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ALCYONE 2000 – QUADERNI DI POESIA E DI STUDI LETTERARI, vol.17

3 Novembre 2023 , Scritto da Raffaele Piazza Con tag #raffaele piazza, #recensioni, #riviste letterarie

 

 

 

 

ALCYONE 2000 – QUADERNI DI POESIA E DI STUDI LETTERARI, vol.17

Guido Miano Editore, Milano 2023

 

 

La composita, corposa ed eclettica pubblicazione, che prendiamo in considerazione in questa sede, Alcyone 2000 - vol.17, costituisce un volume che per la sua essenza, vista la commistione di saggi di critica letteraria, recensioni, sillogi poetiche, con articoli su pittori e scultori, corredati da belle riproduzioni a colori delle opere, si può considerare un ipertesto, per l’infinito gioco di rimandi tra le varie parti, per la qual cosa il fortunato lettore immergendosi nella lettura affonda nelle pagine incantato da tanta bellezza e intelligenza.

I volumi “Alcyone 2000”, pubblicati da Guido Miano Editore, pur essendo impaginati come una rivista sono dei veri e propri repertori di critica letteraria e poesia e si occupano anche di arte: si distinguono per la qualità dei saggi pubblicati, la cura e la professionalità. Per esempio i nomi dei critici letterari e dei poeti nonché dei pittori e degli scultori che hanno firmato le parti letterarie e figurative sono tutti importanti nel panorama letterario, artistico e culturale non solo italiano. Un simile repertorio, nel mare magnum di una società postmoderna, globalizzata, liquida e consumistica come la nostra, che vede la caduta dei valori e il prevalere della mentalità dell’avere su quella dell’essere, come già stigmatizzato da Erich Fromm negli anni ottanta del secolo scorso, nella sua fruizione può divenire un’ancora di salvezza per ogni suo lettore, antidoto contro l’alienazione tipica nella vita attuale, attraverso una salutare immersione a trecentosessanta gradi nell’arte e nella cultura.

Ben vengano questi quaderni quasi come espressione del pensiero divergente anche perché cartacei, non destinati solo a un limitato numero di cultori, ma a chiunque abbia voglia di fare propri felicemente gli alti contenuti eterogenei del repertorio, che evoca per il lettore atmosfere simili a quelle degli oceani della tranquillità lunari, o la vicinanza con i grandi laghi portatori di pace allo spirito per usare delle metafore.

 

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Non avendo la possibilità, nello spazio di una recensione, di analizzare tutti gli articoli presenti nel volume, ci si limita ad esaminare - a livello esemplificativo -  per la saggistica l’articolo Paesaggio di Quasimodo di Giuseppe Zagarrio; per l’arte l’articolo sullo scultore e poeta Don Marco Morelli e per la poesia la silloge di Cinzia Magarelli, per me una scoperta, una nuova poetessa di Milano alla sua prima pubblicazione.  

In Paesaggio di Quasimodo il saggista scrive sul tema affascinante del senso della notte per il Premio Nobel siciliano, la sua percezione anche di paura della notte, una notte che partendo dal dato fenomenico delle atmosfere del buio del firmamento, redento dalle stelle e dalla luna, viene interiorizzata dal poeta e ovviamente diviene occasione per i componimenti poetici di Quasimodo stesso che il critico cita: «…Dammi vita nascosta / e se non sai me pure occulta, / notte aereo mare…» (Vita nascosta). «…mobile d’astri e di quiete / ci getta notte nel veloce inganno: / pietre che l’acqua spolpa ad ogni foce…» (Mobile d’astri e di quiete). Scrive Giuseppe Zagarrio che Quasimodo è poeta che ama a questo modo la notte per quella sensazione che da essa viene: di pienezza nell’annullamento e di delirio nell’angoscia. Per il poeta il timore di sperdersi nella notte, fa venire in mente L’infinito leopardiano e in particolare il verso «e il naufragar mi è dolce in questo mare», ma se il recanatese trova dolce la sua fusione con il cosmo, Quasimodo la vive anche con dolore e inquietudine: «…Ti cammino sul cuore / ed è un trovarsi d’astri / in arcipelaghi insonni, / notte, fraterni a me / fossile emerso da uno stanco flutto…» (Dammi il mio giorno). La notte è per Quasimodo ambivalente portatrice di un sogno ad occhi aperti pauroso e soave nello stesso tempo, residenza per l’anima in un misticismo naturalistico vissuto e sentito con tutti gli strumenti umani.

 

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Per la sezione arte ci soffermiamo sull’articolo di Enzo Concardi riguardante Don Marco Morelli scultore, poeta e filosofo, del quale sono inserite varie riproduzioni di opere in terracotta e in bronzo. Nato nel 1942, il Nostro come scultore autodidatta ha avuto la prima commissione pubblica nel 1973 e ad essa sono seguite decine di commissioni per varie chiese. Dalle forme armoniche e plastiche in altorilievo le sue sculture hanno qualcosa di neoclassico; tra queste spicca una Crocefissione in bronzo, originale perché in essa Cristo, accolto dal Padre, è circondato da vari Santi e Sante che condividono il suo atrocissimo dolore per consolarlo. Come afferma lo stesso Don Morelli nella sua arte ritroviamo una commistione di Fede e filosofia che sottendono una consapevole coscienza artistica che non a caso raggiunge esiti mirabili.

 

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La poetessa Cinzia Magarelli è presente con la silloge La carezza della vita composta da poesie brevi e concentrate neo liriche tout-court. Scrive nella sua nota Concardi: «…e vita è la dimensione, il luogo esistenziale, l’esperienza emotiva più visitata nel dipanarsi della sua ricerca di una serenità vissuta e forse conquistata…». Un ottimismo intelligente pervade queste liriche nel senso di ammirazione per il Creato e la pratica della poesia stessa fa in modo che la creatura diventi persona.  È forte il tema dell’amicizia in Amica componimento pervaso da gioia: «Aperta era la porta / selvatica amica / dal cuore gitano / rifugio, / minuti rubati / alla vita che era / luce negli occhi / cuore intelligente. / La vita è bella». Nella lirica Per mio marito leggiamo: «Oggi ti vedo / luce nuova / vera promessa / le mani ti ho dato / arrese nelle tue, / coraggioso compagno / ti seguo». Il poiein di questa opera prima della Magarelli brilla per bellezza, originalità, icasticità, leggerezza e luminosità.

       Raffaele Piazza

 

 

Alcyone 2000 – Quaderni di Poesia e di Studi Letterari, n°17; Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 108, isbn 979-12-81351-16-5, mianoposta@gmail.com.

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Il grande Lebowski

19 Agosto 2017 , Scritto da Guido Mina di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #cinema

 

 

 

 

 

Questo articolo  è stato scritto da Guido Mina di Sospiro, pubblicato sul sito newyorkese Disinformation, e tradotto da Umberto Bieco

 

 

Più che un film Il grande Lebowski è il tipo di miracolo che, più raramente che occasionalmente, scivola attraverso le crepe dell'ingranaggio hollywoodiano. Questo perché il film precedente dei fratelli Coen, Fargo, guadagnò 7 nomination agli Oscar, e ne vinse due, per la miglior sceneggiatura originale e per la miglior attrice protagonista, Frances McDormand, tra l'altro moglie di Joel Coen. Quindi, sostenuti da un accresciuto prestigio, i fratelli Coen si imbarcarono nel loro successivo progetto, Il grande Lebowski, in cui il ruolo principale del Drugo è sublimemente interpretato da Jeff Bridges. Il Drugo, tra l'altro, fu ispirato da un uomo reale, Jeff Dowd, un addetto alle relazioni stampa che aiutò i fratelli Coen a lanciare Blood Simple (Sangue facile, 1984), il loro primo film.

 

Nel Drugo troviamo l'archetipo dello slacker, lo scansafatiche, secondo la definizione del dizionario, un giovane istruito che è antimaterialista, senza scopo, apatico, e che normalmente lavora in impieghi senza futuro. Infatti, il Drugo non sembra lavorare affatto. Gioca a bowling, però, e con passione.

 

Dopo il clamore suscitato da Fargo i critici si aspettavano, fatemi indovinare, un'altra dose di violenza esplicita sullo schermo, con persone che si fanno male tra i loro in modi inventivi (una cippatrice, ricordate?). Questo, secondo la visione del mondo esoterica che i mainstream media ci fanno digerire, è la via per gli Oscar e la fama: basti pensare a Il padrino 1 e 2, o a praticamente qualsiasi cosa di Tarantino, o allo stesso Fargo. Invece i fratelli Coen ci offrirono qualcosa che, nel 1998, lasciò la maggior parte dei critici perplessi. Che diamine avevano appena guardato?

 

Per trovare un senso al film, alcuni di loro tirarono in ballo Raymond Chandler, uno dei fondatori della scuola hard-boil della narrativa investigativa. In particolare, trovarono riferimenti a Il grande sonno, il primo romanzo di Chandler (1939), che fu adattato per lo schermo nel 1946 nell'eponimo film noir diretto da Howard Hawks. Ci sono senz'altro similarità. Più di tutte, entrambe le storie hanno un intreccio labirintico. Joel Coen ha detto “è una trama disperatamente complessa e in definitiva priva di importanza”. Ed ecco perché a molti critici è sfuggito il punto. Si sono persi nelle tortuosità della trama, che è più o meno risolta alla fine, se a qualcuno interessa seguirla.

Ma la trama era, di fatto, una parodia del genere. E non potrebbe essere altrimenti, in quanto il Drugo non è Philip Marlowe. Di nuovo, ci sono somiglianze superficiali: sono entrambi spiritosi e bevitori, ma questo è quanto. Il Drugo è uno stoner, un cannato, qualcuno che semplicemente non potrebbe appartenere all'universo di Marlowe. E soprattutto, il Drugo realizza una dimensione esoterica che è completamente mancante nel lavoro e nei personaggi di Chandler.

 

Citando Chandler: “Quando riguardo le mie storie sarebbe assurdo se non desiderassi che fossero state migliori. Ma se fossero state molto meglio non sarebbero state pubblicate. Se la formula fosse stata appena meno rigida, sarebbe sopravvissuta più scrittura di quel periodo. Alcuni di noi hanno provato piuttosto intensamente ad evadere dalla formula, ma usualmente venivano presi e rispediti indietro. Eccedere i limiti di una formula senza distruggerla è il sogno di ogni scrittore da rivista che non sia uno scribacchino senza speranza”.

Dopo il successo di critica e di pubblico di Fargo, i fratelli Coen si trovarono nell'invidiabile posizione di fare quel che più piaceva loro. E produssero un film che si sottrae a tutti i generi sfidandoli ed è assolutamente apprezzabile su molti livelli. Ad ogni modo, si aspettavano una ricezione ben migliore. Da allora Il grande Lebowski è diventato un cult movie, ed è chiaramente entrato in sintonia fin dall'inizio con le persone stanche delle minestre riscaldate hollywoodiane, persone che hanno trovato il Drugo e le sue bizzarrie se non altro rinfrescanti.

Il Drugo sembra propenso solo a giocare a bowling. Sorseggia dei White Russian il più frequentemente possibile e sembra sempre esserci un po' di erba a portata di mano. Dà molto valore al suo tappeto, su cui qualcuno minge. Infatti, il pisciare sul suo tappeto che “dà davvero un tono alla stanza” può essere visto come l'origine di tutti i mali. Quando riesce a prendere un nuovo tappeto dal Lebowski milionario, il Drugo viene mostrato steso su di esso, intento ad ascoltare con il suo Walkman registrazioni ambientali di una sala da bowling, e sembra sereno come un serafino.

Più avanti nel film, dopo che Drugo ha aiutato la figlia del milionario - Maude – a concepire (recitata molto bene da Julianne Moore), sentiamo il Drugo dirle che in gioventù ha contribuito a redigere la Dichiarazione di Port Huron che fondò il comitato Studenti per una Società Democratica, ed era un componente dei Sette di Seattle. Citando uno dei passaggi della Dichiarazione: “L'umanità ha disperatamente bisogno di una leaderhisp visionaria e rivoluzionaria per rispondere ai suoi enormi e profondamente radicati problemi, ma l'America langue in uno stallo nazionale, i suoi obiettivi sono ambigui e dettati dalla tradizione quando dovrebbero essere freschi e di vasta portata, la sua democrazia apatica e manipolata quando dovrebbe essere dinamica e partecipativa.”

Il film si apre con il Presidente George H. W. Bush in TV che si riferisce all'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq con un “questa aggressione non durerà!”. Sembra incredibilmente retorico e falso. Infatti, alcuni giorni dopo, il Drugo usa la stessa dichiarazione per chiedere al Lebowski milionario di pulirgli il tappeto. Dopotutto, hanno orinato su di esso per un caso di scambio d'identità, scambiando il Drugo per il milionario. A questa ragionevole richiesta il milionario risponde con uno sbarramento di insulti pieni d'odio ai quali il Drugo risponde: “fanculo”.

In questa semplice asserzione vi è molto della prospettiva mentale ed emozionale del Drugo. Sono andati i giorni giovanili in cui scriveva urgentemente di una “leadership visionaria e rivoluzionaria”. C'è qualcuno come George H. W. Bush al timone, andiamo! Per cui, cosa può fare un uomo? Questo, sospetto, è quello che il film chiede. Il Drugo, un pacifista dichiarato, subisce la tortura dell'acqua nel suo stesso bagno, viene preso a pugni in faccia, pesantemente insultato sia dal milionario che dal capo della polizia di Malibu, viene schernito da un altro poliziotto, gli viene mentito, è sedotto da Maude che, forse con lungimiranza, vuole il suo seme, e ovviamente i suoi geni, per il suo bambino, ma certamente non un padre/marito. Non è tutto. La sua casa viene violata in diverse occasioni, e i nichilisti tedeschi minacciano il Drugo gettando un furetto (“Bella marmotta” esclama quando la vede la prima volta) nella vasca in cui sta facendo il bagno.

Quando Jesus, il giocatore di bowling pedofilo, gli dice: “Vedo che vi siete fatti strada fino alle semifinali. Dios mio, amico. Liam e io vi fotteremo per bene”, il Drugo risponde “Sì, beh, questa è solo, sai, tipo, la tua opinione, amico”.

La sua macchina scassata passa attraverso incidenti e disavventure di tutti i tipi finché viene finalmente incendiata. Non intasca nessuno dei compensi promessi dal milionario. E in aggiunta a quanto elencato tollera, per tutto il film e presumibilmente per il resto della sua vita, il suo amico di bowling, Walter, un veterano del Vietnam con problemi di gestione della rabbia, per usare un eufemismo. È la definitiva ironia: il vecchio hippy che fa coppia con un reduce che, come modus operandi nella vita civile, conserva un atteggiamento altamente belligerante.

 

E nonostante ciò, niente sembra coinvolgere il Drugo. Sì, si arrabbia (al punto che Walter gli dice: “Dai, stai facendo molto poco il Drugo, sei molto non Drugo”), impreca costantemente, e ribatte a Walter e a molte altre persone irragionevoli che sembrano stargli intorno come zanzare, ma presto si mescerà un altro White Russian, o si farà una fumata, o si rilasserà in un bagno caldo. Occasionalmente ripiega sui gentili movimenti del Tai Chi per tenere lo stress a bada. Come un mistico, si concentra sul disegno più grande. Ancora meglio, come un vero mistico, non si concentra affatto.

 

Molto si è detto del Drughismo, una filosofia di vita ispirata dal Drugo. Ma non c'è niente di nuovo in questo, in quanto sembra appartenere al grande flusso di Philosophia Perennis che, giù per i millenni, ha prodotto concetti marcatamente similari anche se espressi in modi differenti e da differenti culture ed epoche. E infatti i proponenti del Drughismo citano Lao Tzu, Epicuro, Eraclito, il Budda, e il Gesù Cristo pre-ecclesiastico come esempi di antichi profeti Drughisti.

 

Quel che nel Drugo è sublime è che non predica affatto. Ci ha provato in gioventù, e ora ovviamente vede la cosa come una follia giovanile. In qualche modo sopravvive con molti pochi soldi e trova il materialismo una bestia strana. Il “cinese” che originariamente piscia sul suo tappeto; il milionario; i Nichilisti tedeschi; il produttore di film porno; i teppisti assortiti – sono tutti materialisti molto attaccati alla ricchezza e intenzionati ad utilizzare la violenza per salvaguardarla o accrescerla. A causa di un caso di omonimia, egli è improvvisamente circondato da questo tipo di gente come se fosse entrato in un manicomio. Ma almeno è chiaro a lui e allo spettatore percettivo che sono tutti lunatici.

 

Il livello di aggressività, e latente o esplicita violenza, che rileva attorno a sé stesso è scioccante.

Dopo che ha fatto l'amore con Maude, le dice: “È un caso complicato, Maude. Un sacco di input, un sacco di output. Fortunatamente, mi sono attenuto ad un rigoroso, uhm, regime di droga per mantenere la mia mente, sai, agile”. Ciò è rivelatore. Il mondo attorno a lui è talmente andato a p......e di recente, che si è sentito forzato ad attenersi ad un “piuttosto rigido regime di droghe”. Normalmente, si ha la sensazione che le sue lunghe serate spese a giocare a bowling e un atteggiamento generalmente rilassato dovrebbe togliere la maggior parte dello stress. Ma lo stress, di recente, è stato enorme. Eppure, egli mantiene miracolosamente la sua pace mentale.

 

C'è qualcosa di trascendentale in questo: il Drugo si solleva al di sopra di tutte le circostanze. È arrabbiato per l'intero film, che non è affatto la sua natura, e i fratelli Coen meritano ulteriori lodi per una simile intelligente idea: estrapolare il Drugo dal suo abituale milieu e gettarlo in un circo pieno di ostili lunatici che vogliono qualcosa da lui e lo insulteranno, minacceranno e picchieranno per ottenerlo.

Siamo a milioni di miglia di distanza dal claustrofobico mondo di Raymond Chandler. Per essere onesti, egli scrisse i proprio romanzi all'apice del modernismo, un periodo teo-eccentrico e molto poco giudizioso nella storia della cultura occidentale in cui il mondo fu ridotto solamente alla percezione sensoriale e ad obiettivi materialistici.

Lao Tzu è un saggio della Cina antica e una figura chiave del Taoismo. Se egli sia effettivamente vissuto o sia una figura leggendaria rimane da stabilire, ma è considerato l'autore del Tao Te Ching, un libro fondamentale sia nel Taoismo filosofico che nella religione cinese. In esso, si trova l'asserzione: “bandisci la saggezza, scarta la conoscenze, / e il popolo ne profitterà cento volte”. Escludendo Platone e tutte le scuole neoplatoniche, così è come “l'amore di Sofia”, o della saggezza, la filo-sofia nell'Occidente è degenerata nell' “amore del sofismo” - precisamente il tipo di “saggezza” e “conoscenza” che Lao Tzu ci invita a scartare. Infatti, il Nichilismo, così presente nel film attraverso le azioni dei Nichilisti tedeschi,  probabilmente ridicolizza ciò a cui il mondo occidentale è malaccortamente arrivato dopo millenni di filosofia digressiva andata a male.

Il Drugo svetta sopra una tale incompleta e distorta Weltanschauung. E questo è quello che i critici mainstream inizialmente non sono riusciti a comprendere. Vedendo come il film raggiugeva il cult status e diventava, in effetti, popolare, sono ritornati ad esaminarlo, e hanno tardivamente scodellato recensioni favorevoli – dieci anni o più dopo la sua uscita originaria, alcuni di loro de facto ritrattando pubblicamente. Il fatto è che i critici mainstream hanno la pancia piena del canone Artistotelico/Euclideo/Cartesiano/Newtoniano/Darwiniano che ci hanno somministrato a scuola. Allora, se perseguono un'istruzione superiore, gli vengono servite ulteriori dosi dello stesso canone, di cui la storia del cinema è a sua volta pervasa. Cogliere le implicazioni de Il grande Lebowski era oltre le loro capacità, e infatti la maggior parte di loro non le ha colte. Ma fece vibrare le corde giuste di molti di noi, che vi sono ritornati ripetutamente, e l'hanno fatto conoscere agli amici. Fa un ottimo punteggio anche dal punto di vista della riguardabilità.

All'inizio si prova, invano, a concentrarsi sulla trama. Ma il film è anche molto divertente. Ci sono inoltre numerose gemme nei dialoghi: “[Walter] dì che quel che ti pare sulla dottrina del Nazionalsocialismo, Drugo, ma almeno ha un ethos” “[Walter] E inoltre, Drugo, “cinese” non è la, uh, terminologia preferibile... Asiatico-Americano. Per favore.” “[La moglie da esibire del milionario] A Dieter non importa nulla. È un nichilista” “[Drugo] Dev'essere estenuante”.

La fotografia e le sequenze oniriche sono clamorose, e la musica, un accompagmento perfetto, grazie anche a T-Bone Burnett, che è accreditato come archivista musicale. The Man In Me di Bob Dylan risuona ripetutamente ed è perfetta: “L'uomo in me compirebbe qualsiasi compito / e come ricompensa, chiederebbe poco / Ci vuole una donna come te / per arrivare all'uomo in me”. Naturalmente ciò potrebbe esser visto come un commento ironico sulla scelta di Maude. Ma infatti, nonostante le sue osservazioni denigratorie dopo aver fatto l'amore con il Drugo (“Vedi, Jeffrey, non voglio un partner. Infatti non voglio che il padre sia qualcuno che io debba vedere socialmente, o qualcuno che io voglia cresca il bambino stesso”) lei ha scelto il Drugo, tra tutti, nella moltitudine di potenziali donatori di seme. E ciò dev'essere perché egli è talmente disarmante che lei ha deciso, su due piedi, parlandogli nel proprio atelier, che lui era quello da cui voleva avere un bambino. Quindi qualcuno, in questo mondo materiale, comprende le potenzialità e le qualità del Drugo.

Infine, la recitazione è ispirata, soprattutto quella di Jeff Bridges e John Goodman, rispettivamente nei ruoli del Drugo e di Walter.

Il film finisce con la morte di Donny, il terzo componente della loro squadra di bowling, un uomo mite interpretato da Steve Buscemi (all'opposto del suo personaggio in Fargo) che è costantemente e sgarbatamente zittito da Walter. Ma nonostante Walter brandisca una pistola e persino un Uzi, e nonostante l'utilizzo da parte dei Nichilisti, stupefacentemente, di una sciabola, non c'è morte violenta nel film (evidentemente con disappunto dei critici mainstream): Donny muore di infarto. E il riversare delle sue ceneri da parte di Walter è ancora un'altra “pagliacciata”, come il Drugo la chiama, dato che le ceneri non finiscono nell'Oceano Pacifico, come voluto, ma, portate dal vento, principalmente in faccia del Drugo stesso.

Alla fine del film il narratore, un cowboy con un forte accento strascicato del sud interpretato da Sam Elliot, incontra di nuovo Drugo alla solita sala da bowling. L'intera avventura, o disavventura, sembra ora, è stato un caso di molto rumore per nulla, con due maggiori eccezioni: la morte di Donny, tragicamente, e la notizia che “c'è un piccolo Lebowski in arrivo”. Il Drugo non sa nemmeno questo, e probabilmente non gli sarà mai detto, e nemmeno lui indagherà: ormai conosciamo il personaggio abbastanza bene. Ma è di nuovo di buon umore,  si prepara per le finali del torneo di bowling, sereno e sorridente. Quella è la natura del Drugo. Il narratore dice: “Prendila comoda, Drugo – so che lo farai”. E il Drugo replica: “Sì, amico. Bè, lo sai, il Drugo sopporta”.

E questo è quanto: il Drugo sopporta. Alla faccia dell'avversità e della virulenza dell'intero mondo il Drugo, tra tutta la gente, è equilibrato, tollerante e coerentemente non-violento. Non colpisce mai di ritorno; il concetto di vendetta non sembra abitare la sua mente. Come se non bastasse, egli sembra implicitamente essere indulgente con un sacco di gente ultra-aggressiva, là fuori, che si comporterà come una massa di ostili lunatici. “E' bello sapere che è là fuori, il Drugo, a prendersela comoda per tutti noi peccatori” - alla fine commenta il narratore dopo che il Drugo se n'è andato.

Ci sono molti pacifisti nel mondo – fino a che la loro pazienza viene severamente messa alla prova, o i loro diritti palesemente usurpati. Ci sono anche persone persuase che la pace è il naturale stato dell'umanità. È una bella idea che sfortunatamente non corrisponde alla realtà. Anche il Buddismo concede “il male minore” per evitare “un male maggiore”. La storia è una tragica litania di aggressioni arbitrarie e invasioni. La pace sembra essere l'eccezione, la guerra la regola.

L'antico drammaturgo romano Plauto sintetizza la natura umana con “homo homini lupus” - l'uomo è lupo per l'altro uomo. Troppi esseri su questo pianeta prosperano sulla morte di altri, dai microbi ai predatori. Presumere che l'umanità è una fratellanza di, diciamo, angeli, è malaccorto. Anche gli alberi si uccidono l'un l'altro in una sorta di guerra chimica chiamata allelopatia.

In gioventù, il Drugo ha provato a cambiare il mondo, con un manifesto, nientemeno, occupando Berkeley e così via. Alla fine ha capito che era senza speranza. Ma ciò non l'ha fatto diventare un rancoroso, arrabbiato o vendicativo. E nemmeno è un esempio, come vorrebbe il cliché. Lui non fa, lui è. Anche quando provocato, non fa male a nessuno. Gli importa poco del denaro ed è, essenzialmente, un sensibile, onesto uomo con il tipo di pazienza e tolleranza che appartiene agli spiritualmente dotati. Egli non predica; ora nella saggezza della sua maturità, non lo farebbe mai; egli semplicemente sopporta. Con più persone come lui, il mondo migliorerebbe marcatamente.

 

 

 

 

 

 

More than a movie The Big Lebowski is the kind of miracle that, more rarely than occasionally, slips through the cracks of the Hollywood machinery. That’s because the Coen Brothers’ previous film, Fargo, earned seven Academy Nominations and won two, for best original screenplay and best actress in a leading role, Frances McDormand, incidentally Joel Coen’s wife. So, with a lot more clout behind them, the Coen Brothers embarked on their next project, The Big Lebowski, in which the leading role of the Dude is sublimely played by Jeff Bridges. The Dude, by the way, was inspired by a real man, Jeff Dowd, a publicist who helped the Coen Brothers in launching Blood Simple, their first film.

In the Dude we find the archetype of the slacker, i.e, according to the definition in the dictionary,  an educated young person who is antimaterialistic, purposeless, apathetic, and usually works in a dead-end job. In fact, the Dude doesn’t seem to work at all. He does bowl, though, and with a passion.

 

After the clamor over Fargo critics expected, let me guess, some more graphic violence on the screen, with people harming each other in inventive ways (a wood chipper, anyone?). That, according to the exoteric worldview we are made to digest by mainstream media, is the way to Oscars and fame: think of The Godfather I and II, or just about anything by Tarantino, or Fargo itself. Instead the Coen Brothers gave us an offering that, back in 1998, left the majority of the critics perplexed. What on earth had they just watched?

To make some sense out of the film, some of them brought Raymond Chandler into the picture, one of the founders of the hard-boiled school of detective fiction. In particular, they found references to The Big Sleep, Chandler’s first novel (1939), which was adapted for the screen in 1946 in the eponymous film noir directed by Howard Hawks. Indeed there are similarities. Most of all, each film is loaded with a labyrinthine storyline. Joel Coen said that “it’s a hopelessly complex plot that is ultimately unimportant.” And here is where many critics missed the point. They got lost in the convolutions of the plot, which is more or less resolved at the end if one really cares to follow it. But the plot was, in fact, a parody of the genre. And it couldn’t be otherwise, as the Dude is no Philip Marlowe. Again, there are some superficial resemblances: they’re both wisecracking and hard-drinking, but that’s about it. The Dude is a stoner, something that simply could never belong in Marlowe’s universe. And above all, the Dude brings forth an esoteric dimension that is completely lacking in Chandler’s work and characters.

Quoting Chandler: “As I look back on my stories it would be absurd if I did not wish they had been better. But if they had been much better they would not have been published. If the formula had been a little less rigid, more of the writing of that time might have survived. Some of us tried pretty hard to break out of the formula, but we usually got caught and sent back. To exceed the limits of a formula without destroying it is the dream of every magazine writer who is not a hopeless hack.”

After the critical and popular success of Fargo, the Coen Brothers found themselves in the enviable position of being able to do as they pleased. And they produced a film that defies all genres and is thoroughly enjoyable on many levels. They did, however, expect a much better reception. The Big Lebowski has since become a cult movie, and obviously it resonated from the very start with people who are tired of formulaic Hollywood concoctions and found the Dude and his antics if nothing else refreshing.

The Dude seems to be very keen only on bowling. He sips White Russians as often as he can and there always seems to be a little pot at reach. He makes much of his rug, which is “micturated upon.” In fact, the peeing on his rug “that tied the room together” could be seen as the source of all evils. When he manages to get a new rug from the millionaire Lebowski, the Dude is shown lying on it, listening in his Walkman’s headset to sounds recorded in a bowling alley, and looks as serene as a seraph.

Later on in the film, after the Dude has helped the millionaire’s daughter — Maude — to conceive (she is played very well by Julianne Moore), we hear the Dude tell her that in his younger years he contributed to drafting the Port Huron Statement that founded Students for a Democratic Society, and was a member of the Seattle Seven. Quoting one of the Statement’s passages: “Mankind desperately needs visionary and revolutionary leadership to respond to its enormous and deeply-entrenched problems, but America rests in national stalemate, her goals ambiguous and tradition-bound when they should be new and far-reaching, her democracy apathetic and manipulated when it should be dynamic and participative.”

The film opens with President George H. W. Bush on TV addressing Iraq’s invasion of Kuwait with, “This aggression will not stand!” It looks incredibly rhetorical and phony. In fact, a few days later, the Dude uses the same statement so as to plead with the millionaire Lebowski for him to have the rug cleaned up. After all, they peed on it because of a case of mistaken identity, taking the Dude for the millionaire. At this reasonable request the millionaire responds with a barrage of hateful insults, to which the Dude replies, “Fuck it.”

In this simple assertion lies much of the Dude’s mental and emotional outlook. Gone are the youthful days in which he would urgently write of “visionary and revolutionary leadership.” There’s somebody like George H. W. Bush at the helm, come on! So, what can a man do? That, I suspect, is what the film asks. The Dude, a self-confessed pacifist, is water-boarded in his own toilet, punched in the face, heavily insulted by both the millionaire and the head of the Malibu Police, mocked by another policeman, lied to, seduced by Maude who, perhaps long-sightedly, wants his semen, and obviously his genes, for her baby, but certainly not a father/husband.

That’s not all. His house in broken into various times, and the German nihilists threaten the Dude by throwing a ferret (“Nice marmot,” he exclaims when he first sees it) in the tub in which he’s taking a bath. When Jesus, the bowling pedophile, tells him: “I see you rolled your way into the semis. Dios mio, man. Liam and me, we’re gonna fuck you up.” The Dude replies, “Yeah well, that’s just, ya know, like, your opinion, man.”

His beat-up car goes through all sorts of accidents and misadventures until it’s finally set aflame. He pockets none of the rewards promised by the millionaire. And in addition to all of the above he puts up, for the whole film and presumably for the rest of his life, with his bowling buddy Walter, a Vietnam veteran with an anger-management problem, to put it mildly. It’s the ultimate irony: the former hippy paired up with the war veteran who, as a modus operandi in civilian life, retains a highly belligerent attitude.

 


And yet, nothing seems to phase the Dude. Yes, he gets angry (to the point that Walter tells him: “Come on. You’re being very unDude.”), swears constantly, and talks back to Walter and many other unreasonable people who seem to surround him like mosquitoes, but soon he will be stirring himself another White Russian, or will have a smoke, or relax in a warm bath. Occasionally he resorts to the gentle movements of Tai chi to keep stress at bay. Like a mystic, he focuses on the big picture. Better yet, like a true mystic, he doesn’t focus at all.

Much has been made of Dudeism, a philosophy of life inspired by the Dude. But there’s nothing new in this, as he seems to belong in the great stream of Philosophia Perennis which, down the millennia, has produced strikingly similar concepts even if expressed in different ways and from different cultures and ages. And in fact the proponents of Dudeism cite Lao Tzu, Epicurus, Heraclitus, the Buddha, and the pre-ecclesiastical Jesus Christ as examples of ancient Dudeist prophets.

What is sublime about the Dude is that he won’t preach at all. He tried that in his youth, and now obviously sees it as youthful folly. Somehow he gets by with very little money and finds materialism an inherently strange beast. The “Chinaman” who originally pees on his rug; the millionaire; the German Nihilists; the porno film producer; the sundry thugs — all are materialists very attached to wealth and willing to employ violence so as to safeguard it or increase it. Because of a case of homonymy, he is suddenly surrounded by such people as if he’d walked into an asylum. But at least it’s clear to him and to the perceptive viewer that they are the lunatics.

The level of aggressiveness and latent or explicit violence he registers around himself is appalling. After he’s made love to Maude, he tells her, “It’s a complicated case, Maude. Lotta ins, lotta outs. Fortunately I’ve been adhering to a pretty strict, uh, drug regimen to keep my mind, you know, limber.” That is telling. The world around him has gotten so f….d up lately, he’s found himself forced to adhere to a “pretty strict drug regimen.” Normally, one gets the feeling that his long evenings spent bowling and a general relaxed attitude would take much of the load off. But the load, lately, has been enormous. Yet, he miraculously maintains his peace of mind.

There is something transcendental about this: the Dude rises above all circumstances. He spends the whole movie angry, which is not his nature at all, and the Coen Brothers deserve further praise for such a clever idea: to extrapolate the Dude from his habitual milieu and toss him into a circus full of hostile lunatics who want something from him and will insult him, threaten him and beat him to get it.

We are a million miles away from the claustrophobic world of Raymond Chandler. In fairness, he wrote his novels at the height of modernism, a very injudicious and theo-eccentric period in the history of western culture in which the world was reduced solely to sensory perception and materialistic pursuits.

Lao Tzu is a sage of ancient China and a key figure in Taoism. Whether he actually lived or is a legendary figure remains to be established, but he’s considered to be the author of the Tao Te Ching, a fundamental book both in philosophical Taoism and Chinese religion. In it, one finds the assertion: “Banish wisdom, discard knowledge, / and the people shall profit a hundredfold.” Excluding Plato and all Neoplatonic schools, this is how from “love of Sophia,” or of wisdom, philo-sophy in the West has degenerated into “love of sophistry” — precisely the type of “wisdom” and “knowledge” that Lao Tzu urges us to discard. In fact, Nihilism, so very present in the film through the actions of the German Nihilists, is lampooned probably as what the western world has misguidedly arrived at after millennia of discursive philosophy gone awry.

The Dude towers above such a warped and incomplete Weltanschauung. And that is what mainstream critics initially failed to realize. As the movie has grown in cult status and become, in effect, popular, they’ve gone back to it, and belatedly dished out favorable reviews — ten or more years after its original release, some of them de facto recanting publicly. The fact is, mainstream critics are fed the Aristotelian / Euclidean / Cartesian / Newtonian / Darwinian canon we were all fed at school. Then, if they pursue higher education, they’re fed more doses of the same canon, of which the history of cinema is also imbued. To grasp the implications of The Big Lebowsky was beyond them, and in fact for the most part they did not. But it struck a chord with many of us, who have gone back to it time and again, and turned on friends to it. It scores very highly from a standpoint of rewatchability, too.

At first one tries, in vain, to focus on the plot. But the film is also very funny. Then there are many gems in the dialogue: “[Walter] Say what you like about the tenets of National Socialism, Dude, at least it’s an ethos.” “[Walter] And also, Dude, Chinaman is not the preferred, uh, nomenclature… Asian-American. Please.” “[Millionaire’s trophy wife] Dieter doesn’t care about anything. He’s a nihilist. “[Dude] That must be exhausting.”

The photography and dream sequences are stunning, and the music, a perfect accompaniment, also thanks to T-Bone Burnett, who is credited as musical archivist. Bob Dylan’s The Man in Me is heard repeatedly, and is ideal: “The man in me will do nearly any task / As for compensation, there’s a little he will ask / Take a woman like you / To get through to the man in me.” Of course this could be seen as an ironic comment on Maude’s choice. But in fact, despite her disparaging remarks after she’s made love to the Dude (“Look, Jeffrey, I don’t want a partner. In fact I don’t want the father to be someone I have to see socially, or who I’ll have any interest in rearing the child himself”) she has picked the Dude, of all people, out of the multitude of potential sperm donors. And that must be because he is so disarming that she’s decided at once, upon talking to him in her atelier, that he is the one who will give her a child. So somebody in this material world does realize the qualities and potentialities of the Dude.

Finally, the acting is inspired, especially from Jeff Bridges and John Goodman respectively as the Dude and Walter.

The film ends with the death of Donny, the third member on their bowling team, a meek man played by Steve Buscemi (as opposed to his character in Fargo) who is constantly and rudely silenced by Walter. But despite Walter’s brandishing of a handgun and even of an Uzi, and despite the Nihilists’ resorting to, astonishingly, a saber, there is no violent death in the movie (evidently to the chagrin of mainstream critics): Donny dies of a heart attack. And the disposing of his ashes by Walter is yet another “travesty,” as the Dude calls it since the ashes end up not in the Pacific Ocean, as intended, but, carried by the wind, mainly on the Dude himself.

At the very end of the film the narrator, a cowboy with a strong southern drawl played by Sam Elliot, meets the Dude again at the usual bowling alley. The whole adventure, or misadventure, it now seems, has been a case of much ado about nothing, with two major exceptions: Donny’s death, tragically, and the news that “there’s a little Lebowski on the way.” The Dude doesn’t even know this, and probably will never be told, nor will he ever inquire: by now, we know the character well enough. But he’s back in fine spirits, preparing for the bowling tournament finals, serene and smiling. That is the true nature of the Dude. The narrator says: “Take it easy, Dude — I know that you will.” And the Dude replies, “Yeah, man. Well, you know, the Dude abides.”

And that is that: the Dude abides. In the face of adversity and the virulence of the whole world the Dude, of all people, is level-headed, tolerant, and consistently non-violent. He never punches back; the concept of revenge doesn’t seem to inhabit his mind. What is more, he seems implicitly to make allowances for a lot of overaggressive people, out there, who will act like very hostile lunatics. “It’s good knowin’ he’s out there, the Dude, takin’ her easy for all us sinners,” finally comments the narrator after the Dude has left.

There are many pacifists in the world — until their patience is severely tested, or their rights blatantly usurped. There are also people persuaded that peace is the natural state for mankind. It’s a beautiful idea that unfortunately doesn’t correspond to reality. Even Buddhism allows for “the lesser evil” to avert “a greater evil.” History reads like a tragic litany of wanton aggression and invasion. Peace seems to be the exception, war the rule.

The ancient Roman playwright Plautus summarized human nature with “Homo homini lupus” — man wolf to the man. Too many beings on this planet thrive on the death of others, from microbes to predators. To presume that mankind is a brotherhood of, say, angels, is misguided. Even trees kill one another in a type of chemical warfare called allelopathy.

In his youth, the Dude tried to change the world, with a manifesto, no less, occupying Berkley, and so on. Eventually he realized that it was hopeless. But that didn’t make him become bitter, or angry, or revengeful. Nor does he lead by example, as the cliché would go. He doesn’t do, he is. Even when provoked, he harms no one. He cares little about money and is, in essence, a sensible, honest man with the kind of patience and tolerance that belongs to the spiritually gifted. He doesn’t preach; now in the wisdom of his maturity, he never would; he just abides. With more people like him, the world would improve markedly.

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SAZIA DI LUCE poesie di ADRIANA PEDICINI (ed. IL FOGLIO)

19 Ottobre 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #poesia

Nota dell’autrice

La prima sezione della silloge di poesie che hanno sottolineato e accompagnato il mio cammino in un momento difficile, intrecciandosi con scenari sociali di tristezza e disperazione, si apre e si conclude secondo una struttura ad anello con un dato olfattivo metaforico che, spontaneamente sgorgato dall’animo, ha alla fine evidenziato il sorgere della speranza nell’arco di tempo che separa le prime poesie dalle ultime.

Senso di disfacimento, di sconfitta, di nostalgia, il senso del tempo che non ritorna alberga nelle prime poesie dove mal si cela il timore dell’ignoto, della vicenda umana post mortem; la poesia “Profumo di Natale” è invece la cesura che comporta la rinascita, se non fisica, almeno spirituale che ogni evento nuovo favorisce o determina quando nuovamente si ripete carico di valore simbolico.

Se non fosse così persi sarebbero per sempre i nostri passi.

Pertanto, nella seconda sezione della silloge, il poetare trae alimento da un più fiducioso rapporto con la vita e con la natura tutta nelle varie manifestazioni; soprattutto esso è frutto della convinzione serena e consapevole che il male come il bene fanno parte della vita umana: il male anche inteso come dolore sofferenza e infine morte.

La sofferenza può essere l’inizio di un cammino nel Profondo di noi, speculare al cammino verso il Cielo, verso il livello più alto dell’umano, dove l’elemento estetico, etico, e religioso si compenetrano e si condizionano reciprocamente. Si conquisteranno allora definitivamente il Bene e il Bello, testimoniare i quali nella vita e con la vita sarà un atto di autentica Fede.

contatti per l'acquisto del libro (costo 10 euro)

adripedi@virgilio.it

Prefazione di Giuseppe Possa

Con questa feconda e sofferta raccolta lirica, Adriana Pedicini è giunta nei più remoti fondali della propria anima, per esorcizzare la disperazione che sorge nei momenti di triste sconforto, quando l’esistenza pare minata da un destino crudele: <<Oggi è paura/ il nodo che stringe la gola/ svelle le radici dei sogni/ tinge di nero la prossima alba>>.

La poetessa, però, con quella ricchezza d’aneliti che aspira al sublime, nei suoi versi armoniosi, intensi e commoventi, non si abbandona a un discorso consolatorio; si affida, invece, a una superiore speranza che la volontà o la fede spesso possono realizzare: <<Se mi abbandono a te/ la mia certezza è salda>>.

Di primo acchito, le sue liriche rievocano un mondo intimo e privato, di “silenzi inquieti” (<<…mentre sulle orme della sera/ già plana l’angoscia>>), ma a una più attenta e coinvolgente lettura ci si trova immersi in un’energia luminosa che è “afflato universale” dello spirito umano, desideroso di risorgere dagli abissi, che non rinuncia a lottare e che con grande caparbietà sa scorgere sempre uno spiraglio di luce, pure nello sconforto: <<Godo la pace/ di questo momento/ che sa d’infinito>>.

Si può, quindi, affermare che Adriana ha fatto della poesia un poderoso strumento d’analisi del mondo interiore, dei pensieri e dei sentimenti che albergano nel cuore degli uomini: un diario vero e sincero dell’animo puro di chi crede nei valori della vita e nel ricordo di un passato che non si vuole dimenticare: <<Sono qui/ attendo/ l’ultimo vagone/ da sola/ con i miei ricordi/ e una speranza>>.

A gettarla nella disperazione sono il pensiero della malattia, della consunzione e della morte (che definiscono la poetica della prima parte del volume), “mostri” che improvvisamente le si parano davanti, mentre lei si sente ancora dentro la forza e l’entusiasmo di donarsi a coloro che le stanno accanto “nel nido sicuro d’amore”: <<Non vorrei che la mano/ del destino/ assetata arpia/ mi trascinasse via/ mentre spuma di rabbia/ m’illividisce il volto>>. La realtà, in quei terribili momenti, è filtrata attraverso una lente mutata (spuntano “le polveri sottili della paura” ), fa vacillare le certezze e mette a nudo, tra l’essere e il nulla, la fragilità che accomuna tutti i viventi: <<L’anima/ affonda in sonno/ senza sogni>>, poiché si resta soli - quando si finisce “crocifissi al proprio dolore” - ad affrontare il personale destino.

A questi versi che si concretizzano con parole sovente angoscianti, colme di suggestioni e pervase da un’emotività struggente, fanno eco la passione e il desiderio, in “lampi di serene giornate”, di poter ancora amare: <<Cuore mio risorgi/ tra i chiarori di albe/ profumate di tiglio/ in questa calda estate,/ riposa all’ombra d’Amore/ senz’ombre>>.

I suadenti, armoniosi, componimenti della poetessa si snodano senza schemi prestabiliti, dando vita anche ad strazianti messaggi, scaturiti dalla propria etica interiore e da un pathos genuino, sofferente, contemplativo: <<Si attende nuovo vento/ a sparigliare/ i frustoli del male/ perché l’alba riapra/ nuova via/ a questa danza di stelle/ sulla mia malinconia>>.

Non manca <<la domanda estrema/ che fu anche la prima/ Chi siamo?>> e non mancano neppure ansiosi interrogativi (<<Dove riparerà/ l’alito divino che fu mio/ che plasmò/ il fango in anima vivente?>>) che la poetessa si pone, colta da dubbi, angosce e aspettative, pullulanti in un crogiuolo di desideri e di sogni, ora terreni ora trascendenti; quindi, conclude: <<Oggi/ ti sento/ Signore/ a me vicino/ Sei l’aria/ che respiro/ l’orizzonte/ che mi attrae/ questo cielo/ che mi abbraccia>>.

Sconfitta “la nuvola nera”, la rinascita porta l’autrice (nella seconda parte del libro) su un nuovo percorso esistenziale, in cui è ancora possibile lasciarsi affascinare dall’intima essenza della vita e del suo mistero: <<E sarà suono di violini/ nell’anima,/ fiori di pesco/ sui rami/ volo di rondini/ in cielo./ Semplicemente/ sarà/ nuova vita>>.

A questo punto le ritorna anche l’enfasi della voce che “canta” i colori della natura (<<Sono qui/ in attesa/ del profumo dei mandorli/ in fiore/ del volo garrulo/ della rondine intorno allo stagno/ del battito d’ali/ di bianche colombe/ sul ramo d’ulivo>>) e la felicità di poter continuare a vivere con chi che le sta vicino <<dove ha ancora senso/ essere uomini insieme>>. Ora, finalmente, ha di nuovo la forza per affrontare i problemi quotidiani o d’impegno sociale, come quelli di grande respiro che riguardano i bambini <<umiliati/ traditi/ violentati/ affamati/ malati/ sono tanti i bimbi infelici>> o <<i nodi stretti e violenti/ di guerre e soprusi>>.

Le illuminazioni liriche di Adriana Pedicini sono “pane spezzato di condivisione” col lettore, emozioni raffinate, semi per profonde riflessioni, in particolare quando passa da uno stato angoscioso alla fatica della speranza (<<Ho temuto/ il cedimento,/ le lacrime come pioggia/ di primavera/ mi hanno resa/ nuova>>) e, infine, alla gioia perché <<una gemma di vita e/ di speranza/ ha baluginato/ tra le ombre/ incerte/ delle ore mattutine/ tra le foglie/ ascose del tuo amore>>.

Concludo con un giudizio critico, sebbene diventi superfluo, perché i giudizi tendono a dare ordine e significato a un’opera che, come questa, a mio avviso, non vuole essere incasellata o spiegata, ma desidera presentarsi nella sua peculiarità e nel suo forte impatto emotivo, nella sua tensione intima, rogo continuo di riflessioni e sentimenti.

Tuttavia, la tecnica espressiva propria di Adriana Pedicini (compatta e riconoscibile nella sua individualità che ha affinato negli anni) è appropriata ai temi trattati, omogenea e ricca di spunti non solo meditativi ma pure estetici, con grande sensibilità della parola incanalata nelle sue declinazioni testimoniali e timbriche. Inoltre, forma e contenuto si coniugano in modo esemplare per la limpidezza del dettato e per il fremito, o ritmo del cuore, che ne percorre i versi compiutamente riusciti.

Chioserei sostenendo che la poetessa, ha trovato liricamente, nella sua dolorosa e sofferta esperienza, il giusto equilibrio tra la disperazione dell’essere umano, messo di fronte alla vita e alla morte, che serenamente accetta, ma non si rassegna a lasciarsi sopraffare dal male, e la felicità di ritrovarsi risanato, nel corpo e nella mente, per affrontare l’esistenza con rinnovato spirito e con un diverso ottimismo universale.

Giuseppe Possa

Finalità del libro

Raccogliere fondi per l'Associazione Komen Italia per la lotta ai tumori al seno (sede operativa nazionale via Venanzio Fortunato 55, 00136 Roma; sede legale largo Agostino Gemelli 8, 00168 Roma. www.komen.it

SAZIA DI LUCE poesie di ADRIANA PEDICINI (ed. IL FOGLIO)
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Tornare a vivere?

2 Novembre 2015 , Scritto da Marcello de Sanctis Con tag #marcello de santis, #saggi

Tornare a vivere?

Talvolta la divulgazione di libri che trattano della reincarnazione ha portato ad atti sconsiderati da parte di alcune persone che, influenzate dalla possibilità di "tornare a vivere" in una nuova vita, hanno voluto provare.
E' il caso di quel tale

RICHARD SWINK

Un ragazzo di appena 19 anni che faceva il rivenditore di giornali; era l'anno 1956, il fatto avvenne in Oklahoma. Richard, avendo letto - appunto - una pubblicazione sulla reincarnazione, si sparò un colpo di pistola e ci rimise la pelle. Il giovane lasciò una lettera nella quale spiegava il suo gesto: voleva provare di persona se, quanto asserito in quelle teorie, rispondesse a verità.
Il libro, che l'aveva spinto a quell'insana decisione, è di un ipnotizzatore di nome Morey Bernstein, nel quale, da scrittore dilettante qual era, aveva descritto, tra l'altro, di un suo esperimento con un soggetto che, messo sotto ipnosi, era stato riportato in un tempo precedente a quello della sua attuale vita, facendo regredire la sua mente negli anni.
Chiaramente, il Bernstein non era uno studioso della materia né uno scienziato ma un artista - possiamo dire - da palcoscenico. Pure si era convinto - nonostante con le sue domande poste al soggetto in stato di sonnambulismo tentasse ad ogni modo di condurre lo stesso a dichiarazioni che potevano apparire come relative a fatti avvenuti in una esistenza precedente - si era convinto, dicevamo, che la reincarnazione esiste davvero, con assoluta sicurezza (ciò che non viene mai affermato dagli studiosi che con coscienza studiano il fenomeno).
Ma allora non si volle dare la colpa al Bernstein, perché, anche se il ragazzo avesse letto un altro trattato qualsiasi sul fenomeno, di tanti che ne erano in circolazione, avrebbe potuto commettere ugualmente il gesto fatale, tanto instabile probabilmente era la sua mente.
Per la cronaca, il soggetto sotto ipnosi regressiva nel libro era una donna di casa, americana, di nome Ruth Simmons; in realtà il suo vero nome era Virginia Tighe, e quello fittizio fu usato dal signor Bernstein quando scrisse il libro che riportava i suoi esperimenti.

VIRGINIA TIGHE

Si era nell'anno 1952 quando l'ipnotizzatore dilettante volle tentare un esperimento con una giovane donna di 29 anni, Virginia Tighe, appunto. L'ha fatta regredire fino alla sua infanzia, poi ha continuato, riportandola ancora più indietro nel tempo fino a farla scivolare in una esistenza precedente. La ragazza ha cominciato a parlare con la voce di una bambina, con un accento irlandese, e ha fatto dichiarazioni strabilianti. Le dichiarazioni sono state raccolte in più sedute ipnotiche. Narrava che: "era stata Bridey Murphy, e faceva la ragioniera, era nativa dell'Irlanda, ed era figlia di gente che coltivava la terra; la sua vita si era svolta nel secolo precedente". Dette anche una data precisa: era nata in un paesino vicino a Cork, in Irlanda, appunto nell'anno 1798; e indicò il giorno: 20 dicembre. La Tighe non era mai stata in Irlanda e non conosceva affatto quella nazione. Pure narrò nei dettagli come era vissuta, quali erano le sue mansioni all'interno della famiglia e dette notizie relative alla sua casa, ai suoi cari, alla campagna dove aveva vissuto.

Si fecero ricerche accurate, successivamente, e i fatti raccontati corrispondevano, anche se non completamente, a quelli reali.

Per tornare al Ian Stevenson, c'è da dire che molti sono stati nel mondo i suoi detrattori, moltissimi hanno messo in dubbio i suoi metodi e conseguentemente i suoi risultati; ma di più quelli che hanno dichiarato il suo lavoro svolto con coscienza e metodo il più scientifico che si potesse applicare al fenomeno.
Ricordiamo alcuni elementi basilari della sua ricerca:

a) il fenomeno si manifesta in bambini che fanno queste dichiarazioni quando sono in età dai due ai quattro anni.
b) essi smettono poco alla volta di raccontare e dimenticano alla età intorno ai sette anni.
c) nelle dichiarazioni nella maggior parte dei casi il bambino narra di essere morto per morte violenta o almeno non naturale.
d) ricordano perfettamente e raccontano il momento della morte con particolari che il più delle volte ai controlli risultano esatti.

Ricordiamo inoltre che il professore ha sempre parlato di possibilità di reincarnazione e questo perché non si può dimostrare che alla morte di un soggetto la sua anima torni ad occupare un nuovo corpo. Mancano la prove fisiche.
Vogliamo riportare anche una credenza o convinzione di alcuni studiosi orientali, ma ci limitiamo per ora solo a farvi conoscere questa nozione: esseri umani che muoiono e debbono ancora perfezionarsi, ritornano sotto nuove spoglie, ma non sempre dentro corpi di persone umane. A seconda del comportamento più o meno buono, o più o meno cattivo, tenuto nella vita che vanno a lasciare o hanno lasciato, possono prendere la forma di animali, e talvolta in specie meno evolute o addirittura in specie inferiori. E' la cosiddetta metempiscosi.
Abbiamo detto che l'unica prova obiettiva della reincarnazione avviene solo grazie alle dichiarazioni di soggetti sottoposti a ipnosi regressiva. Oppure alle dichiarazioni spontanee di soggetti che, senza alcun impulso esterno, cominciano a raccontare di esistenze precedenti.
Molti detrattori affermano che queste dichiarazioni possono spiegarsi solo con la possessione o con l'influenza spiritica. Ma tutt'e due le teorie concordano su un solo unico fatto: ambedue riportano ad una ipotesi molto veritiera sulla esistenza di una nuova vita dopo la morte.
Una psichiatra, che ha fatto della regressione ipnotica lo scopo delle sue ricerche, e di conseguenza si è trovata a studiare anche le forme della morte, le conseguenze della stessa e le possibilità di un ritorno in altra vita, è una dottoressa di origine svizzera, ma americana, morta alcuni anni or sono.
Si tratta di Elisabeth Kubler-Ross


Elisabeth Kubler-Ross 1926-2004

Nata a Zurigo, si è trasferita in USA nel 1958 col marito; qui ha svolto la sua attività presso l'Università della Virginia, dopo aver esercitato la sua professione di psichiatra in moltissimi ospedali. Ha al suo attivo una ventina di pubblicazioni scientifiche, la gran parte delle quali proprio sulla morte.
In un libro ha fatto interviste a persone in punto di morte (Interviste con i moribondi, New York, 2001: intervistò circa 200 malati in stato terminale) oltre che ricerche approfondite sulla morte e l'Aldilà (2002) e tanti studi eseguiti su bambini, proprio per verificare ipotesi di ritorno alla nuova vita. Purtroppo ha dovuto troncare le sue ricerche perché nel 1995 ha subito in ictus cerebrale che l'ha costretta su una sedia a rotelle.
Alla fine dei suoi lunghi studi e delle sue innumerevoli accurate ricerche, intervistata sull'argomento, ha concluso così:

"Oggi, sono certa che esista una vita dopo la morte.
E che la nostra morte fisica,
è solamente l'abbandono di questo corpo materiale
che per noi è solo un involucro temporaneo.
L'anima però, ne sono più che convinta,
continua a vivere su un pia
n
o diverso."

In seguito alle interviste con le persone in punto di morte, su cosa pensassero ci fosse dopo, se credevano in un aldilà, se avessero avuto sensazioni particolari sulla possibilità di una nuova vita, ecc, poté mettere a punto cinque fasi sulla morte, che riportiamo brevemente.

a) il paziente non vuole (prima) ammettere la sua malattia; (poi) non vuole ammettere, pure se è stato convinto di essere malato, la gravità della stessa; quindi allontana dalle sue convinzioni che dovrà morire.

b) il paziente prova una certa invidia per quelli che gli sono intorno, e sono sani. Per questa sua e loro situazione egli si arrabbia molto. E allora sente fino in fondo la sua sofferenza. Subentra il terrore di essere dimenticato dopo morto mentre la vita dei sani continua tra feste e cose allegre.

c) spera che i medici siano in grado di allontanare il dolore e con esso la fine imminente; o quanto meno vuole assumere con convinzione (e spera anche nel contributo di chi gli sta intorno costantemente, parenti, infermieri, medici) che i medici ritardino il più possibile la sua dipartita.

d) alla fine però la rabbia e la disperazione, ma non ancora la rassegnazione, la fanno da padrone. E subentra una depressione che si fa sempre più pesante.

e) e ai rifiuti sopra descritti subentra definitivamente la stanchezza e una sorte di accettazione del male e della fine imminente. Agogna il sonno, che lo estranei da tutto e da tutti, non vuole né vedere né sentire i parenti che lo circondano, e parlano e aspettano, senza sperare. Più facile è questo momento per le persone anziane, perché alla fine pensano che almeno ci saranno i figli a continuare per lui; più difficile e talvolta inaccettabile invece per i giovani.



Mi scrive un'amica di Facebook:

Ciao Marcello, quello che sto per dirti forse non è proprio inerente alla reincarnazione, ma è di certo un fatto strano.Ti prego: vorrei restare anonima.
Avevo avuto e avevo tuttora problemi pesanti con un familiare, un parente che abitava la mia casa, ossia la casa che io avevo ereditato dai miei genitori.
Una notte, durante il sonno, sento muovere il mio letto, e qualcuno che mi tocca i piedi per svegliarmi. Aprendo gli occhi ho visto la figura sfuocata di un uomo che mi diceva: vai a casa! Io mi sono seduta sulla sponda del letto ma ho avuto la sensazione che continuassi a dormire; eppure la vedevo, quella figura, non riuscivo ad individuare chi fosse; poi ho capito che era mio padre. E ho anche capito che desiderava che io mandassi via da casa quel nostro parente.
Mi sono svegliata, ero spaventata, ma ripensando all'accaduto mi sono detta: devo andarci, lui me lo ha chiesto; devo farlo per lui, per i miei genitori, che per averla, quella casa, hanno fatto enormi sacrifici. La persona che la abitava era un violento, e io avevo paura, molta, ma ho trovato il modo di fargli visita, e di invitarlo a lasciare l'abitazione e andarsene. Ciò che fece.
Dopo qualche giorno, parlandone con alcuni conoscenti, uno di loro mi disse: brava, sei stata fortunata, se non fossi intervenuta, fra qualche mese avresti perso la casa, perché chi la abitava, stava brigando per portartela via.
Devo dire grazie a pa
pà.
Grazie


Grazie a te cara amica, ecco, lo pubblico senza fare il tuo nome. Lo faccio perché potrebbe interessare.
Si parla spesso infatti di entità disincarnate che appaiono o si fanno sentire da parenti viventi, per comunicare, col silenzio, cioè con la sola presenza o con parole a volte a malapena percepite, qualcosa per il nostro bene. C'è che ci crede fermamente e chi invece è scettico su tali manifestazioni; ed è la sorte della nostra materia. Ma va riconosciuto che è qualche cosa che appassiona e lascia pensare.

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Eran tre frati apostoli

28 Novembre 2013 , Scritto da Luciano Tarabella Con tag #luciano tarabella, #poli patrizia, #poesia

Eran tre frati apostoli

PREFAZIONE

Poeta e gentiluomo

I poeti son filosofi rimatori. E quando c’è di mezzo il vernacolo o il dialetto, rimano in sonetti. Come Luciano Tarabella, della prolifica scuola dei poeti popolari toscani. Livornesi, nel suo caso. Che alla tipica acutezza dissacratoria della toscanità uniscono il tipicissimo linguaggio dei Quattro Mori, così spesso intriso di quei termini gastro-ano-genitali che racchiudono un po’ tutta la visione che del mondo hanno i figli di Labrone: mangiare-cacare-trombare, a racchiudere tutto l’arco della parabola esistenziale. Col sesso a far da scena totale sul teatro della vita. E con tante parolacce, come le definiscono gli altri. Quelli che "sannounasega" loro com’è che l’imprecazione antidivina o il vaffanculo antiumano non sono a Livorno mera volgarità ma forma linguistica d’una mentalità ch’è filosofia di vita. Insofferente di perbenismo e d’autorità. Ché a mandà ‘nculo ‘r re il livornese ci mette quanto a mandà ‘n culo anche ‘r papa. Una lingua ch’è filosofia, insomma. O una filosofia parlata.

Senti per esempio il Tarabella, in questo “Testa e lische”:

Si sognava la topa da ragazzi a occhi aperti ma cor pipi ritto e c'era un solo modo d'esse’ sazzi sebbene che l'amore sia un diritto.

Ortre la mano, nun ce n'era spazzi perché la donna, lei, voleva ir citto; a occhi chiusi e a parità di cazzi sceglieva sempre quello cor profitto.

Ora che sono pieno di vaìni cor conto in banca che mi son sudato batto ancora musate. Come sai

la topa viene data ai ragazzini perché l'anziano nun è più caàto: budello cane, un c'indovino mai!

Oddìo, non è più quel Tarabella giovanilmente pimpante che cominciai a pubblicare sul Vernacoliere nei focosi anni ’80, quando l’uccello tirava a lui e lui tirava moccoli agli dei. Sì, qualche ricordo c’è di quei tempi, in questa raccolta di sonetti. Ma ci si respira più che altro la malinconia del tempo andato, degli amori sperati e non vissuti, dei sogni mai realizzati.

Piglia “Ir destino”, per capire: (in corsivo)

La sorte umana è drento un canterale con chissà quanti mai cassetti in fila però è nascosta da una grande pila di passioni diverse e messe male.

Ognuno, per istinto naturale, vorrebbe la migliore e la trafila, la mia, la tua o d'artri centomila, è la stessa per tutti, tale e quale.

Buttate all'aria tutte l'occasioni la ricerca ci lascia inappagati e ci si scopre vecchi con stupore.

Allora si fa ir conto: d’illusioni, magari vattro sogni irrealizzati, eppoi? Mi vien da ride’: eppoi si mòre!

Ma l’animo acceso, la caratterialità ironica e sfottente del livornese non cedono. E neppure nel ricordo malinconico manca la rabbia vitale.

Come in “Ficona”: (in corsivo)

Com'eri bella cinquant'anni fa, solo a guardatti mi mancava ir fiato e quanti... sogni mi ci son tirato perché un me la volevi propio da’!

Io chi ero? Un ragazzo innamorato che un ciaveva più voglia di ampà e che avevi ridotto in uno stato che neanco si pòle immaginà.

Eppure stamattina dar norcino, pagando un etto e mezzo di preciutto, m'hai sorriso iudendo ir borsellino.

Sicché ho pensato: ora ti decidi? Ora che sei cicciona, ma di brutto, mi mostri la dentiera e mi sorridi?

Con quer culo che 'un passa dall'androni con quer naso moccioso fatto a becco con quelle puppe mosce ciondoloni...

speravi di trovammi cèo secco?

E certo manca un vaffanculo, a chiusura del tutto: perché Tarabella è sì poeta, ma è anche un gentiluomo. Malgrado la livornesità.

Mario Cardinali

(Direttore de " IL VERNACOLIERE" di Livorno)

POST FAZIONE

Livorno ha alcuni cantori accaniti e fra questi c’è Luciano Tarabella, che da cinquanta anni scrive le sue poesie in italiano e in vernacolo. Quelle raccolte qui costituiscono una dichiarazione d’amore, innanzi tutto per la sua città, salsa e libera, di cui sa cogliere gli aspetti lirici ma anche il degrado e l’abbandono con un amore totale e senza riserve. “Noiartri ci s'ha il Porto, ir mercatino via Grande, la Sambuca, le Fortezze... “ Lo sguardo è attento, curioso, personale, irriverente come irriverenti sono tutti i livornesi. Persino i famosi 4 Mori, simbolo della città, diventano “quattro vucumprà senz’accendino.” Ma l’amore è anche per la vita in generale, per la famiglia, per il cane, per la moglie, ricordata nei momenti della passione giovanile, quando “s’andava al bubbocine”, ma amata tanto più adesso, nella dolce complicità degli anni che si fanno sentire. Gli argomenti spaziano dalla rievocazione di figure tipiche nostrane come il reietto Cutolo, alla citazione dantesca ironica, alla vita quotidiana, alla politica e al costume, ai fatti di cronaca cittadina, fino addirittura ad un tentativo di cosmogonia filosofica. Tarabella ha una parola per tutto, s’interessa di tutto, senza intellettualismi né orpelli ma anche senza superficialità e con uno sguardo morale. Racconta anche se stesso, la sua vita quotidiana che diventa la vita di ognuno di noi, uomo o donna. Lo stile è sboccato, semplice, arrabbiato con bonarietà, ironico e divertente anche fra le lacrime.

Patrizia Poli

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Arte al bar: LUCIANO VENTRONE "Il giorno che afferrai la luce"

8 Novembre 2018 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #arte, #arte al bar, #pittura

"Il giorno che afferrai la luce" di Luciano Ventrone e l'omaggio di Walter Fest"Il giorno che afferrai la luce" di Luciano Ventrone e l'omaggio di Walter Fest

"Il giorno che afferrai la luce" di Luciano Ventrone e l'omaggio di Walter Fest

 

 

 

Gentilissimi lettori, e così abbiamo messo alle spalle anche il caldo Ottobre, adesso tirate fuori ombrelli e abbigliamento pesante, siamo a Novembre e noi del bar più artistico che ci sia, noi cari amici del blog che vediamo il sole anche sotto zero, proveremo oggi a scaldarci con i colori di un grande artista, un vero maestro dell'iperrealismo, eccomi qua con il mio caffè profumato fra le mani, per parlarvi di Luciano Ventrone. Mi è stato suggerito da Tonino il garagista, me ne parlò con grande entusiasmo e sono sicuro che ora anche voi ne rimarrete affascinati, l'opera che andrò a descrivere sarà Il giorno che afferrai la luce, un olio su tela di lino 90x60 del 1977.

Luciano Ventrone, romano del 1942, nato nel corso degli anni belligeranti nei quali non era facile essere bambini, eppure, a sei anni la casualità di una semplice scatola di colori gli aprì le porte della fantasia, indirizzandolo verso uno sconfinato orizzonte, alleviandogli, per lui solo un  bambino, il distacco dagli affetti più cari e dalle proprie abitudini. Era solo un bambino che veniva da un paese lontano, ma, in quel momento, una scatola di colori era il suo mondo, un nuovo linguaggio più forte dell'uso della parola, una voglia di intensa espressività insita nella natura di ogni artista.

Passano i giorni, i mesi, gli anni, quel bambino diviene un ragazzo che, con passione e tenacia, studia e lavora per essere se stesso, un faticoso lavoro per diventare un bravo artista, l'artista vero che, grazie ad alcune coincidenze che ne guideranno il percorso, ha poi realizzato quello che la sua natura gli aveva donato.

Mi piace pensare a Luciano Ventrone come ad un predestinato ma anche come ad un infaticabile artigiano dell'arte, per nulla genio e sregolatezza ma solo la cura certosina della filosofia del lavoro a fari spenti, deve parlare per lui solo la luce irradiata dalle sue tele di lino.
Ho scelto quest'opera, Il giorno che afferrai la luce perché quella mano mi ha fatto venire in mente un accostamento impossibile; spalancherete gli occhi ma, ve lo giuro, non è colpa mia, mica posso spegnere la fantasia e l'immaginazione con un click, e io la mano di Luciano Ventrone l'ho interpretata proprio così, ebbene sì, in essa ho visto la Creazione di Michelangelo.

 

- Ma sei matto? - Gianni il barista mi dice impietosamente allibito! - E' solo una bella lampadina stretta in una mano, adesso chiamo la neuro!!! 
 

- Amico mio, passami una bomba al cioccolato che ora ti spiego. La vedi quella torsione della mano? Riesci a vedere la delicata carezza a contatto con la rotondità e la trasparenza del vetro della lampadina? E poi la luce... Dio creò la luce, lo so che può sembrarti un accostamento surrealista.
Che cos'era la vita dell'uomo prima della scoperta dell'energia elettrica? Le strade come erano illuminate? La nuova luce cambiò il corso dell'umanità e, nella creazione di Michelangelo dal contatto fra le mani nasce la vita, e io nella mano dipinta di Luciano Ventrone, nelle pieghe della pelle talmente vere da sembrare quasi di toccarle, vedo tutta la calma apparente da vero artigiano al lavoro nell'atto di plasmare il colore vivo, acceso dal nero di fondo che spinge la mano verso l'immensità del cielo blu, riflesso all'orizzonte attraverso la trasparenza vitrea.

Un colore vivo come la nostra esistenza, perfino quel filino nero sotto l'unghia del dito mignolo sa di umanità, ma Luciano Ventrone ha voluto dirci di più, che motivo aveva per ritrarre una semplice mano con una lampadina? Perché l'ha scelta? Dimostrare la sua bravura? Pavoneggiarsi davanti al nostro stupore? No, glielo ho letto nel suo sguardo, nella luce dei suoi occhi che parlano con il cuore aperto senza la presunzione dell'ambizione. Attraverso le sue mani solo arte, un linguaggio per aprire le menti, per non dare fumo agli occhi. Una tecnica sopraffina e perfezionista per mettere in relazione uomo e materia.

L'artista non cerca un confronto con la fotografia ma, con i colori dati ad arte, vuole rappresentare la sua vera essenza, uomo e natura come un tutt'uno per rallentare il ritmo della vita, per farci entrare a fondo nella materia e permetterci di capire il senso di rispetto verso tutto quello che ci circonda, ogni cosa, anche la più piccola, è di inestimabile valore e noi non possiamo essere i dominatori, gli assoluti padroni che, per il solito nostro egoismo, dissipano la propria stessa vita e le sorti del nostro mondo.

Luciano Ventrone riproduce la bellezza per farci vedere quello che troppe volte ci sfugge, la natura ogni tanto ce lo ricorda, noi, scellerati, senza fermarci, rivolti solo agli interessi di predominio, la stiamo distruggendo e, se alziamo gli occhi al cielo - e potessimo farlo con un telescopio potentissimo - non vedremo mai un pianeta come la nostra terra, dobbiamo amarla questa fantastica terra sulla quale ogni cosa è vera poesia.

Nel bar sono rimasti tutti in silenzio, solo il soffio del vapore della macchina del caffè fa ciùfffffff, Gianni, ridendo, me ne porge un altro. -  Walter, prendilo che ti fa bene. Mi guarda serio, forse anche gli altri non hanno capito bene la mia teoria e voi?
 

- Quasi, quasi vi manderei a vivere su Marte, vedo due ragazzi che si tengono per mano, mi fanno segno di "No" con un sorriso d'oro che dice tutto.
 

- Però i colori sono belli, lo vedete che Dio esiste? (Don Alfonso.)


- Io ho da consegnare la posta mica posso andare su Marte! (Sara la postina.)


- E se quel Luciano Ventrone fosse un marziano? (Nando l'elettricista.)
 

- Ma che dici? I marziani mica sono così bravi!!!( Monica la parrucchiera.)


- Ma stavo scherzando, ma vi pare che un giorno andremo su a vivere su Marte?
 

- Chissà? (Dalia.)
 

Anche per oggi è venuto il momento di salutarvi e, per non pensare a come sarebbe la vita su Marte, Gianni, metteresti per noi Yellow submarine dei Beatles ?
 

- Sì, buona idea... pensa se pure questa musica piacesse ai marziani! (Gianni.)


Gianni... sorvoliamo... Amici della signoradeifiltri, noi che coloriamo la nostra vita qui sulla terra salendo su un fantastico sottomarino giallo immersi in un mondo di fantasia, vi aspettiamo al prossimo appuntamento per vedere nuovi colori con un altro grande artista e, statene certi, con lui ci divertiremo.

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"Album di famiglia" di Fabio Marcaccini

9 Gennaio 2013 , Scritto da Fabio Marcaccini Con tag #fabio marcaccini, #racconto

Mi son svegliato di soprassalto stanotte o iernotte, non ho mai capito come si dice.
Un balzo sul letto, all’improvviso, con la maledetta sensazione che il cuore si sia fermato, abbia cessato di battere e quel senso di oppressione sul petto, quella insofferenza addosso. Un leggero attacco di panico, direbbe il medico, come sovente mi capita, forse per il troppo stress accumulato, giorno dopo giorno.
Anche qualche notte fa era successo ed in risposta non avevo trovato di meglio che catapultarmi giù dal materasso. C’è mancato davvero poco che non mi spezzassi uno stinco contro la rete del letto.
Stanotte invece no. In questa notte mi ha turbato l’averti sognata, averti rivista così eterea, evanescente; troppo eterea e evanescente per chi come me ti ha conosciuto davvero. O forse è talmente grande il mio ricordo di te, per accettare di vedermelo annebbiare così troppo in fretta.
Ho provato a riassopire i miei pensieri in un sonno che vincesse la stanchezza. Ma il cuscino si bagnava, poco a poco, sempre di più, di quel sudore acre e carico di ansia. E il mio cuore batteva ancora nel petto, con quel nodo che strozzava in gola, per una mente che ci rivoleva insieme.
Ho alzato la testa facendo leva sulle braccia per poter buttare uno sguardo d’amore alla mia sinistra, sulla compagna di vita di oggi. Lei dormiva tranquilla... Non la svegliano le cannonate, figuriamoci io.
Eppoi ora, con quel suo pancione che la appesantisce e la stanca a dismisura, nel doverselo portar dietro giorno e notte. A destra il rumore soffocato della tv ancora accesa.
Mi giro sul fianco e mi allungo per spengerla. Poi mi alzo e, a piedi nudi dopo aver cercato invano nel buio le ciabatte, m’incammino alla ricerca di refrigerio fuori e dentro di me. Lungo la galleria vedo una luce filtrare da sotto la porta: è la stanza dove riposano i miei primi due tesori: le mie bimbe. Come vorrei tu potessi vederle ancora.
“Bimbe? Artro che bimbe” - mi diresti - “guarda là che cosce... che popo’ di gambe. Mamma mia, Martina... E la piccina, poi? Bimbe...? Vedrai tra po’ino...”
Già. Le mi’ bimbe, come ir tu’ bimbo e la tu’ bimba. Come i bimbi de’ tu’ bimbi de tu’ bimbi.
Come poter dimostrare più intensamente l’amore per i figli, meglio di noi livornesacci. I nostri bimbi, sempre e comunque, anche quando si ritrovano sugli “anta” a combattere con la vita per avere un mutuo che, se non hai calci in culo o garanti, non c’è carosello né pubblictà che tenga: non te lo danno.
Noi, dove in questa città siamo bimbi sempre: anche dopo aver fatto la galera o dopo che qualche tegame di fora via, che qualcuno pur chiamerà mamma, ti ha dato del fallito, dimenticandosi di precederlo prima almeno con un semplice e rispettoso “signor”.
Ma del resto è il mondo di oggi, un ingranaggio dal quale, se non giri con lui, vieni schiacciato; molto diverso da quello che insieme andammo un tempo a cercare di scoprire: te lo ricordi il nostro viaggio nella patria degli zar e del comunismo?
E arrivano altri pensieri, immagini che un giorno ormai troppo lontano riempirono una pagina vuota:
“La vita è troppo diversa da come la sognavo da bambino e il sogno non dura che una notte: solo scampoli di immagini per la nostra mente. Il risveglio è ben altra cosa: è accorgersi di non essere più bambino.”
Già. Io non ero più bimbo ed ancor meno lo sono adesso, dopo che tanti altri soli sono tramontati oltre l’orizzonte… come oggi, ancora senza te. Eppure il ricordo di queste parole, mi stordisce e mi lascia impotente al pari di un bimbo che si ritrova solo di fronte al suo destino.

"C'è un assordante silenzio. Mi manca il respiro. Devo uscire."
Ho alzato piano la saracinesca che porta sul balcone. Micia era già li, ruffiana, ad attendere i miei piedi per strofinarcisi contro col muso. Ha sempre fame, lei... di croccantini e di coccole.
“Mmmh... bellino… C’hai anche ‘r gatto, oraaa?” M’avresti risposto tu, con fare un po' acido.
Mi accendo un’altra sigaretta, forse l’ultima del giorno da poco trascorso o la prima del nuovo giorno. Me la fumo davanti al mio piccolo cielo, dove un’altra stella da poco si è spenta. Sarà stata l’ora ma in questa notte tutto è più amaro, anche l’ultima sigaretta.
Perché certi ricordi ti assalgono sempre quando ti ritrovi solo? Forse perché in questo schifo di mondo, in questo tempo, per poter tirare meglio innanzi, c'è sempre bisogno di occuparsi d'altro. Altro da fare e a cui pensare che non siano i ricordi e momenti belli da dedicare a te stesso ma anche i rimorsi... i rimpianti.
Bello dev’esser stato il tempo del mito del buon selvaggio. Solo vita da vivere, in sintonia con la natura e con gli altri o almeno così me l'hanno raccontata.
"Ehi” - mi dico - “Basta! Ma che cazzo di pensieri ti fai, stanotte? Hai forse deciso di farti ancora altro male?”
Conosco già la risposta. "Cadere in un momento in una vita senza tempo, per poi creare un tempo senza vita".
E così mi ritrovo prima bambino, poi adolescente e poi solo poco più grande. Riapro il cassetto dei ricordi e tra le mani riappaiono appunti da sfogliare, fotografie da rivoltare alla ricerca di una data, di un momento vissuto da non dimenticare, ancora pezzi di me che non torneranno più. Solo album di famiglia: immagini mie, di uomini e donne, amici piccoli e grandi. Ci sei anche tu naturalmente: bella, fiera, superba; non evanescente come nel sogno e... mi scivola una lacrima.

Rivedo il tuo sorriso, lo stesso che oggi ritrovo ritratto su questa pietra bianca che separa il tuo nuovo mondo dal mio.

“Ciao zia. Potevi darmi almeno il tempo di salutarti. Ma tu, come me, hai sempre voluto fare solo di testa tua”.


estate 2007

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La vita di Adele – Capitoli 1 & 2 di Abdellatif Kechiche

23 Febbraio 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema, #erotismo

La vita di Adele – Capitoli 1 &amp; 2 di  Abdellatif Kechiche

Regia: Abdellatif Kechiche. Soggetto: Julie Maroh (liberamente tratto dal romanzo a fumetti Il blu è un colore caldo). Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix. Fotografia: Sofia El Fani. Montaggio: Camille Toubkis, Albertine Lastera, Jean-Marie Lengelle, Ghalya Lacroix, Sophie Brunet. Produttori: Olivier Thery Lapiney, Laurence Clerc. Produttori Esecutivi: Abdellatif Kechiche, Vincent Maraval, Brahim Chioua. Case di Produzione: Vertigo Films, Wild Bunch, Quat’sous Films, Alcatraz Films, Scope Pictures, France 2 Cinéma, RTBF. Paese di Produzione: Francia/ Belgio/ Spagna. Durata: 180’. Genere: Dramma erotico. Distribuzione (Italia): Lucky Red Distribuzione. Interpreti: Adèle Exarchopoulos (Adèle), Léa Seydoux (Emma), Salim Kechiouche (Samir), Aurélien Recoing (padre di Adèle), Catherine Salée (madre di Adèle), Benjamin Siksou (Antoine), Mona Walravens (Lise), Jeremie Laheurte (Thomas), Alma Jodorowsky (Béatrice), Sandor Funtek (Valentin). Premi: Palma d’Oro al Festival di Cannes (2013), al regista e alle due protagoniste. Premio Lumière (2014), miglior film, regista, attrice rivelazione Adèle Exarchopoulos, miglior attrice Léa Seydoux. Molte nomination in premi importanti.

Abdellatif Kechiche (Tunisi, 1960) - detto Abdel- è un regista tunisino naturalizzato francese ed è la dimostrazione vivente che la cultura araba rappresenta una ricchezza per la Francia. La vita di Adele - Capitoli 1 & 2 (La Vie d’Adèle - Chapitres 1 & 2), noto anche come Blue Is the Warmest Colour (Il blu è il colore più caldo) è il film che ne decreta il successo internazionale, perché si aggiudica la Palma d’Oro al Festival di Cannes. La pellicola è liberamente ispirata alla poetica graphic novel Il blu è un colore caldo di Julie Maroh (edita in Italia da Rizzoli), che racconta una toccante storia di un amore omosessuale al femminile con un finale degno di un lacrima-movie ma senza gli eccessi erotici della versione cinematografica. L’autrice del romanzo a fumetti si è dissociata dal film e non ha partecipato alla sceneggiatura, colpevole di aver tradito il suo messaggio d’amore in favore di un’interpretazione voyeuristica e ai limiti del pornografico.

Adèle vive a Lille, frequenta il liceo classico, ama leggere e sogna di fare l’insegnante. L’incontro con una strana ragazza dai capelli blu che vede abbracciata a una donna modifica la sua vita e la conduce verso abissi di passione mai provati, al punto di lasciare il suo ragazzo e di gettarsi alla scoperta di un amore omosessuale. Il regista racconta con rapide pennellate la passione tra Adèle ed Emma, dai primi baci fino a un intenso rapporto erotico, ma anche con la condivisione di amicizie e momenti di vita. Emma è una pittrice che frequenta un circolo di amici colti con i quali Adèle si sente un po’ a disagio, ma posa per lei mei momenti liberi dal nuovo lavoro in una scuola materna. La storia si dipana descrivendo la crisi del rapporto, con Emma che comincia a vedere Lisa - un’amica omosessuale incinta - e Adèle che cede alla avances di un collega maschio. Una lite furibonda prelude a un mesto addio, con Adèle in lacrime che non vorrebbe perdere il suo amore ed Emma decisa a farla finita per sempre. Il film termina con le due ragazze che si ritrovano al tavolo di un bar, parlano di un amore finito e del tempo perduto, accettano il fatto compiuto e si lasciano da buone amiche, nonostante un velo di tristezza.

Il titolo del film fa presagire un sequel composto dai capitoli 3 e 4, anche perché il finale della storia è completamente diverso dal romanzo a fumetti, fino a quel punto tradito nella parte erotica ma non nel senso intrinseco del racconto. Abdellatif Kechiche segue la lezione di Lars Von Trier (Nymphomaniac) e narra con realismo poetico (una caratteristica del cinema francese) il rapporto omosessuale tra un’adolescente e una ragazza più adulta, la passione sfrenata che lega due persone fino a trasfigurarle in un solo corpo. Il senso delle intense sequenze erotiche - ai limiti del porno - sta proprio nella volontà di far capire fino a che punto le due ragazze diventano una cosa sola, una comunione totale di corpo e pensiero. La vita di Adèle è minimalismo allo stato puro, cinema realista raccontato con la macchina a mano e intensi primi piani, soggettive nervose, fotografia sporca, montaggio sincopato. Il regista opta per un fastidioso suono in presa diretta che spesso impedisce di seguire i dialoghi, ma è un effetto realistico voluto, forse è più importante non sentire le parole che apprezzare il dialogo fino in fondo. La macchina da presa segue i protagonisti, li pedina neorealisticamente nel quotidiano, indagando rapporti e relazioni, frasi innocue, gusti alimentari e vita familiare. Bravissime le due giovani protagoniste, mai in imbarazzo neppure nelle oltremodo realistiche sequenze erotiche. Meritata la Palma d’Oro a Cannes, così come sono meritati i complimenti per l’attrice rivelazione, la ventenne Adèle Exarchopoulos, che sprizza un fascino da lolita. Da vedere su Sky Cinema Cult prima possibile, visto che ormai alcuni canali satellitari di qualità hanno preso il posto delle sale nella diffusione del vero cinema.

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Sergio Camellini, "Opera Omnia"

11 Febbraio 2023 , Scritto da Enzo Concardi Con tag #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Sergio Camellini

 

OPERA OMNIA

II edizione

 

 

Il poeta modenese – nativo di Sassuolo – Sergio Camellini ha dato alle stampe la sua Opera Omnia (II edizione), che contempla una vasta selezione di raccolte poetiche e di liriche scritte e pubblicate fra il 2013 e il 2021. Il volume entra a far parte della collana di testi letterari Il pendolo d’Oro, della Casa Editrice Guido Miano di Milano, la quale è composta da monografie dedicate ad autori scelti. I titoli che appaiono nel libro, nel loro complesso, iniziano già a tracciare un orientamento, seppur abbozzato, circa la poetica dell’autore: Nel corpo un soffio dell’anima (2013); Il pianeta delle nuvole rosa (2014); Bagliori (2015); Un sogno con le ali (2016); So di essere (2016); Ponte dei sogni (2017); Tra le righe del pensiero (2018); Madre natura è vita (2019); Il canto delle Muse (2019); S’accende una luce (2020); Viandante dei sogni (2020); Ascolto i silenzi (2021); I colori della fantasia (2021); Lasciami di te un’emozione (2021). La personalità di Camellini è estroversa e comunicativa – esercita la professione di psicologo clinico – per cui anche in campo culturale e letterario ama presenziare agli eventi che lo vedono premiato come poeta, dove può incontrare personaggi dell’arte e dello spettacolo, come testimoniato dalle immagini fotografiche all’interno dell’Opera Omnia: tra questi citiamo i più famosi, come Vittorio Feltri (giornalista); Francesco Alberoni (sociologo); Marco Columbro (attore); Vittorio Sgarbi (critico d’arte); Dacia Maraini (scrittrice); Pippo Franco (comico); Pupi Avati (regista); Iva Zanicchi (cantante); Romina Power (attrice).

 Le tematiche che maggiormente s’incrociano nei suoi testi in modo trasversale, ovvero a rimbalzo da una silloge all’altra, sono attinenti alle emozioni e ai sentimenti con prevalenza dell’amore quale cardine della vita; alle dimensioni oniriche e pindariche, sostenute dalla fantasia e dalla creatività; alle problematiche dell’essere, dove emerge la ricerca interiore e si svela una poesia del positivo, anti-crisi e anti-depressiva, costituita da tante pillole di saggezza per “come vivere”; al rapporto con la natura ed il creato; a taluni contenuti della memoria, dagli affetti familiari ai ricordi dell’infanzia, dallo scorrere del tempo a squarci storici.

Il biglietto da visita della visione camelliniana mi pare essere questo, ovvero la poesia So di essere: «Non perdo di vista / me stesso, / né m’avvilisco / nonostante le avversità. // So chi sono, / so di essere, / so d’occupare / un posto quaggiù. // Voglio percorrere, / anche in salita, / quest’irto e affascinante / progetto di vita. // Certo che sì, è tutto mio, / allorché sempre / strettamente comunicante / con l’altrui realtà». Quattro quartine per affermare una precisa identità, un chiaro compito in questa vita, una salda volontà nel superare ogni ostacolo, una limpida coscienza del senso dell’altro: un progetto contro-corrente rispetto alle tendenze societarie e individuali odierne piegate verso lo smarrimento e la dispersione. Un progetto paradigmatico che tutti dovrebbero coniugare per vivere felici.

 Il poeta dunque denuncia sì l’attuale regressione antropologica (si legga la lirica Uomo dove sei?: «Eri presente … / cultura, / idee creative, / modi di essere / di pensare / di amare / … // Ora latiti: // … Uomo dove sei?»), ma per combatterla e superarla in ogni modo: volgendo il pensiero all’Immenso, ritrovando la sete d’Infinito, credendo nella Trascendenza, vivendo per la vittoria dell’Amore, visitando lo spessore dei silenzi-oasi dell’anima, leggendo il libro interiore alla scoperta dell’unicità di se stessi, coltivando la luce dentro di noi, lasciandosi catturare dalla poesia dell’essere, imparando dalle persone speciali, abbattendo muri e costruendo ponti… ed anche scegliendo l’ironia per superare l’incomunicabilità nel bon ton della vita. Inoltre bisogna ritrovare la capacità di sognare e realizzare i nostri sogni con il volo della fantasia, con il viatico delle muse delle arti (si legga la silloge I colori della fantasia).

Il capitolo dell’amore è al contempo autobiografico e femminino: l’elogio del poeta va alla donna libera, alla fanciulla gioiosa, alla semplicità dei modi, al rinnovarsi del sentimento, al vero amore, al valore dei piccoli gesti, al romanticismo delle atmosfere, all’amore che è dono («… l’amore / non misura ciò / che dà, / l’amore / confini segnati / non ne ha», Per dire amore).

Ed ancora nel canto di Camellini la natura è un inno alla vita e alla gioia: dalle nuvole rosa, alla luna, all’alba; dai mutamenti stagionali, alle bellezze cosmiche. E nella memoria custodisce il bel viso della madre, l’esempio del padre, gli odori della sua terra, i canti d’amore delle mondine, la civiltà e la cultura dell’Italia.

Enzo Concardi

 

Sergio Camellini, Opera Omnia, II edizione, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 188, isbn 978-88-31497-97-8, mianoposta@gmail.com.

 

 

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Marco Zelioli, "Momenti"

15 Dicembre 2023 , Scritto da Enzo Concardi Con tag #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Marco Zelioli

 Momenti

Guido Miano Editore 2023

 

Per la collana di testi letterari Alcyone 2000 della Casa Editrice Guido Miano di Milano, nel mese di novembre 2023 è stata edita la raccolta poetica di Marco Zelioli: Momenti. Quest’ultimo lavoro segue altri che hanno visto la luce nel recente passato: Come spuma di onde (2017), Coriandoli di vita e di pensieri (2019), Briciole di vita (2020), Frammenti di luce (2021), Le mie lune e altre poesie (2021). Un’antologia essenziale della critica informa il lettore sulla poetica e lo stile dell’autore: vi sono i contributi di Lorenzo Spurio, Enzo Concardi, Ester Monachino, Nazario Pardini, Gabriella Veschi, Maria Rizzi, Marcella Mellea.

Marco Zelioli ha voluto suddividere le sue composizioni in quattro parti: Per quanto mi concerne (pensieri di ogni genere), una sorta di ‘zibaldone’ che spazia dalla memoria storica alla politica, dalle profonde domande esistenziali (il senso della vita è indispensabile) al mondo della scuola, dalla letteratura agli affetti domestici, dalla dimensione religiosa al dolore umano. Intermezzo, costituita da un’unica lirica (Ode al ladro di bicicletta) autobiografica e rievocativa di una curiosa coincidenza. Strade compiute, dediche a persone care vicine e lontane che ‘sono andate avanti’, simili nel genere letterario agli epicedi degli antichi greci, con la sostanziale differenza esistente tra il canto funebre corale ad intonazione drammatica e la preghiera cristiana nella certezza della vita eterna dopo la morte. Appendice: un indovinello, versi per sorridere, i ricordi … e quattro aforismi, brevi pagine di disimpegno, quasi uno sberleffo alla seriosità accademica.

Anche in questa occasione l’autore si dimostra affezionato alla poetica del frammento, simile alla tendenza letteraria sviluppatasi in Italia nei primi anni del Novecento, ovvero alla costruzione di un’opera tramite un mosaico di frammenti, di immagini, di episodi, anche slegati fra di loro. In Zelioli ciò si rivela fin dalla titolazione della maggior parte delle sue sillogi: coriandoli e briciole di vita, frammenti di luce e qui momenti, in sostanza una frantumazione del tempo. Quindi molto ruota intorno ad esperienze e vissuti personali (Per quanto mi concerne, Intermezzo), a legami affettivi, amicali, di stima (Strade compiute) e ad un cocktail di generi appena abbozzati (Appendice …). Tuttavia tale scelta della struttura letteraria non significa in alcun modo irrazionalità del pensiero, anzi come sottolinea Floriano Romboli nella prefazione: «... La ricchezza tematica e le diversità tonali, che si riscontrano nei testi dell’autore, rinviano nondimeno a una concezione della realtà storico-umana unitaria e coerente, organicamente definita intorno a precise idee-valore, sempre sostenuta da solide convinzioni intellettuali-morali».

A questa annotazione del prefatore se ne possono aggiungere, per meglio chiarire, altre, ovvero quelle che riguardano le fonti, le origini di ciò che è in ultima analisi l’ispirazione religiosa della poetica di Marco Zelioli. I suoi versi sono rivelatori – in modo incontrovertibile – di una visione provvidenziale dell’esistenza di tipo cristiano-manzoniano: nei Promessi Sposi la vera protagonista è la Provvidenza Divina che tutto regola e sistema, poiché «... Dio scrive diritto anche là dove l’uomo scrive storto», e in Momenti troviamo spesso espressioni similari. Rivelano poi che nel rapporto Dio-uomo è Dio ad aver sempre ragione, ed è da questa dinamica rovesciata che derivano tutte le sciagure terrene, dal momento che esiste una Verità che non viene riconosciuta e ci si trova così in una «... selva oscura / ché la dritta via era smarrita» (Dante): vediamo nel libro dell’autore numerose situazioni create da una umanità dispersa: guerre, violenze, ingiustizie, disamore, egoismi.

Ed ancora emerge la sua visione escatologica, convinto com’è che la soluzione di tutti i nostri problemi avverrà solo in quella dimensione: lo afferma a piè sospinto in particolare nella terza parte (Strade compiute) dedicata alle persone defunte, dove non troviamo una poesia funebre ma una poesia della speranza, generata dalla fede nella vita eterna («... Ritorneranno i giorni dei sorrisi / e non potrai lasciarteli sfuggire, / fissati nel tuo tempo fatto eterno», Savina).

E non possiamo trascurare la centralità del Cristo nella storia umana: «Il mio regno non è di questo mondo» e Zelioli scrive che Tutto è compiuto in Lui e che la Resurrezione cambia tutto. Infatti si verifica la contrapposizione mondo-salvezza: «…Per te è giunto molto presto il tempo / di lasciare il disordine del mondo. // Ma ogni cosa, adesso, è al posto giusto» (A Elisabetta).

Enzo Concardi

 

 

Marco Zelioli, Momenti, prefazione di Floriano Romboli, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 84, isbn 979-12-81351-17-2, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

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