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Otello Chelli, "Gente della Venezia"

8 Maggio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #luoghi da conoscere

Otello Chelli, "Gente della Venezia"

Gente della Venezia

Otello Chelli

Finegil Editoriale spa 2014

Divisione Il Tirreno

Gruppo Editoriale l’Espresso

Narra la leggenda che Otello Chelli, classe 1933, abbia imparato a leggere sedendo accanto alle locandine dei giornali. Autodidatta genuino, scrive in una lingua dove ogni parola è letteraria ed intrisa di pathos, ma gli sfuggono errori e refusi che il Tirreno - da cui si può scaricare l’ebook “Gente della Venezia” - non ha provveduto a correggere proprio perché la materia di questo cantore della labronicità più intensa deve rimanere quella che è, grezza e lucente come un diamante appena estratto, aulica e popolare insieme.

Anarchico e libertario, comunista in senso quasi evangelico, Otello Chelli ha alle spalle una lunga produzione di opere sia in prosa che in poesia. Il suo romanzo “La stirpe dei Morgiano”, ormai introvabile, passa di mano solo fra gli amatori. Quello che ci lascia oggi, all’età di ottantuno anni, è un vero e proprio testamento. Prima di congedarsi vuol testimoniare un mondo che vive e palpita solo nei cuori degli ultimi superstiti. Con la generosità e lo spirito solidale, a momenti francescano, che lo anima, Chelli fa in modo che il suo lascito sia fruibile da tutti e scaricabile gratuitamente dal quotidiano della sua città.

Già, la città, quella stessa Livorno cantata da Caproni, patria di Mascagni, Fattori, Modigliani. Ma non tutta, solo un quartiere, piccolo per la verità, che si dilata e giganteggia, erge invisibili mura di fossati, di ponti, di barriere che lo separano dal resto del centro toscano: la Venezia.

Il quartiere si chiama così perché ricorda la città lagunare, fra ponti e canali, scalandroni e navicelli; è architettonicamente molto bello, ha conosciuto il suo massimo splendore nel settecento, Luchino Visconti vi ha girato “Le notti bianche”. Per Chelli costituisce un macrocosmo, un intero universo, il teatro all’aperto dei suoi sogni di bambino, il luogo dell’anima dove tutto è possibile.

Il testo è totalmente autobiografico ma di quell’autobiografismo capace di scardinare i propri limiti e ridisegnare un mondo, un territorio e un tempo, popolati da una folla di uomini e donne che sembrano usciti da un atto di Cavalleria Rusticana o da un quadro di Eugenio Cecconi, anche se i fatti narrati sono posteriori e coprono l’arco che va dagli anni trenta al dopoguerra. Gente che fu, gente del popolo, svelta di mano e di coltello, pronta a lavare un’onta col sangue e a rubare per sfamare i figli, ma capace anche di dividere tutto con gli amici. Gente di cuore che sa aiutare e compatire nel senso letterale del termine.

Il testo – non lo chiamiamo romanzo perché è piuttosto una sere di quadri, di “spezzoni”, come li definisce l’autore – rievoca figure storiche, con tanto di nome, cognome e soprannome. Si parte da Artemisia, madre del protagonista.

Artemisia aveva chiamato i figli per dare loro il solito cantuccio di pane con qualcosa dentro per insaporirlo. Lei e Pepe Nero avrebbero cenato nella fiaschetteria di Edipo con una fogliata di acciughe sotto il pesto e un litro di vino rosso.”

È un’Annina meno fine e meno caproniana, sanguigna, scarmigliata, dalla risata squillante, pronta a battersi come una tigre in favore degli otto figli ma anche dei figli delle vicine; capace addirittura di incontrare il duce in persona per difendere il marito dagli squadristi. Ma, soprattutto, generosa:

Mamma poteva contare abbondantemente sui soldi guadagnati con i miei traffici, la fame ci era sconosciuta, ma nel mio nascondiglio, ne avevo uno anche nel labirinto della Fortezza Nuova, più ne mettevo, più il mucchio scemava. Era più forte di lei. Non poteva dare da mangiare ai propri figli mentre intorno altri bambini e ragazzi stavano a guardare con gli occhioni spalancati e una luce mista di desiderio, brama e supplica. Così divideva pranzo e cena con tutte le famiglie abitanti nel nostro pezzo di colonia e anche oltre, per me era padrona di farlo, mai avrei potuto richiamarla alla moderazione nella spesa quotidiana, perché condividevo pienamente quella solidarietà, del resto generalizzata, forse il dato più bello da registrare in quei lontani giorni di tragedia.”

Dopo Artemisia, ecco la Ciucia, cui è dedicato anche il libro della pronipote Tiziana Savi,La Ciucia per tutti, Bruna per noi”, sempre con la partecipazione di Chelli. La Ciucia era un carattere borderline, una donna buona e compassionevole, che ogni giorno chiedeva – anzi, diciamo pure pretendeva – l’elemosina per consegnarla ai soldati e a coloro che soffrivano. Sparì senza che se ne sapesse più niente.

Fra i personaggi riportati in vita da Chelli, spicca la giovanissima e bellissima Doretta, innamorata di un amore infantile ma carnale, morta sotto i bombardamenti.

Ho vissuto una lunga, tumultuosa esistenza eppure, mentre mi avvio verso l’ultima tappa di questo mio viaggio sulla terra, la presenza dello spirito inquieto di Doretta è sempre più costante e qualche volta m’illudo che ella stia aspettando il momento in cui il mio corpo cederà alla morte, per allungare la sua mano, tirarmi su e correre insieme a me per le strade strette, battute dal libeccio, con i fossi pieni di navicelli e di vita, in una Venezia immortale che non sarà mai travolta dalla guerra che il 28 maggio 1943 distrusse le sue mura, ridusse alla rovina le sue case cancellando una splendida fiaba e disperse la sua gente in una diaspora senza ritorno”.

E poi Otello Bacci, il musicista assurto agli onori della rivista con Dapporto e Totò; e Silvano Ceccherini, ex capo di una banda di ladri, ex detenuto e poi scrittore; e l’amico fraterno Sansone, compagno di tante avventure pericolose e illegali, rinnegate da Chelli in favore dell’impegno politico. Come Doretta, anche Sansone è morto e mai dimenticato.

Mi inginocchiai sulla terra sotto la quale era stato sepolto e immersi un dito nella superficie marrone, fresca d’umidità, piena dell’odore buono dei campi e pensai ala sua anima: sapevo come in quel momento Sansone fosse finalmente libero.

A far da sfondo tridimensionale ai personaggi sono i luoghi ma, specialmente, i momenti storici. In particolare tre: il fascismo, i tragici bombardamenti che rasero al suolo Livorno durante il secondo conflitto, e l’occupazione americana che trasformò Livorno in una novella Babilonia di traffici illeciti, malavita, borsa nera, “segnorine” e soldati di colore, con la pineta di Tombolo convertita in terra di nessuno, in covo di banditi e prostitute.

Al di là della ricostruzione storica vivissima e partecipata, ciò che anima il racconto è la nostalgia straziante di un mondo sparito, fatto, sì, di stenti, privazioni e atti illeciti, ma anche di uguaglianza, amicizia, solidarietà, in pieno spirito labronico. Quel periodo, quello spazio, quel quartiere, incarnavano gli ideali che l’autore ha perseguito per tutta la vita. Otello Chelli è, infatti, un comunista della prima ora, di quelli che intendono l’impegno politico come lotta, ma anche amore, dedizione, onestà e purezza. Ideali destinati ad infrangersi e a rimanere sempre irraggiungibili. Ideali che, al sapore acre della sconfitta, mescolano quello del rimpianto per la giovinezza che non c’è più, per la vita che sta per concludersi. Così, quest’uomo che ha superato gli ottanta anni, quest’uomo che, dice, non ha mai avuto paura di morire, quest’uomo duro ma col ciglio bagnato del poeta, si congeda da noi tramite la riaffermazione lucida e disperata di ciò in cui ha sempre creduto.

Voltai le spalle al tumulo e mi avviai verso la città laddove avrei affrontato altri settanta anni di vita tumultuosa, inquieta, mai facile, ma ricca di impegno e sacrifici, di dolore e felicità, di ideali poi infranti dagli uomini, in me, però, rimasti vivi come allora e sempre.”

E ora, anche se nel testo esaminato non è compresa, ci piace accostare - timidamente e con pudore - una poesia di Chelli che commemora la figura di Artemisia ad una caproniana in memoria di Anna Picchi. Lo facciamo così, senza nessuna pretesa, solo col piacere di evocare sentimenti simili.

IL CARRO DI VETRO

Giorgio Caproni

Il sole della mattina,

in me, che acuta spina.

Al carro tutto di vetro

perché anch’io andavo dietro?

Portavano via Annina

(nel sole) quella mattina.

Erano quattro i cavalli

(neri) senza sonagli.

Annina con me a Palermo

di notte era morta, e d’inverno.

Fuori c’era il temporale.

Poi cominciò ad albeggiare.

Dalla caserma vicina

allora, anche quella mattina,

perché si mise a suonare

la sveglia militare?

Era la prima mattina

del suo non potersi destare.

IN MORTE DI MAMMA ARTEMISIA

Otello Chelli

Corsi, con il cuore che martellava dentro,

nella notte interrotta

e nei silenti, deserti corridoi dell’ospedale,

la speranza lentamente svaniva nell’affanno

di una certezza che mi strozzava in gola

l’urlo del distacco imminente da te viva.

- “Muore colei che mi stringeva al petto

con amore,

quietava i sonni miei,

e mi donava il sangue dal suo seno.” -

La porta aperta sul volto tuo disteso,

gli occhi velati, la fronte senza rughe,

una carezza e il tenue calore rimasto sulla pelle,

come il tenero petto di un passerotto implume,

mi resero il bambino disperato

che piangeva svegliandosi nel buio.

Ora non c’eri più con il tuo sguardo,

a placare le molte mie inquietudini

e gli affanni della ricerca antica

che mai mi ha dato requie.

La morte si era presa il tuo respiro,

senza l’ultimo abbraccio dei tuoi figli

ed io gemevo piano, con il viso

posato sul tuo capo reclinato.

L’alba mi vide accanto al freddo marmo,

chinato sul tuo corpo a ricordare

i momenti più belli della vita

e i giorni sfortunati.

Poi vennero i fratelli e le sorelle,

i mille pianti, i fiori

e il noce lucidato della bara,

il lento camminare sull’Aurelia,

con gli amici in attesa avanti casa

e i mattoni a serrare il nostro cuore

nella gelida morsa del dolore.

Ora, trascorso il tempo, sono sceso quaggiù,

nell’oscuro snodarsi delle tombe,

davanti al tuo ritratto.

Brillano fiochi lumi e il tuo sorriso,

tra il biancheggiar dei fiori,

è una povera immagine

della squillante risata di mia madre,

quando, giovane, bella e forte,

un bimbo rincorreva lungo il viale

accanto alla Crocetta di Saglietto.

Eppure, Mamma, il tuo ricordo,

nonostante lo scorrere di giorni mai tranquilli,

è presente, ben vivo e mi accompagna

in questa vita vissuta intensamente.

Il tuo corpo è tornato nella terra

che si frantuma attorno e che rinasce

dalle ceneri sparse

di un fuoco che ha vissuto sessant’anni.

Tu rivivi con me, con i miei giorni,

soffri e gioisci nei miei sentimenti,

ti rifletti negli occhi dei miei figli,

scorri con me le pagine diverse

degli anni che trascorrono, cadendo,

uno sull’altro, come foglie d’autunno.

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Davide Enia, "Appunti per un naufragio"

25 Agosto 2017 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #recensioni, #il mondo intorno a noi

 

 

 

 

APPUNTI PER UN NAUFRAGIO

 Davide Enia

Sellerio, 2017

 

L'incipit è micidiale, spiazzante:

 

«A Lampedusa un pescatore mi aveva detto: “Sai che pesce è tornato? Le spigole.”

Poi si era addumàto una sigaretta e se l'era svampata tutta in silenzio.

“E sai perché le spigole sono tornate in mare? Sai di cosa si nutrono le spigole? Ecco”

 

Perché le spigole si cibano di cadaveri in decomposizione. In questo caso, dei corpi di coloro che, dentro la massa di poveri cristi che dalla punta nord dell'Africa tentano la fortuna attraversando il Mediterraneo sino alla punta sud dell'Europa, non ce l'hanno fatta.

Di questo parla (e, come vedremo, di tanto altro) l'ultimo libro di Davide Enia, attore, scrittore di testi teatrali, regista operistico, telecronista occasionale per la Gialappa's, reporter, articolista e, sopra ogni altra cosa, grande romanziere, già autore tra l'altro del romanzo capitale Così in terra (la cui lettura mai mi stancherò di consigliare) tradotto in 18 lingue!

Andando per classificazioni, già da subito sorge la difficoltà di definire Appunti per un naufragio: spacciato sbrigativamente per romanzo è forse altro e di più. Rientra a pieno titolo in una nuova forma di narrativa a suo tempo teorizzata dai Wu Ming (che la sostenevano inaugurata dal Gomorra di Saviano), la cui cifra è uno stile a collage capace di accostare parti letterarie a sezioni documentali, autobiografismi, narrazioni impersonali e via dicendo.

Si potrebbe forse ricorrere alla neo-categoria di autofiction, coniata da Gianluigi Simonetti sullo scorso inserto culturale del Sole 24 Ore. Eppure ci pare che anche questa definizione vada stretta al tipo di ibridazione da cui è costituito il libro in questione, soprattutto perché, almeno all'apparenza, ne risulta piuttosto carente la parte finzionale vera e propria, visto che parliamo di un testo che si propone di essere quanto più fedele possibile alla realtà che racconta (forse potremmo spingerci a dire: che registra). Ed è qui che risiede la sua forza.

Senz'altro però - ricorrendo a un'aggettivazione critica da terza pagina - possiamo definirlo un libro necessario. Se non altro perché tratta di uno dei più grandi temi che investano la storia e la politica attuali, nonché le nostre vite quotidiane: ovvero, come già accennavamo, l'esodo di massa di migranti specificamente verso Lampedusa. E lo fa sapientemente.

Quello che Enia cerca è un approccio non ideologico. Si pone nei panni di chi vuol scoprire e sapere, non di chi intenda vedere riconfermati in loco giudizi preformati a distanza (e dunque...  pregiudizi).

Lo si capisce sin dall'inizio, da una delle figure con cui si apre questo romanzo anomalo: un sommozzatore dal fisico monumentale, proveniente dal Nord-Italia, che per tradizione famigliare e convincimenti personali professa la sua adesione a una destra politica anche estrema, il quale tuttavia, lì, sul campo, perde ogni impostazione e sovrastruttura mentale e si limita a eseguire il compito che gli è stato assegnato: salvare vite. Ma non in maniera meccanica e freddamente professionale: salva vite, strappa questi ragazzi perlopiù africani da morte certa scientemente e con grande trasporto emotivo, fino a sentirsi lacerato nel profondo al ricordo di quando un soccorso non abbia avuto successo. Senza chiedersi neppure per un attimo se tutto ciò sia coerente con le proprie idee di base.

Perché di questo si tratta: l'umanità che Enia ci mostra non gode del privilegio di poter dissertare comodamente sui social e dentro ai bar su che cosa sia giusto fare e come sia giusto comportarsi in determinate situazioni. La popolazione di Lampedusa, come tutti gli organi istituzionali preposti al salvataggio e all'accoglienza degli arrivi, dentro quelle situazioni c'è, con tutte le scarpe, senza la possibilità di tirarsi indietro o di avere tempo per ragionamenti capziosi. E la risposta che tutti costoro danno è molto semplice e precedente a ogni dibattito culturale o socio-politico: di fronte a chi implora aiuto, glielo forniscono, senza indietreggiare di un passo. È un'umanità spoglia, pura, empatica, immediatamente reattiva, quella che la penna di Enia ci restituisce.

 

«Esistono due istinti, solo che uno protegge l'altro: il proteggersi e l'aiutare il prossimo. Perché anche quello di aiutare è un istinto. La paura del diverso, di quello che non conosci, qualunque cosa essa sia, umano, animale, naturale, è normale. E se la superi la prima volta probabilmente non ti si ripresenterà più. O, almeno, ogni volta che ti si ripresenterà, avrai tempi di reazione sempre minori per superarla.» (p. 37)

 

Non c'è tempo per teorie da talk show, qua c'è giusto lo spazio d'azione per praticare un aiuto emergenziale, che è, per prima cosa - risalendo alle origini stesse dell'uomo - aiuto tra simili.

Sotto il profilo contenutistico, le descrizioni sono vive, palpitanti, dettagliate (Appunti per un naufragio è, tra le altre cose, anche un manuale preciso e imprescindibile di tali trasmigrazioni, sotto ogni loro aspetto). Esse ci portano a vivere per così dire in diretta le operazioni di sbarco o i soccorsi in alto mare, ma senza appiattimento cronachistico: il lettore si ritrova lì, sul posto, spalla a spalla con Davide, i volontari e gli addetti presenti sul posto. Anche grazie a una scrittura preziosa e allo stesso tempo fluida, nitida, ma puntualmente sostenuta dai rintocchi di un vocabolario palermitano che rende la prosa ancor più verace ed espressionistica.

La storia dei naufraghi e dei loro salvataggi ci consegna le tracce di un'umanità spicciola, feriale e, al tempo stesso, emblematica. Annotazioni minute entro cui prorompe l'immenso incanto della vita:

 

«Si stringevano alla coperta termica. Una bambina cominciò a giocarci: era diventata un mantello che, colpito dal sole, creava scaglie di luce. Un altro piccirìddo era talmente stanco che si sedette a terra, appoggiandosi con le spalle al muretto del molo e, chiudendo gli occhi, si addormentò.» (p.45)

 

Un afflato di speranza, di vita recuperata in extremis che contrasta con gli stupri subiti durante o prima delle traversate dalle giovani donne presenti, le agonie, i corpicini esanimi dei neonati, l'intera ecatombe di questi disperati, che Enia espone anche brutalmente.

La vita e la morte, come sempre, in un gioco perenne e beffardo di cui sovente non sembriamo che ininfluenti pedine:

 

«cosa vuoi che gliene fotta alla Storia della tua, della mia, della nostra percezione? La Storia sta già determinando il corso del mondo, tracciando il futuro, modificando strutturalmente il presente. È un movimento inarrestabile.» (p.21)

 

All'interno della narrazione di quell'evento epocale, che è l'immigrazione di massa come la conosciamo da decenni a questa parte, si inserisce un fitto amarcord (ma meglio sarebbe dire un marricuaiddu) di momenti spesso toccanti della vita di Enia ragazzo e bambino: la prima drastica lezione di nuoto, la malattia dell'amato zio Beppe e il suo inesorabile decorso, un recuperato rapporto col padre Francesco, le gite da giovanotto, l'amore quale sostegno irrinunciabile, una fumetteria frequentata assiduamente da adolescente nel centro di Palermo, la prima tazzina di caffè, i telefoni a gettoni. Ogni tassello concorre a un mosaico armonico, la cui visione d'insieme restituisce un'apertura alla vita senza remore, per quanto assurda e travolgente essa si possa manifestare. Come nel passo in cui un sub, dopo la spaventosa moria avvenuta il 3 ottobre del 2013, rifiuta di calarsi nuovamente in mare. Fino a che, preso coraggio, anni dopo si tuffa nuovamente proprio laddove tanti corpi senza vita emersero e riaffondarono, e quel che trova è sempre e comunque un tripudio vitalistico, quasi del tutto immemore dell'immane tragedia umana ivi consumatasi:

 

«La prima volta c'erano solo i cadaveri, oggi invece il mare ha trasformato tutto. Ho visto un superamento della morte. Un ritorno della vita, ecco.» (p.198)

 

I migranti come estraneità e rispecchiamento di noi stessi e della nostra società, la cui fragilità il loro arrivo sa mettere in così seria crisi:

 

«E saranno loro a spiegarci cosa è diventata l'Europa e a mostrarci, come uno specchio, chi siamo diventati noi». (p.146)

 

Che vi piaccia o meno, gli individui che, dopo mille sconsolanti peripezie, approdano sulle nostre coste, non rappresentano semplicemente un'emergenza contingente, bensì il futuro che ci attende, e di cui loro e i loro figli saranno in gran parte partecipi. Perché, come già scriveva Joyce: Strangers are contemporary posterity.

 

Dati del libro:

Autore: Davide Enia

Titolo: Appunti per un naufragio

Anno di pubblicazione: 2017

Editore: Sellerio

Pagine: 216

EAN: 9788838936579

Cartaceo: 5,00 euro

E-book: 9,99 euro

 

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Laboratorio di poesia: Umberto Cerio

17 Gennaio 2017 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #poesia

 

 

 

 

IL MIO EXODUS

Di Umberto Cerio

 

Exodus di antichi Greci cacciati

da gente violenta del Nord

nella terra di Pandione e di Egeo;

exodus dei Troiani superstiti

dalla distruzione spietata di Ilio

( compiuta da molte stirpi dei Greci)

che il pianto di Omero immortala;

exodus circolo eterno di fughe,

seminatore di morte, invocata

giustizia di uomini e donne,

conforto di vittime-padri

sicari per vendette implacabili,

per furore di sventure perenni

sei ancor oggi nel cuore del tempo.

 

Exodus della presaga Cassandra

che scova come un segugio

di Agamennone nell’infida reggia

tragiche tracce di antichi delitti

e trepida Scamandro invoca

- acqua lustrale della sua terra -

mentre in Argo sulla polvere muore

nella casa ove s’è insediato un coro

intonato e straziante, che canta la morte,*

e dove di sangue s’è ubriacato il coro

delle Erinni,* nate dal sangue di Urano

da Cronos castrato, offesi spiriti

di Giustizia per l’ara rovesciata

e di Vendetta che chiama altro sangue,

sei ancor oggi un canto straziante.

 

Exodus di Ebrei schiavi d’Egitto

che liberi si fanno nella terra

promessa attraversando il deserto

di sabbia e di sole brucianti

e il deserto della loro ragione:

eressero allora l’idolo d’oro

che li inchioda alla terra violata

persecutori ora di popoli

che giurano Giustizia e Vendetta;

exodus di Maometto a Medina,

che con la sua higra un popolo sperso

tra le onde delle dune di sabbia

plasmò nel palmo del deserto

al respiro di pazienti cammelli,

siete il coro di lunghe torture

che risuona nelle valli di morte

al lamento perpetuo delle madri.

 

Exodus afgano prima di guerre

di vendette, fuga di asini lenti

e nere masserizie, simboli d’atavica

miseria di oscuri Musulmani

ai margini del mondo

che non hanno sognato paradisi

e delizie promesse,

sei indovino di terrore

nelle ossa tremanti di fatica

e dolore della morte violenta.

Nell’oriente lontano e misterioso

in migliaia di anni

intere stirpi di eroi quotidiani

hanno forgiato arte

e cieli tersi su cime di monti

ove i morti saranno sepolti

tra macerie di frantumi e speranze

e macerie di giorni e di notti.

 

Non cresceranno mai fiori

sulla terra dove madri bendate

avranno sepolto figli massacrati

e figli sepolto padri traditi,

dove padri e figli attendono insieme

il silenzio perenne delle stelle,

l’eterno freddo della morte.

 

Non cresceranno mai alberi sacri

su pietre dove imputridito sangue

di ignari eroi senza nome

si disperde nero e aggrumato

ai rari morsi di uccelli rapaci

e corpi insepolti offerti alle fiere

nei templi del silenzio

dove l’amore è forse da tempo

solo infinita immagine vuota

negli occhi perduti tra cielo e rocce.

 

Exodus, mio exodus terribile,

che mi dai insaziata libertà

e speranza di vivere e amare,

scardini porte di acciaio serrate,

sfondi soffitti e pareti di pietra,

voli negli spazi aperti del mondo
oltre le mura del dolore.

 

Exodus, oh! mio exodus

atteso una vita,

sei fuga interiore alla luce

da un oscuro ignoto,

crollo aereo che esplode nel buio

e infrange barriere del cuore.

Mio exodus, viaggio infinito

dell’uomo sapiente e blasfemo

che torna alla terra dove nacque

- dopo oscure minacce di morte -

che sa i giorni dell’ansia bruciante

e le notti di angoscia o di attesa,

nei dubbi atroci della memoria

sei cammino ritrovato e perduto.

 

Exodus, mio exodus senza fine,

errare senza sapere più dove,

viaggio che comincia alla luce

del fuoco greco e di tede augurali,

fino alle torce, alle lanterne a gas,

alle gelide lampade del neon

e al raggio tagliente del laser,

mio exodus ancora senza fine,

oh! exodus senza mai una fine,

senza vanità di gioie e speranze,

ebbrezza di avventure mai vissute,

sei la storia della vita dell’uomo,

nel male più duraturo del bene,

che ora ha smarrito nella spelonca

dei giorni la ragione segreta

di questo suo lunghissimo andare.

 

*Eschilo, Agamennone, traduzione di P.P. Pasolini.

 

 

Leggere il poemetto di Ugo Cerio è come sfogliare un libro di storia. Ma è attraverso un atto di empatia che cogliamo il fil rouge che lega la composita prima parte, ricca di particolari storici e geografici, ambientali e paesaggistici, alla seconda, filosoficamente più interessante, a mio parere.

Exodus come fuga in massa di popoli, come fuga dal reale per sottrarsi al suo deludente ritmo di evenienze effimere e mutevoli, tragiche e fatali.

Nuclei fondamentali sono il dolore della separazione, la lacerazione dell’abbandono, il senso di sperdimento e infine la perdita dell’identità.

Eppure non per tutti l’esodo rappresenta ciò. Per gli Ebrei l’exodus fu ritorno alla terra promessa, per Enea fu il compimento di una profezia, non già un viaggio rinunciatario, ma un desiderio impellente di riscattare l’esistenza abbrutita dalla sconfitta per un’altra di elezione.

E ancora, exodus come stimolo alla conoscenza, come consapevole ricerca lungo le strade del mistero con l’illusione o la presunzione di penetrarlo in questa terra.

E infine l’uomo che lascia la sua terra, esplosa nei suoi valori, nelle sue formule e nelle forme interiori, vittima di soprusi e violenza, non più culla ma letto di morte per migliaia di esseri umani, molti appena affacciati alla soglia della vita. E per mano di altri esseri umani. Sicché l’esodo non è ritorno, non è viaggio, ma fuga di popoli interi che migrano, che lasciano la loro storia, la propria tradizione per trasformarsi in personaggi senza storia. E vanno alla ricerca di un’identità in un’epoca come la nostra senza più identità, ma soprattutto senza pietas.

Il naufragio di barconi stracolmi di esseri umani in fuga che troppo spesso avviene sulla rotta verso il Mediterraneo non è solo un simbolo, è l’ironia che serpeggia nel destino.

Nella seconda parte intravedo analogo e diverso tentativo di esodo, di fuga, di viaggio tra i mari del tempo per quell’appartenenza perduta. Per ritrovare se stessi nel dolore, nella preghiera, nel dialogo profondo nei fondali dell’animo, laddove non esiste finzione, dove regna il mistero, dove occorre tanta pazienza. E che in definitiva è segno d’Amore, è un atto d’Amore.

L’Amore, che realizzando il sentimento dell’umanità, crea negli uomini una condizione di perenne insoddisfazione, di assidua brama, in definitiva di costante ansietà. Una specie di sgomento che si chiama malinconia.

Malinconia che diventa l’emblema dell’uomo vero, che è speculare all’entusiasmo. Che esprime una sete di conoscenza inestinguibile, mai appagata, dando luogo spesso a sentimenti di delusione, perfino di stanchezza. Ma è proprio questa condizione che accende il desiderio.

Exodus, mio exodus terribile,

che mi dai insaziata libertà

e speranza di vivere e amare

.................................................

Exodus, oh! mio exodus

atteso una vita,

sei fuga interiore alla luce

da un oscuro ignoto,

crollo aereo che esplode nel buio

e infrange barriere del cuore...

 

Una inquietudine che non ci fa distinguere facilmente il vero, e quanto più ci mettiamo sulle sue tracce tanto più la fuga dal reale diventa una necessaria condizione. Solo in tal modo è possibile distinguere il vero dal falso e giungere alla consapevolezza che tutto ciò che appare, la vita stessa, è il sogno di un’ombra come recita Euripide in Plotino. Di qui l’arduo compito di cercare e credere in “realtà” altre, metafisiche, oltre il tangibile

 

“Quam ob rem toto illo tempore quo sublimis animus in infimo agit corpore, mentem nostram velut aegram perpetua quadam inquietudine hac et illac, rursum deorsumve iactari nec non dormitare semper et delirare Pythagorici et Platonici arbitrantur singulasque mortalium motiones actiones passiones nihil esse aliud quam vertigines aegrotantium, dormientium somnia, insanorum deliramenta, ut non iuniura Euripides hanc vitam umbrae somnium appellaverit”

 

(Plotino Teologia platonica libro XIV, cap. VIII)

 

Dunque tali fughe interiori, anzi ex interiore, non sono altro che ricerca, una sorta di arte maieutica sulla via della conoscenza e della compiutezza del destino dell’uomo.

In conclusione è questo il pathos del poema. L’andare come mezzo di conoscenza di sé e del mondo, come ricerca delle condizioni esistenziali dove si possa contemplare il mistero della vita, mentre lo si vive. Per far ciò occorre però superare l’inquietudine, non solo quella interiore, ma quella del viaggio in cui l’uomo si trova ad affrontare il tempo. O del viaggio nel quale, attraverso la memoria, l’uomo cerca la sua storia

 

Exodus, mio exodus senza fine,

errare senza sapere più dove,

viaggio che comincia alla luce

del fuoco greco e di tede augurali,

fino alle torce, alle lanterne a gas,

alle gelide lampade del neon

e al raggio tagliente del laser,

mio exodus ancora senza fine,

oh! exodus senza mai una fine,

senza vanità di gioie e speranze,

ebbrezza di avventure mai vissute,

sei la storia della vita dell’uomo,

 

 

E questo è il pathos che pervade l’intera lirica, dall’andamento a volte prosastico per la sovrabbondanza descrittiva, e per la mancanza di un labor limae efficace, che togliendo verbosità, doni un po’ piu di armonia e musicalità.

Adriana Pedicini

 

Inviate le vostre poesie a     adriana.pedicini@virgilio.it

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L'oroscopo letterario di Novembre

6 Novembre 2018 , Scritto da Loredana Galiano Con tag #loredana galiano, #astrologia

 

 

 

 

Bentornato Novembre!

La grande novità di questo mese è l’entrata di Giove nel segno del Sagittario. L’ottimismo è finalmente più espansivo, ingenuo, avventuroso, con la voglia di esplorare e di andare oltre i propri confini, Giove espande tutto ciò che si ha voglia di fare, per esempio studiare, approfondire le proprie tematiche, conseguire un master, ottenere maggiori livelli di insegnamenti, conseguire finalmente una cattedra definitiva.

Giove vi suggerisce di comprare uno zainetto e viaggiare con gli occhi di un bambino e con la curiosità di un adolescente. E’ bellissimo questo Giove nel segno, perché è il governatore del Sagittario, esprime al massimo le sue qualità.

Transita in un segno di fuoco, un fuoco che non divora, non fa nessun danno, non eccede con la sua megalomania, non vi fa essere al centro dell’universo, ma che vi sprona a muovervi e non rimanere fermo in un punto dove la pianta non cresce.

Si prenota al volo un viaggio in treno o anche facendo l’autostop, l’importante è uscire e avventurarsi per le strade sconosciute.

E’ un transito ottimale per l’Ariete e il Leone, a seguire i nativi dell’Aquario e della Bilancia. Poco proficuo ma sicuramente stimolante per i nativi dei Gemelli, dei Pesci e della Vergine. Per i restanti segni è un transito neutro e in questo caso è da considerare il proprio tema natale per vedere in che casa transita e quindi dare le giuste interpretazioni.

Inoltre e finalmente, il 16 novembre Marte entra nel segno dei Pesci, dopo mesi in Aquario, ora le energie si disperdono nelle acque dell’oceano;

  • Mercurio è nel Sagittario, la comunicazione diventa più spontanea e ingenua;
  • il 23 novembre il Sole entra nel Sagittario, buon compleanno ai nativi;
  • Urano rientra nell’ultimo grado dell’Ariete, per dare il suo ultimo colpo di assestamento ai nativi del segno.

Si forma così un caloroso stellium nel segno del Sagittario: una bellissima rinascita, un ottimo inizio con grandi novità e buone nuove.

 

Ariete:  21/03 – 20/04:  espansione

Giove è una manna dal cielo per voi, finalmente potete tirare dei sospiri di sollievo per un anno intero, caratterizzato da una grande energia e vitalità, le vostre parole d’ordine sono crescita, espansione e successo. Certo, la quadratura di Saturno e Plutone può frenare le vostre ambizioni di ottimismo e giovialità, ma fate in modo di trasformare qualcosa di impossibile in grandi occasioni fortunate centrate appunto da Giove.

Un romanzo da leggere : “Gino e Fausto, una storia italiana” di Franco Quercioli. Gino e Fausto, Bartali e Coppi: un racconto che intreccia le biografie dei due campioni leggendari sullo sfondo di un’Italia fotografata nel cuore del ‘900.

 

TORO:  21/4 – 21/5:  in netto recupero

Siete stati sottoposti ad una visione pessimistica di Giove opposto. Ora, finalmente dopo un anno di difficoltà di vario genere, potete riprendere in mano le redini della vostra vita, a partire dai vostri rapporti personali, con gli altri e dalle semplici conoscenze agli amici. Recuperate fiducia, serenità interiore. Anche il vostro portafogli comincia a sorridere e vi sentite più motivati e sicuri di voi. Avanti tutta!

Una biografia da leggere: “Pantani era un Dio”  di Marco Pastonesi. Lo scrittore ricostruisce la carriera di Pantani raccogliendo le testimonianze inedite di chi lo ha frequentato da vicino, i suoi gregari, i dirigenti sportivi, gli amici delle piadinerie.

 

GEMELLI:  22/5 – 21/6:  evoluzione e cambiamenti

Ora Giove si pone in opposizione e potrebbe creare qualche intoppo, qualche contrattempo e ritardi. Possono verificarsi cambi bruschi di situazione in tutti i campi e difficoltà a prendere decisioni. E’ un transito che vi invita a prendervi una pausa dall’eccesso di attivismo che di solito vi contraddistingue e dare qualche taglio a quelle cose non necessarie e che tolgono troppe energie, in cui spesso vi dilettate. Ora dovete prendere tempo per veder chiaro e riflettere prima di agire.

Un romanzo da leggere: “Al mattino stringi forte i desideri” di Natasha Lusenti. Una delle voci radiofoniche più famose d’Italia ci regala un romanzo che aiuta a guardare la vita da una nuova prospettiva, una storia che mette di buonumore.

 

Cancro: 22/6 – 22/7:   via dal nido

Uscite arricchiti e soddisfatti dalle esperienze positive dal transito di Giove nello Scorpione, ora potete continuare a godervi questa sensazione di serenità e pienezza perché il resto del cielo, seppur presenti nuvole come Saturno e Plutone, riuscite comunque a risvegliare la voglia di uscire fuori dal guscio e muovervi prenotando un viaggio anche per un solo fine settimana fuori casa o solo visitando una città ancora sconosciuta.

Un’autobiografia da leggere: “Leopard Rock” di Wilbur Smith. La storia vera mai raccontata di una vita incredibile, dall’Africa selvaggia al gotha della letteratura mondiale. L’avvincente memoir del maestro dell’avventura da oltre 130 milioni di copie vendute.

 

LEONE:  23/7 – 22/8: ritornate a veder le stelle

Il transito di Giove nello Scorpione vi ha tolto mordente e ottimismo. Ora il pianeta si pone positivamente segnando una specie di rinascita e rinnovamento di energie psicofisiche. E quando ci si sente bene interiormente le cose migliorano anche intorno a voi, è probabile che ora troviate soluzioni inattese e propizie a diverse situazioni di  stallo che si erano create nei mesi passati.

Un romanzo d’amore da leggere: “Noi siamo tutto” di Nicola Yoon. La giovane Maddy vive segregata in casa per via di una malattia. Ma l’amore per il nuovo vicino Olly le stravolgerà la vita. Per mesi in vetta alla classifica dei best – seller del New York Times.

 

VERGINE:  23/8 – 22/9: qualcosa di diverso

Giove si pone in quadratura al vostro Sole e potrebbe affaticare la mente e abbassare il tono vitale, bloccare alcune situazioni e portare spese inattese. Ci sono pensieri che saranno fonte di diversi problemi e pressioni e ci sarà qualche difficoltà a trovare soluzioni immediate. E’ un transito che offre occasioni per allentare il controllo sulla propria vita, un incentivo a uscire dal seminato, dalle solite abitudini, a rompere la quotidianità, per fare qualcosa di diverso, nuovo e realizzare un desiderio insolito.

Una storia vera da leggere: “La felicità non sta mai ferma”  di Chiara Garbarino. La storia di un bambino difficile, di una madre tenace e degli ostacoli che hanno dovuto affrontare per superare i problemi e vincere i pregiudizi.

BILANCIA:  23/9 – 22/10: ampliamenti

L’armonioso sestile di Giove è come la ciliegina sulla torta di un lungo periodo sottolineato da astri amici e fatti positivi, specie da quando Urano si è tolto davanti la vostra strada. E’ una boccata d’ossigeno contro le ostilità di Saturno e Plutone. Ottimo è il vostro tono vitale, felice lo stato d’animo e avete l’impressione di camminare su una soffice nuvola. Certo non perdete la testa, ma Giove positivo contribuisce attivamente alla vostra crescita personale, al successo professionale alla riuscita dei rapporti interpersonali.

Un romanzo storico: “Dawla” di Gabriele Del Grande. Dawla in arabo significa “Stato” ed è uno dei modi in cui gli affiliati dell’Isis chiamano la propria organizzazione. Del Grande è andato a incontrarli e questo libro è il racconto delle loro storie.

 

SCORPIONE:  23/10 – 21/11:   sempre ottimisti

Il passaggio di Giove nel vostro segno ha inciso favorevolmente nella vostra vita, aprendovi a diverse esperienze e possibilità di cambiamento e miglioramento della loro vita. L’uscita del segno del pianeta della fortuna lascia certamente una lunga scia positiva che, sapientemente sfruttata, dà vantaggi utili a lungo. I semi gettati da Giove nel corso del suo transito in Scorpione, infatti, crescono nei mesi seguenti e danno i loro frutti. Basta saper aspettare!

Un romanzo da leggere: “Volevamo andare lontano” di Daniel Speck. Uno straordinario best – seller che ha già conquistato 300.000 lettori. Una storia famigliare che varca i confini. Un grande amore che attraversa il tempo.

 

SAGITTARIO:  22/11  - 21/12:  al top

Ora siete al centro del mondo, Giove rientra a casa e vi preparate ad un anno di ottimo umore, grande apertura e crescita, durante il quale vi sentite superfortunati e al centro dell’Universo, con la fortuna di sperimentare nuove idee e modi essere, buttarsi in mille progetti e avventure. Fate attenzione a ponderare con giudizio le occasioni, non prendete lucciole per lanterne!

Un romanzo da leggere: “Il catalogo delle donne valorose” di Serena Dandini. Storie di donne tenaci, artiste, scienziate, musiciste… a ciascuna è dedicata una rosa, che come loro sfida ogni avversità per fiorire.

 

CAPRICORNO:  22/12 – 20/1:   gratificazioni e soddisfazioni

Per voi nativi, il transito di Giove ha dato i suoi buoni frutti, ora potete vivere di rendita, sapete sfruttare ancora i suoi doni con investimenti e guadagni, con collaborazioni e riconoscimenti. E’ un buon momento per le relazioni sociali, con la voglia di conoscenze nuove e inusuali, magari in ambienti mai frequentati prima.

Un romanzo distopico da leggere: “The cage” di Lorenzo Ostuni. Un thriller tra realtà e fantasy che narra le vicende di Ray, misteriosamente rapito e chiuso in una cella con altri sei prigionieri.

 

AQUARIO:  21/1 – 29/2:  amicizie amorose

Anche per voi il transito positivo di Giove è un toccasana che vi permette di allentare le tensioni, riequilibrare lo spirito e ritrovare fiducia nel futuro. Dopo un periodo di blocco, durante il quale è stato necessario fare scelte anche sgradite. Ora, voi potete ricominciare a fare progetti di crescita e cambiamento, migliorando anche i rapporti sociali, tornano ad ampliare il giro di amicizie.

Un romanzo da leggere: “Se vuoi vivere felice” di Fortunato Cerlino. Nella testa di un ragazzino cresciuto in mezzo alla strada, fra inseguimenti sul Califfone e sparatorie in pieno giorno, ogni cosa può diventare magica. La storia di un bambino salvato dalla fantasia.

 

PESCI:  20/2 – 20/3:   nuovi traguardi

Dopo un anno vissuto sull’onda dell’entusiasmo e delle novità, dovuti al trigono di Giove, ora potete subire qualche piccola battuta d’arresto. Potrebbe esserci un ridimensionamento degli obiettivi e di alcuni progetti. E’ fondamentale non lasciarsi andare al vittimismo ma guardare la realtà con un sano distacco. Giove in quadratura vi costringe a fare una cernita delle cose per le quali vale la pena spendersi e quelle da lasciar perdere. Alla fine del transito rimane solo ciò che è veramente essenziale e significativo.

Un romanzo da leggere: “Figlie del mare” di Mary Lynn Bracht. La storia di due sorelle il cui amore resiste e lotta nonostante gli orrori della guerra, la violenza degli uomini, il silenzio di oltre mezzo secolo finalmente rotto dal coraggio femminile.

 

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Percorrendo il cammino poetico di Michela Zanarella

14 Aprile 2015 , Scritto da Claudio Fiorentini Con tag #claudio fiorentini, #poesia

Percorrendo il cammino poetico di Michela Zanarella

Nel 2006 pubblica “Credo”

Osservatrice, ma non sempre osservatrice allo stesso modo. Inizia osservando cose e situazioni, quasi volendole descrivere, cose come lampada accesa, tinozze colme, neve pini e sentieri, diciamo che i primi passi poetici di Michela Zanarella sono pittorici. Alcuni versi, i primissimi, dove la rima si affaccia birichina, non ritraggono ancora la profondità di Michela, ma sono pur sempre parte di un ritratto, raccontano l’inizio di una storia. Credo è quindi il lavoro più dinamico, presenta uno sviluppo molto rapido e passa dal dipinto alla contemplazione dello stesso in poche pagine. L’incontro con la morte sembra il punto di svolta, acquisendo la matura consapevolezza che a un certo punto le persone, dopo esserci state, non ci sono più, l’autrice smette di guardare in basso e comincia a guardare su, trovando il senso che piano piano, verso dopo verso, si plasma nella propria percezione.

Seduta davanti

A una pallida luna

Poetando versi d’amore

Tra infinite stelle

In una notte silenziosa

Ispirata

Da lieve brezza marina

Ecco la consapevolezza non più descrittiva che caratterizza la poesia più matura di Michela, comincia a farsi prepotentemente avanti. Lapilli. Non a caso la foto della locandina ritrae lapilli.

Ma la poesia di Michela può anche diventare un grido accusatore:

ladri di verità

profeti dell’esoterismo

picchiatori dell’onestà

destreggiatori di ipocrisia

imprigionati

nel girone infuocato

dell’inferno.

Si affaccia anche la sensualità, ma non è dichiarata, semmai è materna, tra l’altro la figura della madre fa spesso capolino qui e là. Anche la sensualità del sonno, dove l’essere donna di Michela rispetta il riposo dell’altro e lo osserva reprimendo le proprie aspirazioni nella contemplazione. Ridiventa un pulcino mentre, ammirata dal fluido vitale che traspare dalla pelle dell’altro, si lascia andare al sogno.

t’abbraccerei

finché il giorno non arriva

Finché i sogni

spengono la realtà

Finché una voce

sussurra eterno amore

Ma chiudo gli occhi

E vicino a te

M’addormento

Nel 2007 pubblica Risvegli

Molte poesie sono notturne, e il rapporto con la natura domina gran parte delle scene. Per Michela la poesia è un nettare, e come tale va succhiato dall’ape:

O poesia, nettare prelibato di pazienza

Dice Michela, e sembra che il titolo della sua seconda raccolta, Risvegli , sia quanto di più azzeccato. Sorge la poesia, cresce e borbotta, come se il vulcano che si preparava ad eruttare finalmente lo può fare zampillando libero con lanci di lava e lapilli che di lì a poco diverranno pietre. Ma è un’eruzione gentile, si può contemplare, non siamo davanti ad un vulcano assassino, non presentiamo tsunami o terremoti, è solo un borbottio che finalmente salta.

Ed è in genesi che si manifesta interamente. Dice Michela: nata per essere libera, e questa liberazione la porta all’allegria del giardino con l’erba che cresce, del granaio con i suoi odori, sembra di sentire gli odori della campagna, l’erba falciata, il fieno, si sentono anche i suoni, il frinire delle cicale, i grilli, qualche muggito… fino a ritrovarsi al mercato dei sogni, dove donne e giovinette con le gonne al vento van di fretta. Immagini della vita quotidiana: pigolante, gaia, vita che si risveglia dopo aver stentato a capire che gioia e dolore altro non sono se non indispensabili ingredienti del divenire umano. Ecco il senso di risvegli, giocosa, quasi trilussiana, quando dice: Nell’ombra un’ape ancora insonnolita si avvicina al candido fiore, del profumo si compiace e zitta zitta si innamora.

Poi ritrova le care montagne e capisce quanto sia bella e grande la distanza tra loro e lo sguardo.

E finalmente la descrizione, l’identificazione, la sensazione dell’amore condiviso, realizzato o no, poco importa, comunque è un discorso a due, e anche qui non conta l’oggetto del componimento, conta il percorso interiore che ci porta a comprenderlo, la ricerca dell’anima in ogni gesto di vita.

L’incanto fu

Tessere la tela del nostro vivere

Scegliendo d’essere meta l’uno dell’altro

Stringendo le nostre certezze al petto

Con tutta la forza di chi non teme nulla

Beato il divino

Che ci ha uniti quel giorno

Seguendo questo percorso si trova anche il figlio, cos’è un figlio?

Carne e spirito inediti alla vita

Nel passo successivo sembra che l’autrice abbia preso coscienza che la vita è profonda e che l’immobilità umana ha le sue dinamiche, tormentate dalla natura che ci contempla, forse ride di noi, ma è comunque afflitta dal nostro allontanarci, non si cura di noi che la maltrattiamo senza ascoltarla.

Michela, crescendo, non è più la poetessa che ascolta i grilli e le cicale, o forse lo è ancora, ma in modo ben diverso, non racconta più, ma si fa ambasciatrice del mondo che, ci trasmette Michela, attraversa ogni istante la fredda pianura, e dal silenzio di un cortile, non riesco a trattenere le lacrime per la mia assenza

Nel 2009 pubblica Vita, infinito paradisi

Essere consapevole, fino all’ultimo sorso d’orizzonte, della propria vita, della propria limitatezza, del proprio essere nulla oltre la coscienza, e quindi questa coscienza deve vivere pienamente, per cui ogni istante, ogni momento va vissuto sapendo che i piedi calpestano la superficie della terra e che sotto la terra c’è un bollore incessante, mentre la testa si avvicina, nel limite della nostra statura, al cielo, e sopra, sopra il cielo, e più su ancora c’è un movimento misterioso. La superficie della terra è il linguaggio con cui ci parla, ciò che vediamo è un’espressione della natura, e noi ne percepiamo ciò che ci consentiamo di percepire, comprendiamo ciò che delimita la nostra coscienza. Noi non vediamo ciò che è, ma solo ciò che ci aggrada vedere. E dicendo

Beate le onde

zingare perenni

Ci fa capire che non si è liberi come le onde ma fissi come uomini, e piangiamo l’orizzonte lontano, sempre irraggiungibile.

Vissi a lungo sperando che il carretto

Della mia inquietudine si fermasse

A fiancheggiare le pupille ardenti

Della giovinezza

Portando la mia anima

A contemplare quel domestico

Infinito rannicchiato nella luce

L’infinito domestico, quello che scopriamo vicino a un caminetto, dietro a una finestra, nel pentolone della polenta, nel racconto dei nonni… ma poi la strada ci prende sempre e quell’infinito non è più tale, ed occorre andare oltre la superficie, ma… ma anche se scavi la terra, quello che vedrai sarà sempre superficie. Solo da morti si entra nella terra e la superficie non è più.

Nel 2011 pubblica Sensualità, e nel 2012 pubblica Meditazioni al femminile

Qui sembra tornare alla contemplazione delle cose e delle situazioni, è come se la poetessa avesse voluto, dopo un viaggio iniziatico, tornare a ciò che l’ha animata, tornare alle origini, avendo coscienza di aver compiuto un cammino che l’ha portata a vedersi dentro. La capacità di osservazione è molto più acuta, l’aggettivazione si è andata via via diradando, ed ecco che

Trasloco lacrime

In un tappeto

E poi

Era bacio maledetto

Quell’arteria di luce

Chiusa nelle ultime saggezze

Di novembre

E finalmente si affaccia anche la fede, in ho pensato a te, Dio

È tempo di accendere preghiere

A riempire di grazia

Qualche itinerario d’anima.

Ho pensato a te, Dio,

quanto poco è il mio senso

di donna

senza l’ossigeno della tua luce.

Nel 2013 pubblica L’estetica dell’oltre e nel 2014 Identità del cielo

Arriviamo alle ultime poesie, dove il verso è maturo, asciutto, non più descrittivo, meno aggettivato, dove il lettore non viene più accompagnato alla lettura, ma si trova da solo, a combattere con versi scuri, sebbene sempre accesi, come se si passasse da uno spiraglio di luce per emergere di nuovo a quanto il dubbio esistenziale ci consente di capire, dubbio che alberga in tutti noi, che occorre esplorare per vivere le proprie ansie, i propri amori, e per percorrere la propria strada, per aprire le ali e spiccare il volo.

Essere nel tempo

Che ti sfoglia

Corpo e distanza

Come sudario nel cielo.

Ripetere membrane

D’aria

Un silenzio

E l’ombra di un umano

Azzurro

Accettando il ritmo

Di epidermidi e meteore.

Quel che vuole il mondo

Resta impronta creduta contorno di luce,

poi nel vero

strofinato il fango

si vede un limite in somiglianza a polvere

che dispera.

Michela ci travolge come i lapilli di un vulcano che erutta senza aggredirti. I lapilli, ricordiamo, sono fuoco e diventano pietra. E se le parole sono pietre, cos’erano prima? Quindi mi piace chiudere questo mio intervento, prima di dare la parola all’autrice, con questi suoi versi:

Comincio dalla polvere di un ricordo

Come qualcosa che amo

Claudio Fiorentini

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Le favole cubane di Josè Martì

7 Maggio 2014 , Scritto da driana PediciniA Con tag #recensioni, #adriana pedicini, #gordiano lupi, #fantasy, #saggi

Josè Martì

Fiabe cubane

Ediz. Il Foglio

Narrativa cubana

Traduzione a cura di Gordiano Lupi.

 

“Sono tutte fiabe popolari che a Cuba vengono lette ai bambini. Non esiste persona che non conosca queste storie, raccolte da Herminio Almendros (1898-1974), un editore-scrittore-pedagogo ispano-cubano, noto per aver pubblicato Habia una vez (C’era una volta), il più noto libro di fiabe cubano. Almendros fondò l’Editorial Juvenil, prestigioso antecedente della Editorial Gente Nueva”.G.L.

Le origini della favola si perdono in un lontanissimo passato. Essa trae ragion di essere in quella cultura popolare e politicamente subalterna che nel rapporto conflittuale con i potenti esprime in modo semplice ed immediato le ingiustizie che quotidianamente deve subire.

Tra gli espedienti più comuni utilizzati dai compositori di favole vi è il ricorso a protagonisti tratti dal mondo animale, il che permette di osservare in un modo immediato comportamenti trasferibili al mondo umano. La chiarezza ed immediatezza del linguaggio fiabesco permette di recepire immediatamente la morale di ogni favola, sviluppando un dibattito sui temi evidenziati e su particolari vizi e difetti dell'animo umano sempre in dissidio tra bene e male, tra onestà e disonestà, tra arroganza ed umiltà ecc.

La favola, in quanto racconto fittizio che raffigura la verità in modo metaforico, coinvolge l'attenzione dei bambini e dei ragazzi su molti aspetti della vita, su lati del comportamento umano che, oltre che essere guidati da superiori ideali e valori etici, hanno bisogno di essere chiariti ed interpretati anche da schegge di buon senso, di terrena saggezza, di piccoli ammonimenti che, proprio perché più leggeri, più facilmente si insinuano nell'animo e spingono alla riflessione. E’ solo partendo dall’ osservazione dei comportamenti dei personaggi favolistici e dalla riflessione sui propri che fin dall’età infantile è possibile stimolare l’affettività, il rispetto, l’accettazione dell’altro da sé.

I temi della favola sono diversi e variegati: fatti della vita degli dei o di esseri superiori, degli animali, degli uomini colti nella loro quotidianità; i protagonisti sono spesso animali dotati di intelligenza e di parola umane, ma non mancano anche soggetti della natura inanimata.

Accanto agli animali è presente in questo mondo favolistico una umanità miserevole, colta nei suoi aspetti più dimessi, nella dura realtà del lavoro quotidiano: contadini, pescatori, pastori, rassegnati di fronte alle asperità del vivere, incapaci di trovare scampo ai soprusi della ingiustizia sociale. Ad essi dunque dà voce la favola, che dissimula nella sua contenuta polemica e nel travestimento metaforico dei suoi personaggi "la protesta degli umili" e la disincantata rassegnazione delle classi subalterne.

 

La gallina d’oro

Il mondo si divide in due parti: i lavoratori onesti e gli approfittatori. La vita però non è destinata a diventare un peso per alcuni e un trastullo per altri. Sicché prima o poi chi non si adopera per lavorare non avrà la giusta ricompensa.

 

La piccola rana verde e l’oca.

La favola riprende un motivo caro a Esopo ed è rivolto a tutti coloro che sono agitati da ambizioni sfrenate causate dall’invidia. La natura ha segnato per ciascuno dei limiti e andare oltre porta alla rovina.

 

La margherita bianca

Narra della gioia di vivere, del tripudio all’arrivo della primavera in tutto il suo splendore e della felicità dei bambini all’unisono con la bellezza di fiori e di piccoli animali.

 

La cucarachita Martina.

L’incontentabilità porta fuori strada. La sorte che sembrava la migliore si rivelerà essere la peggiore, per la disobbedienza del topolino alle esortazioni di Martina.

 

Come accadde che il topolino Péres resuscitò.

Talvolta i miracoli accadono davvero, ma non bisogna aspettarseli dall’alto. Bisogna imparare la legge della condivisione sia nel dolore che nella gioia. Tutti i personaggi animati e inanimati hanno condiviso con un segno concreto il dolore di Martina, e, trovata la soluzione, tutti sono stati ampiamente ripagati dalla gioia dell’avvenuta guarigione, gioia che non è stata divisa, bensì moltiplicata e concessa a ognuno, come ricompensa della partecipazione fattiva all’evento.

 

Riccioli d’oro e i tre orsi.

Insegna che la gioia si trova nelle piccole cose

 

Pulcino Pino

Stare in guardia dagli astuti. Non sempre le compagnie sono buone e i consigli disinteressati

 

La gallina Rabona.

Chi non si accontenta del suo perde anche quello che ha. Mai agire in modo disonesto per appropriarsi di quello che non è nostro. Chi la fa l’aspetti!

 

Il gallo al matrimonio.

La cortesia va sempre coltivata, anche quando ci sembra fuori luogo. Non possiamo noi essere giudici degli altri. Pertanto bisogna essere disponibili alla solidarietà

 

Mezzopulcino.

L’egoismo non porta bene. Aiutare gli altri diventa un’occasione per migliorarsi. Rimanere sordi alle richieste di aiuto non consente di averne quando se ne ha bisogno e spesso con l’egoismo siamo proprio noi a metterci in situazioni incredibili e assurde.

 

Non mancano nella prima sezione della raccolta Filastrocche che ammaliano con la rima baciata e con immagini delicate dai protagonisti topici delle fiabe con protagonisti umani (il cavaliere, la gitana) o con animali come in Cucù e nel piccolo raffinato componimento cantilenante La lumaca

Più complessa la struttura e più ricco lo stile nelle Fiabe per Ragazzi.

In “Una monella di nome Nenè” il leitmotiv dell’amore paterno e filiale s’intrecciano con la descrizione della bellezza, del metafisico, della speranza in una vita migliore, e per colorare la tristezza di sottofondo causata da una grave assenza il narratore ricorre all’utilizzo di descrizioni intimistiche delicate, di metafore cariche di significato, di analogie di profondo sentimentalismo.

E poi c’è la vita, quella da scoprire attraverso l’esperienza. E l’esperienza ha i suoi tempi, le sue tappe. La protagonista, come ogni giovane e fertile mente, è assalita dall’ansia di scoprire subito tutto quello che c’è nel libro proibito, un gran librone carico di anni e pesante di vita vissuta che il papà le impedisce di leggere. Lo afferra una notte di nascosto e vi trova la vita nei suoi aspetti fulgidi e strani, proprio come il gigante monocolo dipinto nel libro, fin troppo vicino al ciclope di omerica memoria. Diversi uomini, di varie razze, tentano di risalire faticosamente la lunga barba dell’omone. Fin troppo chiara la durezza della vita per tutti, a qualunque razza si appartenga! Infine l’imponderabile, l’inaspettato, l’uomo nero ignudo, che rappresenta il superamento del limite, l’ubbidienza tradita e forse l’incognita che ci attende quando si devia dalla retta via, una sorta di peccato originale che già inficiò l’umanità di Adamo.

Travolta dal fascino dei colori con cui sono raffigurati nelle pagine seguenti numerosi animali, la protagonista si lascia andare al trafugamento dei fogli e, quasi estraniata, non si accorge del monito del papà sopraggiunto all’improvviso che l’osserva con sguardo accigliato.

La conclusione infine restituisce una bambina provata dal rimorso.

Bebè e il signor Don Pomposo” dichiara che la genuinità di sentimenti positivi appartiene all’infanzia. In un mondo in cui ad alcuni per sorte tocca una vita grama, al contrario di altri più fortunati che ottengono facilmente tutto, spesso gli adulti sono inadeguati a stabilire l’equilibrio e in una falsa torre di bontà dispensano doni a chi non ne avrebbe bisogno, trascurando di guardare oltre. Allora ci pensano i piccoli che in una sorta di slancio naturale mettono in pratica azioni di generosità a favore dei più deboli, soprattutto se bambini come loro.

Anche nella fiaba poetica “Le scarpette rosa”, ricca di descrizioni paesaggistiche e di dettagli personali, sorprende che l’iniziativa dell’atto generoso sia intrapresa da una bambina che rinuncia volentieri alle sue scarpine rosa, a cui tanto la sua mamma teneva, perché un'amichetta molto povera possa indossarle per giocare. Torna a casa a capo chino la bimba, timorosa per le conseguenze della disobbedienza, per giusta causa diremmo! Infatti non solo non verrà sgridata, ma addirittura la mamma l’esorta a far dono alla bimba povera di tante altre cose ancora.

Un quadro vero e proprio, una filigrana preziosa, un lavoro di cesello e ricamo è la fiaba “La bambola nera”. Minuscole pennellate di colore, lampi di luce che danno il senso pieno della descrizione attenta e meticolosa. Tutto è bello, raffinato, curato, le cose come i sentimenti, ma la crepa buia c’è perfino in questo mondo dorato. È ancora una volta la sensibilità della protagonista, una bimba di 8 anni, che in tanta festa per il suo compleanno, non riesce a godere pienamente della gioia dell’evento e dei regali ricevuti. Solo a sera, nel suo letto, ritrova la felicità abbracciando la bambola nera, il suo gioco preferito, da tutti trascurato perché considerato brutto e malconcio. Ancora una volta vien fuori l’amore per gli emarginati, così spontaneo in chi non è stato ancora “diseducato” dalle convenzioni sociali.

Il gambero incantato”. Molto frequente è il tema della incontentabilità umana, e molto fortunato nella tradizione favolistica. Attraverso una serie di episodi narrati con garbo e con dovizia di particolari, l’Autore sottolinea come il parossistico desiderio di possesso, di ricchezza e infine di mutare la propria condizione, alla fine porti alla rovina. Il non rispettare la misura è un grave danno. Ma la favola contiene anche un altro messaggio: il non darla vinta agli sregolati, fronteggiare la loro insaziabilità a qualunque costo, pena la rovina personale. Proprio come ci suggerisce il finale.

Un monito valido da sempre soprattutto nell’educazione dei figli. E’ facile constatare come i giovani di oggi abbiano desiderio, anche in fatto di morale, di punti di riferimento sicuri che con sofferenza talvolta cercano in comportamenti poco coerenti del tessuto familiare e sociale; e che spesso il loro recalcitrare di fronte a consigli e ammonimenti severi è solo un modo per mettere alla prova non tanto se stessi, quanto gli adulti (genitori ed educatori). Un obiettivo, questo, che pare felicemente raggiunto nelle fiabe dell’Autore cubano.

C’è da chiedersi perché le fiabe incontrino in genere tanto favore e perché questo genere letterario sia pratico laddove si cerchi il profumo della libertà.

Sicuramente la narrativa, specie quella di veloce sforzo creativo, di più immediato impatto, come il racconto o la favola, è stato sempre il genere trainante, prodromico alle forme più ampie come il romanzo. Inoltre quando le convenzioni sociali, le limitate libertà impediscono l’autentica estrinsecazione del pensiero, questo si fa scudo della metafora con cui critica la realtà e gli aspetti aberranti di essa, nascondendosi in un generale moralismo che non sempre coglie le peculiarità di una situazione, di un paese, di un popolo. Oppure si corre il rischio che il senso inebriante delle conquiste poco mature “accentui il divario tra l'ideale dei padri e la meschinità del presente, la religiosità e il misticismo un tempo tabù, la solitudine senza prospettive”.

Allora interviene la satira, o con atteggiamento molto più dolce e bonario, ancora una volta la favola.

E sicuramente un ruolo importante nel loro contesto hanno rivestito anche le fiabe di Josè Martì.

Un’ultima nota per evidenziare gli ottimi disegni di Roberta Guardascione e la traduzione straordinariamente ricca di pathos di Gordiano Lupi.

 

Adriana Pedicini

 

Josè Martì (1853 – 1895), considerato l’eroe dell’indipendenza

cubana, morì combattendo contro i colonizzatori

spagnoli. Fu poeta di radice whitmaniana, anticipatore

della poetica modernista (di lui si ricordano

soprattutto i Versos Sencillos del 1891, dai quali venne

estrapolato il testo canzone Guantanamera). Non fu

solo poeta, ma anche narratore per l’infanzia (fondò la

celebre rivista La Edad de Oro), saggista, uomo politico

e romanziere. Tutta l’educazione della gioventù cubana

passa attraverso l’insegnamento capillare della

sua opera. Nené traviesa è una fiaba pubblicata per la

prima volta sulla rivista La Edad de Oro.

Le favole cubane di Josè Martì
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L'estetismo di Oscar Wilde, prima parte

25 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi

L'estetismo di Oscar Wilde, prima parte

Oscar Wilde fece confusione fra vita e opera, tentando di gestire artisticamente la propria esistenza. Fu un personaggio molto in vista, l’esponente principale del Decadentismo inglese, come Baudelaire lo fu per la Francia e d’Annunzio per l’Italia; anzi, possiamo dire che Wilde fu l’estetismo inglese.

Con Decadentismo intendiamo un genere letterario e un atteggiamento che impregna di sé tutta la fine del secolo. Il termine fu usato per la prima volta da Verlaine, riferito alla pittura impressionista. In Inghilterra il romanticismo è messo in crisi dal compromesso vittoriano che si basa sulla grandezza inglese, sul filantropismo, sulla fiducia nella scienza. Gli ideali di uguaglianza e libertà sono accantonati, impera il romanzo di Dickens e Thackeray, incentrato sullo step up e sempre a lieto fine. La spina dorsale dell’Inghilterra economica è la classe mercantile che fa suo il moralismo calvinista e puritano. Il giudizio della società diventa più importante di quello divino, il sesso è un tabù. È promulgata una legge contro gli omosessuali maschi (non contro le femmine perché nessuno ha il coraggio di spiegare alla regina che esistono anche donne omosessuali) Wilde finirà in galera, a Reading Gaol proprio perché ammetterà di essere omosessuale. Wilde non si cura di nascondere le proprie tendenze, convinto della necessità di abbattere le convenzioni moralistiche in favore delle esperienze. Ostenta l’amicizia con il suo Basil, cioè Lord Alfred Douglas, la grande passione della sua vita. Il processo che deriverà da quest’amicizia, significherà la sua fine come scrittore e come uomo. È una tragedia della cui portata Wilde sarà consapevole fin dall’inizio e che sembra da lui quasi cercata. Al processo non si discolperà in nome della legittimità del suo essere gay. Pagherà di persona le proprie idee e darà l’ultima, definitiva, pennellata ad una vita artistica, non scevra, però, dal senso di colpa, che si ritrova in tutti i poeti decadenti, compreso d’Annunzio.

Poiché, dunque, tutti gli ideali romantici sono in crisi, si tenta di sostituire a essi le sensazioni, nasce così l’estetismo. Le sensazioni non sono più intese come la parte più bassa dell’uomo ma sono rivalutate in una prospettiva gnoseologica come forma di conoscenza. Il decadentismo inglese è una nuova fiammata romantica che brucia di sensazioni. Wilde, nato nel 1854, è culturalmente anglo-irlandese, influenzato dalla cultura dublinese della metà dell’Ottocento, dai movimenti estetizzanti di Oxford e dalla Francia. In lui manca completamente la componente puritana, il suo approccio alla vita è nel senso del godimento.

Wilde fa passare in secondo piano pittori e poeti importanti come i Preraffaelliti, Ruskin, Pater, Swinburne, con i quali l’estetismo ha una vita più sotterranea, mentre lui lo pubblicizza e porta nei salotti, dove fa presa con la sua vita, la conversazione, gli atteggiamenti. Ma tutti gli artisti suoi contemporanei entrano nella sua cerchia e lo influenzano. Morris incarna un estetismo pratico che vorrebbe cambiare la vita e legarla all’arte. Ruskin propugna il ritorno alla bellezza individuale, ai modelli ellenici, al gotico nordico. Pater vuole la liberazione dal cristianesimo, che impedisce all’uomo di godere sensualmente della vita terrena. Egli tende “all’arte per l’arte”, intesa come ricerca estetica e non più spirituale. Dante Gabriel Rossetti auspica il ripristino della pittura preraffaellita, essenziale e non di maniera. In realtà il suo tratto sarà botticelliano, languido, raffinato, di un sensualismo torbido e malinconico che riflette la spossatezza, il disagio, la mancanza d’ideali dell’epoca. L’amore stilnovistico è sensualizzato e la Beatrice di Rossetti ha proprio quel misto d’innocenza e perversità che tanto piace a Wilde. Swinburne è il maggiore poeta del decadentismo inglese, ripropone il ritorno alla paganità, alla pienezza della vita goduta e vissuta in tutte le sue esperienze.

Caratteristica delle prime opere di Wilde è l’ammirazione decadente del rinascimento e di Shakespeare, cui s’ispirano le sue prime poesie.

O listen ere the searching sun

Show to the world my sin and shame

(San Miniato)

To drift with every passion till my soul

Is a stringed lute on which all winds can play

(Helas!)

Requiescat, scritta in memoria di una sorellina morta a sedici anni, è una tipica espressione preraffaellita, con qualcosa di gotico.

Tread lightly, she is near

Under the snow

Speak gently, she can hear

The daisies grow

All her bright golden hair

Tarnished with rust,

She that was young and fair

Fallen to dust.

Lily-like, white as snow,

She hardly knew

She was a woman, so

Sweetly she grew.

Coffin board, heavy stone,

Lie on her breast,

I vex my heart alone,

She is at rest.

Peace, peace, she cannot hear

Lyre or sonnet,

All my life buried here,

Heap earth upon it.

Il giglio è ambiguo, è un fiore innocente ma dal profumo intenso, diventa qui simbolo di sessualità, come il “gelsomino notturno” del Pascoli. Nella poesia Madonna mia, dove ritroviamo l’immagine del giglio (come anche in Ave Maria Gratia Plena) abbiamo un chiaro esempio di stilnovismo preraffaellita.

And longing eyes half veiled by slumberous tears

Like bluest waters seen through mists of rain [...]

And white Throat, whiter than the silvered dove,

Through whose wan marble creeps one purple vein.

In Ave Maria Gratia Plena l’immagine della Madonna inginocchiata, “a kneeling girl with passionless pale face” ci rimanda a un concetto estetico, grazioso, della religione. Tutta la scena è senza passione, un atto di pura bellezza. Wilde tende a confondere l’etica con l’estetica e la Chiesa cattolica attira l’estetismo inglese perché fa appello ai sensi, fra paramenti, icone, inni e snervanti odori d’incenso.

Si richiama a Shelley, a D’Annunzio e ai quadri di Whistler, il quadretto in giallo In the gold room, con immagini impressioniste e corrispondenza fra suoni e colori.

Her ivory hands on the ivory keys

Strayed in a fitful fantasy,

Like the silver gleam when the poplar trees

Rustle their pale leaves listlessly,

Or the drifting foam of a restless sea

When the waves show their teeth in the flying breeze

Her gold hair fell on the wall of gold

Like the delicate gossamer tangles spun

On the burnished disk of the marigold

Or the sunflower turning to meet the sun

When the gloom of the jealous night is done

And the spear of the lily is aureoled.

And her sweet red lips on these lips of mine

Burned like the ruby fire set

In the swinging lamp of a crimson shrine,

Or the bleeding wounds of the pomegranate,

Or the heart of the lotus drenched and wet

With the spilt out blood of the rose-red wine.

Anche in Le Panneau c’è una descrizione, appunto, da pannello decorativo:

Under the rose tree’s dancing shade

There stands a little ivory girl,

Pulling the leaves of pink and pearl

With pale green nails of polished jade.

Con The harlots house, del 1885, Wilde supera il mero decorativismo dei suoi inizi, convogliando un messaggio di disgusto e stanchezza per la “deboscery”:

Love passed into the house of lust.

Lo fa con parole come harlot, cigarette e automatons, che sono nuove per la poesia dell’epoca. La sarabanda di automi ci ricorda Mary Shelley, Poe e Baudelaire. Molto più riuscita e malinconica è To L.L., dedicata alla moglie e al senso di colpa che aleggia nell’animo del poeta dopo la fine della famiglia e dell’amore. Non è più lo stile preraffaellita a saturare la poesia di odori e colori, bensì un’atmosfera triste e crepuscolare, che ci ricorda La pioggia nel pineto di d’Annunzio.

Could we dig up this long-buried treasure,

Were it worth the pleasure,

We never could learn love's song,

We are parted too long.

Could the passionate past that is fled

Call back its dead,

Could we live it all over again,

Were it worth the pain!

I remember we used to meet

By an ivied seat,And you warbled each pretty word

With the air of a bird;

And your voice had a quaver in it,

Just like a linnet,

And shook, as the blackbird's throat

With its last big note;

And your eyes, they were green and grey

Like an April day,

But lit into amethyst

When I stooped and kissed;

And your mouth, it would never smile

For a long, long while,

Then it rippled all over with laughter

Five minutes after.

You were always afraid of a shower,

Just like a flower:

I remember you started and ran

When the rain began.

I remember I never could catch you,

For no one could match you,

You had wonderful, luminous, fleet,

Little wings to your feet.

I remember your hair - did I tie it?

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Luisa Sordillo

25 Luglio 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto

Questo racconto di Luisa Sordillo ti graffia dentro, ti fa male a leggerlo.

La “mano caina” di chi non ha cuore, ma solo “un ignobile muscolo”, ha spezzato la vita di una creatura gentile. Chicca rimane bloccata, spaurita, trafitta da un destino inaspettato e crudele. Ci vuole coraggio ad affrontare questo dolore, narrandolo, nella speranza, purtroppo vana, che non accada mai più.

Storia di un grande amore, è la memoria struggente di un legame interrotto. Se si è avuta la sorte di incontrare un piccolo essere, un dolce animale dagli occhi “senza orizzonte”, le tracce del suo passaggio non ti abbandonano più, anche quando diventano solo frammenti di ricordo. Luisa Sordillo riesce a costruire immagini che scavano l’animo, sin dalla prima dolorosa descrizione dell’ultimo guaito della cagnolina “pancia all’aria, a ricercar la stella infausta”… E l’angoscia, per contrasto, riporta ai momenti di gioia, “con i rituali frenetici” del giornaliero ritrovarsi, con la “tiepida e svelta leccata sulla mano”, a quel tacito parlarsi, che è promessa d’amore eterno.

Tenero e delicato racconto, dove la pena per la perdita e per l’assenza si avverte non solo dalle dolenti parole, ma anche dal ritmo della narrazione, talvolta spezzato, quasi a trattenere il singhiozzo di un dolore mai spento.

Patrizia Poli e Ida Verrei

UNA FREDDA GIORNATA D'INVERNO

Giaceva immobile, come una giostra nel bel mezzo di un black out, braccata all’improvviso da un buio non annunciato e non prevedibile, senza messaggero tramonto. Pancia all'aria, a ricercar la stella infausta; le zampette indurite, come strette da una morsa di cemento, si presentavano senza direzione, sperduta la bussola, in ordine sparso. La coda, oscurato il sole, era come una foglia d’autunno, migrante e spaesata, senza consapevolezza alcuna.

Gli occhi aperti ma vuoti, lasciavano però filtrare la paura, il contorno infame dell’agguato in cui era caduta, l’incredulità, il tentativo vano di sottrarsi al destino.

L’avevo portata su di un palmo di mano una fredda giornata di inverno, premio ambito dei miei reconditi sogni di bambina, più volte domandato e più volte negato.

Anche io, in fondo, ero stata per lei un anelato premio: tutti conquistati dalla sua vivacità e dalla sua tenerezza di fiocco di vita, ma nessuno sufficientemente pronto a farne parte integrante delle proprie giornate e delicato bersaglio dei propri sentimenti.

Entrambe perciò ci facemmo l’occhiolino al primo sguardo, contraccambiando un affondo nel pelo incolto con una tiepida e svelta leccata sulla mano.

Era Chicca, questo il suo nome, un tenero incrocio tra un confusionario e allegro yorkshire ed un raffinato e scorbutico pechinese, di un colore talmente bello da sembrare una spiga di grano baciata dai raggi del sole, dipinta in un quadro d’autore, spennellato da dorate meches e lucenti e chiari colpi di sole, sogno di attrici e donne di classe. Il suo musetto vispo con il tartufo schiacciato, tipico del pechinese, la rendeva sufficientemente civettuola e femmina ed i suoi occhioni senza orizzonte, penetravano senza permesso dentro l’anima, facendo di quel castagno intenso un invincibile passepartout per strappare concessioni e sorrisi.

I primissimi giorni non si distingueva da un cricetino e trovava rifugio e diletto in una scarpa n. 45 che le era stata regalata come parco giochi a suo esclusivo dominio, dove esercitare ogni tipo di acrobazia e allenamento muscolare e dentario.

Ricordo ancora il primo cappottino di velluto rosso, cappa di marmo sulle sue fragili zampe e il collarino in tinta, con un campanellino che ne segnalava sempre la presenza, onde evitare misfatti indesiderati.

I momenti con lei sono indimenticabili. Rientrare a casa e vederla saltellare di gioia, irrefrenabile e con un tamburo battente al posto del cuore, assistere ai suoi rituali frenetici e alle sue inarrestabili corse per scaricare l’ansia e la paura del mio non ritorno, i suoi balletti da primadonna della Scala, leggiadra e piroettante come una trottola di seta.

In una parola, vita.

Quella che le venne miseramente portata via ancora in una fredda giornata d’inverno, cupa e piovosa, da quel destino scritto con inchiostro di uomo, brutale, impietoso, con un macigno nel petto, arido e grigio.

Un boccone avvelenato la prese per la gola, assatanandola, invadendola di fiele, logorandola fin dentro l’anima. Un addio cruento, vigliacco, insolente.

Una lacrima che ancora scorre, la mia , nel fragore di un gesto insensato, nella mano caina che restò in silenzio, nell’ignobile muscolo di qualcuno che al battito riconduce un cuore, nella cecità di una notte subdola, in un’assenza che scava e consuma, in un amore incondizionato inciso nel cuore, in un giorno d‘inverno che non porterà all‘estate, in quell‘ultimo gemito che non dimenticherò.

Luisa Sordillo

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Diario di Guerra - Dalla Libia all’Isonzo 1913 - 1919 di FELICE FOSSATI

28 Marzo 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #storia

Diario di Guerra - Dalla Libia all’Isonzo 1913 - 1919 di FELICE FOSSATI

Felice Fossati (1893 – 1964), nato da famiglia italiana a Romans, in Francia, studiò a Nancy e poi a Milano dopo il rientro nel nostro Paese con i genitori. Volontario in Libia, poi mandato sull’ Isonzo allo scoppio della Grande Guerra, nel 1919 torna finalmente a Milano, dopo un anno di prigionia in Austria.

Il diario (edito da Nordpress), piuttosto breve, inizia ripercorrendo l’addestramento del giovane militare. Dapprima viene mandato a Perugia, poi a Napoli; ha modo di apprezzare la maestosità delle città d’arte, ma anche di rimanere colpito dalle aree di degrado. Il testo contiene un riferimento al terribile terremoto di Messina di alcuni anni prima, in cui ci furono ben ottantamila morti. La scrittura è semplice, ordinata, precisa; impegnato in Libia contro i ribelli, si porta nello zaino Thérèse Raquin di Zola che si accinge a leggere per la quinta volta. I ritmi della vita militare nella colonia sono piuttosto lenti; le giornate sono animate dal Ghibli e dalle marce verso le postazioni interne da difendere dagli attacchi nemici. Ma gli scontri con la guerriglia sono poca cosa rispetto al fronte dell’Isonzo in cui Fossati viene mandato nel 1916. A Grado i soldati consumano del “buon pesce fritto”; ma nello stesso giorno, a San Canziano, vedono i segni della guerra, in particolare la chiesa scoperchiata in cui si sono rifugiati i pochi abitanti impauriti. Assalti alla baionetta, il fuoco delle mitragliatrici, bombardieri che dal cielo non danno tregua ai fanti sono il pane quotidiano. Sia da parte italiana che austriaca, gli attacchi sono condotti con la stessa folle temerarietà; le trincee si prendono e si perdono in pochi giorni. Nella zona di Doberdò, teatro di aspri scontri, furono presenti durante la guerra anche Mussolini e D’Annunzio. Lo scoramento davanti ai morti e ai feriti fa comunque apprezzare al giovane l’attitudine alla lotta del soldato italiano: “ … il soldato italiano nel corpo a corpo … è il migliore combattente, forse, perché più emotivo e facilmente eccitabile”. Emerge, larvata, la polemica verso gli imboscati che si trattengono nelle retrovie, lontano dalle trincee.

Nei pressi di San Giovanni di Duino, durante uno sfortunato assalto, nota: “ … molti nostri feriti giacevano vicino a feriti nemici, assistiti da due infermieri austriaci. Una parentesi di umanità nell’infuriare della guerra”. Ancora l’autore parla di azioni volte a prendere Trieste, ma in realtà la guerra resta statica e si continua a morire per conquistare pochi metri. Poi viene il disastro di Caporetto; Felice e il suo reparto ripiegano precipitosamente a Pozzuolo del Friuli dove offrono una dura resistenza al nemico, dopo che un’automobile con alcuni ufficiali è partita precipitosamente. Qui assiste al suicidio di due commilitoni: “ … il comandante la cavalleria e il nostro maggiore … quasi simultaneamente si puntarono la pistola alla tempia”. Fossati e i superstiti, rimasti senza munizioni, si devono arrendere. In Austria la prigionia si accompagna alla fame e alla noia, finché i prigionieri non ottengono il permesso di lavorare in una fattoria, dove Felice si lega a una donna ungherese. La notizia della fine della guerra arriva improvvisa. Si rientra finalmente in Italia e qui vengono inattese amarezze. I vinti di Caporetto sono oggetto di disprezzo e ciò ferisce chi ha fatto il proprio dovere. A Trieste e Pola alcuni civili insultano gli ex-prigionieri. In particolare i soldati devono subire un’umiliante inchiesta: “Evito di parlarne perché questa sorta di processo è il più vergognoso della nostra vita di combattenti”. In seguito a uno screzio con un ufficiale, Fossati viene trasferito in Sardegna.

Finalmente, alcuni mesi dopo, ottiene il congedo e l’11 settembre 1919 (la guerra è finita da quasi un anno) torna nella sua Milano, con ben poca nostalgia per la vita militare.

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R…umori da 8 marzo

8 Marzo 2015 , Scritto da Mari Nerocumi Con tag #mari nerocumi, #erotismo

R…umori da 8 marzo

Salve Donne,

oggi “finalmente” si parla di noi, e ininterrottamente direi…

Parlano di noi in tv, alla radio, sui social, in fila al supermercato …da non credere

per una volta all’anno si parla di noi senza limiti e confini, senza reti e muri … ma che ne è delle barriere e delle divisioni, di separazioni e incomprensioni, chiusure e ostruzioni?

Altro che pollai con recinzioni, qui ci spennano per bene…

C’è chi ci “incoraggia” a non tollerare più quello che uomini con la melma in testa ci infliggono.

C’è chi ci “compiange” perché, in qualità di sesso debole, rimaniamo intrappolate, vittime di situazioni da cui usciamo vinte, se non morte… (se non è sessista questo…!)

C’è chi ci “fomenta” esortandoci con energia a farci valere per quello che siamo (???)

C’è chi di solito dice che “un po’ ce la cerchiamo”, ma oggi lo dice a voce un po’ più bassa.

C’è chi dice che siamo belle, e mai come oggi va specificato “dentro e fuori”, chi dice che siamo “la vita, l’amore” come in quella canzone di Modugno, chi ci fa i conti in tasca e dice che sul lavoro prendiamo meno soldi degli uomini e chi ricorda che però siamo più brave a studiare e chi questo e chi quello e poi mi fermo qui perché sto cominciando a sentirmi un po’ Nino Frassica e un po’ Rino Gaetano!

Signore mie… qui si parla di noi come se fossimo delle polle e non delle pollastre, incapaci di intendere e di volere, ma soprattutto si parla di tutte noi messe lì nel pollaio…

non di me o di te o di Stella o di Marialella (la pollastrella bella)…

ma di tutte noi insieme come se la nostra complessità e molteplicità si potessero ridurre a “una sola polla” che sta lì a rappresentare tutto o niente da quando è nato il mondo fino ad oggi…

Per questo motivo oggi, in questo giorno tanto importante, grazie a chi macina stronzate non mi viene da dire altro che BASTA! Ci avete rotto li cojoni con le recinzioni da pollaio …quello che non sapete è che le pollastre, quelle vere, non si lasciano trascinare e rinchiudere in stereotipi di cui è facile riempirsi la bocca ma che, alla fine dei conti, non dicono nulla né di me né di Marialella …

Comunque, visto che oggi il mondo intero deve per forza parlare delle donne, lasciate che lo faccia anch’io, a modo mio:

Dunque, oggi voglio essere me e:

- Anastacia (mica poteva mancare) che zitta zitta (ma anche no… quando si fa fare certe cosette) pure l’ha fatto capitolare, il buon Christian (impresa non da poco direi!!!)

- Mafalda, l’amichetta di Linus, che dice: A una donna servono due cose nella vita, il senso dell’umorismo e un paio di scarpe rosse col tacco

- La protagonista di una vignetta che gira su Facebook e che (immagino con la voce di Califano) dice: LOTTO DA QUANNO M’ARZO

- La protagonista di una canzone di Liga che dice:

Femmina come la terra

Femmina come la guerra

Femmina come la pace

Femmina come la croce

Femmina come la voce

Femmina come sai

Femmina come puoi

Femmina come la sorte

Femmina come la morte

Femmina come la vita

Femmina come l’entrata

Femmina come l’uscita

Femmina come le carte

Femmina come sai

Femmina come puoi

- Me sola … che a #diamociunconsiglio, al posto della propria foto con un buon consiglio, ho inviato un’immagine con la scritta: Non importa quanta dignità tu abbia. Se un bambino ti passa una tazzina vuota, tu devi bere.

- Cenerentola (la più paracula di tutte!!!) che già sapeva che I sooooogni (avete capito quali!?!) son deeeesideri….

E dulcis in fundo…per la serata voglio essere…

- La protagonista di Albachiara di Vasco

Respirerò piano per non far rumore

farò pensieri strani…
… io sola dentro la stanza
e tutto il mondo fuori.

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