come se fosse una teologia mariana, in una modalità ironicamente e laicamente blasfema, tanta è la potenza di Maria De Filippi in televisione. Da trent’anni Maria scrive, conduce e produce programmi suoi e non solo. Ha curato format che, nel bene e nel male, hanno avuto un successo enorme e hanno fatto la storia della televisione: Amici, Uomini e Donne, C’è posta per te ma anche, indirettamente, Temptation Island. Capaci di catturare un pubblico trasversale per età, dai ragazzi che si appassionano ai talent, fino agli anziani che cercano di rimorchiare a Uomini e Donne.

Aldo Dalla Vecchia ne sottolinea la propensione all’ascolto, il tirar fuori ciò che l’interlocutore ha da dire, che lui definisce “maieutica”, proprio come quella di Socrate, fatta di brachilogia, ovvero di frasi brevi che ritmano la narrazione e i dialoghi. Si tende alla sottrazione, all’understatement, a dare risalto per contrasto, in particolare all’immedesimazione col pubblico al fine di coinvolgerlo. Più di tutto, spicca la grande preparazione, la conoscenza di ogni aspetto del meccanismo televisivo, dal casting alle scenografie.

Il posto d’onore è dedicato al programma cult Uomini e Donne, specchio criticato ma fedele della società, democraticamente in evoluzione con la trasformazione del tronista in over, gay e persino trans. E “tronista” è solo uno dei tanti neologismi coniati da questi programmi che tutti noi, pur storcendo la bocca, almeno qualche volta abbiamo seguito.

Altra trasmissione portante della “fenomenologia mariana” è C’è posta per te. Anche qui la realtà entra dalla porta principale. Ogni storia rispecchia la nostra società, con la crisi economica, il reddito di cittadinanza, la pandemia, i social.

Nel frattempo la tv sta cambiando, sempre più on demand e connessa, sempre meno in diretta, spesso in mobilità e con possibilità d’interazione da parte degli spettatori. Mai come nel post-pandemia si è avuto un cambiamento della fruizione dei palinsesti e una rivoluzione. Siamo ormai tutti - persino la sottoscritta tradizionalista e legata alla tv di un tempo – arcistufi dei programmi che cominciano volutamente tardi, finiscono tardissimo, e sono infarciti di pubblicità, rivolgendo inevitabilmente perciò la nostra attenzione ai canali a pagamento. E di questa televisione che cambia Maria De Filippi ha saputo intercettare le istanze, sempre accogliendo ciò che arriva “da fuori” piuttosto che imponendo un suo punto di vista. Una delle peculiarità della De Filippi è prendere in prestito un genere collaudato della televisione – talk show, talent etc - anche del passato, e renderlo proprio, attualizzandolo.

Di là dal tema trattato, quando apriamo un testo di Dalla Vecchia scatta la nostalgia - quella che comincia ormai ahimè a essere straziante - per certi decenni che non torneranno mai più. Ecco dunque tangentopoli e le stragi di mafia, ecco Fiorello trionfare nelle piazze col Karaoke e una saputella Ambra Angiolini stravincere la guerra dell’audience con Non è la RaiInsomma, di qualsiasi argomento egli scriva - si tratti di interviste alle personalità televisive, di gialli o di biografie di personaggi illustri - Dalla Vecchia non annoia mai e si fa leggere tutto d’un fiato come un romanzo d’appendice.

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"Così facciam tutte"

17 Giugno 2014 , Scritto da Mari Nerocumi Con tag #mari nerocumi, #erotismo

"Così facciam tutte"

Il post dell’inglesina che c’aveva “tutto ma proprio tutto” mi ha fatto pensare al perché ci interessiamo a un certo tipo di letteratura.

Perché per esempio noi donne amiamo tanto leggere 50 sfumature di grigio/nero/rosso…. al posto, per dire, de Il giro del mondo in 80 giorni.

Perché ci intriga la vita di queste pollastrelle che niente hanno a che vedere con noi e la nostra quotidianità, le vere noi (non DONNE vere purtroppo), quelle che sperano di sedurre anche col pigiama di pile nei calzettoni, che usano la lavatrice solo per lavare i panni e che soprattutto hanno una prole più marito a cui badare.

La risposta è facile, mi direte voi: quei romanzi ci attraggono proprio perché vorremmo essere noi le protagoniste della storia…

Vorremmo noi scopare a palla co’ coso… Christian, vorremmo noi fare la vita da single senza pensare a cosa cucinare la sera, andare tutte le sere per locali cool, fare shopping tutti i giorni della nostra vita senza pensare ai conti a fine mese, vorremmo essere noi quelle in carriera e viaggiare una settimana sì e una no, e in quella no andare in una spa perché ci dobbiamo riposare…

Ma la domanda che mi viene dopo è …ma quelle che ce l’hanno una vita così cosa provano, cosa vogliono?

Io, qualche amica che ha una vita così ce l’ho, qualche amica che, proprio come le pollastrelle dei nostri romanzi, perde la testa per il playboy di turno e puntualmente ci soffre da “polla” perché… vuole convincerlo a tutti i costi ad avere una vita come la nostra!

Sì, avete capito bene: una vita con marito, figli e tutto quello che ne consegue….

Ma allora rifacciamo un po’ i conti perché c’è qualcosa che non mi torna…

Che apparteniamo all’una o all’altra categoria sono giunta alla conclusione che a noi piace sognare quello che non abbiamo, soprattutto quello che ci manca (perché a noi donne manca sempre qualcosa)…e che ad un certo punto il sogno diventa il nostro pane quotidiano e chissenefrega se non s’avvera, l’importante è che c’è, l’importante è che ci fa provare le sensazioni che vogliamo. Questi romanzetti per vere polle ci servono per sognare, ci servono per immaginare di scopare con qualcuno che non è nostro marito, ci servono per movimentare la nostra vita fatta di routine e cose noiose.

Allora diventa eccitante passare quei dieci minuti sul cesso a pensare in quale locale potremmo andare la sera, con la ceretta alla brasiliana fatta in centro, il perizoma di Victoria’s Secrets e le autoreggenti (in realtà mai messe), sentire il mondo intero ai nostri piedi e non perché ci siamo tolte le scarpe dopo una giornata di lavoro…

Allora diventa eccitante pensare di incontrare finalmente il Christian Grey de no’antri e travolgerlo con un’orda di ferormoni che gridano SCOPAMI SCOPAMI, e perderci nel piacere assoluto di farsi fare le cose che non abbiamo mai pensato di farci fare …e guardarsi come in un film e chiedersi “ma sono proprio io quella che lo sta prendendo in quel posto”?

Perché …svegliandoci dal sogno, sì mie care, ci accorgiamo che l’abbiamo preso proprio in quel posto, che la realtà è un’altra, che la nostra vita sta bussando alla porta del cesso e che reclama puntualmente il nostro aiuto nel cercare i calzini (che sono sempre al solito posto) o nel cercare un semplice bicchier d’acqua (basta aprire il rubinetto).

Ma ciò che è più sorprendente è che il nostro risveglio non è affatto brusco, le nostre risorse sono immense e come per magia, perse in un bizzarro trip tra coscienza e incoscienza, così facciam tutte: usciamo dal cesso contente come non mai… pensando alla prossima volta in cui potremo ritornare a sognare per almeno dieci minuti indisturbate.

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Wall of dolls 2018

17 Giugno 2018 , Scritto da Cinzia Diddi Con tag #il mondo intorno a noi, #eventi

Wall of Dolls 2018 Un'iniziativa contro la violenza sulle donne portata avanti da Jo Squillo,cosa ne pensa?

 

IO SONO CONTRO OGNI FORMA DI VIOLENZA.

IO SONO ASSOLUTAMENTE CONTRO LA VIOLENZA.

 

La violenza non è mai giustificata né come mezzo per ottenere né come mezzo per sostenere le proprie convinzioni. La  non violenza  è l'arma dei forti. Sono decisa a lottare contro chiunque sostenga e invochi la "guerra"armata del luminoso potere dello spirito, impegnandomi energicamente per portare avanti la causa di una pace vera.

La parola missione in giapponese significa "muovere la vita" in termini più colloquiali vuol dire "fare azioni".

Trovo lodevole e meritevole di grande rispetto chiunque decida di intraprendere, attraverso azioni concrete, delle battaglie che si trasformano in veri e propri impegni sociali costanti. Sicuramente da apprezzare più di chi sta semplicemente a guardare senza prendere posizioni nette.

 Di grande valore quindi  l'impegno di Jo Squillo, giornalista di moda, cantautrice e conduttrice televisiva, contro il femminicidio e dedicato ad Alessandra Appiano.

 A Prato, qualche settimana fa, si è consumato l'ennesimo efferato delitto.

È morta una giovane donna, Elisa Amato, per mano di colui che diceva di amarla.

 Conoscevo questa ragazza! Conoscevo i genitori! Erano tanti anni che non la vedevo ho durato fatica a riconoscerla sui giornali! La notizia mi ha sconvolto e colgo l'occasione per dire alla famiglia che sono loro vicino in questo momento di profondo dolore.

Cos' è il femminicidio? Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l'identità attraverso l'assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte". 

"Di notevole allarme sociale è il fenomeno, che sembra essere in crescita, indice della persistente situazione di vulnerabilità della donna e di una tendenza a risolvere la crisi dei rapporti interpersonali attraverso la violenza" .

 

Il Muro delle bambole, cosa ne pensa e come parteciperà?

 

Riprendendo una tradizione indiana per cui ogni volta che una donna subisce violenza una bambola viene affissa su ogni porta, anche quest'anno appuntamento in  Via de Amicis 2 a Milano, col Muro delle bambole per ricordare a tutti che il femminicidio è un crimine contro l'umanità e che la mentalità deve cambiare.

Tutto questo è accaduto il 15 giugno alle ore 17, primo giorno delle sfilate per la moda maschile di Milano Moda Uomo.

Nel primo giorno della settimana della moda a Milano, dedicata all'uomo, le donne delle Associazioni, Artiste, Avvocati, Medici, Poetesse, Scrittrici, Stiliste, si sono ritrovate al Muro delle Bambole di Via De Amicis 2 per sollecitare il mondo della moda nel contribuire a creare  uomini veri, belli fuori, ma anche dentro. 

Si tratta di un semplice ma fondamentale gesto, quello di portare una bambola, che poi viene appesa sul Muro in Via de Amicis come simbolo importante contro la VIOLENZA. La bambola è protagonista muta ma al tempo stesso urlante di giustizia ed educazione al rispetto di tutte le donne. 

Io personalmente ho preso parte e ho urlato il mio totale disgusto verso la violenza e tutti i comportamenti disfunzionali, donando una bambola da me realizzata per ricordare Elisa Amato.

 

Può descriverci la bambola?

 

Ho scelto la stessa tonalità di rosa sia per l'abito che per il colore della pelle, quasi a voler dire che la donna davanti alla forza maschile è priva di protezione, quasi nuda.

Il velo nero, ricoperto di piccoli fiori, rappresenta il lutto interiore per le violenze subite ma al tempo stesso la dignità e il contegno.

L'abito prezioso è l'unica traccia di femminilità che rimane dopo la violenza, che nella maggior parte dei casi, e nella migliore delle ipotesi, sfigura il corpo, il volto e l'anima della vittima.

Premettendo che nella maggior parte dei casi questi delitti sono volontari e premeditatiritengo che sia necessario avere una filosofia della vita e della dignità della vita da implementare nel quotidiano vivere, perché altrimenti uno si comporta in maniera barbara anche senza esserne consapevole. Noi siamo tutti esseri umani che, attraverso qualche legame mistico, siamo nati per condividere lo stesso limitato periodo su questo pianeta, una piccola oasi verde nella vastità dell’universo in cui abbiamo il dovere morale di vivere convivendo pacificamente.

Il mio messaggio è chiaro: BASTA VIOLENZA.             

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        CINZIA DIDDI

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Kaftano, che passione!

30 Novembre 2018 , Scritto da Daniela Lombardi Con tag #daniela lombardi, #cinzia diddi, #moda

 

 

 

 

 

Spesso si considera il kaftano un abito adatto soprattutto per il periodo estivo. Ma questo può anche essere un ottimo capo di abbigliamento per l’autunno-inverno.

Cinzia Diddi, che veste tantissimi personaggi del mondo dello spettacolo, lo ripropone come un must have, non solo per le fortunate che trascorreranno le vacanze al caldo, ma anche per coloro che vogliono colorare le giornate invernali in città.

 Il kaftano è una scelta di gusto, noi lo proponiamo anche d’inverno, nella sua accezione più briosa.

Tessuti come tele di un pittore!!!

Floreale, colorato, bizzarro, elegante, un mix di amore per il bello e di comfort.

Consideriamo la Moda un divertimento e non un limite imposto dal peso, dalle misure e dalla taglia!

Amiamo fare sfilare anche donne con taglie più “normali” affinché il mondo della moda, che ha tanto impatto sull’immaginario collettivo e soprattutto sui giovani, sia di grande esempio e contribuisca a creare modelli reali e genuini da seguire, diversamente correrebbe il rischio di fare danni, imponendo una visione distorta della femminilità e della bellezza.

Ed ecco che "Curvy” per noi è “Cool”.

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Nizar Qabbani

25 Novembre 2018 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #le suggestioni di franca, #il mondo intorno a noi

 

 

 

 

Trovo riduttivo per il genere umano che una giornata di non violenza contro le donne debba essere istituita quasi per legge, quando dovrebbe essere insito nell'animo, nel cuore di tutti uomini, l'amore e il rispetto per la donna. È per questo che dedicherò proprio a un uomo il mio giorno della non violenza.

E precisamente a Nizar Qabbani un grande poeta, forse il più grande del mondo arabo, nato in Siria, a Damasco, nel 1923. La sua gioventù fu segnata da un tragico evento che toccò la famiglia di origine, quando la sorella si suicidò per non dover sposare un uomo a lei destinato ma che non amava e non voleva. Da quel momento in lui scattò la molla che lo rese per tutta la vita attento osservatore, instancabile interprete e coraggioso difensore della causa della libertà delle donne, che, soprattutto nei paesi arabi, sono vittime di un controllo sociale, non solo familiare, e di imposizioni autoritarie e patriarcali tendenti ad annullarne la personalità e a soffocarne la libertà.

 

"Cerco di disegnare una città dell’amore

priva di vincoli

dove le donne non vengano immolate

e il loro corpo addomesticato...”

 

Qabbani fu poeta della grande semplicità, diretto, spontaneo, amante di un linguaggio usato nel quotidiano che potesse giungere a tutti, anche agli orecchi più umili, i suoi versi cantano la bellezza del corpo femminile e dell’amore, scegliendo un linguaggio vicino a quello parlato nelle case e nelle strade e usando immagini di impatto emotivo.

 

...Il tuo amore mi ha insegnato a comportarmi da bambino

a disegnare il tuo viso col gesso sui muri,

sulle vele dei pescherecci...

 

Le sue poesie si diffondono a macchia d'olio, venivano e vengono lette da tutti nei caffè, nei parchi, agli angoli delle strade e nelle case.

Nel 1981 un altro terribile evento luttuoso lo colpì, la moglie perì, coinvolta in un attentato in Libano. Il mondo che ancora una volta si accanisce contro gli esseri più delicati e gentili che lui ama e canta nelle sue poesie. La sua voce divenne eloquente protesta del mondo arabo e delle sue lotte politiche. E’ stato un poeta nazionalista, ma attaccava anche i dittatori arabi e la mancanza di libertà. Ha lasciato poesie, scritti di giornalismo e saggi, notevole  anche la bibliografia in italiano.

Qabbani aveva espresso un desiderio: “Voglio che, dopo la mia morte, il mio corpo venga trasportato e sepolto a Damasco, con la mia gente. Damasco è il grembo che mi ha insegnato la poesia, la creatività. Io voglio tornare a casa come un uccello torna a casa e come un bambino torna al seno di sua madre”.

Quando a Londra,  il 30 aprile del 1988,  morì a 75 anni, il presidente siriano Hafen Al-Assad, che due mesi prima aveva deciso di intitolargli una strada nel quartiere più prestigioso di Damasco, si adoperò per il trasporto del feretro in città. Il suo funerale  fu celebrato il 4 maggio, nella Badr Mosque. Una folla numerosa partecipò alle esequie, le cifre ufficiali parlano di oltre diecimila persone, ma la cosa più eclatante fu la partecipazione femminile, poiché alle donne era vietato prendere parte a queste imponenti cerimonie pubbliche. Il grande impegno del poeta nei loro confronti, l'esaltazione della bellezza e dell'amore per loro,  diede alle siriane la forza e il coraggio di condividere in mezzo agli uomini, con gli uomini, più forte degli uomini, quel giorno di grande dolore.

 

LETTERA DA SOTTO ACQUA

 

Se sei mio amico aiutami

a fuggire da te

Se sei il mio amore

liberami da questa situazione

 

Se avessi saputo che l'amore è così pericoloso

non mi sarei innamorata

Se avessi saputo che il mare è così profondo

non sarei mai andata a nuotare

 

Se avessi immaginato la fine

non avrei mai iniziato

 

Ho nostalgia di te

Insegnami a non averla

Insegnami come estirpare le radici di questo amore profondo

Insegnami come muore la lacrima sul viso

Insegnami come muore il cuore e a uccidere il desiderio di vederti

 

Se sei un profeta

liberami da questo incantesimo.

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La testa girata all'indietro

30 Settembre 2014 , Scritto da Franco Rizzi Con tag #franco rizzi, #racconto

La testa girata all'indietro

Una domanda a cui non so dare risposta, ovvero tutti gli uomini camminano con la testa girata all’indietro.

Anche all’inizio di questo nuovo anno, il 2014, mi sono sentito rivolgere la solita domanda: <<Perché vai avanti a lavorare?>> In realtà, da alcuni anni, questa domanda me la rivolgono in molti.

Tutte le volte che ho provato a rispondere in modo semplice, magari anche variando gli “ingredienti” del piatto principale, per cercare di essere brillante, mi sono sempre accorto che, ben presto, il mio interlocutore aveva perso interesse alla mia risposta e sviava il discorso su altri argomenti, lo sport, il clima, i viaggi, la politica, le vacanze. Evidentemente questa risposta non la so proprio dare.

Quindi ho sempre finito per restare miseramente in silenzio, mentre altri temi invadevano l’arena dei dialoghi.

Senza volerlo, mi sono ritrovato a guardare indietro, a rivedere la mia vita. Ho cominciato la mia attività lavorativa come ingegnere progettista nell’azienda creata da mio padre. Mi ero appena laureato al Politecnico di Milano e mi sentivo forte come un leone. Erano gli anni dello sviluppo, del miracolo economico italiano e la competizione nazionale era molto dura: per sostenerla bisognava continuare ad acculturarsi, innovare i prodotti e correre veloci. Poi è arrivato il 1969, gli anni della contestazione, una lunga crisi economica e, prima che ce ne rendessimo conto, erano arrivati gli anni di piombo, che sono durati molto a lungo, ben oltre l’uccisione di Aldo Moro. Per sopravvivere bisognava anzitutto rinnovare il modo di approcciare il mondo del lavoro, bisognava cambiare il modo di produrre, aggiornare i prodotti ed allargarsi su nuovi mercati internazionali. La competizione cresceva. Per i “piccoli” la vita era dura: vorrei ricordare una cosa per tutte. Per viaggiare all’estero, a caccia di lavoro, serviva valuta estera e bisognava chiederne un’assegnazione alla propria banca, che veniva poi autorizzata dalla Banca d’Italia. Funzionava più o meno così. Domanda: <<Perché richiedete valuta estera?>> Risposta: <<Per promuovere con viaggi all’estero le nostre esportazioni!>>

Spiegazione del funzionario: <<L’assegnazione di valuta viene concessa solo in proporzione a quanto già esportate.>>

Timida replica: <<In verità esportiamo poco ed è proprio per questo che ne abbiamo bisogno...>> Insomma dialoghi alla “Fantozzi”, cui seguivano erogazioni di valuta con il contagocce. “Quindi se quest’anno andiamo in sud America, in India andremo solo l’anno prossimo.”

Oggi esportiamo il 99% della nostra produzione, come ci siamo riusciti, ancora non so bene come spiegarlo. In quei terribili anni, molte aziende nazionali morivano, ma intanto molti competitori internazionali erano nati e crescevano.

A metà degli anni 70 il mercato era diventato globale. Quando stavo finendo il liceo, la popolazione mondiale era circa 1,8 miliardi di persone, ma al tavolo dell’economia ne erano seduti meno di un terzo. Nel 1976 la popolazione aveva superato i 4 miliardi, ma il numero dei commensali era aumentato in modo più che proporzionale.

Per sopravvivere bisognava innovare e correre veloci. Un’azienda è un corpo vivo: vive dei suoi uomini, del suo know-how e delle sue attrezzature. I dipendenti vanno in pensione e devono essere sostituiti in corsa, perché le nuove leve devono essere preparate ed istruite. Innovare i prodotti ed il modo di produrre sono due facce della stessa medaglia, quindi i reparti di produzione, con il passare del tempo, devono mutare e trasformarsi, ma il tutto deve avvenire mentre si continua a produrre, mese dopo mese, perché mese dopo mese bisogna continuare a fatturare, a pagare i dipendenti e le materie prime. Solo pochi “unti del signore” sono in grado di farlo mettendo uno stabilimento in stand-by e gli operai in cassa integrazione per quanto tempo basta. I “piccoli” no, questo non possono proprio farlo.

Poi gli anni di piombo erano finiti: adesso era il periodo di Vodka Cola, USA ed URSS amoreggiavano, ma dopo un’altra crisi economica, rapidamente era arrivato il crollo del “muro di Berlino” con un nuovo giro di walzer. Ora sì che il mercato era veramente globale!

Forse finalmente si poteva esportare in ogni paese senza restrizioni, ma ben più rapidamente di quanto riuscivamo a farlo noi, erano i paesi emergenti che lo facevano. Altri nostri competitori europei soccombevano, ma alcuni prima di cessare l’attività avevano stretto rapporti di join venture con aziende cinesi che presto sarebbero diventati i nuovi competitori globali. Poi sono arrivati gli anni 2000 e la moneta unica: niente più “lirette” adatte per la ciclica svalutazione competitiva, ma una moneta solida, l’euro. Tanto solida che ormai vale il trenta per cento in più del dollaro.

Come si può ancora esportare? Di nuovo per sopravvivere bisogna innovare, acculturarsi, migliorare il prodotto ed il modo di produrre, in una parola essere migliori dei nostri competitori. In conclusione mi sembra che la ricetta non sia mai cambiata, forse non è cambiata da quando mio padre, per sopravvivere alla guerra, invece di produrre apparecchi di risparmio energetico, era costretto a produrre stufe a segatura e riparare carri ferroviari mitragliati, cannibalizzandone altri: mediamente ogni tre se ne ricostruiva uno. In quel tempo ormai lontano, l’acciaio era contingentato e per ottenerlo bisognava farne richiesta scritta al ministero dell’industria, ma anche firmando con la parola “vincere”, invece di usare la dicitura borghese, “distinti saluti”, a quel tempo bandita, i “piccoli” non ottenevano mai nulla.

Forse la spiegazione del disinteresse di chi mi aveva posto la domanda, stava proprio nel fatto che tutti hanno la testa girata all’indietro, ma nessuno vuole ammetterlo. Ricordarsi come eravamo, forse, non piace neppure troppo. Meglio limitarsi al lamento, invocare i propri diritti, fare una vacanza, magari a Sharm-El-Sheik, senza pensare a cosa accade al Cairo.

Guardare in avanti, comporterebbe vedere uno stuolo di giovani senza lavoro, un’Europa Unita che stenta a decollare e le mille altre cose che tutti dovremmo fare, partendo dal basso, ognuno nel proprio ruolo.

<<Tu invece guardi in avanti?>> mi chiederebbe, a questo punto con una punta di astio nella voce, un lettore che avesse pazientemente letto queste righe. Ecco in verità, nel buio della notte, mi capita abbastanza spesso di guardare in avanti, ma finisco sempre per vedere qualcuno che mi attende in fondo alla strada, là dove la strada finisce.

Ma che vita sarebbe arrendersi a quest’attesa? Cerco di riprendere sonno, magari scrivo qualcosa e poi, la mattina successiva, cerco di ricominciare il combattimento, ma per trovare le armi adatte a farlo, cammino anch’io con la testa girata all’indietro.

Forse è per questo che non riesco a dare la risposta giusta: anch’io, come tutti gli altri uomini, cammino con la testa rivolta all’indietro.

Franco Rizzi. 01-03-2014

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Simona Lo Iacono, "Le streghe di Lenzavacche"

1 Settembre 2017 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni

 

 

 

Le streghe di lenzavacche

Simona Lo Iacono

Edizioni E/O, 2016

 

 

Il magistrato Lo Iacono, scrittrice attiva sia in campo culturale che sociale, confeziona con questo suo romanzo, candidato al Premio Strega 2016, un vero e proprio inno alle donne che osano ribellarsi alla società che le vuole rigidamente segregate in una categoria da sempre troppo angusta. Scritto sotto forma di fiaba apparentemente nera, con una donna discendente da una famiglia di streghe, intese non come esseri dotati di poteri soprannaturali, bensì come donne libere, colte e soprattutto coese tra di loro a costo delle loro stesse vite, con un bambino nato affetto da una patologia che lo rende tetraplegico e muto, vista come chiaro segno della maledizione che sul piccolo incombe, essendo figlio di un rapporto clandestino nonchè nipote di nonna Tilde, nota “strega” che conosce le segrete arti della guarigione con le erbe. Come in una vera fiaba troviamo molti elementi tipici di quelle tradizionali: il protagonista e cavaliere è incredibilmente proprio il piccolo Felice, che già col nome di battesimo dato dalla madre Rosalba dal primo fiato di vita si oppone ad un destino atroce fatto di scherno, superstizione e disprezzo da parte dei compaesani. Ad aiutarlo nel suo percorso di ricerca il farmacista del paese, donnaiolo e vulcanico, con un cuore grande solo quanto la sua epa, la nonna che consulta indefessamente un misterioso libro (lo strumento magico fiabesco) e ovviamente la madre, donna coraggiosa e sensuale che ha per il figlio un solo desiderio: che possa essere felice non solo di nome. La strada di Felice e dei suoi bislacchi scudieri interseca quella del maestro Alfredo, le cui lettere occupano ogni metà dei capitoli della prima parte del libro, giovane insegnante non prono alla retorica del Fascio e che vorrebbe formare poeti e non soldati nel piccolo paese di Lenzavacche. La seconda parte del libro disvela invece il contenuto del libro di Tilde, scritto in italiano volgare del XVII secolo e in cui si narra la natura delle streghe di Lenzavacche. L’ultima, brevissima parte, si limita a esporre  le conclusioni di tutta la storia e offrire al lettore la soddisfazione di sapere cosa è successo ai tanto amati protagonisti: “Al che ho capito che ogni volta che una donna sarà madre a dispetto del mondo, e racconterà storie vincendo la morte, le streghe torneranno cara zia, ancora e ancora, con tenacia e compassione”. Una nota vorrei dedicarla alla scrittura evocativa e per immagini che utilizza parole desuete come “scoscendere” o onomatopeiche come “gloglottare” e che fa con piacere aprire il dizionario non tanto frequentemente ma nella misura giusta per apprezzare un uso sapiente della lingua italiana.

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Rosa Santoro, "Maria José e Lady Diana"

7 Gennaio 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #personaggi da conoscere

Maria José e Lady Diana

Rosa Santoro

Arduino Sacco Editore, 2016

pp 158

12,00

 

 

Due donne famose, Maria Josè del Belgio, regina di Maggio, e lady Diana Spencer, principessa del Galles, divise da sessant’anni di storia ma unite in questo romanzo da un rapporto speciale che si instaura attraverso il device letterario dello specchio. Le due principesse divengono l’una l’amica immaginaria dell’altra e, dialogando e rapportandosi, ci narrano in modo piuttosto confuso e parziale la loro vita.

Colta e antifascista l’una, ribelle, filantropa e romantica l’altra, sono accomunate dal fatto di essere talmente moderne da scontrarsi con le casate delle quali si sono trovate a far parte. Entrambe insofferenti all’etichetta di corte, entrambe mogli tradite, entrambe disilluse e infelici, traggono conforto alla loro solitudine dal reciproco impossibile contatto mentale.

Tutto ruota intorno ai difficili rapporti sentimentali con i loro consorti, Umberto II di Savoia e Carlo Windsor. Le due donne parlano d’amore, di turbamenti, di tradimento, di fiducia malriposta, di aspettative e dispiaceri. Delle due, è Diana a essere in primo piano. Di lei vengono taciuti gli amori extraconiugali, concentrandosi solo sul tradimento di Carlo con Camilla Parker.

Il gioco di specchi, rimandi e sovrapposizioni è aumentato dalla mescolanza di lettere, monologhi, conversazioni inventate che – se non fosse impensabile il raffronto – farebbero pensare ai colloqui de Le Operette Morali o a I dialoghi di Platone. I personaggi interagiscono chiacchierando tra loro a distanza di tempo e di spazio, un po’ narrando le vicende, un po’ esternando stati d’animo e riflessioni, con termini colloquiali che contrastano col loro lignaggio. Il tutto, però, non è sviluppato a dovere e genera più confusione che interesse.

Una parola a parte merita lo stile del romanzo. Purtroppo, esso lascia molto a desiderare, fra cambi inspiegabili di tempo e veri e propri strafalcioni (come “convogliare a nozze”) che diventa difficile considerare semplici refusi.

 

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