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Adriana Pedicini commenta la "prosa poetica" di Alessandra Squaglia

18 Agosto 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #poesia, #L'angolo della poesia

“Ammiro le donne che diventano eroine romantiche, che lottano per le proprie idee e per i propri sentimenti, che sfidano tutto, le convenzioni, gli obblighi, i doveri..che combattono per amore, che non si arrendono, che sono capaci di fare miracoli, che superano dolori e si asciugano le lacrime mentre corrono, lavorano, vivono … le giornate piene di problemi, di impegni, di cose da risolvere ma nello stesso tempo sorridono, ridono, danno coraggio, amano, sognano … affrontano gli ostacoli, difendono sé stesse e quello in cui credono …. non si arrendono mai e sanno di potercela fare …. a volte non sanno neanche come …. ma hanno mille e infinite risorse, forza, coraggio e passione …. sanno capire, sanno perdonare, sanno che ogni rinuncia si trasforma in vittoria, sanno donare in modo incondizionato … non si aspettano nulla in cambio ma aggiungono ricchezza nel loro cuore solo per la gioia di dare … sanno che amare vuol dire crescere..e loro sono dei giganti … e lo diventano ogni giorno di più …

Ho imparato a riconoscere l’eroina che vive in me … non l’avevo mai considerata a dire il vero..poi arriva il giorno in cui ti svegli e ti accorgi che le cose che hai intorno, tutto quello che hai intorno, tutto ciò per cui sei vissuta e vivi se non ci fossi tu non esisterebbe …. sei un demiurgo..un creatore … hai poteri universali … e sei unica …. hai la capacità di creare ogni cosa che è intorno a te, e hai la forza per cambiare perché ogni giorno non è mai uguale all’altro e anche tu giorno dopo giorno ti trasformi … come una farfalla … e trasformi …. ti rinnovi sempre...non ti fermi …. sei come il vento … sai cosa trascinare via con te e cosa lasciare negli angoli … perché non serve più …

A volte diventare consapevoli fa paura … tante cose vissute fino ad un determinato momento non si accettano più … l’eroina romantica non vuole la rassegnazione, non teme la chiarezza e ama il cambiamento … cambiare vuol dire vivere …. smettere delle vesti che non ci stanno più bene …. respirare aria nuova, fresca e frizzante … le idee … quante idee e quanti sogni si realizzano! Più di quanti siamo abituati a pensare … sono le idee e i pensieri, i sogni, quelli che nascono dal nostro profondo che hanno fatto la storia, che hanno cambiato gli eventi, che cambiano la vita … sono i nostri pensieri che creano il nostro presente, il nostro futuro, la nostra storia ….

Le donne romantiche non hanno paura di pensare … di dire … sono coraggiose..non hanno paura di amare..quando amano, e lo sanno fare davvero, diventano ancora più forti … abbracciano la vita … C'è chi pensa che essere forti significhi non provare mai dolore. In realtà, le persone più forti sono quelle che non hanno paura di provarlo, di passarci attraverso, di comprenderlo e accettarlo.

E andare oltre il dolore, facendo un altro passo.

Una donna romantica è tutto questo … anzi di più..ha le ali … per raggiungere mondi infiniti e nuovi universi.”

Alessandra

Alessandra apre il suo animo in questa lunga prosa poetica.

Prosa, perché della poesia non ha il taglio più o meno breve, la sintesi o altri aspetti tecnici. Poetica perché le parole sono avvolte da un lirismo apparentemente impercettibile ma diffuso, che traccia con il tratto delicato dell’Amore la forma e la sostanza della femminilità. Non è un ritratto stereotipato di donna quello tracciato da Alessandra.

Nella prima parte certo si legge della donna eroina "da romanzo", capace di sopportare qualunque angheria, qualunque difficoltà, qualunque sacrificio, in nome dell’amore che infonde in chi ama forza e coraggio.

Poi lo sguardo cade su di sè e allora quel che è detto prima diventa vita vissuta, esperienza personale e verifica individuale dell’enorme potenza dell’amore e della capacità creativa della mente e dell’animo, quando il pensiero diventa promotore del destino nelle scelte, nelle iniziative, nella volontà di agire.

La conclusione è la summa delle lezione umana. Nulla esiste senza il dolore, ma tutto può crescere e migliorare attraverso di esso, purché il dolore venga accettato, attraversato, infine custodito non come esca alla rabbia e alla ribellione, ma come abito comune dell’umanità, espressione anch’esso di vita, di quel segmento di vita che può aprire mondi spirituali nuovi, più di quanti non ne dischiuda l’affannosa ricerca della felicità.

Adriana Pedicini

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recensione Planando nell'aria di V. Principe by Adriana Pedicini

5 Dicembre 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #recensioni, #poesia

recensione Planando nell'aria di V. Principe by Adriana Pedicini

Il titolo – Planando nell’aria - della raccolta di poesie di Vittoria Principe potrebbe essere la chiave di lettura della personalità che è sottesa ai versi e che viene fuori a sprazzi, a momenti non univoci nella fase descrittiva, ma pur legati da un doppio filo che da una parte conduce al bisogno insopprimibile di libertà (questa è la mia storia, simile a quella di un uccello), dall’altro alla necessità di essere, cercare e mostrare amore, come novella eroina sofoclea (eppure sento di essere fatta per amare). Vale a dire che Vittoria rappresenta un universo (femminile) oscillante perennemente tra il desiderio di affermarsi per quello che sente di essere, e i vincoli, ora gioiosi ora dolenti (i momenti felici che si trasformano in dolori …), che la legano alle persone care e alla vita quotidiana.

Una ghirlanda di libertà

È da sempre che cerco la mia libertà.

Perduta in cieli infiniti,

in abissi spaventosi,

in deserti illimitati.

Nell’universo senza fine,vago,

alla ricerca della mia libertà.

La colgo nella luna, in una stella, nel sole.

Ma guardando un prato,

la colgo in un fiore.

La stringo, la bacio, la guardo….dov’eri?

Angosciata e felice la pongo nel mio cuore.

Ora è al sicuro in me.

Mi volto; guardo il mondo,

incatenato, sofferente, schiavo.

Io sono libera,

le mie catene sono sciolte,

per sempre…

è una ghirlanda di fiori

il mio unico vincolo.

Dio l’ha posta al mio collo,

come un giogo soave e lieve.

Di qui i dissidi, di qui le fughe in avanti (un sogno sospeso nell’aria, una disperata fuga) e i ritorni (tornerai a brillare…l’anima mia allora ti parlerà), di qui pianti e scoppi di gioia (come una tempesta...quest’ira furibonda… Ma d’improvviso un raggio di sole...placa il tutto in un silenzio di pace).

Talora prende il sopravvento la nostalgia, che è sempre desiderio di qualcosa, già compiuta, anche se il solo ricordo fa male (Tutto è stato avvolto in un velo di ricordi...aver vissuto momenti terribili)) o agognata, contro cui si profilano i fantasmi del dubbio, dell’incertezza, della paura (Ho paura. Diroccata in lontananza c’è la sede dei fantasmi..) e ancora della vacuità e dell’inutilità (Ecco ti assale il nulla).

Sicché l’oasi tanto desiderata talora sembra scomparire risucchiata dal vuoto, dalla sterilità dei sentimenti intorno a lei o semplicemente dal nonsense della vita. Ma la ricerca di serenità permane immutabile (troverò mai la mia oasi di pace?)

Diventa allora spasmodica anche la ricerca del divino, che pure rimane la suprema àncora, ma con mille domande, anzi con la suprema domanda vibrante come un urlo disperato: Dio, dove sei?

La ricerca della felicità infine è quasi un’ossessione (anima mia…urla con dolore la tua voglia di felicità), che la porta però a scandagliare, ad esaminare, a leggere la realtà che la circonda, per concludere che la felicità ha un unico ritrovo, un’unica sede: il proprio cuore (Il mio cuore resterà sempre al sicuro in me)(Un giorno…mi sono accorta che essa è dentro di noi).

E dal cuore sente tracimare l’affetto per i figli in particolare. Due realtà che danno senso alla sua vita, l’uno perché ha realizzato il sogno quasi adolescenziale della maternità (il mio bambino sarà un mondo incantato), l’altro perché costituisce un’applicazione costante del suo saper e voler essere mamma.

Alla fine sul senso di solitudine (quell’angosciosa presenza del niente) di cui sono testimonianza alcune liriche prevale il giudizio sentenzioso (Se questa è la vita viviamola pure), non senza l’amabile speranza (c’è un fiore appena sbocciato), non senza la curiosità (fruga nella vita, come in un sacco colmo), non senza la fratellanza (se tutti siamo insieme…viviamo), non senza in ultimo l’appello all’amore da donare e da ricevere (se un giorno interrogassi il mio cuore…non tormentarlo. Amalo...)(se un giorno mi verrai a cercare…entrerai nel mio cuore e vi troverai scritto un solo nome AMORE).

Per concludere aggiungerei che la silloge è di piacevole lettura, sobria e scorrevole, senza tranelli o incertezze interpretative, e ancora una volta la limpidezza dichiara la volontà tetragona di un donna che pur sentendo la sofferenza dell’esistenza, ama la sfida, il volo, per poi abbandonarsi dolcemente, planando nell’aria, all’unica vera forza, l’Amore.

Adriana Pedicini

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Sebastiano Testini, "Mai"

13 Novembre 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #musica

 

 

 

 

Mai

Sebastiano Testini

 

Garcia Edizioni, 2016

pp 170

 

Perché non lo so se la gente lo capisce cosa voglio dire ed io non so come altro dirlo, se non con le parole. Ho quello come mezzo, mi hanno dato quello, tutti capiscono solamente quello.” (pag 118)

Un romanzo – se così lo sì può definire – claustrofobico, Mai di Sebastiano Testini. Avete presente quelle strisce a fumetti in cui luoghi e personaggi sono sempre identici, cambia solo leggermente la situazione da una volta all’altra? Ecco, i capitoli di questo libro sono così.

“Eppure c’è un filo, sotto, che (…) collega. Guardando indietro, è una trama da cui non vorrei uscire. (pag 161)

Il protagonista di giorno insegna in una scuola (di suore!) e di notte suona punk rock in scantinati underground, centri sociali, fienili, fabbriche in disuso, piazze, bar, etc. La musica hardcore e heavy metal è il centro del suo mondo e del romanzo stesso. Lui e i suoi compagni di band si muovono su sterrati, tappeti sudici, cocci di bottiglie, in una provincia nordica che finisce per assomigliare a un non luogo, bevendo e drogandosi fino a devastarsi, “pogando”, cioè ballando in modo sfrenato e pericoloso, suonando e cantando come non ci fosse un domani, per buttare fuori l’odio verso un’esistenza e un mondo che, visto la vita che fanno, forse nemmeno conoscono ma un poco invidiano.

Comunque, la vita è vita, l’amicizia è amicizia, anche in quelle devastate condizioni. E certe drammatiche infelicità, alla fine, assumono quasi il sapore della contentezza, dell’essere arrabbiati e paghi allo stesso tempo. La vita,  comunque, pure volendola tener fuori, si affaccia. Ed ecco che anche il terremoto dell’Emilia compare nella storia  

I test delle canzoni dei Mai sono poetici a modo loro e il protagonista pensa che potrebbero essere addirittura insegnati nelle scuole perché attuali e veri. La musica è assordante, aggressiva, urlata, suonata per passione e non per soldi. È un rumore fine a se stesso.

È anche una ricerca di libertà che non tutti, me compresa, siamo in grado di capire, una libertà da, invece che di. Libertà dalle convenzioni, dal conformismo ma, in fondo, dico io, anche dal coinvolgimento, da un’emozione autentica non solo frutto di stordimento, alcol e fatica. Una libertà che a me personalmente sa di rinuncia, però anche di sfogo, questo è certo.

“Forse in quei momenti ti sembra di scontrarti col nemico che non hai ancora identificato, sfoghi la frustrazione di non so quali problemi, espelli il marcio che ti mangerebbe, se lo tenessi dentro.” (pag 43).

A parte qualche lievissima imprecisione, lo stile del romanzo è sorvegliato e ironico, lascia intuire dimestichezza con la scrittura, a riprova che cultura e sottocultura possono coesistere. Nonostante la trama quasi inesistente, nonostante il tipo di vita poco edificante che il libro racconta. Nonostante tutto. Ci sono dei barlumi lirici, tipo quel “Ci si consuma a odiare sempre”, che possono far presa non solo su un pubblico giovanile di disadattati o arrabbiati, anche - sorprendentemente – su gente che ha passato il mezzo secolo ma che quella sensazione di odio per tutti e per tutto la conosce a sue spese.

“Io sono lì, con l’aria calda che mi prende a schiaffi e tenta di strangolarmi, di togliermi il fiato necessario a urlare tutte quelle parole e tutto quel sentimento. Poi guardo in su, nel buio, dove ci sono tutte le stelle, e scorgo una luce che forse starò vedendo solamente io ma che mi spinge ad andare avanti per questa strada, mentre la folle danza del pogo si mostra ai miei piedi in un cozzare di corpi che vorrebbe non finire mai.” (pag 87)

Sebbene abbia pensato di no per tutto il romanzo, alla fine Mai mi è piaciuto, per quel tanto di poetico e di maledetto:

“Entro nel mondo dell’accaci e ne esco tre quarti d’ora dopo, quando le tossine del mio sentire sono state espulse dai miei pori, quando sono diventato il sale sulla vostra ferita, quando mi sono trasformato in una piaga mai rimarginata, quando ho imparato a sanguinare senza far rumore” (pag 131)

E mi chiedo quanto ancor più mi sarebbe piaciuto quando, a diciotto anni, il massimo della trasgressione erano Leopardi e Renato Zero, e quanto, per i giovani di oggi, il protagonista potrebbe rappresentare ciò che erano ai loro tempi Werther e Kerouac.

Certi istanti vorrei avere a disposizione qualcosa da ridurre a brandelli, da mandare in frantumi, da sgozzare, per scoprire se così mi riesco a liberare da quanto mi preme nei visceri, dall’innato e forse atavico bisogno di espellere la rabbia che coltivo, senza voler essere terreno fertile per essa. Lei, però, mette le radici e dà i suoi frutti, che sono difficili da sopportare senza impazzire. (pag 79)

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Il logorio della vita moderna

17 Marzo 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione

 

Ricordate Ernesto Calindri seduto al tavolo in mezzo al traffico caotico a bere un Cynar, noto liquore a base di carciofo?

Erano gli anni 60/70 e già si parlava di “logorio della vita moderna”. Cominciavano i primi segnali d’inquinamento, i primi ingorghi nel traffico cittadino. Non si sapeva a cosa avrebbe portato tutto questo.

Oggi, a distanza di mezzo secolo, l’inquinamento non è più solo quello atmosferico o dei fiumi, c’è ben altro oltre la schiuma marrone dei corsi d’acqua o il puzzo di smog in città. C’è un cambiamento climatico in atto che sembra stia per portare all’estinzione del pianeta. A tal proposito, mi confesso una negazionista dubbiosa. Penso che i mutamenti climatici ci sono sempre stati, che abbiamo attraversato periodi in cui gli esseri viventi respiravano anidride carbonica e si avvelenavano con l’ossigeno, che le immani eruzioni vulcaniche della preistoria hanno oscurato i cieli e raffreddato il suolo per secoli, che la tettonica a placche e la deriva dei continenti non sono fantasie.

Non è vero che il pianeta morirà. Il pianeta si salverà come ha sempre fatto, saremo noi a estinguerci o a vivere in condizioni tremende, ma questo alla Terra non importa, come non le importa delle altre 99% di specie che si sono estinte. La vita sopravvivrà sempre, magari su un altro pianeta, su un'altra galassia.

Siamo noi a volere che tutto resti com’è. Che cosa importa al nostro globo se il livello del mare s'innalza di un metro? È a noi che interessa se Venezia sparisce sott’acqua. Perché l’uomo ha sempre pensato egoisticamente a se stesso, alla sua sopravvivenza, al suo benessere, alla sua arte e cultura.

Ma se tutti gli scienziati dicono che il cambiamento è in atto ed è catastrofico, chi sono io per negarlo? In effetti, da quando ero giovane a oggi, specialmente negli ultimi venti anni, le condizioni meteorologiche sono diventate estreme, il vento non è più vento ma tromba d’aria, la pioggia è inondazione, le stagioni umide sono diventate asciutte, gli incendi ci divorano.  Sono aumentati persino i terremoti.

Inoltre, affoghiamo nell’amianto che fino a poco tempo fa era considerato innocuo e usato per costruire qualsiasi cosa, anche le scuole. Ci sono tonnellate di rifiuti tossici interrate ovunque che hanno portato a un tasso di mortalità per cancro altissima. Uno su due, se non addirittura uno su uno, deve fare i conti con questa malattia, prima o poi e, se le cure hanno prolungato la speranza di vita, o magari addirittura di remissione, sono sempre troppi quelli che ci lasciano le penne con grandi sofferenze. E sono sempre più giovani.

E l’incidente di Chernobyl ha fatto sì che tutti noi che quell’aprile/maggio del 1986 andammo al mare a goderci la tintarella adesso abbiamo i noduli alla tiroide.

Ai tempi di Calindri c’era già la droga ma i drogati erano pochi, era un’enclave di emarginati o di figli di papà che potevano permettersela. Ora la droga costa pochissimo ed è ovunque, diffusa in tutti i ceti sociali, in tutte le età, anche precocissime, e in tutti i mestieri. Chi guida il tuo autobus o il tuo aereo, che ti toglie l’appendice, chi ti estrae un dente può avere la mano che trema. E la droga fa sì che la gente sia stupida e distratta, che le inibizioni spariscano e si uccida per un nonnulla, che si ammazzi di botte la moglie perché ha cucinato male, che si fracassi la testa a un figlio per un brutto voto, che si dia fuoco a una fidanzata che ci ha lasciato.

Calindri non sapeva niente ancora dell’esodo dei popoli, dell’immigrazione, del degrado, dello spaccio, della schiavitù, dello sfruttamento, della sudditanza psicologica a culture diverse e retrograde che ci portano all’esasperazione e al razzismo. Non sapeva che non avremmo più potuto chiamare le cose col loro nome per tema di offendere qualcuno, fino ad arrivare alla paralisi culturale e al rifiuto della nostra identità e delle nostre tradizioni.

Calindri non immaginava che il telefono servisse a qualcosa che non fosse chiamare la moglie per dirle di buttare la pasta. Non sapeva niente dei cellulari e dei computer. Non immaginava torme di ragazzi, uomini, donne e vecchi camminare in assoluto silenzio con gli occhi incollati a un piccolo schermo e l’aria triste e disconnessa, sì, ma da tutto ciò che li circonda, dalla bellezza di un cielo, dal rosso di un tramonto. Non immaginava di essere attraversato da onde elettromagnetiche che ci stanno friggendo vivi tutti quanti, aumentando l’incidenza di tumori al cervello. Io, ad esempio, vi sto parlando da una casa dove il wifi è acceso giorno e notte, dove il cellulare è sempre a portata di mano sul comodino o sulla spalliera del divano.

Non si può tornare indietro, sarebbe impossibile, ormai la nostra vita è fatta di trasmissione veloce di dati e questo è il futuro. Temo però che, come per il fumo, si stiano sottovalutando i rischi. E se smetter di fumare è faticoso ma fattibile, smettere di  vivere connessi,  ahimè, temo sia impossibile.

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Mané

21 Novembre 2014 , Scritto da Patrizia Bruggi Con tag #patrizia bruggi, #racconto, #personaggi da conoscere

Mané


Dedicato a Manoel Francisco dos Santos, giocatore brasiliano noto con lo pseudonimo di “Mané Garrincha” (Pau
Grande, 28 ottobre 1933 – Rio de Janeiro, 20 gennaio 1983)

Ma dove sta scritto che chi è segnato nel corpo sia un disgraziato? Piuttosto, toccato da Dio.
Riflettendoci bene, anche Giacobbe rimase azzoppato lottando con l’Angelo. Fu Dio a voler porre il sigillo nelle sue carni di uomo. Perché potesse affermare: «In questo luogo c’era Dio e io non lo sapevo.»
Così, anch’io sapevo bene dove si trovava Dio che, a un certo punto della mia vita, aveva deciso di lasciare una traccia indelebile anche sul mio di corpo. O meglio, più di una
traccia, a dire il vero. Ma per me, tutti quei difetti formavano il percorso che la mano divina mi aveva disegnato addosso, perché mi ricordassi il luogo in cui si celava lo Spirito. Perché ne avessi consapevolezza, come Giacobbe.
E così, proprio quando stavo davanti al pallone, quel mio difetto fisico diveniva miracolo. Era quello che mi faceva danzare davanti all’avversario, scattare di lato e arretrare nelle finte più sfacciate che mai si siano potute ammirare sui campi di calcio. In quei momenti, il mio dono deforme si faceva beffe della perfezione incapace degli altri.
Le braccia tese, come un equilibrista sul suo filo di vita, correvo in avanti, spinto dall’alito che mi aveva creato. Aggiravo l’avversario come una trottola lanciata dallo spago di un Dio che si sa divertire. Sfioravo la sfera di cuoio e sembrava quasi che ci camminassi sopra, rotolassi con lei, come quei buffi circensi che percorrono l’intero ovale del circo in punta di piedi su una palla. Ero fatto così. E gli spettatori, che distinguevano la bravura, il talento, ma forse non coglievano completamente il fuoco che mi ardeva nel petto, mi soprannominarono “Allegria del popolo”. Perché Dio vuole essere anche allegria. E nel sorriso che avevo, così tante volte immortalato dai fotografi, si potevano distinguere chiaramente il sangue indio di mio padre e quello mulatto di mia madre. Ma altro ancora avrebbe potuto distinguere in controluce chi sapeva leggere Dio nei segni. La mandibola sporgente, gli occhi infossati, ridotti dal riso a due fessure, mi facevano sembrare simile a un guitto. Un guitto che sa bene che dietro al trucco sta la vita. La vita vera. Fatta di dolore e di solitudine.
Dio creò la luce. Ma anche le tenebre. Lo stesso angelo caduto è creatura di Dio. E un dono ricevuto da Dio porta con sé, immancabilmente, anche la necessità di una rovina ineluttabile.
Così, quando compresi il mio lato oscuro, quando capii che quegli scatti sul campo, quasi fosse il cielo stesso a darmi una spinta, celavano un altro punto di arrivo, lontano da fortuna e successo, non ci volli pensare. Mi volli stordire, cercando, attraverso i vizi, di tornare più umano degli umani, campione anche in questo. Puntavo al dolore, sperando che la comune imperfezione mi potesse salvare, trattenendomi sulla faccia di questa terra, come faceva con tutti gli altri che invecchiavano placidi.
È facile svuotare una bottiglia per chi conosce lo strazio. Meno facile guardare attraverso il vetro vuoto e muto, sentendo il calore dell’alcol che ti avvolge le viscere e ritrovare se stessi. E visto da fuori, il mio vizio sembrava uguale a quello di tanti. Il campione si è fatto persona mediocre, pensavano tutti. Ma non era così. Mi aggrappavo a una zavorra per riprendermi il corpo, per tenermelo stretto, per non dover ascoltare quella voce che l’aveva segnato per farmi ispirato e che ora mi mostrava la mia personale miseria, il mio
essere niente.
Sfilai su un carro, nel carnevale del 1980. Seduto, mi asciugavo di tanto in tanto l’occhio destro. Pensarono fosse la commozione nel vedere che il popolo mi voleva ancora bene? Non so. So solo che non ero commosso. Mi bruciavano gli occhi. I suoni giungevano ovattati, vedevo le sagome, non distinguevo i volti.
E quando mi asciugai per la seconda volta l’occhio, mi ricordai che avevo provato la stessa sensazione, anni prima, sul campo. Ma allora inseguivo il pallone e m’isolava dal resto del mondo la mia vampa ispirata.
Così venne il tempo di fare il mio ultimo giro. Che allora credevo uno dei tanti, ma quei quattro giorni di metà gennaio del 1983 furono i miei ultimi, passati a fissare in trasparenza le immagini riflesse dai vetri che svuotavo, svuotando anche me.
Dio gettò sul tavolo della creazione le ventidue lettere magiche e le mischiò, creando infinite combinazioni.
Talmente innumerevoli che noi, che c’illudiamo di saper leggere la vita, non ci accorgiamo di essere perfetti analfabeti esiliati in eterno.
Fu però nell’ultimo secondo della mia esistenza sulla terra che Dio decise di farmi il suo ultimo dono.
Vidi quelle ventidue lettere sollevarsi dal tavolo e ritornare nella mano di Dio che la richiuse a pugno. Come se la pellicola fosse stata riavvolta. Come le immagini che, in televisione, si riavvolgevano un tempo, quando si commentavano le mie azioni sul campo.

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Alfredo Alessio Conti, "Sulla soglia dell'infinito"

3 Marzo 2022 , Scritto da Rita Bompadre Con tag #rita bompadre, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Sulla soglia dell'infinito di Alfredo Alessio Conti (Biblioteca dei Leoni, 2021 pp.96 € 12.00) è una raccolta poetica che contiene la necessità del pensiero umano d'indicare l'essenza dell'infinito, indaga l'inquietudine originaria della vita attraverso le intonazioni elegiache delle parole, trasmesse con il segnale espressivo dell'autonomia sensibile, nell'esplorazione della natura divina e istintiva della compassione. Il sentimento intimo del poeta emerge dalla dimensione spirituale dell'invisibile, dall'ispirazione mistica delle emozioni, trae il suo carattere individuale affermando il suo anelito verso una realtà più autentica, riconosciuta nella comunione solenne con l'assoluto. L'umana esistenza orienta il suo dissidio interiore oltrepassando la materia tangibile del senso della vita, includendo il privilegio del significato speculativo e dell'intuizione, il principio dinamico trascendente del fondamento sovrumano dell'anima. La poesia di Alfredo Alessio Conti custodisce la rivelazione dell'amore, nella sua sfera discorde tra felicità e sofferenza, nelle sue infinite declinazioni esistenziali tra l'armonia e la distensione, la grazia della luminosità e l'inganno dell'oscurità, unisce la sensazione indistinta della contemplazione alla speranza di una redenzione emotiva, sostiene il riscatto ultraterreno, comprende la realizzazione dell'attesa, sospendendo la profetica previsione della nostalgia sfuggente e del desiderio indefinito. Il codice del vissuto quotidiano riflette, nei versi, il tragitto intrapreso dall'uomo, in relazione ai segreti, ai simboli della solitudine, alla metafora dell'intervallo presente, all'incertezza sull'avvento del futuro, procede lungo il cammino dei sogni e il silenzio del destino. Lo stile essenziale, puro, accogliente, permette di apprezzare il contenuto profondo e sconfinato, di sentire il significato immenso della ricerca dell'uomo, di ascoltare l'oscillazione delle riflessioni. L'arricchimento lirico delle immagini propone la densità interpretativa del linguaggio, la relazione con la suggestione dello spazio straordinariamente dilatato della poesia, misura la smarrita astrazione della voragine intimista, guida l'orientamento sacro delle stagioni, consegna il solco delle illusioni al principio devozionale della fiducia. Alfredo Alessio Conti riconosce i limiti dell'esperienza percettiva, prende coscienza delle possibilità di una verità altra, comunica la prospettiva universale del tempo oltre l'apparenza del fenomeno filosofico, trattiene il suo indugio “sulla soglia dell'infinito”, sulla sostanza del conoscibile, sulla volontà inconscia dell'indulgenza, in limine sul confine esistenziale di ogni visione intuitiva dentro il grembo lirico del mondo, avviando l'intenso contrasto tra la lacerazione e la tenerezza, nella tormentata occasione della consapevolezza.

Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

Svanire

 

Rivedo

assorto

nel sonno eterno

il riflesso sfocato

della mia Anima

svanire nel nulla.

 

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Vorrei vivere in un faro

 

Vorrei vivere

in un faro

illuminare le notti

tempestose e buie

segnalare

il pericolo

che ci attende

all'attracco

della vita.

 

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Sono alla ricerca di nuove parole

 

Sono alla ricerca

di nuove parole

di nuovi significati

al vivere il presente

per il futuro c'è tempo

anche se ormai

adesso

l'ho oltrepassato.

 

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Sono un ramo

 

Sono un ramo

curvo sull'acqua

che si abbevera

e rinfresca

sognando

di rizzarsi in piedi

per accogliere nidi

di cardellini

e sentire il loro canto

per l'ultima volta.

 

 

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Battito di ciglia

 

La nostra vita

è intrisa

d'infiniti punti di domanda

della cui risposta

ultima

sarà solo

un battito

di ciglia.

 

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Sulla soglia

 

Ho camminato

a lungo

in questa vita

a volte frettolosamente

a volte piano piano

a volte come gamberi

sulla riva del mare

a volte pieno d'entusiasmo

a volte solitario

ed ora

sulla soglia dell'infinito

non mi resta

che percorrere

l'ultimo tratto.

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Roberto Mistretta, "Rosario Livatino - L'uomo, il giudice, il credente"

25 Settembre 2022 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #storia, #persoanggi da conoscere

 

 

 

 

Roberto Mistretta
Rosario Livatino - L’uomo, il giudice, il credente
Edizioni Paoline - Pag. 440 - Euro 22

 

Dopo l’ottimo libro su don Ferdinando Di Noto e la sua battaglia in favore dei bambini, Edizioni Paoline affida a Roberto Mistretta un lavoro altrettanto importante - direi quasi indispensabile - sulla figura del giudice Rosario Livatino, già pubblicato sette anni fa, ma rivisto e ampliato dopo la beatificazione di un uomo definito martire di giustizia e della fede. Roberto Mistretta è scrittore conosciuto per i piacevoli romanzi gialli che vedono protagonista il pacioso commissario Bonanno (Premio Tedeschi, 2019), ma anche di racconti per bambini e saggi divulgativi a tema sociale. Rosario Livatino è un personaggio che affascina lo scrittore siciliano, perché è un uomo coraggioso e indomito, appassionato difensore della legalità, profondo conoscitore del diritto e della società, sorretto da una fede forte, convinto che il suo unico compito fosse quello di servire lo Stato. Livatino, il giudice ragazzino, ha compiuto il suo dovere fino in fondo, contro tutto e tutti, questo libro gliene dà merito, sin dalla presentazione evangelica, scritta da monsignor Russotto, che lo definisce l’uomo delle Beatitudini, un giudice santo pur se profondamente uomo, un coraggioso eroe del Vangelo e della giustizia. Mistretta prosegue sul solco tracciato dalla fede, perché avvisa il lettore che il suo libro - oggi più di sette anni fa - è dedicato soprattutto a chi crede nel Vangelo e si propone di mettere in evidenza l’umanità e la profonda spiritualità del giudice ragazzino. Prima di cominciare a scrivere su Livatino, l’autore si reca in pellegrinaggio ad Agrigento e sosta in raccoglimento davanti alla camicia intrisa del suo sangue, quella che indossava il giorno del martirio. Il libro è dedicato a un Beato, a un giudice integerrimo, eroe della fede, servitore dello Stato, che pone sempre Dio e la legge al centro del suo lavoro. Trentotto anni ancora da compiere, il più giovane magistrato ucciso in Italia, il primo a essere dichiarato Beato. Il libro si sviluppa in cinque parti: L’uomo e il magistrato, Le agende specchio dell’anima, Sangue innocente, La vita oltre la morte: i miracoli, Interventi pubblici di Rosario Livatino. Mistretta racconta vita e opere di un uomo cresciuto a pane e diritto, destinato a compiere grandi cose sin dai tempi del liceo e di una doppia laurea, magistrato zelante e meticoloso che indaga su uomini intoccabili e pericolosi, su potenti mafiosi che ne decretano la condanna a morte. Livatino era un uomo schivo, non si lasciava intervistare, non amava la ribalta, neppure le fotografie, preferiva lavorare con passione (persino in ferie!) e compiere il suo dovere senza esibire successi e impegno. Il giudice ragazzino, dopo la morte si è meritato gli onori di un film girato da Alessandro di Robilant tra Comitini, Naro e Agrigento, per narrare la vita e la figura di un magistrato ucciso da quella mafia che aveva cercato di combattere. Mistretta racconta il metodo di lavoro, approfondisce l’uso delle agende che contengono elementi importanti per ricostruire il suo pensiero e il lato umano di un personaggio che soffriva un grande senso di isolamento, cercando rifugio nella fede in Dio. Terribile il capitolo intitolato Quel cornuto lo dobbiamo ammazzare, dove da buon scrittore di thriller l’autore ricostruisce l’organizzazione dell’omicidio e l’agguato a un uomo indifeso, vittima sacrificale di un sistema corrotto. Cosa vi ho fatto, picciotti? Ha appena il tempo di sussurrare il giudice ragazzino, finito da cinque colpi di pistola. Tieni, pezzo di merda! È la terribile risposta che accompagna gli spari. Mitra e pistola, poi un colpo in pieno volto. Mistretta racconta tutto, con stile piano e suadente, grazie a capitoli brevi e testimonianze, con umile partecipazione alla vita di un Beato, di un futuro Santo. Non mancano le parole dei pentiti e i miracoli compiuti, ma anche se non credete al soprannaturale e se non avete fede, il più grande miracolo di quest’uomo è aver affrontato la vita come la morte, convinto di fare il proprio dovere e di servire lo Stato fino in fondo. Leggete questo libro e approfondite la sua esistenza. Vi sarà utile.

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Grazia Marzulli, "Nella carezza del vento sbocciano i fiori"

28 Aprile 2023 , Scritto da Marco Zelioli Con tag #marco zelioli, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Grazia Marzulli, Nella carezza del vento, sbocciano fiori, Guido Miano Editore, Milano 2023. 

 

 

Grazia Marzulli, fine e colta scrittrice, che esordì nel 1998 con Il volo di Penelope, ci ripropone parte della sua più che ventennale opera poetica con queste poesie, entrate nella collana “Alcyone 2000” di Guido Miano Editore, col sempre utile e ricco apparato critico-bibliografico.

Già titolo e sottotitolo della silloge ci danno sensazioni di dolcezza e di meraviglia, che ritornano frequentissime nei versi qui raccolti, tra i quali non mancano degli inediti, che si innestano con naturalezza nel fluire di sensazioni dei precedenti già pubblicati, come testimonia Incanto (nella penultima sezione, Anemoni) che chiude così: “…Tu pioggia sole vento in un istante / folata di ponente e maestrale / impeto che travolge e fugge via... // Sarà follia o fluida realtà? // Nel bagliore di un lampo / si scioglierà l’incanto”.

La ricchezza di immagini e di metafore che si trovano nelle poesie della Marzulli non mortificano mai il ritmo sempre leggero dei versi, impreziositi a volte, ma mai appesantiti, dal ricorso a parole poco in voga al giorno d’oggi – fin dalla prima poesia della raccolta, La mia favola, definita “… franta dal tempo”.  Se nella prima parte, Il volo di Penelope, anche la struttura delle poesie è “classica”, nelle poesie tratte dalla seconda parte, Salsedine (1999), si nota una grande differenza: alcuni versi sono allineati a sinistra, altri a destra, altri al centro, in un variare anche ottico di disposizione delle parole che contribuisce ad attirare l’attenzione del lettore. Ciò si ripete, ma con minore frequenza ed impatto visivo, nelle seguenti parti della raccolta.

Vi sono accenni molto personali, e critici, alle mode d’oggi, ad un mondo un po’ ‘fasullo’, per cui Michele Miano nella Prefazione può osservare che la scrittrice “rivela una sfiducia nel presente, nella società odierna, nel dominio tecnologico, simbolo di annullamento della libertà individuale”. Fra tutto, però, il continuo intreccio di passato e presente finisce col ‘redimere’ anche le storture di quell’oggi così apparentemente lontano dal gusto della Marzulli. Perché alla fine, in ogni caso, la vita è nel presente, e comunque il passato è anche ricordo di spavento (“… / incubi atroci... / cado nel vuoto / l’eco risento nelle orecchie / d’un edificio squarciato / si sbarrano gli occhi / si rizza la pelle allo schianto...” – da Schegge di guerra), e di lutto (“… Ora che mi manchi, / se mi affiora da insidie una lama / e mi strugge la lacerazione / la bellezza per me si fa tigre, / poi rampante mi porge un sorriso, / il tuo sorriso” – da A mia madre).

Non mancano squarci sorprendenti, descrizioni che colpiscono per la loro rapidità, come: “Sbiadire lento di caseggiati / e ciminiere color vaniglia / metafisici cubi e bottiglie / nello spazio alienato…” (incipit della poesia Lungo i binari del tempo); o descrizioni concitate di stati d’animo, come in Ricerca: “…Tasta note stridenti / di astruse interferenze / nella suite a due voci / nella suite a più voci / allarme improvviso / timore diffuso / fastidio crescente / nodo in gola-tarlo nella mente…”.

Siamo di fronte ad un’antologia (perché tale è la raccolta in cinque parti di questa carezza del vento) veramente ricca e ‘trasparente’ – nel senso che fa trasparire i solidi fondamenti del linguaggio della scrittrice, tanto ancorato al passato classico (quasi distaccato, fisso e ‘preciso’), quanto consapevole del presente (sempre mutevole, vivo, concreto e vario): in un continuo divenire che, “per non smarrire il senso di una vita” – ultimo verso di Taglio sartoriale – non lascia troppo spazio alla pur naturale Nostalgia; perché, come chiude l’omonima poesia: “La vita guarda avanti”. Ed ecco, sbocciano i fiori: continuano a sbocciare, quasi come miracolo della vita presente che va con fiducia verso il futuro; e nell’ultima sezione, raccolta di inediti non a caso intitolata Fiori della Resilienza, si legge: “Nella carriera come nella vita / sia lieve ogni tuo passo e ponderato. // … // E l’imprinting del cuore / illumini il progetto. // Forgialo in eleganza e / come tu sai procedi / a passi di danza” (inizio e fine di A passi di danza). Sembra così di venir lanciati verso una nuova prospettiva, da scoprire leggendo questo libro di Grazia Marzulli.

Marco Zelioli

 

 

Grazia Marzulli, Nella carezza del vento, sbocciano fiori, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 96, isbn 978-88-31497-98-5, mianoposta@gmail.com.

 

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My name is Virzì L'avventurosa storia di un regista di Livorno di Alessio Accardo - Gabriele Acerbo

12 Ottobre 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema, #recensioni

My name is Virzì L'avventurosa storia di un regista di Livorno di Alessio Accardo - Gabriele Acerbo

My name is Virzì
L'avventurosa storia di un regista di Livorno
di Alessio Accardo - Gabriele Acerbo

FILMOGRAFIA

:. La bella vita (1994)
:. Ferie d'agosto (1996)
:. Intolerance (1996)
:. (episodio "Roma Ovest 143")
:. Ovosodo (1997)
:. Baci e abbracci (1999)
:. My nime is Tanino (2001)
:. Caterina va in città (2003)
:. N (Io e Napoleone) (2006)
:. Tutta la vita davanti (2008)
:. L'uomo che aveva picchiato la testa
:. (2009) (doc.)
:. La prima cosa bella (2010)
:. Tutti i santi giorni (2012)


Alessio Accardo - Gabriele Acerbo
My name is Virzì
L'avventurosa storia di un regista di Livorno
Le Mani - Euro 16 -
Pag. 335

My name is Virzì non sembra neppure un libro di cinema da quanto è scritto bene. Non so dire se la passione con cui ho letto il testo è dovuta al fatto che l'argomento m'intriga e che un po' di tempo fa avevo cominciato ad accumulare materiale per scrivere un libro sull'autore livornese. Poi non ne ho fatto di niente. Meglio così, perché Accardo e Acerbo hanno redatto davvero un libro definitivo sul regista de La bella vita e La prima cosa bella, tracciando limiti di ricerca ben definiti. Adesso sono attesi dal duro compito di aggiornare e di continuare a seguire l'opera di un regista interessante del quale sono divenuti i più documentati biografi. Pare che dal testo - edito con cura da Le mani e messo in commercio a un prezzo accessibile (inconsueto per un testo di cinema) - sarà ricavato un documentario, aggiornato alle ultime pellicole. Non è un peccato che al lavoro manchi Tutti i santi giorni, un netto passo indietro e una battuta d'arresto nel quadro di una produzione di grande livello, al punto che non sarebbe stato facile trovare elementi per salvarlo. Il lavoro è impreziosito da una dotta ma al tempo stesso agile introduzione del cinemaniaco Gianni Canova, che ammette un errore di giudizio nei confronti delle prime opere di un regista che poi (da Tutta la vita davanti, il film che ha convinto la critica) ha cominciato ad apprezzare. Acerbo e Accardo raccontano la vita avventurosa di un regista che parte da Livorno insieme all'amico Francesco Bruni, frequenta la scuola del grande Furio Scarpelli, comincia a scrivere sceneggiature e si candida a diventare l'erede della tradizione della commedia all'italiana. Gli autori narrano l'apprendistato e la lotta di classe all'Ovosodo, nella Livorno operaia, il lutto familiare con la scomparsa del padre, l'autobiografia romanzata che affiora in ogni film. "Per raccontare una bugia credibile bisogna partire da una parziale verità", afferma Virzì. Il regista livornese è un romanziere mancato, il suo cinema è molto letterario, recitato quasi sempre da non professionisti, spesso amici di gioventù, attento a raccontare storie appassionanti più che a realizzare inquadrature suggestive. Furio Scarpelli è il grande maestro di un regista che cresce sui romanzi di Dickens, sulle pellicole di Scola, Pietrangeli, Risi, Monicelli, Ender… appassionandosi al miglior modo di raccontare la vita: la commedia. Il saggio narra la passione politica, gli anni del Centro Sperimentale, le prime sceneggiature (Condominio, Biciclette ai tropici…), i cortometraggi fallimentari e il sorprendente esordio de La bella vita. Virzì è regista a me caro per la scelta di Piombino, esemplare la descrizione di una classe operaia allo sbando, priva di punti di riferimento, ma ottima anche la scelta del set cittadino per girare N, quando invece di andare all'Isola d'Elba adatta il centro storico piombinese. Un autore che intinge la penna nel sarcasmo livornese, che fa sorridere con amarezza sui nostri difetti, raccontando la fine di balordi imprenditori senza futuro (Baci e abbracci) e lo scontro da sinistra radical-chic e arricchiti berlusconiani (Ferie d'agosto). Ovosodo rappresenta la riconciliazione livornese, un modo per riappropriarsi delle radici e di raccontare - in parte - la sua adolescenza. La prima cosa bella lo è ancora di più, opera scritta dopo il matrimonio con Micaela Ramazzotti, impregnata di amore e di nostalgia per il passato, inarrivabile per vette di poesia e lirismo, intensa nel raccontare la storia di una famiglia. Mastandrea, ormai attore feticcio di Virzì (che finge di non sapere il significato dell'espressione) dà il meglio di se nel ruolo del figlio che torna a casa per accudire la madre e nel frattempo ripensa al passato. Tra i lavori di Virzì, il meno riuscito è My name is Tanino, film irrisolto, ancora una volta interpretato da un attore non professionista, forse girato in una location non troppo legata alla poetica labronica. Caterina va in città è molto autobiografico, perché Caterina è Virzì che lascia la provincia per andare a vivere nella capitale, ma è ancora una volta un film che narra un'epopea familiare, racconta le vicissitudini di un rapporto destinato a morire. Tutta la vita davanti è il film più amato dalla critica, buon successo di pubblico, che descrive il mondo dei precari, per la prima volta protagonisti di un'epopea cinematografica. Film galeotto per il regista, fa scoccare la scintilla del secondo amore della vita di Virzì, dopo Paola Tiziana Cruciani, quella Micaela Ramazzotti (nudo integrale cliccatissimo su Youtube!) che diventerà moglie e madre del primo figlio maschio.
Acerbo e Accardo non si limitano a raccontare il cinema e la vita di Virzì, compongono anche un documentato lavoro critico, non limitandosi a riferire opinioni altrui, ma dando un quadro d'insieme della poetica del regista. Inadeguatezza, fascino discreto della provincia, cantore delle piccole cose, nostalgia dell'innocenza, letteratura al cinema, romanzo di formazione, voce fuori campo, cinema di parola, verosimiglianza, macchiettiamo, stereotipi, bozzettismo, inzeppamento, commedia di donne, il mondo visto dai ragazzini, attori dilettanti guidati con passione, lieto fine ineludibile… Tutto questo è il cinema di Virzì. Tutto questo Accardo e Acerbo lo spiegano con dovizia di particolari, passione, competenza e - cosa non trascurabile - con uno stile piano e accattivante, da consumati narratori.
"Federico Fellini è ricordato come il regista con la sciarpa e Alessandro Blasetti è definito il regista con gli stivali, a noi piacerebbe chiamare Paolo Virzì il regista che ride", concludono gli autori.
In fondo proprio questo è la commedia: una risata vi seppellirà.

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Ida Verrei - La drammaturgia dell'assurdo: una proposta teatrale che oltrepassa i confini del reale

30 Gennaio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

Ida Verrei - La drammaturgia dell'assurdo: una proposta teatrale che oltrepassa i confini del reale

Mister Yod non può morire

Maria Antonietta Pinna

Edizioni La Carmelina

pp.83

10,00

Recensione

di Ida verrei

“Mister Yod non può morire” di M. A. Pinna è una proposta teatrale che coniuga elementi realistici con quelli simbolici e surrealisti.

Nella nota introduttiva l’autrice stessa fornisce una prima chiave di lettura del suo dramma e ne sottolinea il significato allegorico: è un Dio creato dall’irrazionalità dell’uomo che, nella perdita della concezione del tempo e dello spazio, non riuscendo più a reggere il peso della propria identità, diviene “altro” e cerca nella morte la risoluzione della sua crisi esistenziale, “per poi scoprire di voler vivere ancora”. (pag.11 nota dell’autore)

Yod, il cui nome è la prima delle quattro lettere che in alfabeto ebraico compongono il nome di Dio, oscilla tra due nature: quella divina e quella umana; sembra non trovare una propria collocazione; tenta di proiettarsi nelle realtà che incontra, ma trova solo cliché e luoghi comuni, il vuoto. Tutto il suo percorso mostra una dualità inscindibile di ripulsa e amore verso la vita: è un dialogo interno di due parti scisse, il divino e l’umano, l’oggetto buono e quello cattivo, in un’angoscia derivante dalle pulsioni di vita e di morte.

La rappresentazione si dispone su tre piani temporali: un tempo lontano, in cui si smarrisce la ricerca di memorie; un presente incomprensibile; un futuro illusorio.

È un tempo ciclico nel quale niente si risolve e tutto ricomincia.

L’azione del primo atto si svolge in un luogo privo di definizione: cinque sedie vuote, cinque personaggi. In questo spazio scenico, carico di valenze simboliche, dove si condensa la mancanza di comunicazione, si muove Yod, tra maschere pirandelliane, che incarnano i membri di una stessa famiglia, estranei tra loro, isolati, indifferenti, incapaci di riconoscersi. Lo scambio verbale sottolinea un distacco disincantato, l’inconoscibilità, la fuga nell’irrazionale:

“Ma tu chi sei?”

“non lo so e tu? (pag.20)

“io cosa?”

“tu sai chi è quell’uomo?”

“a occhio e croce direi che è mio marito” (pag.21)

I dialoghi sono basati sui suoni e sul ritmo di frasi brevi che frantumano la percezione del reale. L’autrice usa luoghi comuni quotidiani;

“Davvero? Non ci si crede. Certe volte, i casi della vita…”

“Chi l’avrebbe mai detto?”

“Ma guarda che combinazione!” (pag.16)

battute brevi, frammentarie, con proposizioni indipendenti, per lo più interrogative; una comunicazione che sembra derivare dalla difficoltà dei personaggi di agganciarsi a una logica convenzionale; parole reiterate, slegate, che assumono la forma dell’enumerazione con effetti sonori:

“Inamovibile, incrollabile, imprescindibile,

innominabile, immangiabile,ineliminabile...

e sentite questa: inesautorabile!”

“Inesautorabile? Questa non vale perché non esiste!

“Se l’ho detta vuol dire che esiste!” (pp.34-35)

In questo groviglio di non-senso, Yod, cerca la soluzione del suo problema. Il suo ruolo, però, appare all’inizio sfocato, abbozzato, più spettatore che attore. Ma è proprio attraverso la demenzialità dei dialoghi, l’incoerenza delle parole, che si giunge ad individuare il protagonista-soggetto dell’opera.

Yod urla la sua ribellione, la sua richiesta di aiuto, ma si scontra con l’indifferenza, l’egoismo di parenti stretti , che fanno male come scarpe:

“Mister Yod non può morire, lo sappiamo tutti”

“Ma io devo morire!”

“Non puoi”.(pag.33)

Non gli resta che cercare altrove.

Si rifugia nell’antro di Paracelso, medico alchimista che funge da contrappunto ironico alla voce di Yod; è proiezione del “magico”, colui che, alla ricerca degli elementi basilari della vita, tenta di “separare il vero dal falso… Spirito e materia”.(pag.47)

Qui (secondo atto), cambia completamente la scenografia: una tenda sullo sfondo, colma di simboli: quelli cinesi, YANG e YIN, emblemi degli opposti, della dualità presente nel cosmo; i quattro elementi della vita (fuoco, acqua, aria, terra); simboli alchemici ed egizi; e l’Ouroborus, il serpente che si morde la coda, simbolo dell’eterno ritorno, della natura ciclica delle cose. Yod spera finalmente di uscire dalla noia universale e perenne dell’immutabilità: “L’inizio coincide con la fine che è un principio che è una fine che è un principio che è la fine… Separare l’inizio dalla fine, questo è l’arcano!”(pag.49)

“Ma lo scienziato-mago-stregone compie una ricerca inversa a quella di Yod: cerca la formula dell’immortalità, che tenta di strappare dal corpo stesso del Dio. La scienza, quindi, è inadeguata alla comprensione delle oscure profondità dell’animo, a risolvere problemi esistenziali e pulsioni dell’inconscio.

Ancora una volta Yod, deluso, sparisce.

In una fusione perfetta tra comico e farsesco, avviene l’incontro con don Abbondio (terzo atto), rappresentante della Fede, ma eroe della paura, esponente di quel clero che appare più interessato ai beni materiali che ai problemi dell’anima. Yod spera in un consiglio dell’uomo di Chiesa, vuole “uscire dall’eterno ciclo della vita” (pag.61) ma i due viaggiano su piani diversi: “Io scanso tutti i contrasti e cedo a quelli che non posso scansare”(pag.62), dice il religioso, e si aggrappa alle regole: “ La legge è legge… Avanti, un uomo qualunque lo capirebbe”(pag.67). E l’Uomo qualunque, non più sinonimo di una negatività indeterminata, ma quasi alter ego di Yod stesso, evocato dall’urlo di don Abbondio, fa la sua comparsa. Socraticamente, con domande incalzanti, attraverso associazioni e quesiti continui, scava nell’io segreto dell’uomo-dio.

In un tragico assurdo, immerso nel flusso dei ricordi, Yod è costretto a naufragare nel passato; si tuffa nel ventre caldo e scuro della balena, che allude a simboli prenatali e ad antiche leggende Inuit.

Qui inizia la parte più visionaria del dramma, il suo autentico significato allegorico: alla ricerca delle proprie origini, il Dio creato dalle pulsioni inconsce dell’uomo, intraprende un viaggio a ritroso. E si perde, non riesce a ritrovarsi in ciò che gli appare, nelle colpe, nel male perenne che l’uomo infligge all’uomo. L’orrore lo travolge; scivola in una dissoluzione che rende incerto il confine tra vita e morte.

Ed allora, in un delirio finale, emerge il disperato bisogno di sopravvivere: perire per ritornare sempre identico a se stesso non ha senso. Vivere, per ritrovare l’illusione di un mutamento che sia catarsi, liberazione dalla condanna dell’Ouroburos, il serpente che si morde la coda.

Maria Antonietta Pinna costruisce un testo teatrale sperimentale; sente il fascino delle Avanguardie simboliste, nei contenuti e nello stile. Ma, con felice intuizione creativa, trova una propria originalità. Rielabora in modo personalissimo tematiche e linguaggi, riuscendo a darci testimonianza di un autentico talento.

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