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Cerca risultati per “Aldo Dalla Vecchia Vita da giornalaia”

Grazia Marzulli, "Nella carezza del vento, sbocciano fiori"

2 Aprile 2023 , Scritto da Floriano Romboli Con tag #floriano romboli, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Grazia Marzulli pubblica in questa silloge che appare a marzo 2023 presso la Casa Editrice Guido Miano una serie di testi di notevole interesse artistico-culturale, ricavandoli in buona parte dalle varie raccolte di versi composti nell’arco di un decennio, da Il volo di Penelope (1998) a Salsedine (1999) a Selva di dissonanze (2000), da La luce verticale (2001) ad Anfratti fioriti, conchiglie (2003) a Il velo di Maya (2004), con l’aggiunta significativa di componimenti inediti, validi e coerenti con la precedente ricerca, riuniti sotto i titoli di Anemoni e Fiori della Resilienza.

 La poetessa avverte con una sensibilità viva e partecipe il fascino intrigante della vita, la sollecitazione animatrice che pervade l’ordine complessivo delle cose, la realtà naturale e l’esperienza etico-intellettuale degli uomini.

Il ricorso sistematico a una serie di suggestive metafore rappresenta il cuore della sua strategia di formalizzazione del vario materiale figurale ed emozionale connesso all’indagine esplorativa del dinamismo esistenziale; in particolare mi sembra felice quella della “barca”, che fronteggia audacemente i marosi alla ricerca di equilibrio ideale e della realizzazione di un progetto moralmente qualificante: «… Canto la barca a vela che vacilla / nel labile solco / conteso da opposte correnti / eppure osa, / osa sfidare i venti / all’alba imperlata di rugiada / occhi di fuoco al tramonto. // Avvinta a giochi di spume / intreccio ghirlande di pensieri / zaffiri e smeraldi di speranze / nel solco che smeriglia cuori / per mete sconosciute al fato / e lungo rotte refrattarie al caso» (Canto la barca, in Il velo di Maya). A tale immagine si lega l’altro centrale spunto metaforico del “fiore”, evocato del resto fin dal titolo del libro: «…Fra brezze d’illusioni m’imbarcavo / verso gli spazi / dove l’ippogrifo / dispiega fresche ali nell’idea / di reinventare il mondo. // (…) E in acque terse fra spume / ignare di gorghi e bufere / spargeva corolle dal grembo / il limpido errare» (Culla di prodigi, ivi).

I miei corsivi intendono porre in risalto gli effetti della rima e dell’enjambement, che attestano un linguaggio sottilmente elaborato pur nelle generali essenzialità e linearità organizzative.

La primaria energia vitale assume spesso in questi versi  i tratti stimolanti e corroboranti della luce: «… Ma da vestale attende che la fiamma / alta si nutra e calda / nel tempio / alta e calda / ardita gigantesca smisurata / fino a piegare il cielo sulla terra / per inondarla di chiarore» (Ricerca, in La luce verticale, corsivi miei, come in seguito); «Foce del tempo, ascolta / passi ed echi dell’età mia / al pulsare di vena / che vigile tende alla luce // (…) Osserva il volto nella preghiera, / fiducioso al rifiorire di speranze / dal tenero profumo di azalee. // Tempo, tu che ceselli la coscienza / e plasmi e ritocchi gli ultimi sbalzi, / fa’ ch’io sublimi in ascesi il mio pensiero / quale estrema offerta d’amore» (Opera d’arte, in Anemoni).

L’“amore” per la vita e per la varietà delle sue forme («Non fermarti, / asseconda il ritmo del respiro / onda luminosa del pensiero. // Le forme che la vita affastella / chiedono raggi…», Onda d’argento, in Salsedine) determina un descrittivismo puntuale, un’intima adesione ai molteplici aspetti del reale che si obiettivano nella misura ordinativa dell’enumerazione: «Sbiadire lento di caseggiati / e ciminiere color vaniglia / metafisici cubi e bottiglie / nello spazio alienato. // Grigio un sipario cala / sul catrame dei tetti / sul gomito di latta, sul selciato / sul mio viso / schiacciato contro i vetri. // Suoni voci rumori / treni di verità / lungo i binari del tempo / squarciano veli di nebbia. // E dalle ombre / spuntano girasoli / abbozzando sorrisi / verso un lingotto d’oro di finestra» (Lungo i binari del tempo, in La luce verticale, cit.).

Dare armonia, comporre in sintesi feconda i tanti, anche contrastanti, momenti del vivere è l’arduo, quotidiano compito di ognuno; e il richiamo al superiore Disegno divino è per l’autrice invito all’impegno e alla preghiera sinceri: «… Apri un varco, Signore, / verso il luogo d’Assoluto / dove accade che l’alba e il tramonto / il tu e l’io / la parola e la vita / si fondono per noi in armonia», Un varco, ivi) .

Floriano  Romboli

 

 

 

Grazia Marzulli, Nella carezza del vento, sbocciano fiori, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 96, isbn 978-88-31497-98-5, mianoposta@gmail.com.

 

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L'anima

31 Gennaio 2024 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

Immagine generata con PicFinder AI

 

 

Ho esalato l'ultimo respiro. Buio. Interminabili secondi a chiedermi: sprofonderò in un oblio senza fine oppure la fantomatica vita dopo la morte sarà una realtà concreta?

Improvvisamente avverto una vibrazione rigenerante, per di più riesco a librarmi agilmente in questa asettica stanza d'ospedale dove giace il mio corpo fisico collegato a quell'ormai inutile macchinario. 

Conservo, pardon, ho ampliato la capacità di pensare e di ricordare, peraltro cosa non poco importante, so di esistere ancora. Potrei paragonarmi a un bruco uscito da una mela, in seguito a una galleria scavata faticosamente

Un'invitante luce multiforme, calda e rassicurante, punta nella mia direzione, istintivamente le vado incontro. Una dimora che desidero chiamare Aldilà mi aspetta, tra infinite incognite e compenetrazioni dell’essere. 

Al termine dell’esperienza terrena, l'anima non muore, l'anima si anima. In eterno.

 

 

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The Cards of Life

2 Ottobre 2023 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

Immagine generata con Pic Finder AI

 

 

 

La vita è un gran "casinò" in cui è meglio mettere le "carte" in tavola.

Il "set di regole"? Lo stabilisci tu. "L'asso nella manica"? Non è sempre disponibile, quindi in molte occasioni è necessario farsi un "mazzo" così.

Un occhio di riguardo per quattro "simboli" in particolare, ovvero non dare troppa importanza ai "denari", non permettere a nessuno d'infilarti i "bastoni" tra le ruote, ricordati che le migliori "coppe" risultano le soddisfazioni, e, infine, adopera le "spade" che servono per difendersi, attaccare e, all'occorrenza, salvare la "faccia" e il "retro."

Cosa importantissima: rispetta il "partner" come se fosse un "re" o una "regina", altrimenti, prima o poi, si arriva a "calare l'asso" come dicono in Sicilia. Ah, a proposito, "scopa" bene e "gioca" il meno possibile a "solitario."

Caro "giocatore", in definitiva se fai un buon "gioco", sei a "cavallo".

Buona fortuna e... "buona mano"!

 

 

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Valentina Marzulli, "Divenire"

6 Febbraio 2024 , Scritto da Rita Bompadre Con tag #rita bompadre, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Divenire di Valentina Marzulli (Eretica Edizioni, 2023 pp. 60 € 15.00) cattura l'energia ispiratrice dello svolgimento del tempo intorno al passaggio esistenziale del mutamento. La poetessa intuisce nel divenire qualcosa che diviene, nel movimento interpretativo della realtà, che si manifesta e si dissolve nelle contraddizioni emotive, non disperde l'essenza originaria dell'evoluzione passionale ma la rinnova. La visione ontologica di Valentina Marzulli accoglie la molteplicità della vita, dilata il contenuto incondizionato dell'amore, include la progressiva conversione attraverso l'illusoria provenienza delle aspettative e la concreta destinazione dell'assenza, realizza l'incessante necessità di presagire le espressioni del desiderio e la sospensione del sentimento, di riconoscere, nelle relazioni, l'intensità del coinvolgimento e di dare un significato profondo al qualcos'altro che anima la percezione sensuale della carnalità e la coscienza sincera della spiritualità. Valentina Marzulli concretizza il simbolico richiamo del passato nella concezione dialettica delle vibrazioni evocative del cuore, alterna l'indeterminatezza del silenzio con la risolutezza delle parole, scrive versi incisi nel carattere coraggioso ed efficace di una poetica che adotta il sentire in tutte le sue carismatiche declinazioni. Divulga la sconfinata estensione di ogni orizzonte sensitivo attraverso la viscerale, impulsiva e ineluttabile prospettiva dei ricordi, distende la deviazione impetuosa degli affetti nei provocanti intrecci lirici e romantici dell'anima, assapora l'inquieto profumo della malinconia, esplora l'intonazione suggestiva delle divagazioni autobiografiche, affianca alla riflessione sul cambiamento la conservazione autentica della speranza. Divenire svolge il suo insegnamento poetico intorno alla discordanza irrequieta degli interrogativi, evidenzia lo stridore dei contrasti, mostra il turbamento della fragilità, pone l'accento sui discorsi interrotti e sospesi, consuma la dolcezza dei baci e il fascino ineluttabile degli incontri, l'impronta infinita e imprevista del destino, oppone all'oscurità del vuoto la limpidezza dei giorni, mantiene la lacerazione delle ferite interiori, trattiene l'equilibrio della verità per lenire il dolore e saldare i margini di ogni guarigione. “Divenire” è tramutare le sensazioni provate e vissute lungo lo spostamento introspettivo del pensiero, è il valico che collega la prospettiva dinamica della trasformazione alla libertà di affidarsi alla vita e al suo sincero entusiasmo, sostiene la proiezione della consapevolezza. Valentina Marzulli invita il lettore a prestare attenzione e cura alle occasioni e a credere alla straordinaria forza delle corrispondenze, a imparare a sorprendersi e a svincolarsi serenamente da tutto ciò che non è più un giovamento e limita il nostro essere, a seguire l'indicazione positiva delle decisioni, a ricevere tutto ciò che accade e allontanare tutto ciò che vaga. La poesia di Valentina Marzulli approccia la metamorfosi dell'anima, fa spazio all'inarrestabile ribaltamento delle situazioni, nella dimensione seducente e sconosciuta  del diventare altro, fluisce naturalmente nel luogo simbolico del riscatto e della serenità che protegge l'identità sacra dell'amore, culla l'immutabilità del bene e tutto quello che resta.

 

Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

 

 

IL SUO VUOTO

 

Il suo vuoto

aveva il colore

di tutti gli occhi malati,

delle mani sgarbate,

del suo corpo

per sempre marchiato.

Il suo vuoto

era pieno di sale,

e di terra,

e di strappi,

e di piccoli pezzi di cuore.

 

STATO DI NATURA

 

Come acqua scorro,

turbolenta, tra i miei pensieri.

Come un sasso affondo,

tutta intera, tra le mie voglie.

Come un naufrago mi abbandono,

miserabile, ai miei tormenti.

 

CONTRASTI

 

Bianco.

L'orlo

del vestito

sul ginocchio.

Il seme

che si sparge

e cola piano.

Il cielo

che risplende

e, anche oggi,

scorre invano.

È nero.

 

AUT AUT

 

Vedere, non guardare.

Volere, non toccare.

Sentire, non pensare.

Capire, non parlare.

Amare.

 

 

UTOPIE

 

E domani amore,

             domani tu incontrami.

Lasciamo una volta,

              che la vita poi scorra,

              che la Luna rinasca,

              che il destino si compia,

che nei tuoi baci io muoia.

 

LE STELLE POI CADRANNO

 

Verranno giorni limpidi,

le nubi passeranno.

Al mare in pieno Agosto,

le stelle poi cadranno.

 

12 LUGLIO

 

Io non lo so

dove poi ce ne andiamo

quando smettiamo di esserci.

Dove finisce

tutto il nostro incessante pensare?

E tutti quei sogni, l'anima, i baci?

So di certo,

che quel mattino d'estate,

quando mi hanno chiamato,

io nel mio corpo esistevo

tanto quanto tu,

forse, dal tuo già te ne andavi.

Ed è stato un bene

che poi tu sia restato,

come avremmo saputo altrimenti,

in tanta confusione, dove ritrovarci?

La vita, come la morte,

è solo un passaggio,

così mi hai insegnato.

La prossima volta,

allora, ricordati di lasciarmi

il tuo nuovo recapito.

 

 

 

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Sirena Siderale

4 Novembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto, #fantascienza

In tre, vennero fuori dagli alberi, davano l’idea di una famiglia, avevano persino un cane.
Solo che erano Permutanti. Non se ne vedevano da anni, li riconobbi per averne studiato sulle tavole d’anatomia comparata.
Allora gestivo da solo questa taverna, avevo troppo da fare per imparare le lingue di posti di cui non m’importava un fico secco, perciò ebbi difficoltà a capirli. Ma tutti i profughi sono uguali e quei tre - padre, madre ed un bimbo brutto e ricciuto - avevano bisogno di un letto e di mangiare. Mi pagarono in anticipo, sebbene di soldi ne avessero pochi.
Assegnai loro una stanza stretta ed umida. Accettarono, senza discutere, stremati com’erano. Chiesero solo di poter consumare i pasti in camera.
Gli portavo il cibo ad ore stabilite, ma una sera, avendo molto da fare, decisi di anticiparmi, e già all’imbrunire salii la scala traballante con il vassoio della cena.
Fuori della porta mi soffermai, poiché, da sotto, filtrava una strana luce e si udivano mormorii d’una tenerezza infinita. Accostai l’occhio al buco della serratura.
Vidi i due adulti chini su qualcuno che, sulle prime, pensai essere il figlio.
Quando si scostarono un poco, fra loro scorsi una giovinetta con la pelle di madreperla e lunghi capelli bianchi sciolti sulle spalle.
Era bellissima. La bocca solo un taglio nel volto, gli occhi così indefiniti da dimenticarli appena ti voltavi, eppure sembrava illuminata come avesse dentro la luna.
Non riuscivo a parlare né a distogliere lo sguardo, mentre i due adulti si asciugavano lacrime furtive, e la figura vacillava, ondeggiava, si fondeva.
Un attimo, ed era svanita.
Al suo posto, il brutto bambino, con il capo proteso per accogliere carezze compiaciute ma distratte.
Mi occorse qualche istante per riavermi, e per rendermi conto che, per la prima volta, avevo assistito alla mutazione di un Permutante.

Nei giorni successivi, la visione mi perseguitò. Ardevo dalla curiosità e dalla brama di rivederla, inventavo mille scuse per salire al piano di sopra. Quando la strana luce filtrava da sotto la porta, non resistevo ed accostavo l’occhio al buco della serratura, con il cuore in tumulto.
Ogni volta mi appropriavo di un dettaglio. Le mani affusolate, il vestito d’argento, la pelle trasparente. Certe sere non vedevo nulla.
La notte la sognavo, pallida sirena lunare. Veleggiavamo per le galassie tenendoci per mano, il suo vestito era la coda argentea d’un nobile pesce stellare.
La fiamma del mio amore cresceva, volevo lei e solo lei, senza pensare alle sgraziate spoglie sotto cui si celava. Perché tanta bellezza, tanta armonia, mi dicevo, in questo mondo così brutto, di certo si nascondeva.
Avevo imparato a cogliere il momento in cui le sembianze del bambino trascorrevano ed ondeggiavano come segni sull’acqua, fino a fluidificarsi e ricomporsi nella perfezione finale. Trepidante, spiavo l’apparire della forma amata, il suo condensarsi nella luce. Ed anch’io partecipavo dell’amore che gli altri le tributavano e che lei emanava.
Ma guardare non mi bastava più. Volevo avvicinarla, parlarle, toccarla.
Una sera non riuscii a trattenermi e spalancai la porta.
Il cane abbaiò, gli adulti si voltarono di scatto, sorpresi, imbarazzati.

Provenivano, spiegarono a gesti, dalle terre invase. Della loro bella città era rimasta in piedi solo qualche colonna del tempio. E proprio nel tempio aveva trovato la morte la loro figlia maggiore, quando l’esplosione aveva distrutto ogni cosa.
Era per tener vivo il ricordo della sorella, che il piccolo si prestava ad assumerne i lineamenti, pur che gli amati genitori avessero l’illusione di rivederla ancora, di risentire la sua voce.
Anche oggi, che lui non è più un bambino, oggi che i suoi sono entrambi morti, e che io sono vecchio, di tanto in tanto, bonariamente, tuttora si concede. Lo fa perché il bravo oste, che portava da mangiare gratis ai suoi genitori, possa ancora sognare la sacerdotessa venuta ad offrirgli un poco d’amore.
E l’amore, si sa, in questo nostro mondo, ormai è difficile da trovare.

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Gli angeli di St. Jeremy

16 Agosto 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Legno incrinato dalla pioggia e dal sole, isolanti di porcellana, stormi di uccelli neri appollaiati sui fili. Conto i pali del telegrafo e salto giù dal postale in corsa.
Trentatré pali. Trentatré come gli anni di Cristo.
Scendo perché St. Jeremy è un buon posto per passarci la notte di Natale. Dice che si sentono cantare gli angeli, i bambini tengono accesa apposta una candela davanti alla finestra.
Guado la piazza della chiesa, ululando la mia canzone. Sister Death, Sister Death, why don’t you take me back?
Strascico i piedi, le pezze non bastano a proteggermi dai geloni. Nelle toppe s’infilano le palle di neve dei ragazzacci, i cattivi ragazzi sono dappertutto.
Mi vedo nella vetrina Keaton’s, mentre sbavo sulle salsicce appese a festoni, insieme con un bastardo nero che mi s’è accodato. Ho il solito farfallino al posto del colletto e l’abituale viso grinzoso. Me ne vado ed il bastardo mi segue.
Seduto su un gradino, rovescio il cappello fra le ginocchia e mi arrotolo una cartina. Angeli o non angeli, se prima di notte un verdone cascherà nel feltro bisunto, pagherò la branda del reverendo Gordon, che Dio lo spiaccichi da quel pidocchio che è. Sorella Rosy appoggia accanto al cappello un piatto legato con un tovagliolo. “Jack, l’hai scampata anche quest’anno?”
“E tu, brutta puttana?”
Lei se ne va.
Le ore passano, inizia a nevicare. Un paio di monete piovono nel berretto. Carità da notte di Natale, carità pelosa.
Dalle finestre vedo le donne che riempiono di castagne i tacchini sbuzzati. Immagino di addentare una pelle croccante alla luce tremula di un cero. I bambini ritagliano stelle di stagnola, poi si affacciano alla finestra e depositano una candela accesa sul davanzale.
Trillano i campanelli dei fattorini, sembrano i sonagli della slitta di Santa Claus. Tutte le porte, coronate d’agrifoglio, cantano inni di gioia.
Tutte, meno la porta Mac Dowell. Non ha un festone di bacche rosse come le altre, ha una coccarda nera. Mi parla, la sua voce oliata esce dal battente. “Il ragazzo è morto”, dice, “e la vecchia non si dà pace.” E se mi spostassi due case più in là, dove la luce parla di festa e si sente odore di moccolo e arrosto? Invece appoggio la schiena contro la porta Mac Dowell.
Passano un uomo ed una donna. “Hai visto?”, sussurrano, “Mary Mac Dowell non ha tolto il nastro nero. Perché la tira tanto in lungo?” Buttano un verdone nel cappello, nessuno ti rifiuta un pezzo di pane in una notte come questa.
Adesso ho il mio verdone. Ora posso andare giù alla missione. Quello spilorcio del reverendo mi darà da dormire, ho il mio verdone.
Indugio, con le mani affondate nel pelo del cane, mi rannicchio contro la porta Mac Dowell. Il bastardo mi lecca i piedi, ha lo stesso colore della coccarda.
I gradini si sono ammorbiditi perché la neve infittisce. La lingua del cane è tiepida sulle gambe che non sento più, laggiù in fondo ai pantaloni.
Faccio compagnia alla porta nera, mentre la neve cade, gelida e dolce.
Sister Death, Sister Death, why don’t you take me back? E’ la mia voce che canta.
Poi non è più la mia voce.
La strada è diventata buia o forse io ho chiuso gli occhi. Sento qualcuno che canta ma non sono io, giuro.
In mezzo ai fiocchi sfarfallano gli angeli, piroettano in spirali di neve, cavalcano pupazzi di ghiaccio. Li guardo vorticare nei cristalli, sfiorare le porte con le ali intrise di neve. Tutte le porte, ma soprattutto la porta Mac Dowell.
Non ho freddo, non ho paura. Dentro la casa, Mrs Mac Dowell non piange più, sento solo la voce degli angeli.
Gli angeli di St. Jeremy che cantano.

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In giro per l’Italia: Saepinum-Altilia

25 Giugno 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

Flaviano Testa ha pensato di farci conoscere, con le sue fotografie, un luogo fuori dal tempo e anche dalle mete turistiche di massa. In questo nostro mondo pieno di colori e di rumori, troviamo ristoro di fronte a queste belle immagini in bianco e nero che per un attimo ci trasportano nell’antichità.

Ai piedi del Matese, nei pressi di Sepino, sorge un’area archeologica di grande interesse e di particolare bellezza per la sua conservazione: Altilia-Saepinum. Altilia, con le sue rovine, è inserita in uno scenario unico: un paesaggio agrario nel quale sono state conservate le opere di edilizia rurale sei-settecentesca e si presenta oggi ricca di un fascino particolare grazie al restauro effettuato e ancora in corso. Il sito ha ottenuto il prestigioso riconoscimento a livello nazionale di “Meraviglia italiana”. È scudo blu internazionale, titolo concesso, secondo la Convenzione de L’Aja (1954), a protezione dei Beni Culturali, per la difesa dei quali vengono promosse azioni di protezione, prevenzione e sicurezza in tutte le situazioni rischiose, come i conflitti armati e le calamità naturali. Saepinum nacque in epoca remota, ancor prima della civiltà sannita, come luogo di scambi, di commercio e di sosta poiché in posizione strategica all’incrocio di due importanti vie di comunicazione, una giunta ai giorni nostri come “tratturo”, la Pescasseroli –Candela, e l’altra che collegava la pianura alla zona montana del Matese. Divenuta Municipio romano, mantenne l’antico assetto viario del precedente insediamento sannita, risalente a periodo antecedente il IV secolo a.C. Il primo tracciato completo della città fu costruito da Tiberio, negli anni tra il 2 a.C. e il 4 d.C. Il perimetro urbano fu circondato da mura nelle quali si aprivano quattro porte monumentali in corrispondenza degli assi stradali. La cinta muraria era di 1270 metri di lunghezza, provvista di 29 torri erette a difesa delle quali oggi ben 19 sono identificabili. All’interno la città, che ebbe la sua definitiva estensione in età augustea, presentava tutte le caratteristiche dell’insediamento romano con il foro all’incrocio tra cardo e decumano, edifici di culto e di commercio, terme, basilica, case di abitazione e teatro. Edificio questo fra quelli meglio conservati, addossato alla cinta muraria, la struttura era costituita da due parti: l'edificio scenico e la cavea. Del fronte scena oggi rimangono le tre porte di accesso al palco, due delle quali fanno parte di un casolare che ha preso il posto di gran parte dell'edificio scenico. Fra questo e le gradinate trovava posto l'orchestra, lo spazio per i musicisti (oppure per i gladiatori) e la capienza è stimata in circa tremila posti a sedere. Proprio su parte del teatro furono edificate nel XVII secolo le casette rurali che, oggi, conservate e restaurate, contribuiscono ad aumentare il fascino del luogo. Una di queste costruzioni ospita il Museo in cui sono conservati i reperti di maggiore interesse venuti alla luce durante gli scavi. Fuori dalla cinta muraria spicca il Mausoleo di Numisio Ligure: risalente alla prima metà del 1 secolo d. C., è il monumento funerario della famiglia di Publius Numisius Ligus, un importante magistrato della città. L'edificio, interamente ricostruito, è a forma di ara su una base quadrata e modanata. Sul prospetto un'iscrizione riporta la carriera del magistrato e l'episodio della prematura morte del figlio, in occasione della quale venne eretto il monumento. Nel IV secolo d.C. iniziò l’inarrestabile decadenza di Saepinum. Il disastroso terremoto del 346, la caduta dell’impero romano, le invasioni barbariche condussero la città a una grave crisi economica, gli edifici lasciati all’incuria crollarono e gli abitanti l’abbandonarono. In seguito, le scorrerie dei saraceni spinsero i pochi rimasti verso la collina dove sorge l’attuale Sepino. Intorno al XVI secolo i contadini tornarono a stabilirsi nella piana dove ripresero a lavorare le terre, recuperarono pietre e capitelli e si costruirono abitazioni e stalle sul vecchio insediamento oramai coperto da uno spesso strato di terreno. Le strutture della Saepinum romana sono state riportate alla luce per gran parte negli anni 50 e gli scavi sono ancora in corso.

In giro per l’Italia: Saepinum-Altilia
In giro per l’Italia: Saepinum-Altilia
In giro per l’Italia: Saepinum-Altilia
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Intervista ad Andrea Campucci

24 Marzo 2018 , Scritto da Sonia Russo Con tag #interviste

 

 

 

 

 

 

Porn food è un libro di Andrea Campucci pubblicato da Leone nella collana Sàtura. Con un’ironia a volte noir, lo scrittore ci racconta la sua ultima creatura sparando a zero, e mai termine fu più appropriato, sul mondo dei social. Ecco cosa ci ha detto.

 

Partiamo dal titolo: perché Porn Food?

 

Il titolo è l’inversione dell’hashtag #foodporn, un affare che nel neolinguaggio della rete sta a indicare una sorta di coazione a condividere roba come un piatto di carbonara, i carciofi ripieni o il pollo alle mandorle sui principali social e guadagnarci un sacco di like da amici, parenti o perfetti sconosciuti. Un comportamento del genere non può non far pensare a un TSO il più possibile generalizzato e capillare. Ma al di là dell’immagine del cibo, che alla fine è soltanto una metafora gastronomica, quello che mi colpisce è come si sia ingigantita questa sovraesposizione social qualunquista: foto di vacanze, foto di pranzi e cene in famiglia, foto di coppiette che esistono solo perché si fanno uno scatto in spiaggia e si beccano trenta commenti festosi… La sfera dell’intimità si è come polverizzata sparando emozioni, ricordi e sapori in Adsl e fibra ottica e sradicandoli dal perimetro personale cui sono logicamente legati. Eccoci quindi approdati alla dimensione dell’ostentazione gratuita, immotivata, proprio per questo pornografica. Mi collego a YouTube e scopro che fra i video più visualizzati c’è “Come si fa il nodo alla cravatta”. Se questo non vuol dire esser sprofondati nell’assurdo… Ecco che allora mi si pianta in testa quest’idea della rete come di un’immensa discarica emotiva: biscotti di frolla e torte di mele, follie vegan e gameplayer… Non so come ma a un certo punto m’è venuta voglia di sparare a qualcuno…

 

A quale genere appartiene questo romanzo?

I generi di solito li stabiliscono le classifiche dei più letti il fine settimana su Repubblica o Panorama, o li segue il critico letterario di Voghera. Ma viviamo in un’epoca in cui i gusti letterari sono stati surclassati dalle categorie di YouTube, che siano i lettori a farsi una loro idea.

Com’è nata la storia e quanto tempo hai impiegato per scriverla?  

 

Si tratta di una storia vecchia, vecchissima, che ho scritto e riscritto una quantità innumerevole di volte. Lo spunto iniziale nasce comunque da una suggestione quasi esistenzialista. Camus e la categoria dell’assurdo, assurdo che si concretizza nell’idea di un delitto immotivato e per il quale non esiste una possibile espiazione. Sono tematiche immense, che io ho volutamente ridicolizzato con questioni del tipo: “Chi sarebbe oggi Mersault – lo straniero? Come apparirebbe il suo profilo Instagram?”. È un po’ come se avessi voluto agganciare L’homme révolté a un’epoca condannata all’onanismo, alla virtualizzazione del desiderio, e in questo senso il finale di Porn food è rivelatore.

 

Nel corso della stesura hai mai avuto il blocco dello scrittore? Se sì, come l’hai superato?  

 

L’ho avuto per anni e l’ho superato scrivendo Plastic shop – ora alla sua terza ristampa – e il libro che seguirà Porn food, ma non c’è nessun collegamento fra i tre.

 

Il protagonista si chiama Andrea. Oltre al nome, ha altri punti in comune con te? 

Il dilagante conformismo dei social, con annesso ottundimento mentale di chi ne è schiavo, può portare sul serio a squilibri che sfociano nella misantropia, o a ideazioni omicidiarie che scaturiscono dal disperante spettacolo dell’"esercito del selfie”. Quanto al mio alter ego, non preoccupatevi, ho provveduto a farne una figura ben più ingentilita di tanti fenomeni da baraccone rintracciabili sul web.

 

Quando hai cominciato a scrivere sapevi già come sarebbe andata a finire?  

No. Anche perché, come dicevo, il testo ha subito così tanti rimaneggiamenti che la stessa storia ha finito per risentirne. Quando l’ho iniziata Facebook, Google, YouTube etc. non erano quello che sono diventati adesso, nuove funzioni, nuove app, nuove emoticons. Il loro cambiamento ha finito per produrre delle mutazioni nei comportamenti umani, per cui la scrittura del romanzo è stata anche un lavoro di adeguamento, un rincorrere e aggiornare una trama per forza di cose “ingabbiata” e adattarla a un contesto in continua evoluzione.

 

Quali sono i pregi di questo romanzo?

 Penso di essere stato il primo autore al mondo a parlare dell’11 settembre in chiave hard, o di una versione porno della Defenestrazione di Praga.

 

C’è un messaggio sottinteso?

Di solito cerco di non procedere per sottintesi. Porn food è il titolo di un progetto teatrale da rappresentare in una discarica e questo può anche avere un valore meta letterario. Tutto il resto è passione per profili Facebook nonsense o sanguinari, pornomania e youtuber deliranti. Ah, dimenticavo, c’è anche un serial killer… Meno sottintesi di così…

 

Perché dovremo averlo nelle nostre librerie?

  Perché ha una copertina proprio bella.

 

Stai già pensando ad un nuovo libro? 

 Il nuovo libro è già terminato. Ha solo bisogno di qualche schiaffone e di un cordiale rinvio a settembre.

Di Sonia Russo (da Trendy News)

 

Intervista ad Andrea Campucci
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Mario Bonanno, "Guida ai cantautori italiani"

6 Luglio 2018 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #musica

 

 

 

 

 

Mario Bonanno
Guida ai cantautori italiani
Gli anni Settanta

Paginauno, 2018

- Pag. 140 - Euro 15

 

Mario Bonanno è un nome importante nel panorama della critica musicale italiana, profondo conoscitore del mondo dei cantautori che segue con passione e competenza sin dai tempi di una rivista trimestrale edita da Bastogi, della quale ogni appassionato sente la mancanza. Leggere un libro di Bonanno equivale a staccare un biglietto per un viaggio a ritroso nel tempo, percorri strade composte da struggenti madeleines musicali e cavalchi ricordi giovanili. Finisce che leggi il suo libro canticchiando - pure se sei stonato come una campana - e scende quasi una lacrima con Notte prima degli esami, non tanto per una ragazza di nome Claudia che viveva sulle sponde del Lago d’Orta, quanto perché eri giovane e facevi il commissario d’esame alla maturità. Per ogni capitolo un frammento di passato da sfogliare come un petalo di margherita: Venditti con Nietsche e Marx che si davano la mano - non erano due amici dai nomi strani, come pensava un mio vecchio compagno di scuola -, per non parlare di Dalla e dei cattivi pensieri finiti in fondo al mare. Canzoni e amori, passioni più o meno violente, politiche e sentimentali, mentre quasi ogni giorno da vent’anni a questa parte ascolti L’avvelenata di Guccini, così come Luci a San Siro di Roberto Vecchioni è il leitmotiv che ti ricorda l’ora di andare in ufficio. Lascia stare se con l’età tutto finisce per fare nostalgia, persino i Pooh e i Nuovi Angeli, Antoine e Nico Fidenco, passando per Nada e Nicola Di Bari, senza dimenticare i Ricchi e Poveri che straziarono un grande pezzo di José Feliciano che ormai conosci più in spagnolo che in italiano. Lascia stare che il tempo perduto alla fine mette tutto sullo stesso piano, pure se lo sai che Jannacci con Messico e nuvole non ha niente a che spartire con Nannini - Bennato e le Notti italiane inseguendo un gol. Sarà perché nel 1970 avevi dieci anni e tutto era ancora intero, tutto era ancora chi lo sa, sarà perché gli occhi del bambino vedevano il Messico lontanissimo e sognante, sarà perché andammo in finale contro il Brasile e quella canzone incarna un bolero di nostalgia. De André con i Vangeli apocrifi, gli inni dolenti alle puttane di via del Campo, a una dolcissima Marinella volata in cielo su una stella, la musica che non sarà più la stessa, dopo la mia cara piattola triste presa di mira dai mitici Squallor. Claudio Lolli e la sua Borghesia mi ricorda Marcello Baraghini e un festival resistente, pochi anni fa, in una stalla di Pitigliano, vicino al quartiere ebreo, a sentire il cantautore anarchico sputare veleno contro il potere. Paolo Conte e Un gelato al limone fa venire a mente Pisa, un concerto al teatro Verdi, lui che batte nervosamente tasti d’un pianoforte a coda con la testa nascosta tra note e pensieri, mentre percorre ritmi sudamericani; Battiato è la memoria d’un concerto a Piombino nei primi anni Settanta, in un cortile, quattro gatti a sentir cantare un ragazzotto siciliano. De Gregori è Rimmel, il mio primo trentatré giri comprato nel negozio di articoli musicali della mia città, dopo che avevo saccheggiato tutti i quarantacinque giri editi da Karim incisi da Fabrizio. Stefano Rosso è la poesia, le partite di calcio, gli spinelli mai fatti (per fortuna) e gli intervalli tra il primo e il secondo tempo allo Stadio Magona quando passavano sempre la domenica ho problemi grossi/ segna Giordano oppure Paolo Rossi. Per me in questa Guida ai cantautori degli anni Settanta soffia forte un vento di nostalgia, ricorda un biscotto inzuppato nel tè dal sapore antico, soffuso, amaro, ebbro di rimpianto. Bravo Bonanno che mi hai fatto venire a mente un sacco di cose, tu certo lo sai che la letteratura nasce dai ricordi, proprio come la buona musica, positivi o negativi non importa, restano sempre frammenti di passato.

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

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Il Barbarossa e la saga di Kyffhäuser

10 Giugno 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #storia, #personaggi da conoscere, #miti e leggende

 

 

Mentre i Comuni a poco a poco s’ingrandivano, papi e imperatori discutevano fra loro su chi fosse più importante. Gli imperatori si sentivano eredi dell’Impero romano che aveva dominato il mondo e pensavano che anche la Chiesa dovesse loro ubbidienza. I papi ritenevano che farsi carico delle anime fosse più importante che occuparsi dei corpi. Inoltre il Sacro Romano Impero era stato concesso a Carlo Magno da un papa. La chiesa sosteneva, dunque, che il Papa fosse il vero padrone dell’Impero e avesse il diritto di affidarlo solo a quei signori che godessero della loro fiducia. E qui entra la questione del diritto. A quei tempi era normale pensare che qualcuno avesse il diritto di governare su altre persone, solo per il fatto di essere figlio di persone già potenti e famose.

La lotta fra papato e impero divenne più aspra circa milleduecento anni dopo la nascita di Cristo. L’Imperatore si accorse di perdere terreno e cercò una terra sulla quale rafforzare il proprio potere. La scelta cadde sull’Italia. Da noi i feudi erano piccoli e fedeli all’imperatore, c’erano molti Comuni ma l’Imperatore sottovalutava la forza di artigiani e commercianti, in una parola della borghesia. Quanto al Papa, non aveva un esercito.

L’imperatore Federico, detto il Barbarossa, (1122-1190) raccolse un esercito di nobili feudatari fedeli e attraversò le Alpi, in cerca della nostra terra solatia e ricca. Pensava a una facile conquista. Come potevano i Comuni mercantili ribellarsi ai migliori cavalieri di Europa? Ai Comuni interessava solo rimanere liberi e commerciare, ma l’Imperatore voleva davvero diventare il padrone di tutto e di tutti. Riuniti nel suo accampamento i rappresentanti dei Comuni, impartì i suoi ordini: ogni Comune non avrebbe più dovuto battere moneta, né legiferare, né amministrare la giustizia. Avrebbe dovuto accogliere come capo un feudatario fedele all’Imperatore, avrebbe dovuto pagare tutte le vecchie tasse come i pedaggi e i pontatici, insomma tutto doveva tornare come prima e i cittadini si dovevano rassegnare a non essere più uomini liberi.

Poi fu la volta del Papa. Barbarossa chiese che Roma diventasse la capitale del suo Impero e che il Papa riconoscesse la sua inferiorità all’Imperatore.

I Comuni non ubbidirono e il Papa nemmeno.

Sul Barbarossa circolarono molte leggende, anche a causa della sua morte improvvisa mentre guadava un fiume. Una è quella dell'eroe dormiente, collegata alle più antiche britannico-celtiche di Artù e del Mabinogion. Tale leggenda vuole che egli non sia morto, ma addormentato con i suoi cavalieri in una caverna nelle montagne di Kyffhäuser in Turingia e che quando i corvi cesseranno di volare intorno alla cima, si desterà e porterà la Germania alla sua antica grandezza. A dominare il monumento eretto in suo ricordo è una torre alta 57 metri sormontata da una enorme corona imperiale. Una scalinata di 247 gradini conduce alla sommità della torre.

La saga di Kyffhäuser era nata per suo nipote Federico II, ma nel corso del secolo XIX, alcuni scrittori tra cui i fratelli Grimm, nell'opera le Saghe germaniche, ripresero la saga del monte Kyffhäuser, attribuendola al Barbarossa, dove egli è addormentato, seduto a un tavolo e la sua barba rossa cresce smisuratamente e ha già fatto due giri intorno al tavolo. Quando si completerà il terzo giro, Federico si sveglierà e combatterà una straordinaria battaglia: sorgerà il giorno del giudizio.

In realtà Barbarossa, come si usava allora, dopo la morte fu messo in acqua bollente per staccare la carne dalle ossa, ossa che dovevano in seguito essere portate in Terrasanta. Non ci arrivarono mai.

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