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Cerca risultati per “Aldo Dalla Vecchia Vita da giornalaia”

Domenico Vecchioni, "Felix Kersten - Il medico di Heinrich Himmler"

12 Febbraio 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

Domenico Vecchioni
Felix Kersten - Il medico di Heinrich Himmler
(Una storia straordinaria)
Greco&Greco – Euro 12 – Pag. 172

Domenico Vecchioni è un diplomatico di carriera, ex console a Madrid e a Nizza, ambasciatore d’Italia a Cuba, con la passione per la saggistica storica. Ha pubblicato molte biografie: Raúl Castro, Evita Perón, Raoul Wallenberg, Pol Pot, Kim Philby, Richard Sorge, oltre ad alcuni studi sulla storia dello spionaggio.

In questo libro - sintetico, divulgativo, ma esauriente - Vechioni ripercorre la vita di Felix Kersten, il medico personale di Heinrich Himmler, il “burocrate dello sterminio”, capo delle SS e della Gestapo, protagonista di un incontro stupefacente con il rappresentante del congresso ebraico mondiale, Norbert Masur. Lo stile di Vecchioni è piano e semplice, descrive Himmler come un personaggio da romanzo, alle prese con i suoi lancinanti dolori di stomaco che soltanto il medico finlandese Kersten sarà in grado di alleviare. Molto interessante è l’intreccio di rapporti tra il capo nazista e il medico - amico, che diventa un confidente così ascoltato e influente da permettergli di salvare molte vite umane. Il medico segue il burocrate in ogni spostamento, lo cura con i massaggi e le medicine, lo ascolta, dispensa consigli, fino a compiere la sua impresa più grande, per la quale sarà sempre ricordato. Kersten - ricorrendo al suo potere - fa firmare a Himmler il Contratto in nome dell’Umanità, poco prima che cada il nazismo, evitando la distruzione dei campi di concentramento e salvando la vita a 800.000 persone. Un benefattore dell’umanità, una salvezza per 63.00 ebrei, un uomo della cui vita si conosce poco e che bene ha fatto Vecchioni ad analizzare in ogni sua sfaccettatura. Un’ottima lettura.

Gordiano Lupi – www.infol.it/lupi

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Maria Vittoria Masserotti, "Cose"

22 Aprile 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #maria vittoria masserotti

Maria Vittoria Masserotti, "Cose"

Cose

Maria Vittoria Masserotti

ilmiolibro.it, 2014

pp 140

12,50

Ho letto tutti e tre i libri di Maria Vittoria Masserotti e questo è, indubbiamente, quello più suo, nel senso che qui c’è tutta la sua vita, frammentata e rifratta in diciassette racconti. Gli spunti - le “Cose” disegnate sulla copertina - sono diversi: un faro, un figlio mulatto che odia il padre, un rapporto omosessuale, un cappello, uno scialle, una nota, ma, alla fine, il nucleo più vero della raccolta sono quei racconti dove una donna dai nomi diversi, ma che è sempre la stessa, coltiva il suo vizio di amare troppo.

Le donne della Masserotti amano troppo un uomo assente, sfuggente, capace di regalare loro, però, quel pizzico d’infinito che rimpiangeranno per sempre, senza poterlo mai dimenticare, senza potersi mai far bastare altro, perché qualunque cosa sarebbe un ripiego.

Sentiva il tocco lieve che percorreva la sua schiena lentamente, mentre aveva la sensazione che le loro due anime si stessero toccando. Un attimo perfetto, un pizzico d’infinito. No, non era più libera e forse non lo sarebbe mai più stata del tutto.” (pag 122)

Insieme all’Amore – inteso come ossessione romantica, tensione verso l’assoluto, fusione di carni e di anime – arriva inesorabilmente anche il Dolore, rappresentato dalla Scimmia appollaiata sulla spalla. Il dolore è fatto di mancanza, di nostalgia straziante, di vuoto incolmabile, ma pure di sensi di colpa per come ci si è lasciate trattare, per lo svilimento, per le umiliazioni subite, per le inutili attese davanti a un telefono che non suona, per la consapevolezza di non essere abbastanza attraenti per lui.

C’è la vita dell’autrice, dicevamo, in troppi di questi racconti, la sua grande capacità di amare, il suo vissuto, le sue esperienze, i luoghi conosciuti. Come in “Racconti per una canzone”, anche qui colpisce l’ambientazione sempre diversa di ogni bozzetto, che spazia dagli Stati Uniti alla provincia italiana più remota, dagli uffici ai ristoranti, dai caffè alle stazioni, descritti senza retorica ma con la mano ferma di chi parla di ciò che conosce bene.

C’è una novella, tuttavia, diversa da tutte le altre: “La gamba”, che racconta un episodio della vita di Sarah Bernhardt. Ecco, se l’autrice riuscirà a liberarsi della zavorra dell’autobiografismo, spogliandosi non tanto di se stessa quanto del suo groppo di dolore, scacciando la Scimmia dalla spalla, facendo della scrittura un uso esplorativo e non solo consolatorio, allora, con lo stile scorrevole e la padronanza di linguaggio che la caratterizzano, sarà in grado di perlustrare felicemente nuove strade, fra le quali quella della rievocazione storica appare davvero molto promettente.

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Fai un passo avanti

5 Maggio 2014 , Scritto da David Di Luca Con tag #david di luca, #psicologia

E’ successo una mattina di primavera. Sedevo nella hall di un albergo, dove mi trovavo per una convention aziendale. Non era una delle mie giornate più brillanti. Anzi, sentivo che era probabilmente la peggiore della mia vita. Nonostante fossi lì per essere motivato, mi sentivo un rottame.

Il perché, difficile dirlo. Non ero particolarmente ammalato, né avevo problemi economici. Qualche guaietto sentimentale, ma niente che potesse turbare un essere umano medio. Eppure, sentivo di odiare tutto e tutti, me compreso.

Ero arrivato alla soglia della mezza età senza grandi realizzazioni. Il lavoro era una serie di collaborazioni messe insieme alla bell’e meglio. Vivevo coi miei, e non osavo nemmeno più sognare una vita mia, indipendente. Uscivo da una mezza storia dove una tipa che aveva vent’anni meno di me mi aveva dato segni di benevolenza salvo poi scomparire nel nulla. Era arrivata proprio quando avevo lasciato perdere l’idea di poter suscitare amore in qualcuna, e forse per questo la delusione era stata anche più cocente.

Certo, col tempo avrei dimenticato. Ma in quel momento era la ciliegina sulla torta. Così, ecco che quella mattina stavo seduto in una poltrona color aragosta, chiedendomi quanto valesse ancora la pena vivere, se l’impegno era così gravoso e i risultati tanto scarsi.

Ora, io credo che la razza umana non sarebbe sopravvissuta all’evoluzione se non avesse avuto “qualcosa” che gli consentisse di trovare soluzioni anche ai problemi più intricati. Si chiama creatività. Usandola, si può uscire dal nostro stato attuale e sviluppare nuove situazioni. Si tratta di qualcosa che agisce al di là della nostra coscienza, e spesso si presenta in forma di visione, di rivelazione, come se venisse dall’esterno, da qualcosa di superiore a noi.

E fu esattamente così. Mi parve di sentire una voce che diceva: Fai un passo avanti. Fai un passo avanti! FAI-UN PASSO-AVANTI!!!

Non essendo ovviamente Giovanna D’Arco, mi resi conto che il mio inconscio si era rotto le scatole di galleggiare nella sfighite acuta, e mi aveva comunicato questa informazione, che trovai potentissima, tanto da farmi immediatamente cambiare il mio stato d’animo. Alzai la testa, e mi resi conto che l’ambiente intorno a me pareva completamente diverso. Sentivo che, certo, i miei problemi c’erano ancora, ma potevo affrontarli, un passo alla volta.

E mi venne da pensare: quante occasioni ci sfuggono nella vita perché crediamo che sia troppo difficile ottenere qualcosa? Eppure, spesso qualsiasi traguardo si può raggiungere facendo un passo avanti, poi un altro, poi un altro ancora. Fino a quando ti volti indietro, e ti stupisci di quanta strada hai fatto. Tutto per aver deciso a suo tempo di fare un piccolo, piccolissimo passo avanti.

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Rosa

14 Luglio 2017 , Scritto da Gianluca Pirozzi Con tag #gianluca pirozzi, #racconto

 

 

 

 

Non ha mai detto a nessuno quando esattamente l’ha scoperto, o meglio, quando le è accaduto di conquistarne una piena consapevolezza che quel gesto costituiva il solo, possibile, rimedio. È certo che per giungere a quella soluzione Rosa ha seguito un estenuante percorso empirico fatto di tentativi innumerevoli che - ora perché complessi, ora perché infruttuosi - l’avevano di volta in volta condotta a disperare di poter definitivamente controllare quella paura di esser inadeguata e incapace di fronteggiare i possibili imprevisti e le contrarietà con cui tutti, prima o poi nella vita, devono fare i conti.

Per Rosa, infatti, anche adesso che mancano pochi giorni al proprio settantatreesimo compleanno e sebbene la vita le abbia regalato un’esistenza tutto sommato felice, un marito che le è ancora accanto, una figliola responsabile e coscienziosa - come lei ama ripetere - e soprattutto Tiziana, la sua unica adorata nipote, vi sono dei momenti nei quali quella strana ansia sembra poter prendere il sopravvento. Ed allora, l’unico espediente serbato intatto negli anni con il quale Rosa può recuperare la calma interiore, consiste ancora nel chiudersi in bagno - non in un bagno qualsiasi, ma proprio quello della sua abitazione. Questo spiega la riluttanza con la quale, per tutta una vita, Rosa ha evitato qualsiasi viaggio che avesse una durata superiore alla settimana, per esser sicura di rintanarsi nella quiete di quello spazio, immergersi per una durata che può variare da un minimo di pochi minuti a fin oltre la mezz’ora, in modo da sottrarsi (momentaneamente) ad ogni altra occupazione e preoccupazione.

A Rosa piace, infatti, restarsene così segretamente confinata tra le pareti maiolicate, egoisticamente abbandonata al benefico effetto liberatorio prodotto dall’adagiarsi con le parti più intime della sua persona in un bagno di acqua calda. Molto calda.

Sì, è proprio il sollevare le proprie vesti, liberarsi della biancheria intima, andarsi a sistemare a cavalcioni del bidet già ripieno di acqua, che le consegna finalmente lo stato di calma e di benessere di cui ha ripetutamente bisogno. Rosa, infatti, non ha mai veramente prestato ascolto ad altri suggerimenti - come quelli delle amiche cui aveva confidato quelle ansie.

Nulla è come quel bagno caldo; né tisane rilassanti, né immersioni dell’intero corpo nella vasca da bagno (magari sciogliendovi del bicarbonato o qualche goccia di oli essenziali), né tantomeno lunghi pediluvi - seguiti da qualche manipolazioni ai plantari con creme o speciali balsami odorosi d’Oriente. O, piuttosto, passeggiate nel verde, esercizi di respirazione, ascolto di qualche brano di musica classica o, ancora, la pratica di piccole prove di manualità come il ricamo, il lavoro ai ferri o all’uncinetto - tutte pratiche nelle quali si è sempre destreggiata con risultati eccellenti - la gastronomia, la lettura o, ancora, l’applicarsi in qualche rompicapo o, infine, alcuni semplici istanti di completo ed assoluto riposo, restandosene distesa sul letto con la mascherina sugli occhi… nulla, proprio nulla, è per Rosa, neanche lontanamente paragonabile allo stato di sollievo che s’accompagna alla pratica del bidet.

E, sebbene tale assoluta consapevolezza sia emersa in età adulta, Rosa doveva averlo però intuito sin da bambina, da quando aveva più o meno l’età che ha ora la sua unica nipotina, Tiziana, con la quale Rosa trascorre quasi tutti i suoi fine settimana. Di quella intuizione, Rosa ricorda d’aver deciso di mantenere un certo riserbo, mettendone a conoscenza solo le persone più care. E le ci erano voluti almeno cinque anni di matrimonio prima di potersi sentire libera di rispondere alle domande ed alla curiosità di Ennio - suo marito - in relazione all’abitudine di sottrarsi improvvisamente alla vita familiare per concedersi quelle soste nella sala da bagno, e più tradi solo al compimento del decimo anno di età di Susanna - sua figlia - aveva confidato anche a lei il suo segreto.

Più tardi, quando era ormai una donna adulta - ispirata, forse, da una gita fatta a Caserta per visitare la Reggia - Rosa ha scoperto (sorridendone intimamente) che la regina Maria Carolina doveva aver nutrito, secoli prima di lei ma probabilmente con la medesima consapevolezza, la sua stessa inclinazione, avendo fatto installare nella stanza reale un bidet, arredo rarissimo all’epoca. A sua volta, proprio per rendere più confortevole e proficua la permanenza in bagno, Rosa ha vi ha introdotto alcuni accorgimenti specifici, non solo il telefono per eventuali urgenze ma, soprattutto, il piccolo tavolino pieghevole che ha sistemato per anni a cavallo del sanitario, così da potersene stare comodamente assisa per dedicarsi - contemporaneamente all’immersione - alla lettura di un libro o della rivista di giardinaggio e, financo (durante gli anni del suo insegnamento di greco e latino) alla correzione dei compiti dei suoi alunni di liceo.

Che fosse mattina tarda, pomeriggio o sera tardi, senza bisogno di dare troppe spiegazioni, Rosa ha sentito sempre il bisogno di quei ricoveri che ha preannunciato ad Ennio o a Susanna utilizzando sempre la stessa frase come mi ritiro per qualche momento oppure, in casi rari, vado a leggere qualcosa di là.

Dunque, non stupì per nulla Ennio, né tantomeno sua figlia, il contenuto dettagliato della seguente richiesta che - insieme ad una pagina con brevi istruzioni sui pochi beni sottratti alla comunione del patrimonio con suo marito - furono ritrovati nel cassetto del comodino di Rosa circa una settimana dopo la sua scomparsa avvenuta per ischemia cerebrale appena qualche settimana dopo l’improvvisa e terribile morte della sua adorata nipotina.

 

“Caro Ennio, Cara Susanna, - così si poteva, infatti, leggere sul primo capoverso della lettera su quella carta azzurrina, sistemata in modo da sporgere appena dal libro La moderna cura delle bulbose, nel quale Rosa l’aveva riposta forse in attesa che fosse ritrovata e certamente anni addietro, forse prima della nascita di Tiziana poiché non vi era alcun riferimento a sua nipote.

Sono certa che più di una volta vi siate interrogati sul perché della mia particolare abitudine, alludo alla consuetudine di richiudermi in bagno per starmene in ozio… Ebbene, vi ho taciuto, e me ne dolgo, il racconto di quanto occorso nei primi anni della mia vita, sia per desiderio di non creare in voi  - meglio ammetterlo, soprattutto in me - un ulteriore imbarazzo e la necessità di ripercorrere con voi questo doloroso evento, sia perché, lo ammetto, ho finito per dubitarne io stessa della veridicità dell’accaduto non avendo altri testimoni se non i miei ricordi e preferendo - perché meno tragico - reputarlo frutto della mia pura immaginazione.

Il fatto risale ai miei primissimi anni di vita, potevo avere circa due anni. So che non può esser accaduto dopo poiché la persona - Assuntina - la donna cui collego l’episodio, sarebbe scomparsa poco prima del compimento della mio quinto anno di vita, ed io sarei stata affidata alle cure di Celestina, la balia che sarebbe rimasta in casa nostra fino al mio matrimonio. Assuntina, come poi sarebbe stato confermato da mia madre, qualche anno più tardi aveva dovuto far appello alle sue più ancestrali conoscenze in campo di puericultura per frenare il pianto ininterrotto cui mi abbandonavo sin dai primi istanti di vita ogni giorno, all’imbrunire. Io conservo ancora il preciso ricordo di quegli strazianti singhiozzi cui ero preda appena si faceva sera e che parevano non concedermi tregua per tutta la notte, destandomi nel sonno. Qualcuno, raggiunta io la maggiore età, avrebbe ipotizzato che questo sentimento - che io a volte ho interpretato come sopraffazione, altre come agitazione o, ancora, sconforto, e che mi ha accompagnato nel corso dell’intera mia vita fino a questi giorni - sarebbe stato conseguente al trauma subito al momento della nascita per la perdita dell’altra bambina - la mia gemella - morta durante il parto avvenuto proprio di sera. Ciò sarebbe certamente verosimile, perché a questi miei sentimenti si è sempre accompagnato un senso di ineluttabile perdita, distacco, quasi come se la realtà nella quale sono venuta al mondo e in cui ho finora vissuto sia in qualche modo diversa da quella nella quale ho la percezione di esser stata concepita o a cui sarei stata destinata. Ho compreso col tempo anche il dolore dei miei genitori, il rifiuto inconfessato di mia madre di allattarmi affidandomi invece alle cure totali di Assuntina, proprio perché la gioia della nascita della loro primogenita era stata sopraffatta dalla perdita di mia sorella.

 Assuntina riuscì col tempo a trovare un rimedio e a trasmettermi la soluzione. Ogniqualvolta il pianto si faceva convulso, lei immergeva un panno bagnato nell’acqua calda e con questo mi massaggiava le parti intime. Io ho un preciso ricordo del luogo in cui Assuntina utilizzò su di me queste prime, empiriche “cure”. Conservo nella memoria dettagli piuttosto precisi, come la vista dal balcone, il letto della balia accostato alla mia culla, le tende ed il tappeto di quell’appartamento che avremmo lasciato pochi anni dopo e del quale non resta testimonianza neppure nelle immagini fotografiche. Anni più tardi, mia madre mi ha confermato che la stanza nella quale era stata allestita la mia camera da letto aveva le tende a quadri bianchi e rosa come io le rammentavo e che sul letto vi era una coperta ricamata in lana di diverse tonalità di verde, il che mi ha dato certezza della veridicità di quei miei primissimi ricordi. Quando ebbi l’età di camminare, persistendo in me il senso di ansia e le crisi di pianto serali, Assuntina prese a sostituire agli impacchi calmanti delle vere e proprie sedute sul vasino, in cui aveva diligentemente versato acqua tiepida. Fu per me naturale, divenuta autonoma, ricorrere da sola a questa soluzione nei momenti più difficili della giornata, nei quali mi sono sottratta temporaneamente alle occupazioni del momento e alla compagnia dei miei cari. Ecco, dunque, spiegatavi la ragione delle mie ripetute assenze. Non me ne volere Ezio. Non me ne volere Susanna”.

 

Con queste parole Rosa replicò per l’ultima volta al pubblico dei suoi cari il monologo che per una vita aveva perfezionato e recitato a se stessa, sino a persuadersi completamente della sua assoluta veridicità. Non c’era stata, d’altro canto, altra via possibile di fuga per combattere la sofferenza di una violenza impressa nella sua tenera carne di bambina da un padre che, sin dai primi mesi di vita, quasi ogni sera l’aveva morbosamente spogliata ed accarezzata fino ad esplorarle i segreti più intimi dell’animo. Nella versione dei fatti che Rosa aveva provato invano, e per tutta una vita, a raccontarsi e a raccontare quel demone non esisteva più ed al suo posto appariva l’immagine di una balia amorevole ch’aveva lenito i suoi tormenti, l’aveva assistita e coccolata, insegnandole a ripulirsi dalla lordura e dal peso di insostenibili gesti di un padre oscuramente malato.

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Don Robertson, "L'uomo autentico"

1 Ottobre 2017 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni

 

 

L'uomo autentico

Don Robertson

Nutrimenti, 2016

 

 

Più che dalle parti della periferia americana qui siamo ai confini dell'umanitá come coordinate. Tutti abbiamo presenti quelle dolci vecchine con la crocchia grigio-violetta e le rosee gote che trascorrono interi pomeriggi a sfornare crostate ai mirtilli e gli anziani che a tutto possono rinunciare fuorché alla salutare corsetta mattutina per tenersi in forma. In questo libro però non ci sono. I protagonisti sono tutti vecchi ma discretamente decrepiti, pieni di acciacchi i cui sintomi vengono descritti in tutta la loro miseria. Inoltre fanno un sacco di sesso, cosa che destabilizza non poco la visione edulcorata e patinata della terza età di cui noi ingenui occidentali ci facciamo spesso latori, visione secondo cui anziani e bimbi sono come gli angeli. In questo romanzo i vecchi non fanno manco sesso bensì scopano, chiavano, fottono, magari con cinquantenni discinte che si fanno fare sveltine in un vano lavanderia, o si fanno masturbare da ottuagenarie amanti dei film porno. È già abbastanza nauseante, sì? Allora non proseguite. Perché il fulcro della storia è Hermann, settantenne con la prostata a pezzi, che attende che sua moglie Edna,  ridotta ad un cranio a palla di biliardo con le vene in evidenza, si faccia portare via dal cancro o dalla chemio, purché la sua agonia cessi. Prima che ciò accada la donna gli svela un segreto: Billy, l'unico figlio che hanno avuto, morto adolescente dopo anni di stenti causati dalla meningite spinale, non era suo figlio biologico. Mentre lui tradiva la moglie, nel rispetto dello stereotipo del camionista, con chiunque, lei lo ha fatto solo con un altro uomo, partorendo poi il frutto dell'atto immorale. Quando la moglie spira, Hermann si rende conto che della sua vita prossima alla fine gli resta solo un pugno di giorni di cui non sa nemmeno bene cosa fare. Tutto ciò che ricorda, per cui ha vissuto, pianto o gioito erano menzogne o illusioni. Ripercorrendo la propria vita con i ricordi si rende conto della sua totale insensatezza. Ma ha un'illuminazione: non è la vita ad essere priva di senso, siamo noi che non abbiamo il libro delle istruzioni. Decide quindi di scriverlo lui, usando il piombo al posto dell'inchiostro e la pelle umana al posto della carta. Si spalancano quindi le ultime inattese 30 pagine che fanno capire al lettore perché questo scrittore sia tanto amato da King che lo ritiene il migliore in assoluto. Prosa scarna, linguaggio infarcito di volgarità e similitudini scatologiche rendono questo romanzo non adatto a tutti, soprattutto per l'inevitabile senso di vuoto e inutilità che si percepiscono lungo l'intera narrazione. Si può non condividere il punto di vista ma occorre arrendersi alla verosimiglianza della storia.

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Ota Pavel, "Come ho incontrato i pesci"

25 Novembre 2017 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni

 

 

 

 

Come ho incontrato i pesci

Ota Pavel

Keller, 2017

 

Cento volte avrei voluto ammazzarmi, quando non ce la facevo più, ma non l’avevo mai fatto. Forse nell’inconscio desideravo baciare ancora una volta il fiume sulle labbra e prendere i pesci argentati. Era stata la pesca che mi aveva insegnato la pazienza e i ricordi mi aiutavano a vivere”.

In questo explicit è racchiuso tanto del senso del libro e della vita di Pavel, scrittore soprattutto di pezzi sportivi, ammalatosi ancora giovane di una malattia psichiatrica che lo segnò per diversi anni. La pesca è il filtro attraverso cui, con questo insieme di racconti, a tratti memoir, che formano un romanzo leggero, ilare in alcuni punti, struggente e malinconico in altri, Ota Pavel narra alcuni aneddoti della sua vita. Da bambino, quando il padre (un personaggio spassosissimo) quasi lo fa annegare per pescare qualche pesce in quanto lui non sa nuotare, al vuoto percepibile lasciato dalla narrazione durante la Seconda Guerra Mondiale, un vuoto causato dall’assenza della pesca, attività negata alla famiglia dello scrittore. La vita, la morte, la solidarietà, la crudeltà, l’allegria, il nonsense si nascondono dietro una scrittura stralunata e giocosa, affollata di nomi di pesci mai sentiti, aneddoti per cui è impossibile non ridere (come quello della gita in barca durante la quale, a causa della pioggia, invadono la tenda di due campeggiatori fidanzati e l’amico li fa cacciare perché, cercando spudoratamente di palpeggiare la donna, tocca le rotondità dell’uomo che non gradisce). Un libriccino che si legge con un unico, permanente sorriso sulle labbra, a volte un po’ più amaro, rivolto in parte anche a noi che pensavamo che mai avremmo letto con tanto piacere un libro che parla solo di racconti di pesca. 

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Agota Kristov, "Ieri"

10 Dicembre 2017 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni

 

 

 

 

 

Ieri

Agota Kristov

Einaudi, 2016

 

"Perché è diventando assolutamente niente che si può diventare uno scrittore".

Questo dice Thomas ad un certo punto della storia a Line, la sua donna-ossessione. Ed è questo che in parte accadde alla Kristof stessa, ridotta a niente dagli anni in fabbrica da profuga con marito e figli, orfana della sua lingua madre, per anni parlò francese senza saperlo né scrivere né tanto meno leggere, privandosi dei suoi amati libri per un lustro. La non-vita di Thomas ricalca il dato autobiografico della scrittrice già riportato nel suo precedente racconto lungo "l'analfabeta": autobus per 5 fermate, catena di montaggio in fabbrica ma ognuno con un compito specifico per cui "nessuno di noi potrebbe assemblare un orologio completo", ogni tanto una cena e un po' di sesso senza amore con Yolande, ragazza brutta al risveglio ma passabile dopo trucco e parrucco, nessun amico, nessun parente. Racconti onirici, surreali, che scrive la sera in quella lingua che non gli appartiene e che celano in parte il suo disagio per l'inutilità del vivere, in parte la sua infanzia che non ha mai raccontato a nessuno, un tempo crudele e meschino che lo ha costretto alla fuga appena dodicenne. E Line, bella, bionda, onnipresente anche se solo nella sua fantasia, suo destino, suo amore, suo fine ultimo finché non l'avrà trovata. La vita riacquista senso solo nei momenti di pausa in cui la sua immaginazione rotola sfrenata lungo i ripidi sentieri dell'inconscio, o forse della pia illusione, e il senso di disperazione per questa esistenza triste e afinalistica si smorza. Finché il suo sogno non si materializza. La donna eterea e inarrivabile giunge nella mensa della sua fabbrica a consumare il pasto quotidiano e lui, come chiunque di noi farebbe, ha due possibilità: ignorarla, per timidezza o timore di rompere la meravigliosa bolla di protezione da quel mondo grigio e alienante, oppure andarle incontro, e scoprire finalmente se il suo sogno può diventare realtà. È una storia scritta con lo stile tipico della Kristof, essenziale, scarno, limpido. È un racconto sulla vita, le sue aspettative e i suoi inganni, sul ruolo dell'immaginazione e della scrittura, sulle aspirazioni e i fallimenti, l'accettazione verniciata di brillantini di serenità o l'emarginazione volontaria. Non ci sono mezze misure nella storia, le strade ai bivi sono tutte dissestate e difficili da percorrere, la meta da raggiungere sempre insoddisfacente. Ma questa è la Kristof: prendere o lasciare.

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Recensione: Poesie e pittura nell'anima

3 Luglio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #poesia, #recensioni

Recensione: Poesie e pittura nell'anima

Voci di Conchiglia

Raccolta antologica

Recensione alle poesie di Carmen Auletta.

di Ida Verrei

“Leggere una poesia è come perdersi in un labirinto di emozioni…” scrive Sonia Demurtas nella prefazione alla raccolta antologica “Voci di Conchiglia”. Ed è proprio in questo groviglio di sentimenti, alcune volte forti, urlati; altre, sfumati, sussurrati, raccontati con una sorta di pudore infantile, che ci si immerge, accostandosi ai versi di Carmen Auletta.

Sono poesie “dipinte”, non solo perché accompagnate dalle pitture che le interpretano e, in un certo senso, le commentano, ma perché le parole ti arrivano con la forza del colore, le immagini ti investono come pennellate.

L’autrice ha incontrato il male di vivere, la più profonda e dolorosa oscurità, quella vera, quella che porta sull’orlo del baratro e fa urlare: cerco imploro piango e chiedo

Il mio spirito incerto e cadente/ manda l’eco di una voce sparuta/ un pensiero che lacera la mente/ in un cammino di pena vissuta…”

Ma le sofferenze non diventano frattura tra sé e il mondo, non si risolvono nell’ indifferenza o in un aristocratico distacco, talvolta estremo rifugio del poeta, né con la romantica ribellione verso la natura: dalla musica del silenzio Carmen scopre la poesia, il canto della vita, la voglia di vivere un cielo … come un candido aquilone.

E cattura immagini, aspetti della vita quotidiana e li trasforma in emozioni, intuizioni, palpiti, metafore.

Fruga nella realtà per cogliere il segno di una condizione umana che non sia solo dolore, vuoto seducente, ma promessa di vita, d’amore.

Aggiusta la bacchetta magica, e guarda con tenerezza e gratitudine, quel tempo che è stato generoso, regalando all’attimo l’eternità.

Grande lezione di coraggio, fiducia e speranza, dà questa sensibile poetessa!

Risplendete miei piccoli girasoli, verrà il nostro sole/

Questa notte l’ho sognato, eravamo in un campo di luce

I.V.

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Jonathan Coe, "La pioggia prima che cada"

27 Marzo 2019 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni

 

 

 
 
 
La pioggia prima che cada
Jonathan Coe
Feltrinelli, 2013
 
Non so cosa Coe sappia di costellazioni familiari o psicoterapia transgenerazionale. Probabilmente nulla. O, magari, ha chiesto consiglio, come per il Valium con il whisky per sapere se può essere letale. In ogni caso bravo due volte, per questo e per avere reso in maniera assai credibile le storie di quattro generazioni di donne, tutte colpite dallo stesso primitivo trauma affettivo causato dalla bisnonna Ivy: la mancanza d'amore. Rosamund, anziana omosessuale da anni sola, decide di togliersi la vita e, prima di farlo, registra quattro nastri con i ricordi della saga familiare di Imogen, la nipote cieca a cui andrà parte dell'eredità. I nastri servono perché Imogen è introvabile da anni e, ascoltandoli, gli altri eredi avranno abbastanza indizi per trovarla. Essi contengono la descrizione di venti immagini che Imogen non ha mai potuto vedere e ricostruiscono la storia della sua famiglia, un susseguirsi di rapporti familiari anaffettivi, uomini inaffidabili o manipolatori, crudeltà e frustrazioni che conducono tutte le protagoniste a scelte errate o infelici. Ci saranno anche due eventi-presagio, uno che si presenterà nuovamente dopo cinquanta anni, a scandire l'inizio e la fine dell'era funesta tra le donne della famiglia. Perché nella vita pare esserci caos solo perché noi conosciamo una parte degli avvenimenti. Se noi sapessimo tutti i segreti - tutto ciò accade nel momento in cui accade e non magari quindici anni più tardi dalla lettera di una parente che non abbiamo mai conosciuto - se avessimo una visione d'insieme, sia verticale e storica che orizzontale nel senso della sincronicità, potremmo intuire l'ordine delle cose, la trama del destino, così come intuiamo la pioggia prima che cada dall'umidità e dall'elettricità nell'aria, in quell'attimo infinitesimale, frazione che abbiamo appena il tempo di cogliere con i sensi prima di poterla elaborare, perché poi arriva la pioggia a travolgerci, irruenta e scrosciante, proprio come i fatti della vita che ci inondano e ci distolgono dalla nostra percezione del filo conduttore che resta un disegno sfocato sullo sfondo di un quadro di Pollock. 
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Cinzia Diddi Collection 2020 P/E

26 Gennaio 2020 , Scritto da Cinzia Diddi Con tag #cinzia diddi, #moda

Cinzia Diddi Collection 2020 P/ECinzia Diddi Collection 2020 P/ECinzia Diddi Collection 2020 P/E
Cinzia Diddi Collection 2020 P/ECinzia Diddi Collection 2020 P/ECinzia Diddi Collection 2020 P/E

Ognuno di Noi è una torre  preziosa

La torre preziosa viene menzionata in un passo buddista. Il testo descrive un'enorme torre che emerge da sotto la terra e si libra nell'aria. La torre si erge al centro dell'universo e le sue immense dimensioni rappresentano la vita di ogni persona vasta come l'universo. I sette tipi di tesori - oro, argento, lapislazzuli, madreperla, agata, perla e corniola - di cui la torre è adornata, indicano che ogni vita individuale è un cumulo di gioielli.

La torre preziosa indica il nostro corpo.

La torre preziosa è il simbolo dell'identità della nostra vita con l'universo. Tuttavia questa profonda verità spesso ci sfugge. Comprenderla significa vedere noi stessi come la torre preziosa, ovvero risvegliarci al nostro innato e illimitato potenziale.

Questo è stato di ispirazione per la stilista Cinzia Diddi e questa collezione Luxury Primavera/ Estate 2020 celebra l’essere Donna, una Donna adornata dai sette gioielli, quindi celebrata e resa preziosa al suo esterno coerentemente con la preziosità della sua anima.

E quindi libero sfogo all’utilizzo di pietre preziose, strass e paillettes.

Abiti in tessuti pregiati , perché ogni Donna deve sentirsi una principessa.

Abiti in chiffon con dettagli preziosi che regalano un look fiabesco.

 

Questi gli abiti ispirati a Barbara Kal, questa fantastica attrice dagli occhi magnetici:

 

L’Abito argento da sera, Lussuoso ed elegante a sirena, un capo di un’eleganza raffinata e frizzante. Un inno alla femminilità, che Barbara possiede in modo gentile ed energico.

La preziosità dei tessuti e delle applicazioni lo vedono protagonista indiscusso di occasioni importanti e formali.

 

L’Abito rosso svasato un vero tessuto gioiello fluido, morbido e sensuale, che in questo abito da cerimonia rappresenta una scelta iper chic, particolare la contrapposizione tra il rosso carminio e il color oro, un giusto contrasto che rappresenta la forza vigorosa e la bellezza.

 

L’abito nero in paillettes con la rouche sul fianco, anch’esso ispirato all’attrice dagli occhi profondi e magnetici.

Netta ed evidente la contrapposizione tra il nero intenso e il color oro, un gioco di contrasti per non passare certo inosservati.

 

Un grazie a Barbara che ha saputo interpretare la collezione e al fotografo Thomas Capasso che ha colto  gli istanti rendendoli eterni.

 

www.cinziadiddi.it

Foto Thomas Capasso

Model Barbara Kal

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