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Cerca risultati per “Aldo Dalla Vecchia Vita da giornalaia”

Giulia Madonna, "Amata Tela".

24 Febbraio 2015 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

Giulia Madonna, "Amata Tela".

Amata Tela

Giulia Madonna

edit. MUSICAOS: ED SMARTLT 07

pp.221

8,00

Una telefonata inattesa, una voce sconosciuta, un incontro.

Due vite si incrociano e nasce un amore. È storia di tutti i giorni, ma nel romanzo di Giulia Madonna diventa quasi miracolo, magia, una vampata che travolge e non lascia respiro.

Due protagonisti: Francesca, brillante studentessa in architettura, Eugenio, giovane artista squattrinato, un po’ folle, nevrotico, con un passato difficile alle spalle e tanti sogni di gloria. È una relazione morbosa, quasi incontenibile, una passione che l’autrice definisce più e più volte “sfrenata, folle”; un intreccio di turbamenti, impulsi irrazionali e sentimenti contrastanti, dove la felicità confina con l’ansia, l’angoscia della perdita, il timore di una libertà smarrita: fragilità e complessità interiore che travolgono, consumano, distruggono. E, come tutte le emozioni estreme, quest’amore finisce col trasformarsi: diviene lotta, competizione, una sorta di tentativo di sopraffazione, dolce e violenta insieme. Sicché i due protagonisti si tramutano in antagonisti, fino alla disperata rottura. Ma non sarà definitiva, c’è qualcosa, o meglio, qualcuno, che sarà il filo rosso che li terrà comunque uniti, il “segreto” legame che impedirà il distacco definitivo, e che si rivelerà soltanto nel finale.

G. Madonna è voce narrante, racconta in terza persona, ma sembra quasi che ci siano due livelli di narrazione, quella della protagonista femminile, e quella del comprimario maschile. Ognuno dei due è narrato, non descritto: situazioni, comportamenti, atteggiamenti, emozioni, vengono interpretati, dilatati, rivissuti; quasi un diario intimo, in cui si annotano e si fissano piccoli e grandi eventi quotidiani. Scarseggiano, invece, dialoghi e descrizioni d’ambiente, molto è lasciato alla fantasia del lettore; tutta la narrazione, nella prima parte del libro, è incentrata sulla psicologia dei personaggi, sulle loro percezioni fisiche ed emotive, raccontate, tratteggiate, spesso con enfasi e veemenza.

La seconda parte del romanzo appare più fluida, più strutturata; l’introduzione di altri personaggi vi aggiunge maggiore spessore; un intreccio di relazioni che non fa solo da sfondo, ma è elemento portante del resto della storia personale dei due protagonisti:

L’architetto Carlo Dell’Olmo, ricco di umanità e intuito; il giovane Eros, solare e talentuoso; la dolce Anita, paziente e fiduciosa; e poi i successi, l’evoluzione di entrambi i protagonisti nella professione, i gruppi di giovani artisti arrabbiati: tutto ci dà un quadro d’ambiente più articolato e accattivante.

Particolare suggestione acquista la presenza di un quadro misterioso, l’Amata Tela, opera di Eugenio, una sorta di ritratto di Dorian Gray alla rovescia: l’immagine di Francesca, ricostruita nel ricordo, che sembra sprigionare il potere di ricondurre indietro nel tempo, ai tempi del grande amore, mai finito.

E lì, di fronte a quel dipinto che non invecchia mai e che sembra parlare, Eugenio, diventato ormai “il vecchio saggio”, dà sfogo alla sua nevrosi, ma ne trova anche sollievo e cura. Dialoga con l’immagine, trae ispirazione per la sua arte, racconta, ricorda e rimpiange quel passato che crede perduto per sempre: “Eccoti, sei qui, finalmente! Sei tornata da me! Sì, quegli occhi sono proprio i tuoi e quelle labbra rosso fuoco che mi chiamano con insistenza sono proprio le tue… Hai visto che successo?... e tutto grazie a te che sai darmi i migliori consigli. Questo brindisi è dedicato a teSiamo ormai un’ottima squadra…”

Sono struggenti e farneticanti monologhi che rivelano l’animo tormentato dell’artista, ma anche l’amante appassionato, mai rassegnato all’assenza.

Nel complesso un romanzo piacevole, che acquista potere di coinvolgimento man mano che si prosegue nella lettura. Scritto con un linguaggio un po’ antico, classico, ricco di aggettivazioni ed espressioni enfatiche, ma con ottima padronanza e correttezza linguistica.

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La guerra dei prodigi. Una “corvée” degli Alpini a tremila metri

28 Febbraio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

La guerra dei prodigi. Una “corvée” degli Alpini a tremila metri

“11 Ottobre 1916 . A sera sono nuovamente di corvè. Avrei voglia di andare in fureria a protestare contro il modo di fare del furiere che continua a comandarmi di corvè anche quando non mi spetta; vorrei dire al furiere di fare le cose con un po’ di maggior giustizia e che uscisse dalla sua tana profonda situata nel Vallone, dove neanche un 305 potrebbe penetrare; ma non è questo il momento di protestare. I miei compagni aspettano il rancio, e compio anche questa volta, silenziosamente l’ordine ricevuto. Parto con cinque compagni.dal diario del caporale Arienti.

Eroi o vili, combattenti o di corvée furono sempre giovani ragazzi che si immolarono per la Patria o che vi furono costretti da decisioni prese dai loro comandi militari.

In ambito militare, la frase “essere di Corvée” designa un antico costume ancora in uso presso le Forze Armate, mediante il quale vengono stabiliti dei turni speciali per i militari, finalizzati a effettuare mansioni o servizi vari, quali compiti di pulizia delle camerate, dei bagni, oppure per la preparazione di pasti o di operazioni analoghe. In senso figurato, come nella vignetta sottostante, corvée significa anche “Qualunque lavoro pesante e ingrato”

Nel libro “Oscuri eroi con la fronte imperlata di sudore” è stata raccolta una sorprendente testimonianza scritta da Giovanni Biondi. La stesura è stata possibile grazie ai fogli manoscritti che la figlia dell’autore ha donato al Museo della Guerra Bianca.

Emerge dalle descrizioni precise e meticolose un’esperienza di guerra vissuta in prima persona da un militare arruolato nel Genio zappatori. Un uomo scrupoloso e bonario, animato da sinceri sentimenti di patriottismo, che prima della guerra era un impiegato di banca. Sono le vicende quotidiane di un semplice soldato e tutte le esperienze che aveva vissuto: le marce estenuanti, le corvée, le fatiche nel lavoro di “zappatore”, le sofferenze fisiche come fame e freddo, ma anche le soddisfazioni per i risultati ottenuti ed emerge, di volta in volta, il toccante racconto delle emozioni vissute alla vista della distruzione, della morte così presente e vicina, ma anche degli spettacoli della natura e della incontenibile gioia alla notizia della vittoria.

Per i militari al fronte furono corvée, fatiche, marce, servizi, ma non solo, fu anche e soprattutto l’esecuzione di ordini che conducevano al massacro. Come ho già ribadito, la grande guerra impose armi innovative usate con vecchie mentalità e tattiche militari superate, che erano alla base della formazione di gran parte dei generali, primo fra tutti Luigi Cadorna, un personaggio senza dubbio carismatico ma anche molto discutibile. Sono pochi i giudizi positivi espressi a favore del generalissimo, ma qui vorrei ricordare un episodio che lo vide protagonista e dove dimostrò la sua partecipazione alle sofferenze dei soldati e delle loro famiglie.

La storia è quella dei fratelli Pasquale di origine calabrese. Allo scoppio della guerra lasciarono la madre vedova, gli studi, il lavoro e partirono per compiere il loro dovere tutti e tre pieni di ardore e slancio verso la Patria.

Amedeo Pasquale morì in combattimento, si legge nella motivazione della medaglia d’oro al valor militare “tre o quattro volte conduce all’assalto i suoi soldati fedeli e prodi, finché conquista il trincerone, ne fuga i difensori e vi pianta le sue mitragliatrici che li fulminano. La ferita che gli sanguina non lo turba, egli incita i suoi soldati a resistere ad un ritorno offensivo degli austriaci, redire non est necesse, come il tribuno romano, cade ma si sorregge ancora per tenere ferma la vittoria, quando una nuova palla gli spegne per sempre i battiti del nobile cuore.

Il fratello Vincenzo morì invece sul Rombon colpito da un proiettile in fronte, e venne insignito di medaglia d’argento al valor militare.

Fu così che il terzo fratello Giuseppe, come un antesignano soldato Ryan, mentre stava combattendo sul Carso venne convocato dal generale Cadorna. Il generale abbracciandolo, come un figlio, lo congedò dicendo “Vada a fare compagnia alla degna sua mamma, alla quale tanto dobbiamo.

La guerra dei prodigi. Una “corvée” degli Alpini a tremila metri
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Matsuteia ed E.T.A. Egeskov, "Volevo essere un supereroe"

10 Novembre 2020 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #vignette e illustrazioni

 

 

 

 

Matsuteia ed E.T.A. Egeskov
Volevo essere un supereroe della Marvel – vol. 1

Amazon - E book euro 0,99 – Cartaceo 4,99
https://www.amazon.it/dp/B0865BNNV5/

Un agile volumetto che non pretende di essere esaustivo, solo di raccogliere una serie di curiosità sui supereroi degli universi Marvel - che sono davvero tanti (quasi 1000!) tra buoni e cattivi (persino più affascinanti) -, anche perché ci sono già molti saggi specifici che contengono di tutto sulla Casa delle Idee. Sono un fan della Marvel dal 1970, dal giorno in cui fui affascinato in edicola da L’Uomo Ragno contro Lizard, Editoriale Corno, subito dopo essere stato irretito da Mentre la città dorme, protagonista il Devil dal costume giallo e nero di Stan Lee e Wallace Wood. Confesso che leggo Marvel ancora oggi, certo solo i personaggi classici, cose nuove come Venom e Deadpool (che i ragazzi amano) un po’ mi disturbano, riesco ad apprezzare poco persino un grande disegnatore come Todd Mc Farlaine, cresciuto come sono a Ditko e Romita, per me il massimo di modernità restano Kane, Kirby e Buscema. Non solo, mi capita di vivere come un tradimento certe trasposizioni cinematografiche di Spider Man, soprattutto le ultime, mentre ho apprezzato molto il cartone animato di Sara Pichelli con il nuovo Uomo Ragno di colore (Miles Morales). Detto questo veniamo al libro, un piccolo e prezioso manuale che in certi casi dice cose che un appassionato conosce, ma in altri fa compiere vere e proprie scoperte al vecchio lettore. Per esempio mi è servito a capire che il nuovo Nick Fury cinematografico è il figlio di quello che leggevo negli anni Settanta. Poi fa piacere rileggere anche quel che sappiamo, trovarlo sistemato in maniera ordinata, come la storia su Spider Man che l’editore Martin Goodman proprio non voleva pubblicare: Chi vuoi che si appassioni alle vicende di un uomo con i poteri di un ragno? Per fortuna ebbe ragione la testardaggine di Stan Lee. L’Uomo Ragno conta versioni da romanzo grafico strepitose, vera letteratura a fumetti, oltre a una serie regolare che - tra alti e bassi - resiste in edicola dal 1962. Gli autori del libro raccontano lo sbarco Marvel in Italia, al quale ho assistito in prima persona, negli anni Settanta, prima su Linus (grande Oreste Del Buono, quasi mio compaesano!), poi su Sergente Fury (possiedo molti numeri), infine con la mitica Corno. I due autori non dimenticano le vicende moderne con Star Comics e Play Press, per poi parlare di Panini unica depositaria del verbo Marvel. Il libro analizza la continuity - fenomeno che rende diversa e unica la Marvel -, i cross-over, il primo eroe omosessuale, gli autori che hanno fatto la storia, i problemi con il Comics Code per la troppa attualità dei racconti (droga, razzismo, Vietnam …). Una sezione finale è riservata agli attori dei film che hanno impersonato gli eroi Marvel, importante per rendere il tutto più attuale e appetibile per i fan contemporanei. Per quel che mi riguarda resto legato al passato, al profumo di quella carta colorata della Corno, che oggi ritrovo - come una madeleine proustiana - nella collezione da edicola Super Eroi Classic, edita dal Gruppo  Rizzoli in collaborazione con Panini. Per chi ancora non conosce la Marvel questo piccolo libro è una vera e proprio guida virgiliana in un paradiso fantastico che noi ragazzini nati negli anni Sessanta abbiamo vissuto desiderando tutti trasformarci in Super Eroi Marvel! 

 

Per acquistare il libro: https://www.amazon.it/dp/B0865BNNV5/

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Per conoscere Guerrilla Metropolitana

25 Maggio 2021 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema, #interviste

 

 

 

 

Guerrilla Metropolitana è l’acronimo dietro al quale si nasconde un filmmaker indipendente italiano che vive a Londra e ha deciso di usare il genere horror per fare anche un discorso politico e sociale. Nasce musicista, passa poi al cinema indipendente. Influenzato da Neorealismo, Espressionismo, Surrealismo, Erotica, Pop Art e cinema Underground, gira i suoi lavori in puro stile guerrilla (senza permessi, con mezzi modesti e facili da trasportare). I suoi lavori sono fortemente sperimentali e puramente visual (senza nessun dialogo), usa il genere horror come mezzo per raccontare storie di disfunzionalità sociale. Oltre a essere regista e autore delle storie, è spesso attore di supporto, autore di alcune delle musiche, montatore (assieme al suo amico Peter Frank che è lì addetto al montaggio, spesso anche lui attore di supporto). Caratteristiche tipiche del suo cinema indipendente è il mischiare foto e inquadrature della stessa sequenza, la scelta di località urbane e il fatto che in tutti i lavori non ci siano personaggi eroi, ma solo antieroi. Non usa mai la computer grafica e sceglie argomenti che variano dall’ipocrisia del potere, alla follia dei serial killer, fino ad arrivare a temi politici in chiave horror.

Il suo canale YouTube ci porta nei meandri di un orrore senza redenzione.

Vediamo un corto intitolato BITS: https://youtu.be/caWsp8DRuN8.

Seguitelo! Ne vedrete delle belle. Noi, intanto, lo abbiamo intervistato.

 

Quali sono i tuoi registi di riferimento?

I miei registi di riferimento sono veramente tanti e ognuno di loro mi ha dato qualcosa anche se la maggioranza provengono dalla vecchia scuola italiana del cinema di genere (Deodato, Fulci, Lenzi, D'Amato, Martino, Scavolini, Bianchi, etc).

A quali progetti stai lavorando?

Ho scritto circa una trentina di storie horror diverse e ho intenzione di trasformarle tutte in corti e medi metraggi horror e alcuni persino in veri e propri mini film della lunghezza di circa 50/60 minuti (questi saranno quelli con forti venature politiche). I miei due prossimi lavori saranno due brevi cortometraggi horror assolutamente bizzarri e folli su due temi diversi e successivamente verso settembre, al massimo inizio ottobre, farò uscire sui miei canali di YouTube e Vimeo il mio primo mini film horror social-politico, dove il tema sarà la terrificante faccia della classe dirigente ai danni della sottoclasse (attraverso un storia da me scritta e dove io stesso interpreterò i due rispettivi ruoli come attore, in aggiunta a quello di regista, autore e compositore di musiche). In tutti i miei lavori ci sarà un mio carissimo amico, anche lui italiano residente a Londra, di nome Pietro (pseudonimo Peter Frank) e che è l'addetto al montaggio. Lui mi darà una mano a riordinare con il suo fondamentale lavoro tutta la mia follia creativa e visiva, inoltre sarà un regolare attore di supporto in molti dei miei futuri lavori (in questo mio primissimo cortometraggio BITS interpreta il ruolo del primo residente vittima di lei, nonché "uomo nero" sul poster stesso del mio film).   

Usi il genere horror per sconvolgere o per comunicare altro?

Ho intenzione di sviluppare un mio cinema indipendente del tutto personale, puramente visivo (senza alcuna forma di dialogo tradizionale) e fortemente influenzato dall'Espressionismo, Surrealismo, Pop Art ... fino ad arrivare all'erotico, underground ... ma partendo sempre da uno spunto sociale (in alcuni casi come alcuni miei futuri lavori, persino politico). Quindi un horror sperimentale che va contro corrente al contemporaneo mainstream commerciale e zuppo solo di sensazionalismi. Un horror che non ha paura di entrare nella psiche umana e non ha paura di esplorare disfunzionalità esistenziali in un contesto sociale folle come quello di oggi. 

Progetti futuri

Dopo questi lavori ce ne saranno tanti altri con cadenza più o meno bimestrale  e nel frattempo in aggiunta a questa trentina, continuerò a scrivere altre storie horror, da poter poi trasformare in futuri lavori. 

E gli attuali riscontri?

Il mio canale YouTube di Guerrilla Metropolitana in meno di due settimane ha già avuto quasi 2,000 visualizzazioni provenienti da tutto il mondo (in particolare da UK e in America), più quasi una settantina di sottoscrizioni. Si sta rivelando un successo ben maggiore di quello che mi aspettassi grazie a questo mio lavoro BITS. Alcuni festival horror inglesi hanno mostrato interesse per il mio lavoro chiedendomi dei prossimi. Ho mandato la link di questo mio cortometraggio a recensionisti e vari distributori internazionali. Sulla rete, in particolare Facebook,  ho già visto sia in America che Europa molti stanno pubblicando la link di BITS sulle loro bacheche.      

 

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

 

 

 

 

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L'altra metà di centrocampo, un progetto dedicato al football verso Qatar 2022

19 Settembre 2021 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #arte, #pittura, #sport

 

 

 

 
 
Esterno gelateria, estate romana, pomeriggio luminoso, Mario e Walter prima seduti poi in piedi a mangiare un gelato misto.
 
- Wa', sei pronto?
 
- Per che cosa?
 
- Per il 27 settembre.
 
- Credo di no, ho paura.
 
- Perché?
 
- E' la mia ultima opportunità: l'anno che verrà ha una data unica.
 
- Qatar Dicembre 2022? Beh, ti capisco, ma se non ora quando?
 
- Eh già, se non ora quando? Proprio per questo mi sento di avere paura, tu sai che parto da zero, non ho soldi e santi in Paradiso, sono vecchio e con le toppe, e poi voglio fare le cose in grande. Minchia, me lo merito un po' di successo!
 
- E allora che facciamo? Siamo in ballo e dobbiamo ballare!
 
 
Iatevenne illusioni sparse
 
Lassateme perde piantatevela de divertivve alle spalle mie
 
Lassateme perde nun è aria so stanco de sognà a vòto
 
Uè vabbè che tengo 'na fantasia infinita che mai me lassa solo
 
So bollente de passiene de fermento e de còre grande questo lo capisco
 
Io so tutto e te illusione sparsa tutto sai de me
 
Oramai de tempo n'è passato troppo
 
Nun lo vedi che arranco, sbuffo, sbarello, e senza fiato casco?
 
E allora è proprio adesso viè er bello, do retta ar destino e famo diventà 'n'illusione 'na bella sòddisfàziòne!
 
 
-E  poiché a me la musica piace assai, Mario, mi libero di freni e lacciuoli, tutta a barra dritta verso la gloria! 
 
- Wa', mi sa che hai visto troppi film. 
 
- Mario, perché non mi dici qualcosa di costruttivo? 
 
- Bene, comincia col dire ai nostri amici lettori di che minchia stiamo parlando. 
 
- Tarattatà, va bene, signore e signori, il 27 Settembre 2021 ufficialmente parte un sogno, un sogno sportivo.
 
- Cominciamo bene. 
 
- Sognare è troppo da illusionista?
 
- Volevi dire da illuso e, aggiungo io, pure povero?
 
- Lo sai che io scrivo strano, ma lasciami andare avanti.
 
- Prego.
 
- Allora, cari amici, tarattatà, il mio è un sogno: realizzare una mostra pittorica e un libro/catalogo... In questo momento suona “wooden ships”, la sentite la chitarra, tarattatà? Bene, la mostra e il libro parlano di una porta da calcio, una porta che, invece, è una finestra aperta su un orizzonte di fantasia e d'immaginazione. Calciare una palla e tirare verso quella porta è come sentirsi un astronauta, librarsi in aria su un'altra dimensione, eppure si tratta solo di un pallone, un pallone per renderti felice, e io proverò a farvi vedere l'altra metà di centrocampo, tarattatà.
 
- Bravo, pensavo peggio, in fondo, anche se c'era altro da dire, non hai sbagliato una parola.
 
- E vabbè, Mario, il progetto sta per partire, vogliamo prendere un altro gelato? Io vorrei cioccolato, vaniglia, cocomero e menta.
 
- Hai i gusti orribili, è passata la paura?
 
- Te lo dirò dopo il 27. Puoi fare qualcosa per me?
 
- Cosa?
 
- Spargi la voce.
 
- Che c'è un matto in circolazione? (amici lettori, Walter Fest non vi ha detto quello che vuole fare, io credo che veramente stia sognando, mi raccomando, non svegliatelo).
 
- Allora i matti sono due perché tu stai con me.
 
- Eh già, ma io sono un fantasma, hai visto la luna piena? Ihihihih!
 
- Marioooo, dai, scherzavo, non te ne andare, non mi lasciare solo, ritorna dalla galassia ectoplasmatica. Tu sei un fantasma speciale, come farò senza di te?... E adesso il gelato chi lo paga? Vado a fare una colletta, ci rivediamo il 27 settembre, amici lettori del blog più stellare che ci sia, qualcuno di voi vuole seguirmi?
 Patrizia Poli, vorrai seguirmi? 
 
 
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La grande partita del 1951

10 Gennaio 2024 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #sport

 

 

 

 

Ricordo i tempi in cui correvamo a perdifiato sul tappeto verde del Magona, prendevamo posto sulle gradinate ampie e basse, sui sedili di ferro della vecchia tribuna verde, incitavamo i ragazzi che vestivano la maglia nerazzurra. Piombino, amore mio! Potrei esclamare, parafrasando titoli di famosi romanzi, perché la mia unica vera squadra, la sola che ho sempre seguito è l’Unione Sportiva Piombino, qualunque nome portasse, quel che contava era il colore delle maglie. Non sarebbe potuto essere altrimenti, visto il mio ruolo di arbitro di calcio, interpretato dal 1976 al 1999, dopo aver tentato con scarsi risultati di vestire la tanto amata maglia nerazzurra. Il Piombino era la sola squadra che non avrei mai potuto arbitrare in una competizione ufficiale, perché era la formazione del luogo natio, la compagine della mia città. Confesso la mia difficoltà a dirigere persino alcune amichevoli, perché il nerazzurro cancellava l’imparzialità di giudizio.

La squadra cittadina adesso si chiama Atletico Piombino, come Unione Sportiva ha vissuto un periodo glorioso negli anni Cinquanta, con l’esperienza della serie B e la vittoria per tre reti a una sulla Roma di Nordahl. Era il 18 novembre del 1951. Pensare che il 18 novembre è anche il giorno del mio matrimonio (qualche anno dopo, nel 1998), così ho due buoni motivi per festeggiare, posso dirlo tranquillo tanto mia moglie non ci sente, non ama il calcio. Un Piombino fantastico, irripetibile, incredibile che si permetteva il lusso di malmenare compagini come Genoa (2-0), Venezia (3-0), Verona (2-0) Treviso (4-0)…

Alcuni anni dopo, una storica amichevole disputata al Magona contro la Lazio, il primo settembre del 1955, terminata 3 a 1 per i biancocelesti romani, vide i calciatori locali protagonisti di una grande prova. Molte amichevoli contro club di serie A si sono susseguite negli anni Settanta: Fiorentina, Juventus, Sampdoria, Perugia, Torino (ai tempi di Agroppi), vinte dai club più prestigiosi, seguite da un grande pubblico che affollava gli spalti del Magona. Il Piombino calcio negli anni Ottanta ha vissuto periodi di decadenza, due fallimenti e campionati di basso livello come la Seconda e la Terza Categoria. Dal 2013 è cominciata la resurrezione: la squadra è tornata in Promozione, nel 2014 di nuovo in Eccellenza, partecipando agli spareggi per la Serie D nel 2016 - 2017, retrocessa in Promozione al termine di un’infausta stagione 2018 - 2019, quindi nel 2020, pur non terminando il campionato causa pandemia, promossa in Eccellenza come seconda classificata, dietro la capolista Certaldo. Il sogno della massima categoria regionale è durato poco perché il Piombino è di nuovo retrocesso e adesso naviga in Promozione, in attesa di tempi migliori. Il pubblico che segue la squadra non è più quello di Piombino - Roma, neppure quello dei Piombino - Cecina, Piombino - Rosignano, dei campionati dilettanti negli anni Settanta, che vedevano al Magona un minimo di mille spettatori per domenica. Conservo la memoria di un derby anni Settanta disputato contro il Cecina alla presenza di ben 7.000 spettatori.

Lo Stadio Magona d’Italia, costruito dall’azienda siderurgica come sede del dopolavoro, era un vero gioiello: tribuna coperta (adesso distrutta) addossata agli spogliatoi in muratura, gradinata (sul lato opposto), curva (lato Tolla), aveva persino un sottopassaggio per entrare in campo (e quello rimane!) e poteva contenere 12.000 spettatori. Il Magona si è andato deteriorando con il tempo, per l’incuria e la sempre più scarsa passione calcistica dei piombinesi verso la loro squadra. La vecchia tribuna adesso non esiste più, la curva è stata chiusa per molto tempo, riaperta con la promozione in Eccellenza (2014), resa di nuovo agibile nel 2019 da un gruppo di volontari, insieme al rifacimento del sottopassaggio. Per anni si è parlato di un progetto Unicoop Tirreno per costruire al posto dello stadio un centro commerciale, con nuova edificazione in altra zona cittadina di un complesso sportivo. La speranza è che tale idea nefasta sia stata accantonata per sempre: il Magona è troppo importante da un punto di vista storico e sentimentale per scomparire. Ha solo bisogno di un restauro e di un ampliamento, di un lavoro di trucco e parrucco (come dicono i cinefili), ma lo stadio dovrà restare nel suo sito d’elezione, in viale Regina Margherita. Non dovrà fare la fine del Campino Marrone, il glorioso Magona Sussidiario dove giocavano le giovanili, sacrificato sull’altare di un parcheggio.

Il calcio è il più antico sport di squadra cittadino, nato nel 1921, gode di un bel libro scritto da Gianfranco Benedettini nel 1971, - Cinquant’anni in nerazzurro -, in occasione del cinquantenario della società. Il Piombino calcio nasce da alcune riunioni di giovani studenti e operai in casa di Dante Gronchi (Sciaurino), a partire dal 1919, subito dopo la fine della Grande Guerra. La prima società di calcio si chiama Sempre Avanti e viene conglobata nella società di ginnastica e di scherma. L’Unione Sportiva Piombino nasce in casa Gronchi, ma il gioco del calcio viene portato in città dal dottor Florestano Belleni e da un sottufficiale della Guardia di Finanza. Pionieri sono i fratelli Bianchi, Guasconi e Pepi, i giovani Nassi, Pavoletti e Talini. Primo Presidente il signor Emanuele Russo, primi colori sociali maglia bianca con taschino azzurro. L’ingegner Lanza concede il piccolo campo della Tolla, dove si giocano le prime romantiche partite amichevoli, senza un vero e proprio campionato. Benedettini ricorda la prima gara disputata dal Piombino contro i Pompieri del Cantiere Navale Venezia, finita quattro a zero per i nostri colori. Una volta chiuso il campo della Tolla si gioca al padule di Pontedoro, nei campi di via Leonardo Da Vinci, infine il Comune concede il vecchio Campo di Sansone, l’odierna piazza Dante. Il primo vero campo sportivo piombinese è proprio quello, spalato e messo a posto dagli stessi giovani calciatori che si trovano a giocare dopo il lavoro. Quando piazza Dante non basta più, la società Ilva concede il terreno davanti allo stabilimento (davanti all’odierno MacDonald) dove viene edificato il Campo Sportivo Salvestrini, un vero stadio con tribuna, spogliatoi e pista per le corse in bicicletta. Lo stadio viene inaugurato il 20 agosto 1924, il Piombino fuso con la società di ginnastica si chiama USSAP (Unione Sportiva Sempre Avanti Piombino), e perde per 4 a 0 un’amichevole con il Livorno. Si comincia a fare sul serio, anche se tutto è molto pioneristico e disorganizzato, con l’iscrizione al primo campionato di Terza Divisione. La palla di cuoio è uno sport britannico che vince la diffidenza di quanti lo considerano un gioco assurdo, buono solo per prendersi un malanno correndo al freddo e con i calzoni corti. Il calcio diventa lo sport cittadino per eccellenza e comincia a coinvolgere un buon pubblico che non si può contenere dietro le corde di Piazza Dante. Potrei raccontare molte leggende sul periodo eroico del Salvestrini e del vecchio Stadio Magona. Tra le tante, la più gettonata è quella del Piombino che batte la Roma nel campionato di serie B 1951 - 52 ed è una storia che si tramanda di padre in figlio. Nei primi anni Cinquanta Piombino vive il suo miglior periodo economico e sociale, la Toscana guarda alla nostra città come a un paese di bengodi dove non mancano pane e fumo. L’industria dell’acciaio è fiorente, la Magona finanzia la squadra di calcio, il dopolavoro gestisce il campo sportivo e i calciatori nerazzurri vivono come veri professionisti. Una città di trentatremila abitanti dà alla squadra di calcio milleduecento abbonati che sono linfa vitale per andare avanti. Tre anni di serie B che lasciano il segno ed entrano a buon diritto nella leggenda, soprattutto perché nel 1951 - 52 il Piombino si trova a un passo dall’essere promosso in serie A. Pure qui ricordiamo la leggenda metropolitana delle partite vendute, perse per non essere promossi, perché il campionato maggiore sarebbe costato troppo. In ogni caso quel Piombino è una rivelazione incredibile e fronteggia alla pari Roma e Genoa (nelle partite casalinghe vince con entrambe), in passato campioni d’Italia. Il Piombino che il 18 novembre del 1951 batte la Roma per tre reti a una è allenato da Fioravante Baldi, contestato a inizio campionato perché non vuole grandi acquisti e portato in trionfo dopo la vittoria sulla capolista. Il segreto di Baldi sta nel sempre valido squadra che vince non si tocca e lui dopo aver vinto il campionato di serie C chiede alla società di modificare l’organico il meno possibile. Baldi partecipa alla serie B con un gruppo di uomini affiatati, che saranno pure modesti calciatori ma si conoscono a memoria, di sicuro più di tanti campioni strapagati che litigano in campo. Il Piombino ha un gioco e una personalità ben definita frutto di un campionato di serie C vinto alla grande. La Roma è travolta da un avversario pieno di entusiasmo e i quattromila tifosi che hanno invaso Piombino se ne tornano a casa sotto un coro di sfottò della tifoseria toscana. Il mito della serie B a Piombino è duro a morire. Se con un piombinese di mezza età il discorso cade su argomenti calcistici state pur certi che prima o poi ve l’ammolla quel noi s’è fatto la serie B, anche se lui manco era nato nel 1951. Ve lo dico per esperienza, ché non ricordo quante volte l’ho detta questa frase per giustificare la mediocrità attuale del calcio piombinese. Nel 1951 il Piombino resta a lungo capolista e molti sognano a occhi aperti la serie A, specie dopo la vittoria sulla Roma. È la nona giornata del primo campionato di serie B e la città è invasa da bandiere giallorosse, torpedoni e treni speciali. Franco Biegi, in un articolo del Tirreno di Livorno datato 1996, ricorda diecimila romani che in realtà sono soltanto quattromila, ma si sa che il tempo ingigantisce le cose. In ogni caso è vero che sembra d’essere a Roma, si vedono solo le loro bandiere che alla fine arrotolano silenziosi sotto i fischi dei piombinesi riuniti sulla via Provinciale all’uscita della città. Il Piombino batte la Roma e balza in testa, ma chiude il campionato solo al sesto posto dietro Roma, Brescia, Messina, Genoa e Catania. Il sogno della massima serie sfuma, forse è meglio così perché la squadra vive sull’entusiasmo della matricola e sul catenaccio inventato da Baldi che schiera un calciatore nel ruolo di battitore libero. Difesa e contropiede sono le armi italianissime di quel Piombino che sconfigge la Roma di Nordahl II, Andersson e Sundqvist in quello storico pomeriggio del 18 novembre. Le reti portano la firma del bomber Biagioli (doppietta, una su rigore) e di Montiani. Di quel Piombino ricordiamo con simpatia il maestro elementare Zucchinali che correva i cento metri in undici secondi netti e anche i fratelli Bonci (Irio ed Emilio), schierati uno come centrocampista, l’altro da battitore libero. Ma tutta la squadra merita un ricordo perché era un gruppo valido e compatto, una compagine leggendaria. Il portiere Carlotti, una sicurezza del reparto arretrato, Mezzacapo, piombinese purosangue idolo del Cotone, Coeli, spietato francobollatore di attaccanti, Ortolano, mediano redditizio e scaltro, Lancioni, abile sia di piede che di testa, Morisco, infaticabile ala tornante, Biagioli, attaccante fiorentino veloce e furbo, Cozzolini, mezz’ala sistemista, Bodini e Montiani, attaccanti puri, capitan Zucchinali, personificazione umana del simbolico topolino nerazzurro. Era una squadra fatta di operai per una città operaia che viveva e lavorava per la sua domenica di calcio, costruita pezzo per pezzo da un allenatore intelligente come Fioravante Baldi. La partenza di Baldi per altri lidi dà il via al declino, prima con il fiorentino Nello Bechelli con cui il Piombino si salva a stento, poi con l’allenatore-giocatore Ferruccio Valcareggi (ha trentatré anni e fa il centromediano) che arriva nel periodo di crisi nera della Magona. Nel 1953 - 54 giunge la prevista retrocessione in serie C, anticipata dalla chiusura dei cordoni della borsa da parte di una Magona sempre più in difficoltà. È proprio il caso di dire che a Piombino tutto ruota attorno all’acciaio, pure le fortune calcistiche: sino a quando la siderurgia è il motore trainante della città le cose girano a dovere. Argomento che sviscerato in due miei romanzi che ruotano intorno al mondo del calcio e che vedono protagonista un giocatore piombinese che ritorna ai suoi lidi dopo aver calcato palcoscenici importanti: Calcio e acciaio - Dimenticare Piombino Sogni e altiforni - Piombino Trani senza ritorno. Il pallone si sgonfia senza rimedio con la chiusura della Magona (1955), vero sponsor delle locali glorie calcistiche. Dal 1955 in poi è tutto un susseguirsi di alti e bassi con un vivacchiare tra Serie D e campionati dilettanti. Si pensa di aver toccato il fondo nel 1987 con la retrocessione in Seconda Categoria, purtroppo al peggio non c’è mai fine: la stagione 2004 - 2005 vede l’Atletico Piombino in Terza Categoria. In questo periodo storico è di nuovo altalena tra Eccellenza e Promozione, ma questo meraviglioso libro a fumetti ci permette di rivivere un momento indimenticabile del nostro passato.

 

Gordiano Lupi

 

Gordiano Lupi (Piombino, 1960) scrive di cinema, traduce autori cubani, si occupa di cultura caraibica. Ha dedicato molte opere alla sua città: Piombino leggendariaStoria popolare di PiombinoAlla ricerca della Piombino perdutaPiombino a tavolaAmarcord Piombino. Ha partecipato alle antologie collettive Piombino in giallo e Piombinoir. Alcuni tra i suoi migliori lavori di narrativa sono ambientati a Piombino: Cattive storie di provinciaCalcio e acciaio - Dimenticare Piombino (presentato al Premio Strega, 2014, vincitore del Premio Giovanni Bovio a Trani), Miracolo a Piombino - Storia di Marco e di un gabbiano (presentato al Premio Strega 2016), Sogni e altiforni - Piombino Trani senza ritorno (presentato al Premio Strega 2018). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti: lupi@infol.it

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Gordiano Lupi
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VENERDI' 12 GENNAIO

Presentazione Ufficiale de LA GRANDE PARTITA del 1951

ovvero PIOMBINO - ROMA 3 a 1

in Biblioteca Civica Falesiana

PIOMBINO - ORE 17 e 30

PARTECIPANO

MASSIMO PANICUCCI autore
PATRIZIA LESSI redattrice Nautilus
GORDIANO LUPI editore IL Foglio Letterario

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Pasquale Ciboddo, "Con la speranza"

18 Ottobre 2023 , Scritto da Maria Rizzi Con tag #maria rizzi, #recensioni, #poesia

 

 

 

“Con la Speranza”

Pasquale Ciboddo,

Guido Miano Editore, Milano 2023.

 

Ho avuto l’onore di cimentarmi con due sillogi di Pasquale Ciboddo, uno dei poeti sardi più noti, Andar via (di cui ho scritto la prefazione) ed Era segno sicuro (a cui ho dedicato una recensione) e la trilogia incredibilmente si compie con questa raccolta di liriche, che rappresenta, senz’ombra di dubbio, il proseguo degli altri due testi. Si tratta di una magnifica narrazione in versi, che ha come sfondo la Sardegna, che non può considerarsi solo un luogo fisico, ma soprattutto un evento e un modo di essere, una terra di gente rimasta appartata, dotata della facoltà primitiva di mescolare la realtà alla leggenda e al sogno. Il nostro Autore, pur intessuto in ogni fibra della sua isola, non tende ad allontanarsi, rivela un forte bisogno di schiettezza, di giustizia e di libertà.

Nel libro la vicenda della pandemia continua, probabilmente il Poeta ha iniziato a scrivere mentre il terribile virus imperversava dandoci la prova che la vita può cambiare in fretta, in un istante. Nel bel mezzo dell’esistenza ci troviamo nella morte. «Siamo sospesi / tra cielo e terra / e tra spazio e tempo / senza via di fuga. / Non rimane, pertanto, / che pregare Iddio / di porre fine almeno alla Pandemia. / Sarebbe una grazia / e una allegra via» (Tempo sospeso). L’avverbio ‘almeno’ segna la differenza, Ciboddo patisce anche lo strazio della guerra scoppiata in seguito all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, e recita: «…La gente muore a catena / e il mondo rotola nell’abisso / di una micidiale guerra» (E il mondo).Un conflitto che ha riportato indietro la nostra storia verso epoche che credevamo aver lasciato alle spalle. E il conflitto, vicino geograficamente, non deve permetterci di dimenticare le guerre che si svolgono in altre zone del mondo, come nello Yemen, in Siria, in Etiopia… Non si può che dire con Martin Luther King Jr. «Le guerre sono pessimi scalpelli per scolpire un domani di pace».

Il nostro straordinario Autore continua in questa silloge a evidenziare l’equazione Uomo - Natura e a dimostrare quanto nel creato gli unici elementi imperfetti siamo noi uomini. Dio ci volle così, è vero, ma aggiunse ‘a sua immagine e somiglianza’ ed è avvenuto nei secoli un tradimento verso questo assunto, non siamo noi a doverci battere contro una natura matrigna, ma è quest’ultima, indifesa, a essere vittima dell’umanità. «…L’abbandono della natura, / una volta madre prolifica, / ha portato alla desertificazione. / Ora “arano” / col muso soltanto i cinghiali / e il suolo è pieno d’inciampi…» (Ora arano). Questi versi forti, aspri, selvaggi, mettono in luce quanto noi uomini temiamo la quiete e ci rifugiamo come greggi di pecore nelle città, mi si perdoni l’immagine che sa di paradosso. Dovremmo riuscire a pensare che non abbiamo ereditato il mondo dai nostri padri, ma lo abbiamo ricevuto in prestito dai figli e a loro dobbiamo restituirlo migliore di come lo abbiamo trovato. La lirica che dà il titolo alla raccolta è il sunto incandescente del pensiero del Poeta. «La guerra mondiale / era finita da poco. / Si seminava il grano / con la speranza / di una buona annata / per ricavare il fabbisogno / della sussistenza vitale /…/ e il mondo pian piano si riprese. / Ora c’è di nuovo / minaccia di guerra totale. / In Oriente / si lotta già con armi sofisticate. / C’è morte e paura / e si spera, però, / che le armi tacciano / subito e per sempre» (Con la speranza). Il testo sembra nichilista, ma dal vaso di Pandora si levano improvvisi inni alla Speranza, la piuma soffice posata su infiniti cuori. E la narrazione in versi di cui parlavo all’inizio si concretizza in tutta la sua chiarezza. Lo stile è fluido, immediato, sanguigno, evita le figure retoriche, scrive con insospettata musicalità e con la potenza evocativa di una terra ancora pervasa da umori virginali.

Ciboddo viaggia sul territorio della memoria per comprendere che la lezione più importante che la storia ci insegna è che non siamo in grado di imparare nulla da essa. Continuiamo a lasciarci militarizzare i cuori, le menti dai media. La pace non può fiorire se l’indifferenza e l’ignoranza sono nostre padrone. «Oggi Satana domina / il mondo intero. / Lucifero, dopo duemila anni / di prigione voluta da Dio / è libero e vaga sulla Terra / seminando il Male…» (È libero). Siamo in balia di troppi venti: pandemia, guerre, cambiamenti climatici, desertificazione delle zone rurali, e sembra che tra la mano del Signore e quella di Lucifero abbiamo finito per stringere la seconda. Ma lo sconforto, tangibile, pulsante nel racconto in versi, ha i suoi riscatti mistici e travolge con immagini, che possono essere soltanto miracoli del Dio dell’amore. «Natura piena / di sorprese colorate! / All’alba il sole innesca / un’esplosione di colori. / La foresta brulica di vita. / I raggi della Stella / portano luci / di arcobaleni. / L’ape vola sui fiori / li impollina e ne ricava / una dolcezza infinita / per la nostra vita» (Portano luci).

I toni del Poeta, in questa silloge, sono spesso dimessi, malinconici, si potrebbero forse definire crepuscolari, specchi dell’umana fragilità filtrata da un’anima di seta, che nel suo percorso narrativo ben delineato assume una sacralità innegabile, quella di un messaggio che abbraccia lo scibile del vissuto e del vivibile. E attraverso le liriche di Ciboddo si scopre, una volta di più, che la poesia rivela qualcosa che già esisteva prima di noi. Per questo è spesso legata al ritorno, come insegnano Leopardi, Pavese. La guerra, ossessione del Poeta, dimostra quanto nel ritorno si attui la nostra attesa più urgente: sapere cosa ci è veramente accaduto, perché torna a succedere. Ascoltare questa rivelazione diviene il compito e, nello stesso tempo, il fondamento della parola poetica di coloro che non si chiudono nelle famose torri d’avorio, ma scendono nelle strade per aprirsi ai problemi della società, della storia e della cronaca.

Splendida la lirica Per continuare, che illumina su uno spaccato del nostro tempo. Il periodo del Covid e quello successivo secondo le statistiche hanno avuto un impatto negativo sulla natalità, ma non sempre le indagini demoscopiche sono affidabili. Di fatto i bimbi nati negli anni del Coronavirus sono stati tanti e sembrava una realtà ossimorica rispetto ai rischi che si correvano e alle aspettative che si offrivano ai nuovi nati. La vita sa sorprendere e i giovani sanno credere: «La frenesia d’amore / prende anche i più giovani. / Sfoghi di sesso, / prima come adesso, / producono figli / per continuare / a perpetuare la vita…» (Per continuare).

Pasquale Ciboddo dimostra nelle sue liriche quanto spesso un cuore possa rompersi e al tempo stesso acquisire valore, dignità e attaccamento alla vita. «…Il laccio del male ci stringe / e i malvagi ci tendono tranelli. / Meditare e pregare / ci salva da tutti i pericoli» (Accerchiati dal male). La poesia, ispirata alla lettera apostolica “Salvifici doloris” di Papa Giovanni Paolo II, si addentra nel cuore della rivelazione cristiana per offrire l’esperienza della sofferenza come possibilità di un più grande amore. D’altronde non v’è dubbio che il dolore sia il gran maestro degli uomini. Sotto il suo soffio si sviluppano le anime. Il Poeta lascia intendere che soffrire equivalga ad avere un segreto in comune con Dio. La fede vacilla di fronte allo strazio che ci circonda, ma a illuminare in modo determinante sul significato del male resta la Croce di Gesù. E insieme alla Croce la Resurrezione. La sua Croce ci indica che la sofferenza può essere la via della distruzione del peccato, infatti attraverso essa Dio ha purificato i mali del mondo.

Il Poeta intarsia il suo viaggio di versi lontanissimi dal crepuscolarismo, dalla rabbia, dal sangue, versi incastonati come diamanti nel cuore indurito della vita. «È la pioggia sui prati / l’acqua su aride terre / la Primavera. / Stagione che si gode / da mattina a sera. / Vera arte sublime / donata al mondo / dalla Bontà Divina» (Vera arte). La nostra esistenza è un filo di seta sospeso in un gioco di rasoi, ma come il giunco resiste al maestrale più degli alberi secolari, così il filo di seta sa dimostrarsi più forte dei ‘lacci del male’.

La Natura, nella poetica di Ciboddo è rivelazione di Dio; forma di Arte perfetta, cosicché neanche un fiocco di neve sfugge alla sua mano modellatrice. Ogni ramo, ogni fiore, ogni foglia, ogni onda sembrano contenere una biblioteca dedicata alla meraviglia, al silenzio, alla bontà. Il Poeta indugia sulla memoria e ferma una pagina per raccontarsi: «Anche io da giovane / ho arato la terra, seminato / e mietuto con la falce / sotto il solleone d’Estate / per produrre il pane / di sussistenza vitale / durante l’ultima disastrosa / Guerra Mondiale. / Poi ho studiato / e scritto storie vere / della Gallura / poesie in gallurese / e in lingua italiana. / Scritti piaciuti / a tanta varia gente / e a dotti studiosi» (Scritti). La fatica nei campi, il secondo conflitto, gli studi, le poesie nella lingua sardo - gallurese, un sardo settentrionale con affinità a Sassari, Stintino, e con minoranze a Perfugas. Un dialetto che non manca di testi scritti già nel Medioevo con bassorilievi e anche nel settecento con componimenti poetici. Nella lirica Scritti il Nostro sembra mettere a fuoco i momenti cardine della sua esistenza. Dopo le sofferenze del secondo conflitto mondiale ha studiato e amato la scrittura e si potrebbe affermare, senza timore di sbagliare, che l’arte del comporre si è innamorata di lui. Ha prodotto opere nella lingua madre e in italiano ed è stato apprezzato da tanti, persone comuni e ‘dotti studiosi’.

La storia di Ciboddo dimostra che si sono interessati alle sue Opere autorevoli critici contemporanei, da Enzo Concardi a Ninnj Di Stefano Busà, a Raffaele Piazza, Elio Andriuoli, Giorgio Bárberi Squarotti, e molti altri. Di fatto il Poeta oltre a donarci poemetti, narrazioni in versi o componimenti che dir si voglia, è stato un insegnante e non ha mai trascurato la sua terra. Tuttora attinge la filosofia del vivere alla scuola della campagna gallurese e ne piange il destino con una pietas che scuote le fronde dell’anima: «…Siccità e caldo estremo / bruciano anche / l’anima della terra. / Siamo proprio dentro una serra. / Noi mortali impietriti / stiamo zitti a guardare. / E fame e miseria / attanagliano l’umana esistenza» (E fame e miseria).

Sicuramente Ciboddo coltiva nel suo dire diretto, privo di sperimentalismi, una filosofia del dolore e di ciò che, per grazia divina, passa. Uno stare dentro la vita nell’immanenza tra il Bene e il Male. Un trascorrere sospeso. Come ogni forma di Arte l’amore per la natura è un linguaggio comune che può trascendere i confini politici o sociali. Il discorso ecologico in questo contesto diviene dominante. Nella lirica appena citata l’Autore fa riferimento all’effetto serra e la principale causa che turba l’equilibrio dei gas serra in atmosfera sono le azioni degli esseri umani. Un altro fattore che turba gli equilibri è la deforestazione: la scomparsa delle foreste e delle piante, causata sia dall’agricoltura che dall’urbanizzazione, che ha ridotto la capacità degli alberi di assorbire l’anidride carbonica. Si sta verificando così la modificazione del clima terrestre sulla quale il Poeta insiste con dolente passione. «La vita è una catena / di ferro con più anelli / che per un tempo dura. / Ma se non si cura / la ruggine l’attacca / e qualche anello si stacca…» (Così la vita). Ho la sensazione che quest’ultimo sia uno dei pochissimi componimenti, se non il solo, nel quale il caro Pasquale Ciboddo indugia in una metafora. La vita dura se la si rispetta, se le si prestano le cure che destiniamo anche solo alle biciclette per evitare che l’indifferenza, ruggine dell’anima, la corroda. Ritengo la lettura di questo Artista paragonabile a un’esperienza catartica. Possiede la forza salvifica di riportarci a ragionare da esseri umani, desiderosi di proteggere la nostra dignità e il nostro slancio verso il prossimo e verso il creato. Dimostra che il lirismo non è quello che troppi vogliono far credere, può avere i denti e mordere, ma tramite le ferite destare dal sonno. Quando il potere ci spinge verso l’arroganza, la poesia ci ricorda i nostri limiti. Quando la miseria interiore restringe la sfera dei nostri interessi, i versi ci ricordano la ricchezza e la diversità dell’esistenza. Quando i rapporti corrompono, la poesia rigenera. In passato il lirismo era al centro della società, con la modernità si è ritirato ai suoi margini. Credo che un percorso in versi come quello del Poeta gallurese dimostri quanto l’esilio della poesia possa coincidere con l’esilio dei nostri sentimenti migliori.

Maria Rizzi

 

 

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L’AUTORE

Pasquale Ciboddo è nato a Tempio Pausania (SS), in Gallura (Sardegna), nel 1936; già docente delle scuole elementari, è uno dei poeti sardi più noti in Italia (è conosciuto anche a Cuba), e ha al suo attivo numerose pubblicazioni poetiche e di narrativa con prefazioni e introduzioni di prestigiosi critici. Ha conseguito molti premi e riconoscimenti.

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Pasquale Ciboddo, Con la Speranza, prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 80, isbn 979-12-81351-14-1, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

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Ida Verrei, "Le primavere di Vesna"

23 Gennaio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #ida verrei, #recensioni

Ida Verrei, "Le primavere di Vesna"

Le primavere di Vesna

di Ida Verrei

Fabio Croce editore

"Vieni qui Vesna, profumata di monti, vieni e stringimi, regalami il futuro, regaliamoci il futuro, amore mio."

C’è chi scrive per andare via e chi scrive per tornare. Ida Verrei scrive per tornare, per un risarcimento tardivo, per farsi cullare “dalla sicurezza di una bugia”.

Quando, mentre leggi, ti salgono le lacrime agli occhi più e più volte, sai che hai fra le mani un libro buono, un libro giusto, dove tutto è al suo posto, dalla memoria storica, alla ricostruzione d’ambiente – accurata ma mai pesante – alle scene montate con sapienza e maestria narrativa, ai dialoghi senza una sbavatura – colloquiali e letterari insieme – all’uso dei dialetti, alla psicologia dei personaggi, alla poesia, quasi mistica, del paesaggio, al linguaggio elegante e dal sapore antico.

Si vedono le vette scintillanti di neve, i lunghi sci di legno, i giovani montanari con i pantaloni alla zuava, si sente l’odore del terriccio sloveno attaccato ai gambi dei funghi, in questa zona di confine, selvaggia e mitteleuropea allo stesso tempo. Nell’aria frizzante, fra i barbagli del nevaio, Liana si affaccia alla vita con la sua sfrenata voglia di godere e la capacità di auto proteggersi comunque, di dimenticare ciò che la fa soffrire, lasciandolo indietro.

Non è “una rinunciataria”, come lei stessa afferma con forza, con un sussulto di dignità, ma una donna che, semplicemente, sa scansarsi un poco più in là, quando la vita minaccia di travolgerla. Sa tenere per sé le proprie convinzioni, sospendere i giudizi, purché la si lasci libera di seguire la sua natura che è sanguigna, semplice, amorevole.

Così non sarà la guerra a farle più male - la guerra che ti schiaccia ma che può anche far emergere risorse inaspettate e stimoli – non sono i monti aspri della Slovenia a soffocarla, bensì la luce vivida e troppo calda di Napoli, l’odore dei limoni strappati con le unghie per ritrovare una parvenza di umanità in mezzo alla famiglia del marito, che è un clan che avvolge e snatura, che impone regole, che indulge e protegge la vigliaccheria, che imbriglia l’amore e lo trasforma in disprezzo.

Fugge, Liana, si riprende quello che le rimane della sua umanità, fa riemergere, tramite il rozzo Manuel, l’istinto animale che era già esploso con Michele, che era stato sublimato dall’amore profondo per Giovanni. Pur in un’esistenza abietta, infelice, Liana riscopre la sua forza, la corrente che la tiene legata alla realtà. Sarà con un ultimo scatto di orgoglio, con un indennizzo tardivo e segreto che ella parteciperà, nascosta, al matrimonio della figlia, riprendendosi ciò che le spetta di diritto.

Perché Vesna, la primavera, ritorna sempre.

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Vincenzo Calò, "C'è da giurare che siamo veri"

11 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Vincenzo Calò, "C'è da giurare che siamo veri"

Iniziamo col dire cosa non è presente in questa silloge di sedici poesie, o meglio poemetti filosofico-ermetico-esistenziali, con cappelletto prosaico introduttivo.

Di sicuro non c’è la natura, non ci sono il mare e le montagne, non ci sono l’infinito e il vago leopardiano, non c’è il particolare pascoliano. Non ci sono nemmeno “i cocci aguzzi di bottiglia” o “il meriggiare pallido e assorto”, anche se l’evoluzione ermetica è ovvia. Qui c’è semmai un giovane che si atteggia a poeta maledetto e si diverte a giocare col lettore. Lo immaginiamo chiuso una stanza, con gli occhi pesti, perso davanti al monitor del pc. Al massimo “girovaga per casa” e “ciabatta un po’ in giro”. Ci schiude uno spiraglio da cui s’intravede il microcosmo d’un io poetico inflazionato perché pieno di dubbi, di senso d’inferiorità e inadeguatezza, concentrato su se stesso nei gesti di una quotidianità spiazzante. Siamo veri in queste condizioni, si chiede, sono vere le relazioni che restano virtuali, che non maturano mai, è vera la vita di un ragazzo che si vota “all’astinenza sessuale”?

Vincenzo Calò fa riferimento a un vissuto simulato, catodico, che si esplicita in social network, in reality show, in una fredda modernità di telefoni, schermi, fiction e connessioni internet, quasi a sostituzione dei sentimenti e della gestualità. Ma sotto, o meglio dentro, a questo universo sigillato, c’è spazio per tutto ciò che da sempre ha accompagnato i sogni della gioventù, in primis l’amore, appena intravisto nella sineddoche di uno smalto per unghie che è insieme vanità, vuoto, velinismo ma anche forma, donna, femminino, e che da solo non basta, tuttavia, a colmare la solitudine, le fobie.

Nasciamo per donarci al di fuori, per calcolare una vergogna”, “Dalla paura di misurarsi” (pag 24)

Attraverso tutto l’elucubrare di Calò è presente una ricerca di Anima, di Essenziale, di fuga dalla freddezza. Perché esistere, “essere veri” è “afferrare la vita con labbra sincere”.

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Jenny Blackhurst, "Era una famiglia tranquilla"

24 Luglio 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

 

 

Era una famiglia tranquilla

Jenny Blackhurst

Newton Compton, 2017

 

Susan è appena uscita da un ospedale psichiatrico. È stata dentro, tra quelle mura tristi, per due anni e otto mesi. Lei non ricorda nulla, di quel fatidico giorno di quasi quattro anni prima. Psicosi puerperale, dicono i dottori. Depressione post parto. Il piccolo Dylan aveva solo una manciata di settimane quando qualcuno gli calò un cuscino sulla faccia. Quando Susan venne trovata, quel cuscino giaceva tra le sue mani.

Adesso è fuori, può nuovamente guardare dritto verso il sole. Si è trasferita. Si chiama Emma, ora. Ha cambiato posto in cui vivere e identità. Non vuole che la gente la additi come infanticida, come pazza, come pericolosa. D’altronde lei ha sempre creduto, nel profondo del suo cuore, di non aver ucciso il piccolo amore della sua vita. Sì, si ricorda di essersi sentita inadeguata; si ricorda la stanchezza, il dolore, lo smarrimento che ha provato quando Dylan era tra le sue braccia. Tutti stanno lì a esaltare la maternità sempre e comunque, e nessuno che spieghi quanto può essere difficile essere all’altezza, sentirsi pronti. Lei lo sa, forse avrebbe avuto bisogno di un po’ d’aiuto, ma l’ha davvero ucciso? Ha davvero privato della vita quel piccolo pezzo di cuore, il sangue del suo sangue?

Qualcuno le manda presto un macabro messaggio: una foto di un bambino di quattro anni sorridente. Dietro, la scritta: Dylan. Ma è il suo Dylan?

Tra scoperte e mezze verità e colpi di scena, arriviamo a una fine che è macabra, spaventosa. Niente è come si crede.

La Blackhurst mette su un thriller che a tratti è forse un po’ surreale, ma che risulta pienamente riuscito. Si legge e si legge e si legge, e finché tutti i nodi vengono al pettine non ci si può dare pace. La narrazione è veloce ma non lascia nulla al caso.

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