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Come eravamo, I Quindici

4 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #educazione

Suonava alla porta il rappresentante de I Quindici, ben vestito e con la valigetta. Erano i primi anni sessanta, le enciclopedie a fascicoli (Motta, Galileo, Le Muse) invadevano le case, segno di un’emancipazione alla portata di tutti, di un progresso sociale tangibile, fatto di cose concrete, come l’automobile, le vacanze, il vino in bottiglia, il frigorifero, la tv dei ragazzi, il maestro Manzi che alfabetizzava l’Italia via cavo. Madri casalinghe e nonni intimiditi lo facevano accomodare nel salotto buono, offrendo caffè e liquori. Pieno di sussiego, apriva la ventiquattrore e mostrava campioni nuovi di stampa dei libri che avrebbero segnato (insieme alle fiabe sonore) un’intera generazione, stimolando curiosità e fantasia, forgiando il gusto di molti di noi.

I Quindici fu diffusa dalla metà degli anni sessanta alla metà dei settanta. Derivava dall’omologa statunitense Childcraft ed era edita in Italia dalla Field educational, con direttore Armando Guidetti e per la parte grafica Filippo Maggi. Altri collaboratori italiani sono stati Aldo Agazzi, Vittoria Belluschi, Dino S. Beretta, Andrea Cavalli Dell'Ara, Jolanda Colombini Monti, Roberto Costa, Giancarlo Masini, Deda Pini, Luigi Santucci, Francesco Valori e Domenico Volpi.

Il genitore o nonno perplesso osava a mala pena far presente che il bambino/la bambina ancora non sapeva leggere ma l'agguerrito rappresentante aveva pronta la foto dell’ippopotamo grande quanto sei vasche da bagno, tratto da La vita intorno a noi, mostrando come i libri fossero ricchi di figure intuitive e d’immediata comprensione.

L’enciclopedia era composta da quattordici volumi tematici, rivolti a ragazzi di massimo 10 anni - ragazzi di allora, che non conoscevano Ipad e playstation ed erano abituati ad andare a letto dopo Carosello - più un volume dedicato ai genitori (Voi e il vostro bambino) che ebbe grande successo data la scarsità di scritti sull’argomento allora disponibili in Italia.

Poesie e rime

Racconti e fiabe

Il mondo e lo spazio

La vita intorno a noi

Feste e costumi

Come le cose cambiano

Come si fanno le cose

Come funzionano le cose

Fare e costruire

Cosa fanno gli uomini

Scienziati e inventori

Pionieri e patrioti

Personaggi da conoscere

Luoghi da conoscere

Voi e il vostro bambino

I libri erano caratterizzati da dorsi multicolori che creavano un arcobaleno inconfondibile e riconoscibile a distanza sugli scaffali domestici, ed è appunto a questa edizione, la prima e mitica, che qui facciamo riferimento, le altre - nero su crema, oro su nero, e, ancora, parzialmente multicolori (2006) - non hanno lo stesso impatto evocativo.

Nessuno può dimenticare il numero nove Fare e Costruire, individuabile dall’orlo superiore slabbrato e sporco per il troppo uso. I bambini lo utilizzavano in continuazione per fabbricare di tutto, dai segnalibri, ai portapenne fatti con le mollette da bucato, ai dolci americani come gli scones, che nessuno sapeva cos’erano ma facevano tanto modernità, laddove moderno, allora, era sinonimo di progredito e giusto. Il volume veniva letto mentre sullo schermo scorrevano le immagini in bianco e nero di “Giocagiò”, il programma preferito dei ragazzi di allora, una sorta di Art Attack ante litteram che, condotto da Lucia Scalera e Nino Fustagni, si avvaleva di autori del calibro di Gianni Rodari.

I quindici coloratissimi volumi coprivano l’arco dello scibile, indirizzando i fruitori verso tutti gli aspetti del mondo circostante. Alcuni aprivano gli occhi sulle meraviglie della scienza e della tecnica (Come funzionano le cose, Il mondo e lo spazio, Come si fanno le cose, Scienziati e inventori, Cosa fanno gli uomini), altri stimolavano l’interesse per la storia (Come le cose cambiano, Pionieri e patrioti, Personaggi da conoscere), la natura (La vita intorno a noi), la geografia (Luoghi da conoscere, Feste e Costumi).

I volumi erano definiti “i libri del come e del perché”, spiegavano concetti complicati in modo semplice e immediato, avevano un intento didattico, didascalico, divulgativo ma anche etico. Spingevano all’eroismo, al patriottismo, alla divisione fra male e bene, com’era nella sensibilità dell’epoca, ci rendevano desiderosi di sapere, di esplorare, di viaggiare, di leggere, di approfondire, suscitavano domande e la voglia di andare oltre a ciò che i sensi mostravano.

Così si presenta ai lettori il primo volume:

I Quindici (…) non è un trattato né un’enciclopedia, né un sillabario, né un manuale scolastico. Tuttavia i vostri bambini e fanciulli troveranno in essa la realtà nei suoi molteplici aspetti e impareranno innumerevoli cose: impareranno, speriamo, a leggere meglio, cioè a raccogliere, con intelligenza, esatte nozioni e buone emozioni”. (Volume 1 pag. 6)

Ecco dichiarato il doppio intento: insegnare ed emozionare, avvicinare alla conoscenza attraverso il coinvolgimento, la commozione, la partecipazione.

E, sempre nell’introduzione, possiamo cogliere la spinta al progresso, all’elevazione sociale e spirituale, che era tipica di quegli anni e che portava gli operai a studiare alle scuole serali per diplomarsi, per innalzarsi al di sopra della massa ignorante.

I bambini desiderano veramente apprendere e capire. Non è forse vitale che essi imparino, come e meglio del papà, della mamma e dei fratelli maggiori, se questo è appena possibile?”

E chissà quanti talenti letterari, quanti orecchi ritmici, non siano stati incoraggiati dalla lettura di Racconti e fiabe e Poesie e Rime, due volumi che insegnavano ad amare le parole, spronando la fantasia, il senso del reale ma anche del magico, del mistico, del fantastico, con poesie tratte dalla cultura di tutto il mondo, con brani di Pascoli, Belli, Wanda Bontà, Cardarelli, Carducci, D’Annunzio, De Amicis, Fucini, Ada Negri, Palazzeschi, Pezzani, Saffo, Ungaretti.

Le poesie erano ridotte e riadattate per i bambini, secondo una moda che tendeva alla condensazione dei classici per l’infanzia, ma anche dei best seller per adulti, sulla scia di Selezione del Reader’s Digest che pubblicava "riassunti" di romanzi della letteratura contemporanea, concentrando in 20/30 pagine l'intera trama, salvando alcune descrizioni e dialoghi dell'originale.

Ciò che la raccolta de I Quindici si proponeva, rispecchiava in pieno l’ideale di un’intera epoca: “creare una generazione migliore, aperta alla bellezza, alla verità, alla bontà”. Quello di bontà è un concetto che ritroviamo anche nel jingle iniziale delle contemporanee fiabe sonore della Fabbri.

Forse perché influenzati dai programmi ministeriali della DC, a loro volta fortemente condizionati dalla chiesa cattolica, non ci si vergognava allora a parlare di bontà e di onestà, a considerarle valori da trasmettere alle generazioni future, fini cui tendere per il miglioramento del singolo individuo e, di conseguenza, della società tutta.

Non sarebbe male se, ogni tanto, qualcuno se ne ricordasse anche oggi.

.

 

The salesman of Childcrafti rang the door, well dressed and with a briefcase. It was the early sixties, the serial instalments invaded the houses, a sign of an emancipation within everyone's reach, of a tangible social progress made up of concrete things, such as cars, holidays, the bottled wine, the refrigerator, the kids' TV. Intimidated housewives and grandparents made him sit in the good living room, offering coffee and spirits. With dignity and refinement, he opened his briefcase and showed new samples of books that would mark an entire generation, stimulating curiosity and imagination, forging the taste of many of us.

Childcraft was widespread from the mid-sixties to the mid-seventies.

The perplexed parent or grandfather barely dared to point out that the boy / girl still could not read but the fierce representative had ready the photo of the hippopotamus as big as six bathtubs, taken from Life around us, showing how the books were full of intuitive figures and immediate understanding.

The encyclopedia was made up of fourteen thematic volumes, aimed at children up to 10 years old - boys of that time, who did not know Ipad and playstation and were used to going to bed after Carosello - plus a volume dedicated to parents (You and your child ) which was very successful given the scarcity of writings on the subject then available.

 

 

The books were characterized by multicolored backs that created an unmistakable and recognizable rainbow from a distance on the home shelves, and it is precisely this edition, the first and mythical, that we refer to here, the others - black on cream, gold on black, and, again, partially multicolored (2006) - they do not have the same evocative impact.

 

Nobody can forget the number nine, which can be identified by the upper edge that is tattered and dirty from too much use. The children used it continuously to make everything from bookmarks to pen holders made with clothespins, to American sweets like scones, that nobody abroad knew what they were but they made so much modernity, whereas modern, then, was synonymous with progress.

The fifteen colorful volumes covered the arch of knowledge, directing the users towards all aspects of the surrounding world. Some opened their eyes to the wonders of science and technology, others stimulated interest in history, nature , geography .

The volumes were called "the books of how and why", they explained complicated concepts in a simple and immediate way, they had a didactic, popular but also ethical purpose. They pushed heroism, patriotism, the division between evil and good, as it was in the sensitivity of the time, made us eager to know, to explore, to travel, to read, to deepen, they aroused questions and the desire to go further to what the senses showed.

 

"Childcraft(...) is not a treatise nor an encyclopedia, nor a syllabary, nor a school manual. However, your children will find reality in its many aspects and will learn countless things: they will hopefully learn to read better, that is, to collect, with intelligence, exact notions and good emotions ".

 

Here is the double intention: to teach and excite, to approach knowledge through involvement, emotion, participation.

And we can grasp the push for progress, for social and spiritual elevation, which was typical of those years and which led the workers to study in the evening schools to graduate, to rise above the ignorant mass.

 

“Children really want to learn and understand. Is it not vital that they learn, s better than dad, mom and older brothers, if this is as soon as possible? "

 

And who knows how many literary talents, how many rhythmic ears, have not been encouraged by the reading of fairy tales and Poems and Rhymes, volumes that taught to love words, spurring the imagination, the sense of reality but also of the magic, of the mystic, of the fantastic, with poems drawn from culture all over the world, with passages by Pascoli, Belli, Wanda Bontà, Cardarelli, Carducci, D'Annunzio, De Amicis, Fucini, Ada Negri, Palazzeschi, Pezzani, Saffo, Ungaretti.

The poems were reduced and adapted for children, according to a fashion that tended to condense the classics for children, but also the best sellers for adults, on the heels of the Reader's Digest Selection that published "summaries" of novels of contemporary literature, concentrating the whole plot in 20/30 pages, saving some descriptions and dialogues of the original.

 

What the collection of Childcrafti proposed, fully reflected the ideal of an entire era: "to create a better generation, open to beauty, truth, goodness".

Perhaps because influenced by the ministerial programs strongly conditioned by the Catholic Church, we were not ashamed then to speak of goodness and honesty, to consider them values ​​to be transmitted to future generations, for the improvement of the individual and consequently of the whole society.

It would not be bad if, occasionally, someone remembered it even today.

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Come eravamo: I Quindici

26 Aprile 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo

Suonava alla porta il rappresentante de I Quindici, ben vestito e con la valigetta. Erano i primi anni sessanta, le enciclopedie a fascicoli (Motta, Galileo, Le Muse) invadevano le case, segno di un’emancipazione alla portata di tutti, di un progresso sociale tangibile, fatto di cose concrete, come l’automobile, le vacanze, il vino in bottiglia, il frigorifero, la tv dei ragazzi, il maestro Manzi che alfabetizzava l’Italia via cavo. Madri casalinghe e nonni intimiditi lo facevano accomodare nel salotto buono, offrendo caffè e liquori. Pieno di sussiego, apriva la ventiquattrore e mostrava campioni nuovi di stampa dei libri che avrebbero segnato (insieme alle fiabe sonore) un’intera generazione, stimolando curiosità e fantasia, forgiando il gusto di molti di noi.

I Quindici fu diffusa dalla metà degli anni sessanta alla metà dei settanta. Derivava dall’omologa statunitense Childcraft ed era edita in Italia dalla Field educational, con direttore Armando Guidetti e per la parte grafica Filippo Maggi. Altri collaboratori italiani sono stati Aldo Agazzi, Vittoria Belluschi, Dino S. Beretta, Andrea Cavalli Dell'Ara, Jolanda Colombini Monti, Roberto Costa, Giancarlo Masini, Deda Pini, Luigi Santucci, Francesco Valori e Domenico Volpi.

Il genitore o nonno perplesso osava a mala pena far presente che il bambino/la bambina ancora non sapeva leggere ma l'aggurerrito rappresentante aveva pronta la foto dell’ippopotamo grande quanto sei vasche da bagno, tratto da La vita intorno a noi, mostrando come i libri fossero ricchi di figure intuitive e d’immediata comprensione.

L’enciclopedia era composta da quindici volumi tematici, rivolti a ragazzi di massimo 10 anni - ragazzi di allora, che non conoscevano Internet e playstation ed erano abituati ad andare a letto dopo Carosello - più un volume dedicato ai genitori (Voi e il vostro bambino) che ebbe grande successo data la scarsità di scritti sull’argomento allora disponibili in Italia.

Poesie e rime

Racconti e fiabe

Il mondo e lo spazio

La vita intorno a noi

Feste e costumi

Come le cose cambiano

Come si fanno le cose

Come funzionano le cose

Fare e costruire

Cosa fanno gli uomini

Scienziati e inventori

Pionieri e patrioti

Personaggi da conoscere

Luoghi da conoscere

Voi e il vostro bambino

I libri erano caratterizzati da dorsi multicolori che creavano un arcobaleno inconfondibile e riconoscibile a distanza sugli scaffali domestici, ed è appunto a questa edizione, la prima e mitica, che qui facciamo riferimento, le altre - nero su crema, oro su nero, e, ancora, parzialmente multicolori (2006) - non hanno lo stesso impatto evocativo.

Nessuno può dimenticare il numero nove Fare e Costruire, individuabile dall’orlo superiore slabbrato e sporco per il troppo uso. I bambini lo utilizzavano in continuazione per fabbricare di tutto, dai segnalibri, ai portapenne fatti con le mollette da bucato, ai dolci americani come gli scones, che nessuno sapeva cos’erano ma facevano tanto modernità, laddove moderno, allora, era sinonimo di progredito e giusto. Il volume veniva letto mentre sullo schermo scorrevano le immagini in bianco e nero di Giocagiò, il programma preferito dei ragazzi di allora, una sorta di Art Attack ante litteram che, condotto da Lucia Scalera e Nino Fustagni, si avvaleva di autori del calibro di Gianni Rodari.

I quindici coloratissimi volumi coprivano l’arco dello scibile, indirizzando i fruitori verso tutti gli aspetti del mondo circostante. Alcuni aprivano gli occhi sulle meraviglie della scienza e della tecnica (Come funzionano le cose, Il mondo e lo spazio, Come si fanno le cose, Scienziati e inventori, Cosa fanno gli uomini), altri stimolavano l’interesse per la storia (Come le cose cambiano, Pionieri e patrioti, Personaggi da conoscere), la natura (La vita intorno a noi), la geografia (Luoghi da conoscere, Feste e Costumi).

I volumi erano definiti “i libri del come e del perché”, spiegavano concetti complicati in modo semplice e immediato, avevano un intento didattico, didascalico, divulgativo ma anche etico. Spingevano all’eroismo, al patriottismo, alla divisione fra male e bene, com’era nella sensibilità dell’epoca, ci rendevano desiderosi di sapere, di esplorare, di viaggiare, di leggere, di approfondire, suscitavano domande e la voglia di andare oltre a ciò che i sensi mostravano.

Così si presenta ai lettori il primo volume: “I Quindici (…) non è un trattato né un’enciclopedia, né un sillabario, né un manuale scolastico. Tuttavia i vostri bambini e fanciulli troveranno in essa la realtà nei suoi molteplici aspetti e impareranno innumerevoli cose: impareranno, speriamo, a leggere meglio, cioè a raccogliere, con intelligenza, esatte nozioni e buone emozioni”. (Volume 1 pag. 6)

Ecco dichiarato il doppio intento: insegnare ed emozionare, avvicinare alla conoscenza attraverso il coinvolgimento, la commozione, la partecipazione.

E, sempre nell’introduzione, possiamo cogliere la spinta al progresso, all’elevazione sociale e spirituale, che era tipica di quegli anni e che portava gli operai a studiare alle scuole serali per diplomarsi, per innalzarsi al di sopra della massa ignorante: “I bambini desiderano veramente apprendere e capire. Non è forse vitale che essi imparino, come e meglio del papà, della mamma e dei fratelli maggiori, se questo è appena possibile?

E chissà quanti talenti letterari, quanti orecchi ritmici, non siano stati incoraggiati dalla lettura di Racconti e fiabe e Poesie e Rime, due volumi che insegnavano ad amare le parole, spronando la fantasia, il senso del reale ma anche del magico, del mistico, del fantastico, con poesie tratte dalla cultura di tutto il mondo, con brani di Pascoli, Belli, Wanda Bontà, Cardarelli, Carducci, D’Annunzio, De Amicis, Fucini, Ada Negri, Palazzeschi, Pezzani, Saffo, Ungaretti?

Le poesie erano ridotte e riadattate per i bambini, secondo una moda che tendeva alla condensazione dei classici per l’infanzia, ma anche dei best seller per adulti, sulla scia di Selezione del Reader’s Digest che pubblicava "riassunti" di romanzi della letteratura contemporanea, concentrando in 20/30 pagine l'intera trama, salvando alcune descrizioni e dialoghi dell'originale.

Ciò che la raccolta de I Quindici si proponeva, rispecchiava in pieno l’ideale di un’intera epoca: “creare una generazione migliore, aperta alla bellezza, alla verità, alla bontà”. Quello di bontà è un concetto che ritroviamo anche nel jingle iniziale delle contemporanee fiabe sonore della Fabbri.

Forse perché influenzati dai programmi ministeriali della DC, a loro volta fortemente condizionati dalla chiesa cattolica, non ci si vergognava allora a parlare di bontà e di onestà, a considerarle valori da trasmettere alle generazioni future, fini cui tendere per il miglioramento del singolo individuo e, di conseguenza, della società tutta.

Non sarebbe male se, ogni tanto, qualcuno se ne ricordasse anche oggi.

The salesman of Childcrafti rang the door, well dressed and with a briefcase. It was the early sixties, the serial instalments invaded the houses, a sign of an emancipation within everyone's reach, of a tangible social progress made up of concrete things, such as cars, holidays, the bottled wine, the refrigerator, the kids' TV. Intimidated housewives and grandparents made him sit in the good living room, offering coffee and spirits. With dignity and refinement, he opened his briefcase and showed new samples of books that would mark an entire generation, stimulating curiosity and imagination, forging the taste of many of us.

Childcraft was widespread from the mid-sixties to the mid-seventies.

The perplexed parent or grandfather barely dared to point out that the boy / girl still could not read but the fierce representative had ready the photo of the hippopotamus as big as six bathtubs, taken from Life around us, showing how the books were full of intuitive figures and immediate understanding.

The encyclopedia was made up of fourteen thematic volumes, aimed at children up to 10 years old - boys of that time, who did not know Ipad and playstation and were used to going to bed after Carosello - plus a volume dedicated to parents (You and your child ) which was very successful given the scarcity of writings on the subject then available.

 

 

The books were characterized by multicolored backs that created an unmistakable and recognizable rainbow from a distance on the home shelves, and it is precisely this edition, the first and mythical, that we refer to here, the others - black on cream, gold on black, and, again, partially multicolored (2006) - they do not have the same evocative impact.

 

Nobody can forget the number nine, which can be identified by the upper edge that is tattered and dirty from too much use. The children used it continuously to make everything from bookmarks to pen holders made with clothespins, to American sweets like scones, that nobody abroad knew what they were but they made so much modernity, whereas modern, then, was synonymous with progress.

The fifteen colorful volumes covered the arch of knowledge, directing the users towards all aspects of the surrounding world. Some opened their eyes to the wonders of science and technology, others stimulated interest in history, nature , geography .

The volumes were called "the books of how and why", they explained complicated concepts in a simple and immediate way, they had a didactic, popular but also ethical purpose. They pushed heroism, patriotism, the division between evil and good, as it was in the sensitivity of the time, made us eager to know, to explore, to travel, to read, to deepen, they aroused questions and the desire to go further to what the senses showed.

 

"Childcraft(...) is not a treatise nor an encyclopedia, nor a syllabary, nor a school manual. However, your children will find reality in its many aspects and will learn countless things: they will hopefully learn to read better, that is, to collect, with intelligence, exact notions and good emotions ".

 

Here is the double intention: to teach and excite, to approach knowledge through involvement, emotion, participation.

And we can grasp the push for progress, for social and spiritual elevation, which was typical of those years and which led the workers to study in the evening schools to graduate, to rise above the ignorant mass.

 

“Children really want to learn and understand. Is it not vital that they learn, s better than dad, mom and older brothers, if this is as soon as possible? "

 

And who knows how many literary talents, how many rhythmic ears, have not been encouraged by the reading of fairy tales and Poems and Rhymes, volumes that taught to love words, spurring the imagination, the sense of reality but also of the magic, of the mystic, of the fantastic, with poems drawn from culture all over the world, with passages by Pascoli, Belli, Wanda Bontà, Cardarelli, Carducci, D'Annunzio, De Amicis, Fucini, Ada Negri, Palazzeschi, Pezzani, Saffo, Ungaretti.

The poems were reduced and adapted for children, according to a fashion that tended to condense the classics for children, but also the best sellers for adults, on the heels of the Reader's Digest Selection that published "summaries" of novels of contemporary literature, concentrating the whole plot in 20/30 pages, saving some descriptions and dialogues of the original.

 

What the collection of Childcrafti proposed, fully reflected the ideal of an entire era: "to create a better generation, open to beauty, truth, goodness".

Perhaps because influenced by the ministerial programs strongly conditioned by the Catholic Church, we were not ashamed then to speak of goodness and honesty, to consider them values ​​to be transmitted to future generations, for the improvement of the individual and consequently of the whole society.

It would not be bad if, occasionally, someone remembered it even today.

Come eravamo: I Quindici
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Come cambierebbe la mia vita "senza" il digitale.

15 Novembre 2021 , Scritto da Luca Lapi Con tag #luca lapi, #le riflessioni di luca

 

 

 

 

Come cambierebbe la mia vita "senza" il digitale.
Com'era la mia vita prima del digitale.
Rifletto partendo dalla fine.
La mia vita prima del digitale era:
Vederci in classe, ma non al di fuori della classe.
C'era classe nel vederci in classe?
Ed al di fuori?
Sembrava un declassarci?
Non a me!
La mia vita prima del digitale era:
Scriverci a mano (col rischio di non capire la calligrafia o dattiloscriverci, inviarci cartoline, affrancare la posta da spedire).
La mia vita durante il digitale è:
Scriverci per posta elettronica o tramite Facebook.
E' stato ed è bello, tuttora, per me, scrivere per comunicare, per condividere, per cercare e trovare in un posto, benché virtuale, ma sicuro, amiche ed amici, ma mi mortifica constatare che tutto ciò non avvenga che come in una: "classe" (di cui ho parlato, all'inizio) e non: "al di fuori".
La mia vita "senza il digitale:
Tornerebbe a essere una vita in attesa di uno squillo (non una: "squillo") al telefono, al citofono e alla porta di accesso a casa mia e, comunque, la mia vita è così, tuttora, anche "col" digitale.
Ho detto: "... La mia vita prima del digitale era... affrancare la posta da spedire..."
Mi convinco che la vita digitale, in gran parte della mia esperienza di vita attuale, sia, per alcuni, ma non per tutti, (tranquilli!):
Un affrancarsi, un liberarsi da responsabilità sociali che chiunque sarebbe bene che sentisse come vitali!
"Vita Digitale: come cambia la vita".
Forse, la vita digitale dovrebbe essere intesa da chiunque come un:"pannolino" che può sporcarsi e che, sporcandosi, necessita di essere cambiato, periodicamente, con un: "pannolino" pulito di: "vita reale"e pure codesto può sporcarsi.
Occorre ricordarsi che nella vita digitale, come in quella reale, c'è il dito indice puntato contro qualcuno, c'è il dito pollice puntato verso il basso per condannare qualcuno e c'è il dito medio per augurare, sgarbatamente, a qualcuno, alla maniera di un famoso ex comico genovese, una: "V-Life"!
Vita digitale:
Ci sono le impronte digitali e le mie virtuali sono pronte a essere lasciate nella vita reale di: amiche e di: amici, ma le loro, per paura delle mie, non sono pronte ad essere lasciate nella mia!

Luca Lapi

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Vita di Pi - Paperblog

21 Dicembre 2012 , Scritto da Laboratorio di Narrativa

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Storia di una levatrice

15 Novembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Di mia madre ricordo la treccia che toccava la strada, e gli occhi.
Suo padre fabbricava mattoni ad Amritsar, la città del Tempio d’Oro, era mussulmano ma non aveva il Corano nel cuore. Si chiamava Mohammed e sposò Ruttie. Nella prima notte dopo le nozze furono concepiti cinque gemelli. Mia nonna li partorì, uno dopo l’altro, ma tutti i maschi nacquero morti. Sopravvissero solo due bimbe, mia madre e mia zia.
Erano due bambine magre, che piangevano piano ma poppavano il latte con tenacia. Mohammed disse che erano state le femmine a succhiar via la vita dei maschi e pianse la morte dei suoi tre figli. - Se i miei figli sono morti - si lamentò, allora non ho nemmeno figlie.
Strappò le bambine alla madre e con loro vagò in mezzo alle baracche di fango e bambù dei quartieri poveri. All’alba, le consegnò ad una famiglia indù. - Eccovi del denaro - esclamò -allevate queste bambine come se fossero vostre, perché io non ho il coraggio di affogarle.
Una mattina di tredici anni dopo, Mohammed si trovò a passare nel quartiere dove vivevano le sue figlie. Seduta sulla soglia di una casa, c’era una fanciulla che impastava il chapati. Aveva una treccia nera che spazzolava il terreno, un naso dritto e delicato, guance di pesca. Era assorta nel suo lavoro e cantava sottovoce un inno alla dea Sita. Mohammed chiese ad un vicino chi fosse quella ragazzina. Scoprì che si trattava di una delle figlie che aveva ripudiato, e che gli indù l’avevano chiamata Suyeda. In quel momento comparve sulla soglia anche un’altra fanciulla. Dalla somiglianza, Mohammed capì che era l’altra gemella, cresciuta però più bassa, più tozza e più scura.
Erano passati molti anni, e Mohammed non sentiva più alcun legame di sangue con quelle due ragazzine. Figlia o non figlia, volle Suyeda per sé. Sua moglie Ruttie era invecchiata, sformata da troppe gravidanze dove tutti i bambini erano morti. Se Mohammed avesse avuto timore di Allah, avrebbe capito che quei lutti erano la punizione per avere abbandonato le sue figlie, ma lui non aveva il Corano nel cuore e quella sera non tornò da sua moglie.
Comprò da mangiare ed entrò nella casa di Suyeda.
- Eccovi del cibo- esclamò - ridatemi le mie figlie perché da questo momento sono di nuovo mia proprietà.
Si accoccolò sul charpoi, in mezzo alle due gemelle, ma per tutta la sera non ebbe occhi che per Suyeda. Giocò con la sua treccia, le raccontò storie divertenti e scelse per lei i bocconi migliori. Alla fine della cena, gettò una manciata di rupie fra le ciotole colme di frutta e di riso. Parlò nell’orecchio del padrone e subito tutta la famiglia decise di dormire per strada. - Fa troppo caldo, dissero.
Anche Suyeda ed Haria presero la loro stuoia. – No - ordinò quello che credevano il loro padre - voi due stanotte dormite dentro.
Ubbidirono, distendendosi sul charpoi che dividevano tutte le sere.
Quando Mohammed le raggiunse, stavano già dormendo, abbracciate. L’uomo si tolse in fretta la veste e sollevò il sari di Suyeda. La ragazza aprì gli occhi assonnati. Vide sopra di sé quell’uomo imponente, con la barba folta, gli occhi nebbiosi. Era nudo, con un enorme fallo rosso puntato contro di lei. - Non gridare, Suyeda, o sveglierai tua sorella - le disse - io sono il tuo vero padre e posso fare ciò che voglio di te.
Accanto, Haria stava rannicchiata e non si muoveva. Mohammed calò sopra Suyeda e con una mano le bloccò le spalle contro il terreno. Con l’altra le allargò le gambe, poi conficcò il suo membro dentro di lei. Suyeda soffiò con le narici, come un animale, ma non gridò. Haria rimase girata di schiena, immobile.
Il peso dell’uomo era immenso e schiacciava Suyeda contro il pavimento. Lei sentiva dentro la pancia una mazza dura che si agitava e sfregava, pelle contro pelle. Poi, d’un tratto, Mohammed si lamentò e Suyeda credette che la dea Sita lo avesse ucciso, per vendicarla.
Invece non era morto. Si levò in piedi e lasciò la casa.
Suyeda sentì Haria sospirare forte, come se per tutto quel tempo avesse trattenuto il respiro. Rimase distesa contro la schiena della gemella e non fiatò. Non mosse le gambe fino alla mattina e lasciò che il sangue, e quell’altra cosa viscosa, si rapprendessero sulle sue cosce. Era tutta pesta, come quando era stata picchiata per aver bruciato il chapati. Si sentiva ancora addosso quella barba ispida che le sbranava il seno, e riviveva lo strazio d’essere impalata fra le gambe da un uomo che aveva detto d’essere suo padre.
Né lei né Haria parlarono più di quell’uomo.
Suyeda non sapeva di essere incinta. Glielo dissero le donne della casa, picchiandola con un bastone sulla pancia che si era gonfiata. - Avrai un figlio - strillarono - e questa vergogna ricadrà su tutti noi.
Chiamarono un astrologo e lo pagarono perché leggesse nelle stelle il sesso del bambino. - Sarà un maschio - predisse l’astrologo. - Un maschio va bene - dissero le donne e lasciarono in pace Suyeda per il resto della gravidanza.
Non ebbe un maschio ma una femmina e quella femmina sono io.
Venni al mondo di notte, dopo che il monsone aveva soffiato per tutta la giornata. Le strade erano paludi e mia madre era inquieta come una tigre, mentre le raffiche di pioggia si abbattevano sulla sua casa e filtravano dal tetto.
Non aveva mai amato quel tugurio, né le persone che vi abitavano. Voleva bene solo a Haria, la sua gemella.
Mentre così rifletteva, inginocchiata a sorvegliare il masala che tostava nella tawa, con la pancia che le arrivava quasi sotto la gola, sentì un dolore così forte ed improvviso che credette d’essersi bruciata coi tizzoni. Guardò giù, col respiro affrettato d’una cavalla impaurita. Era troppo lontana dalle braci per essersi scottata e fra le sue gambe non c’era fuoco bensì acqua che bagnava il sari.
Si mosse, ma era come se una mano la tenesse inchiodata accanto al fuoco. Scivolò indietro, sulla schiena, soffocata da un altro dolore e, mentre annaspava per chiedere aiuto, sentì l’odore delle spezie che si carbonizzavano nella tawa. Mi picchieranno, pensò, come l’altra volta che ho bruciato il chapati. Ma anche se l’avessero picchiata con tutti i bastoni del mondo, non avrebbe potuto sentire più male di così.
Furono solo le prime doglie, le più leggere, d’un travaglio che doveva durare tutta la notte. Molte ore più tardi, Suyeda aveva smesso anche di urlare, mentre attorno a lei un cerchio di donne si affannava.
Fu chiamato di nuovo l’astrologo e il cerchio si aprì, reverente, al suo arrivo. In cambio di tre pugni di riso, l’astrologo lesse il futuro sul palmo della mano sudata di Suyeda. - Non va bene - brontolò - stanotte le stelle sono contrarie.
Erano ormai pallide, le stelle, quando Suyeda ebbe l’ultima contrazione. Si aggrappò alle braccia di Haria e gridò. Apparve la mia testa ed una vecchia l’afferrò e tirò. Fui strappata in questa vita dalle sue mani sporche.
- Ma non è un maschio! - esclamarono indignate le donne della casa. A turno guardarono il mio sesso. - E’ solo una femmina - disapprovarono - una femmina inutile e costosa. Liberiamocene!
Haria s’intromise, mi fece scudo col suo corpo. - Lasciatela a me, penserò io a lei!
Mi prese in braccio e, con il mio stesso sangue, segnò una tika sulla mia fronte.
- Ecco il tuo terzo occhio, nipote - disse - ti chiamerò Mandala, cerchio della vita.
E anche quando per tutti divenni Fatima, per Hariamasi sono sempre rimasta Mandala.
Suyeda si rimise a fatica del parto. Passò molti giorni distesa sul charpoi. La febbre le faceva vedere cose che non erano: un mostro con la barba, più alto del sole, che la inghiottiva; una lancia rossa che la trapassava da parte a parte; un bicchiere di latte che si mutava in sangue.
La zia Haria mi appoggiava vicino al corpo della sorella assopita, accostava la mia bocca al seno fino a che non trovavo da sola il capezzolo e mi ci attaccavo.
Lentamente, mia madre riacquistò le forze ma dalla febbre non guarì mai. Cominciò ad annusare l’odore del mio corpo e ad assaggiare le gocce di latte che mi sfuggivano dalle labbra. Teneva in bocca le mie mani ed i miei piedi e li scaldava col suo fiato.
Prese a sedere sulla soglia di casa. Non le importava di cosa poteva pensare la gente. Lei non era più una brava ragazza indù e non si sarebbe mai sposata. Si era congiunta col proprio padre, era diventata una paria fra i paria ed anche gli intoccabili la chiamavano impura ed evitavano di camminare nella sua ombra. Perciò abbandonò ogni ritegno. Scostava il sari e esponeva il suo seno di tredicenne per allattarmi in mezzo alla gente, senza pudore.
Quattro anni passarono, uno dopo l’altro. Crebbi sana e forte, mio malgrado, in quella casa dove ero invisibile per tutti, tranne che per le due gemelle. Somigliavo più a Haria che a Suyeda. Come lei avevo lineamenti forti, ossatura robusta.
La febbre e l’allattamento avevano assottigliato Suyeda, rendendola trasparente e bellissima. Aveva quell’aspetto di fiore sgualcito che accende la fantasia degli uomini.
La adocchiò Charim, il peggior sciupafemmine di tutta Amritsar. Aveva vent’anni, una moglie ricca e molto più vecchia di lui e due figli piccoli. Apparteneva alla casta dei mercanti ma era sua moglie a lavorare, mentre lui correva dietro a tutte le ragazze della città. Era il terrore dei padri e dei mariti. Si prendeva il suo piacere con mussulmane, buddiste ed indù, con vergini e con donne sposate, con cortigiane e persino con donne bandite dalla loro casta.
Vide mia madre e le piantò in faccia i suoi occhi baldanzosi. Passando e ripassando davanti alla sua casa, si lisciò i baffi, fece tintinnare i suoi ornamenti, si morse il labbro.
Suyeda aveva diciassette anni. La sua unica conoscenza degli uomini e dell’amore era il vecchio incubo di un demone che diceva di essere suo padre e la prendeva con la forza. Charim cominciò con lei una danza delicata. Scriveva il nome Suyeda sul terreno con un ramoscello. Era gentile con me, mi porgeva con la sua stessa lingua noci d’areca e foglie di betel. - Un giorno, piccola Mandala - mi diceva - sarai come la tua mamma che brilla più di una stella.
Ci raggiungeva quando sapeva di trovarci sole, e portava in dono a mia madre frutta e collane di fiori. Faceva mostra di rispettarla, come se, invece d’una fuori casta, fosse stata una vergine ch’egli intendeva sposare. Un giorno le mandò una vecchia mezzana che consegnò a mia madre noci, profumi, anelli, zafferano, e le parlò dell’amore ch’ella aveva suscitato nel cuore di Charim. Con voce lacrimosa, spiegò quanto lui avrebbe sofferto per un suo rifiuto. Le disse che la moglie di Charim era una donna brutta e cattiva, che maltrattava il marito e non gli voleva un briciolo di bene.
Suyeda ritrovò il pudore. Smise di sedere sulla soglia, se non quando sperava di veder passare Charim. Se lui era vicino, non lo guardava mai in faccia, ma abbassava la testa e rispondeva a mezza bocca alle sue domande. L’amore la rese timida come una cerbiatta.
Cominciò a sognare ad occhi aperti. Di sicuro, pensava, la moglie di Charim un giorno morirà. E’ vecchissima, c’è chi dice che ha addirittura trent’anni. Quel giorno, io diventerò la prima sposa e, dopo, riempirò la sua casa di fiori, farò brillare il pavimento e sarò sempre bella e profumata per lui. Mia sorella Haria e mia figlia Mandala vivranno con noi.
Erano sogni bellissimi, durante i quali Suyeda dimenticava di essere una fuori casta, una alla quale la sua stessa gente non rivolgeva la parola.
Una sera, Charim recò con sé una splendida collana. Era di pura filigrana d’argento, con un pendaglio che scendeva sul petto. - Per te, Suyeda - le disse - come pegno del mio amore. L’argento porta i segni delle mie unghie e dei miei denti.
- Shukria - rispose Suyeda - grazie, la terrò per sempre.
Quando si abbandonò fra le sue braccia, quella stessa sera, volle pensare di essere l’unica: Charim non aveva moglie e tutte le altre donne non esistevano più.
Avevo solo quattro anni, ma ricordo che stavo in un angolo, a spolpare i frutti di papaya che Charim mi aveva regalato, e guardavo mia madre e lui distesi sul charpoi. Lei aveva il sari sollevato. Lui le stava sopra.
La baciava sulla gola, sulle spalle, sulle braccia, sul viso. Si muovevano insieme ed il loro moto ricordava l’onda, la ruota, il cobra che esce dal suo cesto al suono del fakir. In mezzo a loro la collana brillava nell’ombra.
Avevo paura dei rumori che facevano, ma la papaya era dolce. Mi riempivo la bocca e mi coprivo le orecchie per non sentire.
Passarono alcuni mesi. Charim veniva da noi regolarmente. Ogni volta c’erano manghi per me, o foglie di betel, o noci. Ogni volta loro due si stendevano sul charpoi, oppure restavano in piedi, contro il muro, e facevano quei movimenti e quei rumori.
Poi Charim smise di venire. Ogni giorno Suyeda si sedeva sulla soglia e guardava in fondo alla strada.
Ad ogni giorno che passava senza che lui arrivasse, mia madre perdeva colore dal viso e scottava un po’ di più. Se mi avvicinavo a lei, mi scacciava irritata.
E poi venne il giorno della festa di Baisakhi. Per le strade c’erano maghi, indovini, e yogi che camminavano sui carboni ardenti o si trafiggevano le guance con fili di ferro. C’erano giocolieri, danzatori e incantatori di serpenti. C’era, ricordo, persino un elefante bardato.
In mezzo alla folla, vicino ad uno zingaro che aveva un cobra avvolto intorno al collo, scorgemmo Charim. Guardava i giocolieri e pareva divertirsi molto. Era accanto ad una fanciulla velata, che portava grandi orecchini smaltati e bracciali di ceralacca con pietruzze scintillanti. A tratti, Charim si chinava a sussurrarle qualcosa nell’orecchio. La fanciulla rideva, con grandi occhi di pece luminosa, e fingeva di coprirsi le orecchie per non sentire.
Per tutto il tempo, mia madre rimase inchiodata a fissarli, senza dire una sola parola. Quando la folla si disperse, li seguì, trascinandomi con sé.
Cercò in tutti i vicoli, dietro ogni muro, ogni bidone, ogni albero. L’istinto la guidò oltre la soglia di un cortile. Charim e la fanciulla erano avvinghiati nel buio d’una volta d’ingresso e si baciavano. La fanciulla non aveva più il velo e dimostrava a mala pena quattordici anni.
Suyeda rimase acquattata nell’ombra a spiarli. Io ero vicino a lei e non osavo neppure respirare.
Alla fine, Charim uscì dal cortile con aria soddisfatta. Mia madre gli si parò innanzi. - Charim! - lo chiamò - Charim...
Lui ci guardò appena. - Toglietevi dalla mia ombra, fuoricasta.
Mia madre gemette, si coprì la bocca con la mano. Fece un passo indietro, poi due, poi cominciò a correre.
Nei giorni successivi non disse più una sola parola. Le tornò la febbre e smise di mangiare. Rifiutava le foglie colme di riso che Haria le offriva e per molto tempo si nutrì solo di latte allungato con l’acqua.
Sedeva tutto il giorno sul charpoi, con la collana stretta fra le dita sempre più magre e febbricitanti. Si era fatta così trasparente che si accorsero che era di nuovo incinta solo quando il parto era ormai vicino.
Appena cominciarono le doglie, Suyeda disse alla sorella che sarebbe morta. Mi chiamò e mi mise in mano la collana di Charim. - E’ tua adesso, Mandala - disse, e mi strinse il pugno tanto forte che il pendaglio mi bucò il palmo. - Conservala sempre! Questa collana porta i segni delle unghie e dei denti di Charim.
Dopo due giorni di travaglio, mia madre ebbe un altro figlio, mio fratello Kartar. Subito dopo il parto, morì di febbre emorragica, come aveva predetto.
Avevo solo cinque anni, ma quel giorno giurai che non avrei più permesso che una donna perdesse la vita per dare alla luce un bambino.
Da allora ho cambiato città, nome e religione, ma, fino ad oggi, ho sempre mantenuto la mia promessa.
Dopo la morte di Suyeda, la mia vita cambiò. Fu nostra zia Haria ad allevare me e Kartar. Crescemmo nella casa dei nostri parenti adottivi, che ci trattavano da paria. Per loro eravamo impuri, figli dell’incesto e dell’adulterio. Nessuno ci rivolgeva la parola, nessuno tollerava la nostra vista. A noi erano riservati solo i lavori più umili.
Kartar, il mio fratellastro, era un adolescente timido, chiuso in se stesso, pigro e trascurato. Fedele alla mia promessa, io divenni levatrice, ancor più impura agli occhi dei miei familiari. Le donne che aiutavo, però, mi erano riconoscenti.
Un giorno fui chiamata fuori città. Feci tutta la strada a piedi ed arrivai sudata e stanca ad una capanna di fango, dove un uomo di circa cinquant’anni mi mostrò la sua mucca che muggiva disperata.
- Sono una levatrice, non un veterinario - protestai. Feci per andarmene, ma, quando vidi la testa del vitello che sporgeva fra le gambe della bestia, la mia indignazione sfumò e mi detti da fare. Il vitello nacque sano e la mucca lo leccò contenta.
- Non ho soldi per pagarvi - confessò l’uomo. - Ma vi sono riconoscente. Quella vacca è tutta la mia ricchezza e, anche se non sono indù, per me è sacra. Adesso, grazie a voi, potrò vendere il vitello. Venite nel mio campo e prendete quello che volete!
Disse di chiamarsi Kalim Hussein e spiegò che la sua famiglia veniva dall’Arabia.
Una settimana dopo, lo vidi apparire, con un mazzo di fiori di campo e un sorriso umile sulla faccia. - Sono mussulmano - affermò - e sono povero. Ho solo il campo e la mucca ma vi chiedo di essere mia moglie.
Accettai. Insieme a Haria e a Kartar, lasciai la casa dove non ero amata e andai a vivere con Kalim Hussein. Riparammo il tetto della capanna coi miei soldi e comprammo un asino. Per sposare Kalim Hussein, dovetti convertirmi alla sua religione. Lo feci per dovere ma anche per riconoscenza. Imparai a compiere le abluzioni, a mettermi in ginocchio sapendo sempre dov’era la Mecca. Imparai a poggiare la fronte sul tappeto ed a pregare Allah misericordioso.
Prima del matrimonio, arrivò un mullah che mi fece ripetere alcuni versetti del Corano davanti a due testimoni. - Non c’è altro Dio che Allah e Maometto è il suo profeta.
Con queste parole, entrai nella luce dell’Islam, col nome di Fatima.
Ci sposammo senza dote, senza festa e senza invitati. Dopo la cerimonia, Kalim Hussein tornò nel campo, Haria in cucina, io al mio lavoro e Kartar a sonnecchiare al sole nel fosso.
Scoprii che mio marito era un uomo compassionevole e gentile. Non mi obbligò mai a mangiare carne di manzo e la sera, quando tornava dal lavoro, mi portava sempre un fiore.
Pian piano, grazie a lui, conobbi la vera fede. La legge del Profeta divenne iman dentro di me, spirito e luce nel mio cuore. Di mia volontà, scelsi di portare il velo, come segno di rispetto per mio marito.
Per due anni vivemmo del nostro lavoro, tirando avanti meglio che potevamo. Per ogni bambino e per ogni vitello nato vivo, io venivo pagata. Se nasceva un figlio maschio, mi pagavano anche il doppio. Haria si occupava della casa. Kartar dava una mano a Kalim Hussein nei campi, quando ne aveva voglia. Mio marito non si lamentava mai della pigrizia di mio fratello. - E’ giovane - diceva - beata la gioventù!
Kartar era affezionato a Kalim Hussein, ai suoi occhi tutto ciò che egli faceva era ben fatto, tanto che volle convertirsi anche lui e mise nella nuova fede tutto il fervore della sua età.
Hariamasi non si convertì, perché per lei la religione non aveva significato. - Io credo in quello che vedo - diceva. Era una donna concreta e generosa che non si lamentava mai.
Ero giovane allora, e non amavo Kalim Hussein di quell’amore di cui parlano le canzoni o i racconti, ma lo consideravo un uomo pio e giusto. Quando ci univamo, nel fruscio notturno della nostra capanna, lui era premuroso ed attento anche al mio piacere.
Nel 1947, l’anno in cui l’India divenne indipendente, ero incinta anch’io. Il quindici agosto fu un giorno di gioia per molti, ma non per noi.
Un’orda di sikh si rovesciò nel nostro villaggio, ad ovest di Amritsar. Arrivarono in bicicletta, a piedi, ad ondate, come cavallette furiose, brandendo kirpan, bastoni e mazze. Piombarono sugli uomini, li accerchiarono, li massacrarono.
Kalim Hussein era nel suo campo. Tentò di fuggire, mi dissero, ma gli saltarono addosso e lo sgozzarono fra le zucche, con l’asino che correva impazzito e la mucca che muggiva di terrore.
Quel mattino, mi trovavo in casa di una partoriente, accompagnata da mio fratello e da Haria. Un gruppo di uomini urlanti circondò la casa. Kartar sbarrò la porta, mentre io gli gridavo di scappare, di nascondersi. - Viva la luce dell’Islam! - gridò invece. - Viva la vera ed unica fede!
Lo fecero a pezzi davanti ai miei occhi.
Aveva diciassette anni, mio fratello. La voce non mi bastò per urlare quando gli mozzarono la testa e le gambe.
In cinque irruppero nella casa. Ci picchiarono col piatto dei pugnali e ci strapparono le vesti di dosso. Stuprarono me, mia zia e tutte le donne della casa. Un uomo mi gettò in terra, di traverso alla porta, e mi montò sopra.
Il collo inondato della sua barba fetida, la testa rovesciata all’indietro, io vedevo il cielo ed il cortile ed i cani che si azzuffavano intorno al corpo di Kartar. Udivo le grida della donna che partoriva. Un uomo stava spingendo a forza il suo membro dentro di lei, ricacciando indietro la testa del bambino.
Non sentivo i morsi, i tagli, il bruciore e il peso dell’uomo su di me. Ero assordata dai rantoli della partoriente e di una ragazza alla quale stavano strappando dalle mani un neonato.
Persi conoscenza un minuto, forse due, tre. Quando riaprii gli occhi, l’uomo non era più sopra di me, ma addosso ad una bambina che urlava e si divincolava. Rimasi distesa sulla soglia, incapace di muovermi, pesta e bruciante. La bambina fu presa, non più di otto anni aveva, ed inchiodata. Sentivo piangere, in fondo alla casa, singhiozzi straziati. La giovane mamma strisciava carponi sul pavimento verso qualcosa di piccolo, di inerte.
Alla fine ci trascinarono fuori. Ad una ad una ci spinsero, barcollanti, seminude, coperte di sangue, di graffi e di lividi, tagliuzzate dai pugnali.
Per prima uscì Haria. Mi resi conto che, per tutto il tempo, non avevo udito un solo grido dalla sua bocca. Venni fuori anch’io, poi la bambina, che uscì piangendo, con la mano fra le gambe, ed il sangue che colava lungo i polpacci esili. Per ultima apparve la giovane madre. Aveva recuperato il cadavere del suo bambino e lo teneva stretto al petto. Vacillava, guardando lontano, con gli occhi vuoti, fissi, spaventosi.
Poi non uscì più nessuno e la casa rimase in silenzio.
Il sole bruciava, gli avvoltoi ed i corvi stridevano e si abbassavano su di noi fino quasi a toccarci, i cani grufolavano e ringhiavano. I singhiozzi delle donne si spegnevano, poi tornavano a divampare.
Ci costrinsero a sfilare attraverso tutta Amritsar, insieme alle altre donne, fino al Tempio d’Oro. Superammo inebetite la passerella di marmo, accecate dal riflesso dell’acqua e dalle cupole di rame arroventate dal sole.
E, dentro, fu davvero la fine.
Ricordo che urlavo, che il pavimento del tempio era rosso di sangue, che le donne scappavano e sbattevano contro le pareti come falene intrappolate. Venivano sgozzate e cadevano una sull’altra. Ricordo che il sangue schizzava sui muri e che l’eco raddoppiava la violenza delle grida.
Non può succedere, pensavo, non è vero. Haria era accanto a me, impietrita. Insieme corremmo, cercando scampo verso il fondo del tempio. Inciampavamo nei corpi, i nostri piedi nudi scivolavano sul sangue, mani agonizzanti ci afferravano le caviglie. Scalciammo per liberarci, senza pietà. L’unico istinto era fuggire, uscire di lì.
Un uomo afferrò mia zia per i capelli, la immobilizzò. Haria era nuda, il corpo scosso da un tremito violento, lo sguardo d’un animale braccato. Mi aggrappai a lei, cercai di trascinarla via, di strapparla dalle mani dell’uomo, ma scivolai e caddi a faccia in giù nel sangue.
L’uomo tagliò la gola di Haria. Le vene zampillarono, le allagarono il petto, mi inondarono. Rimasi a terra, accanto al corpo floscio di mia zia, paralizzata, in attesa della morte. Non avevo più volontà.
Fu il caso a salvarmi. Una donna passò correndo vicino, urtò l’uomo che aveva già alzato il kirpan contro di me. Con un urlo di rabbia, lui rivolse la sua furia contro di lei. Le squarciò il petto. La donna cadde addosso a Haria ed io rotolai via. Strisciai sul ventre, mi rannicchiai immobile, nascosta in mezzo ai cadaveri.
Attorno a me, il massacro continuò. Sentivo grida disumane, vedevo le donne correre in cerchio, folli di terrore. Avvertivo che anche la mia ragione vacillava, mi abbandonava. Avevo gli occhi annebbiati, la pelle viscida, ero soffocata dall’odore del sangue e della paura. Non so per quanto rimasi lì, ferma e raggomitolata, mentre intorno a me le urla si spegnevano e restavano solo i gemiti delle moribonde.
Poi gli uomini tornarono a casa, dalle loro mogli, dalle loro sorelle e figlie.
Non cercai più il corpo di mia zia. In quel momento non potevo pregare, né per lei né per nessun altro. In quel momento non esisteva più nulla per me. L’importante era riuscire a muovere le gambe, fare un passo dopo l’altro, mandare giù l’aria nei polmoni e farla uscire di nuovo. Ero una bestia, un cane braccato che voleva sopravvivere.
Il dolore arrivò più tardi, ed insieme al dolore, l’odio.
Trovai mio marito dentro un fosso. I cani gli avevano divorato il fegato ed i genitali. Il corpo era nero di mosche. Lo trascinai fuori. Mi parve leggero, o forse era il furore a darmi la forza. Lo seppellii dietro la nostra casa.
Recuperai l’asino ed andai a cercare mio fratello. Il tronco era ancora nel cortile, davanti alla casa. Rinvenni le gambe, quel che restava delle braccia, ma non riuscii a trovare la testa. Seppellii quello che avevo trovato.
Nella capanna c’erano altri due cadaveri. Uno apparteneva ad una vecchia. L’altro era della partoriente. Fra le sue gambe spalancate, martoriate, si vedeva ancora la testa del bambino. Quella era stata l’unica volta che non ero riuscita a fare il mio lavoro fino in fondo.
Il rimorso per avere abbandonato Haria mi colpì all’improvviso. Caddi in ginocchio in mezzo al cortile e piansi. Piansi per lei, piansi per Kalim Hussein e per Kartar. Pregai Allah che accogliesse le loro anime in paradiso.
Era buio quando caricai l’asino. Presi una coperta, un sacco di riso, il Corano, la collana di mia madre.
Ormai, non avevo più nessuno ad Amritsar. Lasciai il Punjab e scesi a Benares, dove misi al mondo Ahmed. L’unica cosa di cui ringraziai Allah, il giorno in cui Ahmed nacque, è che era figlio di Kalim Hussein e non degli uomini dal cuore nero che avevano distrutto la mia vita.

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Polonia: un paese sorprendentemente bello

10 Gennaio 2014 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Polonia: un paese sorprendentemente bello

La regione Malopolska racchiude molti gioielli culturali e naturalistici. Cracovia, invece, è la splendida città del turismo e della cultura.

Eccomi di nuovo in aeroporto. Sono rientrata in Italia da appena una settimana, dopo essere stata negli Stati Uniti e in Canada, ed ora mi trovo nuovamente con la valigia in mano pronta a salire su un aereo della LOT, che mi porterà in un paese europeo che ancora non conosco: la Polonia. E’ tardi, il cielo è scuro ma pieno di stelle. L’Embraer decollerà alle ore 23.45 per arrivare a Cracovia alle 02.00 del giorno dopo. Non riesco a dormire in aereo e il tempo lo trascorro leggendo o scrivendo. Anche questa volta sono emozionata. Mi accade ogni volta che parto per un paese che non ho mai visitato, e la Polonia rientra tra questi.

A qualcuno potrà sembrare strano, ma tutte le volte che affronto un nuovo viaggio mi sento un po’ come quelle bambine che si accingono scartare un regalo desiderato a lungo.

L’aereo è confortevole e ci viene servito anche uno snack. Con la mente sono già a Cracovia, la città definita dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità, dove atterreremo e nella quale ritornerò il penultimo giorno, dopo aver effettuato le numerose visite nelle località più interessanti e più vicine alla città.

L’Ente del Turismo Polacco, sa cosa far visitare ai 6 giornalisti invitati ed ha preparato un fitto programma ricco di suggestioni. All’arrivo troviamo un incaricato dell’Ente Turistico che ci porterà in Hotel dove arriveremo alle 02.30. Lungo la strada che ci conduce dall’aeroporto all’albergo, c’è tanta nebbia, ma il nostro autista guida con la stessa sicurezza con la quale noi gireremmo in una giornata di sole.

Non dormiamo, il tempo è troppo poco per riuscire a prendere sonno e…quando gli occhi incominciano a stancarsi e ad incominciare a chiudersi, ecco che ora di alzarsi.

Fuori c’è ancora una nebbia piuttosto fitta che, a malapena, fa intravedere la gente che va al lavoro e le automobili che passano, ma non appena incomincia a diradarsi riesco a vedere che l’hotel è situato vicino ad un fiume. C’è un ponte e alcuni barconi sono attraccati ad un piccolo molo. Sono le 08.30 e già un gruppo di turisti è fuori con la guida che spiega loro qualcosa riguardo dei grossi pannelli che contengono varie fotografie con le immagini della flora e della fauna.

Qualcuno passa in bicicletta sulla pista ciclabile che costeggia il fiume Vistola, che attraversa tutta la Polonia. Nasce dai Carpazi ed è il fiume più lungo della Polonia che sfocia a Danzica.

Sono le 09.00 e alcuni ragazzi giocano a pallone, nonostante ancora non ci sia una grossa visibilità e non faccia propriamente caldo. L’hotel è situato ai piedi del Castello di Wawel, ma non riesco a vederlo per via della nebbia.

Zakopane, “capitale invernale” della Polonia

E’ ora di partire alla volta di Zakopane, capitale invernale e località turistica più importante per il paese con i suoi tre milioni di visitatori l’anno. E’ un posto perfetto per sciare – non per niente anche Papa Giovanni Paolo II°, prima didiventare la guida spirituale dei cattolici, amava scendere dalle piste dei monti Tatra, la più alta catena montuosa del paese, ai cui piedi, ad un’altezza di 800 metri si trova la bella cittadina.

Zakopane ricorda il papa nel Santuario della Madonna di Fatima di Krzeptowki, dove il Giovanni Paolo II° celebrò una messa e dove ora si trova un monumento dedicato alla sua memoria. Zakopane possiede moderni e ottimi impianti sciistici sul Monte Kasprowy, a circa 2.000 metri di altezza, funivie e trampolini ripidi perfetti anche per gare internazionali, come quella di “Nosal”.

Numerosi gli itinerari a disposizione per chi ama scalare le vette o semplicemente passeggiare in questi luoghi incontaminati, dove si possono incontrare camosci, marmotte,aquile, ma, soprattutto, dove in inverno ci si può cimentare in uno degli sport invernali preferiti, lo sci. Zakopane, offre numerosi impianti: seggiovie e sciovie, piste di sci di discesa e di fondo, pendici di slalom ed un percorso di discesa estremo.

Ma la città è un piccolo scrigno pieno di gioielli, tra i quali troviamo la Chiesa-Cappella di Jaszczurowca, risalente al 1904, il vecchio cimitero, dove riposano illustri polacchi, un piccolo ma molto interessante Museo nel quale sono conservati reperti del folklore montanaro, abiti e arredamenti tradizionali e il Convento delle Orsoline, luogo dove per 16 anni il Papa trascorreva le sue vacanze prima di diventare il Santo Padre. Zakopane è famosa anche per l’aria salubre.

Un monumento è dedicato ad un medico, Titus Chalubinsky, considerato il padre della città perché vi portava la gente malata ai polmoni (soprattutto artisti che conducevano una vita bohemienne), li curava guarendoli.

Zakopane ha 30.000 abitanti molti dei quali vivono in bellissime e tipiche case, con i tetti spioventi e i frontoni scolpiti. Sono case in legno dallo stile molto bello e caratteristico denominato proprio “stile di Zakopane”, che fu inventato da Stanislaw Witkiewicz (critico, pittore e scrittore) e unisce elementi di casa tradizionale di montagna con uno stile del periodo di fine ottocento.

La città è piena di alberghi di qualsiasi categoria, comprese pensioni e case private, atte a soddisfare le esigenze e le tasche di ogni turista, inoltre, poiché la natura è stata molto generosa nei suoi confronti, i suoi dintorni sono pieni di boschi e di fiumiciattoli.

A Chocholowska è un must effettuare un viaggio in carrozza nella sua valle dove numerosi escursionisti camminano fra splendidi panorami e piccoli canyon.

Ottima la sua cucina caratterizzata da prodotti a base di latte di pecora.

Sulle zattere lungo il fiume Dunajec

Lasciata Zakopane, con il ricordo di una città vivace, piena di locali e ristornati, ci rechiamo a Sromowcow dove ci attende una bella sorpresa: la discesa in zattera del fiume Dunajec.

Non si tratta di zattere come le intendiamo normalmente, ma sono una sorta di piccole e strette barchette unite tra loro con la corda.

Portano da 6 a 8 persone e gli zatterieri, sempre 2 per ogni imbarcazione, sono vestiti con gli abiti tradizionali variopinti.

E’ piacevole ascoltare le storie e le leggende che raccontano sulla loro terra mentre tutto attorno è silenzio e si avverte un grande senso di pace.

La discesa turistica del Dunajec risale a oltre 150 anni fa e, indubbiamente, è un’esperienza particolare della durata di 2/3 ore, che consente di ammirare i monti Pieniny con le loro rocce a strapiombo sull’acqua e le alte pareti, oltre alle cime aguzze denominate Trzy Korony (le tre corone) che, in realtà, danno l’impressione di una sola, grande corona.

Il fiume si fa strada fra le montagne dalla forma particolare, fra piccole rapide, uccelli acquatici e una ricca vegetazione che orla le sue rive.

Cracovia, una delle più belle città europee

E’ ora di tornare a Cracovia, e ci rimettiamo in auto per tornare là dove abbiamo trascorso la prima notte ma non abbiamo ancora visitato. Il tempo ci è amico: c’è un bellissimo sole e il cielo è completamente terso.

Clima ideale per visitare i tanti monumenti di grande valore storico che questa città possiede e conserva in maniera egregia.

Come in ogni paese che si rispetti, ci sono sempre le leggende a dare spiegazioni a ciò che non conosciamo. Così è per il nome della città che le deriverebbe da un principe di nome Krak, che la liberò da un drago crudele che aveva “l’abitudine” di mangiare le fanciulle del luogo.

Ma leggenda a parte, Cracovia è una città inaspettatamente splendida e unica nella sua bellezza. Ricchissima di monumenti di grande valore storico e artistico, è rimasta come quando venne costruita nel medioevo.

Dal 1039 al 1596 la città è stata la capitale politica e culturale della Polonia, quando i regnanti decisero di trasferirsi a Varsavia soprattutto per motivi amministrativi. La città conserva numerose opere di grande valore grazie al fatto che la corte reale invitava i più noti artisti d’Europa.

Il turista che visita questa città vive un’atmosfera veramente particolare, che sa di un passato lontano, grazie alle sue numerose testimonianze storiche.

Il cuore della città è la Piazza del Mercato, una delle più grandi piazze medievalid’Europa grazie alle sue dimensioni: un quadrato dal lato di 200 metri, ed è la parte più antica di Cracovia perché sorta nel 1257.

La Piazza è divisa in due parti ed è dominata dal Palazzo del Tessuto, all’interno del quale si possono visitare numerosi negozi ed il Museo Nazionale, che accoglie importanti collezioni.

Sempre sulla piazza si possono ammirare l’antica torre del municipio, Wieza Ratuszowa e la chiesa di S. Adalberto.

Sulla piazza ci sono le superbe torri della Basilica dell’Assunzione della Vergine Maria, la più alta misura 83 metri. Dalla Torre più alta, ogni ora, c’è un trombettiere che suona e si sposta su quattro lati.

E’ un uomo in carne ed ossa a suonare ed è una tradizione che risale al tempo in cui le truppe turche si stavano avvicinando alle mura della città. Il trombettiere riuscì a suonare l’allarme e poi fu ucciso dal nemico con una freccia.

In memoria dell’episodio, che consenti alla popolazione di prepararsi all’attacco, ancora oggi tutti i turisti possono ascoltare e vedere, stando a faccia in su, il trombettiere che suona.

Nella Chiesa della Vergine Maria, una delle più belle chiese della Polonia e più ricche nell’architettura interna. L’altare maggiore è splendido ed unico con 12 bassorilievi sulla vita della Madonna.

E’ l’altare gotico più grande d’Europa, dai colori policromi, eseguito da un incisore di Norimberga, Wit Stwosz, con legno di tiglio dorato. In alcune ore della giornata apre anche ai turisti.

Una suora, con un sottofondo di musica sacra da far venire i brividi ecommuovere anche chi non ha la fede, prende un bastone e apre la grande pala fatta a libretto.

Una volta aperta completamente, si possono ammirare tutte le pitture che rappresentano la storia del Nuovo Testamento, evidenziando fatti della vita di Gesù e della Madonna. Ma la chiesa è ricca anche di molte vetrate originali, tutte dipinte con 120 storie dell’umanità.

Infine, la parte che riguarda il coro (del 1600) ha scene di vita della Vergine, mentre il Ciborio è opera del nostro artista Giovanni da Padova.

Al centro della Piazza si trovano anche le Sukiennice o Mercato dei Panni, edificio gotico risalente al XIV° secolo, sorto come centro commerciale locale, oggi ha l’attico con sculture di Santi Gucci e, al primo piano una Galleria dipittura.

I portici sono occupati da negozi che vendono artigianato locale.

Sempre sulla Piazza, c’è un interessante Museo sotterraneo aperto da appena un anno e che è costruito all’interno in maniera moderna. Vi si trovano monete antiche, carri, basamenti

originali e antichi, ricostruzioni della vita dell’epoca con filmati, ricostruzioni delle botteghe di orafi, fabbri, chiavi, oro, scarpe, serrature, maglie di corazze, statue in terracotta, bilance e sistemi di misura, oltre a resti di mura e vecchie strade.

Una delle strade adiacenti alla piazza è via Florianska, in fondo alla quale si trova l’unica testimonianza delle mura medioevali della città, la porta (Brama) di S. Florianska e il bastione difensivo Barbacane, del quattrocento, il più grande e meglio conservato esempio di fortezza gotica d’Europa.

Lungo la Florianska da non mancare la visita al Muzeum Matejki ricreato nella casa natale del famoso pittore Jan Michalikowa e il pittoresco caffè Jama Michalikowam, luogo di incontro di artisti, nel quale facilmente può capitare di assistere a degli ottimi spettacoli di cabaret.

Un’altra strada veramente stupenda ed antica è la Kanonicza, dove è situato il museo “Art Nouveau” e il teatro Cricot 2.

Da non perdere assolutamente gli edifici del Palazzo Reale, il Wawel, chesovrastano la parte meridionale della città antica, mentre alla cattedrale del Wawel, gioiello dell’arte gotica, nel tempo, sono state aggiunte numerose cappelle, la più famosa delle quali è quella di Sigismund, con la sua magnifica cupola dorata.

Il Castello Wawel, di epoca rinascimentale, si trova su un’altura lungo la Vistola. In origine era la residenza di re e poi di vescovi.

Le stanze reali sono arricchite da una collezione di splendidi arazzi fiamminghi, anche di grandi dimensioni, stufe in maiolica, pavimenti in marmo nero di Cracovia (oggi non esiste più) e legno di larice.

Quadri, anche del Vasari, affreschi, mobili, rendono molto prezioso questo tesoro delle memorie nazionali. In alcuni ambienti è tutto molto italiano-rinascimentale in quanto la Principessa Bona Sforza sposò il re Sigismondo il Vecchio.

Dall’Italia la Principessa portò al castello numerosi artisti, che hanno lasciato sculture pregevoli e opere architettoniche di grande valore.

Attaccata al Castello si trova la Cattedrale di Wawel dei S.S. Venceslao e Stanislao ed è il santuario del patrono della Polonia, S. Stanislao vescovo.

Qui vi si svolgevano le più importanti cerimonie religiose e le incoronazioni dei re mentre nelle cripte sono sepolti quasi tutti i re polacchi. La Cattedrale è in stile gotico con tre navate laterali e risale al 1320.

All’interno è custodito il Tesoro, anche se è andato depauperandosi a causa delle asportazioni subite nel corso dei secoli.

Molto belli il feretro d’argento di S. Stanislao e la cappella di Sigismondo.

Cracovia è definita anche “la città dei giovani” perché vi è una delle più antiche e prestigiose Università d’Europa: la Jagellonica, che si divide in Collegium Maius, costruzione gotica del trecento, e Collegium Novum, in stile neogotico.

E’ stata fondata nel 1364 e sono numerose le facoltà che richiamano giovani da ogni parte della Polonia. All’interno, nel Collegium Maius, è ospitato un Museo che ha la particolarità di mostrare anche 35 mappamondi antichi.

Tra i quali uno del 1508 circa, sul quale venne segnata per la prima volta al mondo anche l’America.

Cracovia stupisce anche per la bellezza dei suoi palazzi, in stile gotico, rinascimentale e barocco, che risalgono anche al 1200.

Le facciate sono tutte completamente restaurate, le strade pulitissime e un grande parco circonda tutto il centro. C’è una grande vivacità sia diurna che notturna grazie ai numerosi locali, ristoranti, bar.

E non sono solo i giovani a godere la città, ma intere famiglie e coppie non più giovani. Cracovia ha un’eleganza che si riscontra anche nell’abbigliamento dei suoi cittadini.

E’ una città sorprendentemente viva e piena di fascino. Se ci si reca nella Piazza del Mercato quando è ora di cena, risuonano ovunque note musicali che vanno dal Jazz a quella moderna. Nei ristoranti all’aperto c’è sempre musica dal vivo. Cracovia è ancora una città colta, e si vede!

La fabbrica di Schindler

Chi non ha visto il commovente film “La fabbrica di Schindler”? Ecco, la fabbrica è a Cracovia ed è diventata un Museo della memoria.

Prima dell’invasione nazista c’era già la fabbrica ed ora è un Museo che racconta la storia di Cracovia nel periodo dell’occupazione dal 1939 al 1945.

La mostra, che come è facile intuire, procura molte emozioni, mostra la storia dei suoi cittadini polacchi ed ebrei, le vicende che hanno segnato la storia della fabbrica di Oscar Schindler e i prigionieri salvati dal campo di concentramento di Plaszow.

La Mostra permanente “Cracovia – periodo dell’occupazione nazista 1939-1945” è stata inaugurata nel 2010 nell’edificio amministrativo della vecchia fabbrica tedesca di vasellame, ancora visibile in grande quantità nei locali esterni dell’edificio.

All’interno sono ancora conservati alcuni macchinari, timbratrice einstallazioni nell’ufficio di Schindler.

Entrando in quest’ultimo l’emozione che si prova è molto forte.

Una mappa di gesso dell’Europa con i nomi delle città scritte in tedesco è ancora situata su una parete, i mobili, la sua scrivania con gli oggetti di uso quotidiano, la lampada da tavolo, le sue foto sono lì e puoi toccare tutto.

In quella stanza puoi avvertire un gran senso di tristezza, dolore, compassione, ammirazione e gratitudine e, all’improvviso, le immagini del film riaffiorano prepotenti e un grande disagio e senso di impotenza pervadono la tua mente e il tuo cuore.

Quanta malvagità, quanta disumanità, quanta umiliazione ha dovuto

Shindler

sopportare quella povera gente.

Di quanti Schindler, che è riuscito a salvare oltre mille ebrei polacchi, avrebbe avuto bisogno la società di quell’epoca?

La Mostra segue un percorso che fra scenografie, luci e suoni, da l’impressione di trovarsi nel terribile periodo e di essere spettatori della vita dell’epoca.

Sentiamo i rumori, viaggiamo in tram, guardiamo dentro le case, un caffè, un salone da barbiere.

Un vasto materiale di memorie e di fotografie è mostrato in molte presentazioni multimediali.

Si può osservare la città prima del periodo bellico fino ad arrivare alla fine dell’occupazione, attraversando tutto il periodo orribile della guerra, dello sterminio di 60 mila ebrei a Cracovia, della fabbrica di Schindler e la fine di quegli orrori.

Una Mostra ben fatta e utile a non far dimenticare ciò di cui è capace l’uomo, nel bene e nel male.

Wieliczka, la spettacolare miniera di sale

Una delle meraviglie della Polonia è senz’altro la miniera di salgemma di Wieliczka. Da sola vale un viaggio nel paese.

Situata a circa 60 chilometri da Cracovia, è stata dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità (la Polonia ha molte località inserite dall’Unesco nella lista dei Monumenti Mondiali culturali da preservare).

E’ la più antica miniera di sale d’Europa conosciuta 3500 anni prima di Cristo.

Attiva dall’anno 1000, oggi è una delle maggiori attrattive turistiche del paese.

La visita inizia con il percorso chiamato “Pozzo di Daniłowicz” attraverso gallerie lunghe circa tre chilometri che conducono a 20 sale.

In realtà, le gallerie sono lunghe circa 300 Km, distribuite su nove livelli ma, chiaramente, per i turisti il percorso è stato limitato alla visita delle opere più belle e importanti costruite all’interno della miniera.

Le sale sono interamente scolpite in grandi blocchi di salgemma e la più bella ed emozionante è senza dubbio la Cappella di Santa Kinga, una vera e propria chiesa. La sala è molto ampia, misura 54 x 17 ed ha un’altezza di 10 metri.

E’ stupefacente osservare l’altare, la grande croce con il Cristo, varie sculture, bassorilievi fatti di sale riproducenti scene bibliche e i lampadari, vere e proprie opere d’arte che possono essere confusi con quelli di cristallo.

C’è anche una grande statua di Papa Giovanni Paolo II°.

Si avverte un’atmosfera molto mistica in questa chiesa, che ancora oggi è usata per celebrare la messa della domenica e della vigilia di Natale, oltre ai matrimoni.

Ha un’acustica perfetta per la musica sacra e si percepisce appena ci si avvicina alla parte alta della cappella. A seconda della provenienza dei gruppi di turisti, infatti, viene fatto ascoltare il loro inno nazionale.

Agli italiani viene fatto ascoltare il “Va pensiero” di Giuseppe Verdi.

E’ veramente una grandiosa opera umana, unica e meravigliosa!

C’è anche la “Sala Nicolò Copernico”, dove è possibile vedere il monumento dedicato al grande astronomo.

E ancora, la “Cappella di Sant’Antonio” dedicata a tutti coloro i quali cercano qualcosa; la Cappella Barocca, scavata dentro un blocco di sale di colore verde e tutta ornata da statuette di Santi.

C’è poi la “Sala Sielec” dove si può vedere come veniva trasportato il sale.

Ci sono figure di minatori e anche di cavalli che aiutavano gli uomini a trasportare il salgemma.

La “Sala Janowice” riproduce scene della scoperta del sale.

Un minatore passa a Santa Cunegonda il primo blocco di sale, con un anello di aggancio all’interno.

La leggenda narra che Santa Cunegonda è diventata patrona dei minatori nelle miniere di sale.

Un altro posto molto bello è la cosiddetta “Sala Bruciata”,nella quale è rappresentato il procedimento di eliminazione del metano che si accumula in miniera. Usando alcune fiaccole dislocate su lunghi pali, i minatori incendiavano il pericoloso gas.

In una sala vi è un modello di lavoratori del sale del periodo Neolitico e un villaggio di antichi coltivatori, inoltre, nella “Sala Kazimierz Wielki” c’è il busto del re Casimiro il Grande.

All’interno della sala Erazm Baraci, c’è un lago di sale molto suggestivo da vedere perché il salgemma che ricopre le pareti intorno allo specchio d’acqua è di vari colori.

All’interno della miniera è stato ricavato anche un ristorante, un bar e piccoli negozi di souvenir oltre ad una sala per spettacoli ed eventi vari.

Il percorso dura circa 2 ore e l’emozione è proprio tanta per aver visto ciò che è riuscito a fare l’uomo, in questo caso i minatori, nel loro tempo libero. Le statue risalgono agli anni ’60.

All’interno della miniera non si avverte umidità e per questa ragione, al terzo piano, è stato costruito un sanatorio dove vengono ricoverate le persone affette da malattie reumatiche e allergiche.

La visita alla miniera, così com’è oggi, è veramente d’obbligo per chi si reca a Cracovia. E’ veramente una delle opere più straordinarie dell’essere umano.

Ancora Cracovia…le ultime visite

Anche Cracovia, con i suoi inestimabili monumenti e le sue meraviglie medioevali, non a caso viene definita “un grande museo”, il più importante dei quali è quello Nazionale che raccoglie opere dal valore inestimabile, come la “Dama con l’Ermellino” di Leonardo da Vinci o il “Paesaggio con il Buon Samaritano” di Rembrandt, insieme a tante altre opere di autori polacchi.

Da menzionare ancora il museo Storico della Città dove si trova il Gallo d’argento di epoca rinascimentale, quello Archeologico, Etnografico, di Storia Naturale, quello Storico della Farmacia, della Pittura, dell’Aviazione e dello Spazio.

Numerose sono le gallerie private che raccolgono le opere degli artisti contemporanei, che vanno dalla pittura ai famosi gioielli in argento.

D’estate interessante da vedere è la Biennale internazionale delle Bambole Regionali, mentre a settembre si svolge la Fiera dell’Arte Popolare di tutte le regioni polacche.

Durante tutto l’anno, inoltre, sono molte le manifestazioni musicali, dove si possono ascoltare orchestre e solisti di fama mondiale.

La particolarità, che aggiunge a tutto questo un’atmosfera che sa di altri tempi, è dovuta al fatto che questi concerti vengono tenuti all’interno delle più belle chiese, nei palazzi e nei saloni delle antiche case borghesi.

Fra l’inverno e la primavera sono diversi gli appuntamenti a cui non si può mancare, come le Giornate della Musica d’Organo, nelle numerose e bellissime chiese di Cracovia, o d’estate il Festival “Musica nella vecchia Cracovia” e per chi vuole ascoltare tutto l’anno del buon jazz, può recarsi nel centro culturale degli studenti “Pod Jaszczurami”, nella Piazza del Mercato Maggiore.

Cracovia, città culturale e turistica per eccellenza, dove non basta un week end per assaporarne l’atmosfera e visitare le numerose bellezze che possiede, chiese incluse.

Sempre ospitale e cordiale, Cracovia, come tutta la Polonia, è rimasta legata allesue tradizioni, amante della cultura e dell’arte, ma con un occhio alla modernità.

E non potrebbe essere diversamente dal momento che nella sua Università ci sono ben 200 mila studenti che hanno fatto denominare Cracovia “la città dei giovani”.

E i giovani sono anche il futuro di questo paese che, a differenza del nostro e di tanti altri, non sta subendo la stessa crisi economica mondiale. La Polonia ama il …ritorno al passato, ma guarda anche al futuro.

Liliana Comandè

Polonia: un paese sorprendentemente bello
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Fiori ciechi, la verità dell'assurdo di Mario Lozzi

28 Gennaio 2013 , Scritto da Maria Antonietta Pinna Con tag #recensioni

di Mario Lozzi

E se la natura ad un certo punto dell’evoluzione avesse scambiato gli uomini con i garofani? E se i garofani poi si comportassero come gli umani?

È una vicenda probabile o un tentativo di spettacolo, quello che propone Maria Antonietta Pinna?

Mentre ci si immerge nella lettura non si riesce più a comprendere quali siano i limiti del surreale. La vicenda ti prende la mente e la conduce a sprofondare nell’assurdo più geniale: tra guerre di fiori, sdoppiamenti di personalità, ricerca di scansione mentale, addirittura dentro il proprio cervello. E leggendo, leggendo si passa ad abitare funghi,come se fosse la cosa più normale nell’anormale più abituale. Descritto così:

«Biancheggiare d’enormi funghi prataioli. Sui gambi altissimi si disegnano porte di legno intarsiate. Le Lamelle giallastre sotto i cappelli lucidi sono agitate dal vento. Emettono leggeri suoni musicali. Un fumo grigiastro sale al cielo dai comignoli di Flink, il più povero, eterogeneo, tipico e popoloso quartiere di Florandia».

Ecco! Sono funghi e sono case. Hanno la tenerezza delle lamelle e la solidità della costruzione. Emettono fumo come risultato della realtà prodotta da un fuoco interno, ma esprimono anche musica, impregnando la loro essenza d’una magia che si può trovare soltanto nelle favole. Il quartiere assume la caratteristica d’una favela brasiliana o d’una fetta di città della cultura europea; non è strano poiché in questo libro tutto è possibile. Perfino parlare con la propria ombra e penetrare nelle strutture fisiche della mente per ritrovarvi quelle spirituali.

Il gioco delle immersioni successive in se stesso, che il personaggio principale compone con la sua ombra-guida, spesso raggiunge il parossismo. Basta leggere il brano seguente: «…. E dove ci troviamo adesso?».

«Volevo appunto chiedertelo».

«Secondo te?».

«Ma che ne so!».

«Prendi, così capisci».

«Cos’è?».

«Un bicchiere d’acqua».

«Che ci devo fare?».

«Vedi tu, per il bagno credo sia poca, è fredda quindi la pasta non ce la puoi cuocere».

«La devo bere?».

«Esatto».

«Fatto. Era buona».

«Uno, due, tre … rieccola!».

«Piove! Che succede?».

«Niente è l’acqua che hai bevuto».

«Come sarebbe?».

«Sarebbe che l’hai bevuta e ci è ricascata in testa, dal momento che siamo nel tuo esofago».

È l’incredibile, costruito forse su un’allucinazione. Probabilmente però è l’espressione metaplastica dell’ironia, l’eironeia dei greci spartani, espressa per nascondere la terribile forza guerriera che li animava.

Ed è proprio in questa forma che fermenta e poi prorompe la vera personalità della scrittrice. Tutto il racconto infatti è animato da situazioni ironiche, immerse nell’inverosimile come sottolineatura. Tanto assurde poi non sono, dal momento che tendono ad illuminare, sullo sfondo delle situazioni di Florandia, comportamenti umani che, nei risultati, non si differenziano troppo da quelle che sono le conseguenze pratiche di tutta l’umanità, cosiddetta “reale”.

Nel libro balenano decisioni sociali ed anche personali che provocano infinite conseguenze di sofferenze e di male, come nella nostra società. La ricerca affannosa del personaggio principale, fatta anche attraverso i meandri della sua scatola cranica, non è altro che l’espressione della guerra che Maria Antonietta si propone di fare alle ipocrisie sociali, velate dietro apparenti astrusità. Come i suoi garofani di Florandia, si nascondono al di là delle situazioni paradossali.

L’autrice del libro è senz’altro una combattente che esprime la fiamma etica che l’anima in maniera talmente raffinata che non è facile riuscire a comprendere. Ed è questa la sua vera sfida verso il mondo della letteratura, prima, e verso il complesso degli uomini più o meno viventi, poi.

Poiché gli uomini: «Non sanno che la terra genera mostri. Sperano con la morte di curare la vita. Con la guerra credono di telefonare alla pace». E, nell’epilogo del primo racconto, la “cerimonia” dell’impiccagione di Tuc, garofano nero, ricorda tanto un’altra esecuzione recente dove un altro “garofano nero” è stato impiccato in una “lugubre danza” prodotta non per un’ affermazione di liberta e di civiltà, ma soltanto per inconfessati interessi economici.

Florandia termina con una visione che però è anche un’invocazione e un augurio, forse disperato, del trionfo dell’idea. Anzi dell’IDEA, quella che potrebbe far apparire al mucchio dei esseri pensanti la vera realtà della vita. In fondo, nella sua etimologia antica, la parola idea fu coniata proprio per comprendere due cose: l’apparenza e la manifestazione. Su questi due significati si dipana tutta la struttura di Florandia condita d’incredibile, di magie fatte da una vecchia fattucchiera, spolverate con guerre e con antiche minestre, abbagliante di visioni senza tempo né luogo, legate da una corda surreale eppure tanto viva.

Il secondo racconto è anch’esso una spietata rappresentazione di ciò che l’egoismo umano può produrre, magari associandosi alla ricerca scientifica, per difendere le proprie angosce di sicurezza, ma senza rendersi conto di sperimentare le tappe verso la propria fine.

Fiori ciechi, Maria Antonietta Pinna, Annulli Editori, 2012 isbn: 9788895187358, in copertina Francesco Montagnoli "Fiori ciechi", acrilico 2012.
Fiori ciechi, Maria Antonietta Pinna, Annulli Editori, 2012 isbn: 9788895187358, in copertina Francesco Montagnoli "Fiori ciechi", acrilico 2012.

Fiori ciechi, Maria Antonietta Pinna, Annulli Editori, 2012 isbn: 9788895187358, in copertina Francesco Montagnoli "Fiori ciechi", acrilico 2012.

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Strane presenze

27 Aprile 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

                                               

 

 

 

 

 

La dimora avita della famiglia Strafford si ergeva imponente su una piccola collina ai margini di una vasta pianura, attraversata da un ruscello che scendeva ripido dalle non lontane montagne. Come in tutti i castelli l’ingresso era il ponte levatoio che sovrastava un fossato. Il retro confinava con l’inizio di una folta boscaglia che proseguiva fino ai piedi dei monti.

Teatro di scontri e d'assedi aveva vissuto la sua stagione d’oro fra la fine del XVII e il XVIII secolo. Passato il momento storico, le varie generazioni, che si erano succedute nella conduzione della dimora, avevano portato il maniero verso un degrado inesorabile.

Oggi il castello è meta di visite da parte di turisti frettolosi e di scolaresche distratte, l’intero complesso è passato in proprietà allo Stato che ha pensato bene di sfruttare la situazione aprendolo al pubblico, l’unico inconveniente per l’amministrazione, una clausola inserita nel contratto d'acquisizione che prevedeva la presenza  sine die, dell’ultima discendente della famiglia, la contessa Clara, che non aveva voluto lasciare la sua casa, riservandosi l’usufrutto di una piccola parte degli appartamenti nell’ala destra, quella che dava sul retro, con la vista del bosco poco distante e le montagne dietro a fare da scenografia. La donna, ormai quasi novantenne, voleva morire fra le mura amiche, aiutata dal suo fedele maggiordomo Arthur, anche lui molto avanti con gli anni.

La loro vita si svolgeva a ritmi lenti e riservati, un incaricato del comune si preoccupava di  rifornire del necessario la loro cucina, e il servitore si incaricava di preparare il necessario alla sopravvivenza. Lui, in pratica, viveva in cucina e dormiva in una camera attigua, mentre la padrona aveva due camere al piano alto e l’intera torre a disposizione. Isolati dal mondo i due vivevano in simbiosi l’uno dell’altra, non potevano immaginare una vita diversa da quella che conducevano.

Come tutti i pomeriggi, Arthur era seduto in cucina con il bricco dell’acqua sul fornello, il vassoio con le sei tazze pronte allineate, la zuccheriera e il piattino con i pasticcini. Aspettava il gracchiare del cicalino che l’avvisava di poter servire il tè. Puntuale come un cronometro, lo sportellino con il numero 22 si attivò ed emise quel suono sgraziato che lo richiamava al dovere. La sua faccia impassibile non si mosse mentre versava l’acqua in una delle tazze per preparare il tè, le altre restarono vuote, sul vassoio d’argento Sheffield. Terminata l’operazione, il maggiordomo prese il vassoio e, ondeggiando sulle gambe malferme, si avviò verso le scale tenendo in bilico il vassoio con tutto il suo contenuto.

  • Buon pomeriggio milady, disse, entrando nella stanza e posando il vassoio su un piccolo tavolino davanti il grande divano, sul quale era seduta la nobildonna
  •  
  • Grazie Arthur, servi pure, i miei ospiti sono impazienti di assaggiare la tua specialità, ho detto loro che questo tè viene direttamente dai nostri possedimenti in India, è una qualità rara e si coltiva solo in quella zona che è di proprietà della nostra famiglia. Avrai portato anche gli squisiti pasticcini che sai fare solo tu, vero?
  •  
  • Certo, madame, non avrei potuto fare altrimenti, sono a conoscenza dei gusti dei suoi ospiti e mi sono sforzato di essere all’altezza della situazione.
  •  
  • Sei troppo modesto, caro Arthur, conosciamo tutti il tuo senso del dovere e il tuo attaccamento alla famiglia, senza di te sarei persa. Bene, allora, se hai servito tutti, puoi servire anche me, oggi le mie ossa fanno i capricci e una buona tazza di tè sarà un vero toccasana.

Arthur versò il tè nella tazza della signora e fece finta di versarlo anche nelle altre. Porse la tazza piena e rimase in piedi, in attesa che la sua padrone finisse di sorbire la bevanda. Sentiva sempre di più dolore alle gambe, fare quelle scale infinite volte al giorno stava diventando una vera tortura per lui, ma sapeva bene che non c’erano alternative, il suo destino era legato alle stramberie di quella povera donna, sull’orlo della demenza senile. La signora immaginava che nel suo salotto venissero a trovarla a turno i parenti ormai defunti da tempo e gli amici di sempre, defunti anche loro. La cerimonia del tè non era la sola a cui si sottoponeva per compiacere l’anziana donna. Molte volte doveva approntare un pranzo, o una cena, all’improvviso milady chiamava e ordinava il pranzo per dodici persone, toccava a lui apparecchiare in pompa magna la tavola con tutti i servizi di piatti, bicchieri e posate per dodici, fortunatamente il cibo poteva evitarlo e preparava il menù solo per la donna e per lui. Lui, però, il suo pasto lo consumava nella cucina, come si conviene ad un maggiordomo.

Era ancora in piedi, mentre la signora aveva iniziato una fitta conversazione con alcuni dei suoi ospiti, si era immersa nel dialogo dimenticandosi del tutto del povero maggiordomo, che adesso sul serio cominciava a tentennare sulle gambe malferme.

  • Come le dicev, caro duca, lei ha ragione, sua maestà è davvero troppo indulgente con le popolazioni locali, laggiù in India il popolo è davvero ingrato, con tutto quello che stiamo facendo per loro, gli stiamo portando la civiltà, il progresso e quelli per riconoscenza si ribellano, inaudito.
  •  
  • Madame Janet, non verrà al ballo di corte? Non mi dica. È una vera jattura, se non viene lei non vado nemmeno io, mia cara, lei è la sola che vale la pena di vedere in quei balli noiosi.

Arthur, al limite delle forze, tossicchiò per richiamare l’attenzione della milady che come d’incanto si accorse di lui.

  • Scusa Arthur, hai ragione, sono proprio una sbadata, puoi sparecchiare e ritirarti, io intratterrò ancora un po’ gli ospiti. Dopo che saranno andati via farò un riposino fino ad ora di cena, forse non mangerò questa sera, questo tè e i tuoi fantastici pasticcini sono stati sufficienti, nel caso ti chiamerò per una cena frugale. Addio caro!

Arthur si affrettò a liberare il tavolo, prese il vassoio , allungando il passo strascicato, si allontanò. Era sicuro che la serata fosse finita, poteva finalmente riposarsi. Dopo la cerimonia del tè, tutte le volte la dama si addormentava e non la risentiva fino al mattino successivo. Tornato in cucina rimise in ordine le tazze. Lavò l'unica che era stata usata, ripose i biscotti nella scatola di latta per non farli deperire e, tolte le scarpe, si allungò sul divano che aveva fatto mettere nell’enorme cucina.

Era stanco, disperava di poter continuare ancora per molto quella pantomima, la donna era fuori di senno e lui, se continuava a starle dietro, correva lo stesso rischio.

Non voleva certo la morte della vecchia aristocratica, era stata una buona padrona, anche se un po’ sopra le righe per la sua eccentricità, non si poteva lamentare, aveva avuto anche lui i suoi giorni buoni. Ora la vecchiaia doveva dividerla con le bizze della donna e dei suoi immaginari compagni. Prima di addormentarsi nella sua mente prendevano forma le strane presenze che alimentavano la fantasia della sua padrona; fantasmi di personaggi che lui aveva conosciuto e servito per molti anni. 

Doveva convenire con la padrona, però, che madame Janet era sempre una bella donna, l’aveva vista prima in salotto ed era davvero in splendida forma.

 

 

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Nasce Green Peace

11 Agosto 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

                                

 

 

 

La radio ufficiale di  Grunland, piccolo regno del lontano nord, aveva annunciato da pochi giorni lo stato di autarchia e la legge marziale che imponeva il coprifuoco serale. Un isolamento della nazione da ogni contatto con il mondo esterno. Le autorità del paese avevano intenzione di scoraggiare ogni rapporto commerciale con altri paesi esterni. Il loro territorio era, per la maggior parte dell’anno, soggetto a congelamento per il perdurare del periodo invernale, trovandosi a latitudini molto a nord.

La vita era già difficile in quelle condizioni, adesso, con le ulteriori restrizioni emesse dal governo centrale, per gli abitanti diventava ancora più dura. Le risorse per l’alimentazione e per il riscaldamento erano, da sempre, legate al mare, e ogni individuo, maschio o femmina, doveva essere in grado di ricavare da quelle acque gelide la scarsa quantità di cibo necessario alla sopravvivenza. Le prede più ambite e ricercate erano le balene, dalle quali ricavano sia cibo, sia provviste di olio combustibile. Le nazioni limitrofe avevano stipulato un accordo per ridurre drasticamente il numero di uccisioni di questi animali in via di estinzione, ma il governo di Grunland aveva disertato la riunione, dicendo che per loro quel trattato era nullo. Loro, senza le balene, non potevano sopravvivere, da qui le misure restrittive emanate poco dopo.

Visto il perdurare di condizioni estreme di vita, un gruppo di giovani, di estrazione ambientalista, decise di opporsi al regime e tentare un’azione sovversiva. Si riunivano tutte le notti su un isolotto ghiacciato, che si era formato al largo di un pezzo di costa particolarmente battuto da venti del nord. A ogni riunione si ribadiva la necessità di organizzare azioni di disturbo nei confronti degli enti governativi preposti alla pesca alle balene e a tutto l’indotto che seguiva. In seguito, se ci fosse stata necessità, organizzare dimostrazioni di piazza in terre non troppo lontane, dove non c’erano tutte quelle leggi nettamente in contrasto con le linee dettate dal buon senso, salvaguardare la stessa esistenza degli ultimi cetacei.

 

"Ragazzi, allora siamo decisi a compiere questo passo, ormai non possiamo più aspettare, se arriva l’inverno non saremo in grado di muoverci fino a primavera, quindi ora o mai più."

 

"Sì, parli, parli, ma di concreto cosa hai fatto tu per realizzare questa impresa? Siamo tutti d’accordo che dobbiamo tentare, ma come facciamo, andiamo a piedi?"

 

"Che vuoi dire?"

 

"Che, se non troviamo una barca, non andiamo da nessuna parte, con il ghiaccio che sta cominciando ad arrivare, la vedo dura muoversi in lungo e in largo per le isole qui intorno."

 

"Hai ragione, Olaf, ci vuole un mezzo, uno qualsiasi che sia in grado di portarci oltre lo stretto che ci divide dallo spazio esterno. Ognuno di voi si dia da fare, cerchi, domandi in giro. Dite che serve per delle battute di pesca alternativa, vogliamo dare il nostro contributo al benessere della nazione in un altro modo, evitando di uccidere balene. Potete dire che vogliamo formare una specie di cooperativa per pescare tutti noi giovani, vedete che qualcosa riusciremo a farci dare."

 

Una settimana dopo, alla consueta riunione nel loro covo, il sito era già in parte coperto da ghiaccio, ma i visi dei ragazzi erano distesi e sorridenti. Greg, quello più intraprendente, era riuscito a trovare un battello. Tutti si precipitarono fuori per andare a vedere questa barca, quando arrivarono al molo e la videro, grande fu la delusione

 

"E questa la chiami barca?" esclamò Hans, quello che faceva funzioni di capo nel gruppo. "Questo è un rottame, e, oltre tutto, lo conosco bene, lo zio di Ingrid,la mia ragazza, lo ha lasciato abbandonato sulla costa che dà sul lato nord, come hai fatto a farlo arrivare fino a qua, me lo dici?"

 

"Come ho fatto? Semplice, gli ho dato una ripulita, ho fatto il pieno e ho messo in moto, ho navigato lungo il canale e sono arrivato qua, nessun problema, ha tossicchiato un po’ ma niente di grave. Sembra vecchia e decrepita, forse lo è, ma, per quello che dobbiamo fare noi, è perfetta, basta lavorarci sopra un po’, siamo tutti bravi in qualcosa: una revisione al motore, che è la cosa più importante, e di questo me ne occupo io, una verniciata, qualche latta di vernice si trova, ne prendiamo una per ogni magazzino dei nostri padri e vedrai uscirà come nuova."

 

"Ma così, corriamo il rischio di avere lattine di colori diversi, ne verrà fuori un casino, saremo riconoscibili anche a chilometri di distanza."

 

"Bravo, sai che non ci avevo pensato? proprio l’idea giusta, vogliamo essere riconosciuti, devono sapere che, quando ci vedono arrivare, sono dolori per loro. Saremo la loro coscienza, li richiameremo a una condotta più adeguata. Ora andate a prendere questa vernice e non vi preoccupate dei colori, prendete tutto, noi intanto faremo quanto serve, se ci sono altre cose da fare sta sicuro che le faremo. Quando si vuole ottenere un risultato non si guarda tanto per il sottile. Al momento sembra che questa barca sia brutta, scrostata e malandata. Va bene così, tieni presente che è come invisibile, nessuno farà caso a lei, così noi, intanto, potremo andare dove vogliamo. Dopo, però, quando sarà visibile, ci faremo vedere e come. La libertà non la si ottiene senza sacrifici e sofferenze, anche se dovessimo spingerla a remi, vedrete che ce la faremo. Adesso basta parlare, venite, saliamo a bordo, staremo più al caldo e possiamo anche cominciare a vedere i lavori che ci sono da fare.

 

 

 

 

 

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Dieci domande a: Flavia Spadiliero

16 Agosto 2018 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #interviste

 

 

 

 

Amici lettori di Letture da Metropolitana e di signoradeifiltri, oggi abbiamo nostra ospite Flavia Spadiliero, una scrittrice non più giovane ma vi garantisco che, in mezzo a voi giovani di belle speranze, la nostra amica non stonerebbe. Voi direte "E grazie, è più esperta". Sì, senza dubbio con gli anni si acquisiscono tante di quelle informazioni che rendono la vita più facile, ma in ogni caso c'è qualcosa per cui non conta l'età ma quello che si ha dentro e, a quel punto, siamo tutti uguali e può succedere che un giovane sia vecchio e, invece, un anziano sia più giovane e questo si chiama cuore, un motore che muove la mente e che, nel momento che si scrive, azzera tutto.

Flavia, penna alla mano, dimentica i capelli argento, sale su un cavallo chiamato sentimento, e comincia a galoppare con passione fra parole scritte non per fare scena ma per emozionare, e, potete credermi, averla con noi in Letture da Metropolitana è un gran vantaggio, oltre che un vero piacere. In vita sua ha scritto tanto e il materiale non le manca ma non ha mai pubblicato un libro tutto suo. Sono sicuro, siamo tutti sicuri, che un giorno lo farà. Che poi, a dirla tutta, lei non è un'"ambiziosa", non le interessa atteggiarsi, non vorrebbe mostrare alle amiche le sue pubblicazioni gonfiandosi il petto.

Molte volte è inutile scrivere libri che verranno dimenticati mentre altri finiranno tristemente nel cassonetto della differenziata, ma questo è un altro discorso. Flavia, saggiamente, in una risposta spiega anche perché lei scrive le sue cose su Letture da Metropolitana con gioia per tutti noi, per coloro che sul bus e in metro vogliono assaporare qualche minuto di piacevole lettura prima di entrare nella giungla quotidiana. Eppure, un giorno quel libro che si sfoglia con le mani sarà realtà.

Molto bene, ecco le 10 domande per la nostra amica:

 

1) Non posso fare a meno di chiederti... perché scrivi?

Scrivo per passione, senza crederci troppo perché non sono una scrittrice, diciamo che amo quello che scrivo, bello o brutto che sia.

 

2) Invecchiando si impara o si insegna?

Non ho ancora capito se ho imparato, certo è che non so cosa insegnare, tutti sanno molte più cose di me. Imparo.

 

3) A proposito di letteratura, si stava meglio quando si stava peggio?

Negli ultimi anni molti pseudo scrittori hanno pubblicato cose scadenti ma sono molti anche quelli che sanno scrivere bene con umiltà e senza vanterie, leggo cose molto belle di giovani sorprendentemente ben preparati. Non credo si stesse meglio, era indubbiamente diverso, né meglio né peggio di com'è ora.

 

4) Che diresti a chi copia e incolla?

Finitela di fare il gioco del nascondino, se non sapete scrivere lasciate perdere e dedicatevi a cose più alla vostra portata.

 

5) Una sperimentazione letteraria che ti piace?

Mi piacciono molto i racconti a più mani, come il nostro ultimo da cui è nato un libricino molto interessante e divertente Mercurio Solido. Non è una cosa da poco perché è un mix di punti di vista senza gelosie. Davvero molto bello anche Gli Investigautori, dove ci siamo cimentati in un giallo tutto da ridere. Facciamolo ancora.

 

6) La deculturizzazione è colpa di chi?

La deculturizzazione è una delle disgrazie del nostro paese, voluta dai vari ministri della pubblica istruzione, mirata a tirare su una classe di ignoranti manovrabili. Un popolo ignorante si può dominare facilmente, chi legge e si accultura non si può più sottomettere perchè un cervello libero non si fa dominare.

 

7) Il libro antico ma più moderno di tutti.

Questa domanda mi mette in imbarazzo. Come forse non sai, amo gli antichi filosofi che, dopo tutti i millenni, ancora insegnano, a parte Aristotele, arrivato ai vertici del cristianesimo solo perché ha incontrato i favori di Agostino da Tagaste. Sono affascinata da Platone e dai discorsi su Socrate, quindi penso che abbia ancora molte cose da insegnare. Ovviamente è solo il mio modesto parere perché sento già levarsi il coro di proteste.

 

8) Sei in cattedra e davanti a te hai 24 giovani: che gli diresti?

Se avessi 24 giovani davanti, non saprei cosa dire, sono sicura che sanno molte più cose di me. Potrei suggerire di leggere, leggere tutto quello che capita a tiro, anche la pubblicità, non fosse altro che per rimarcare gli errori grammaticali. Ricordate che un uomo/donna che legge mette in moto il cervello e diventa pericoloso per il potere.

 

9) Che cosa renderesti obbligatorio a scuola?

A scuola renderei obbligatoria l'educazione sessuale, per insegnare ai giovani il rispetto per l'altro. E, seconda ma non meno importante, educazione civica, per far sapere ai cocchi di mamma che non ci sono solo loro al mondo e gli altri meritano tutto il rispetto (tipo non parcheggiare al posto dei disabili) e sarebbe un elenco lunghissimo.

 

10) Che cosa vorresti chiedere ai lettori di Letture da Metropolitana e di signora deifiltri?

Ai lettori  vorrei chiedere un po' di partecipazione in più, non dovete aver paura di leggere e commentare gli altri. E' la legge del libero scambio: io leggo e commento te e tu fai altrettanto. Grazie.

 

Flavia grazie a te da parte di tutti. Ti aspettiamo con simpatia al tuo prossimo lavoro.

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