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Emilio Ortiz, "Attraverso i miei piccoli occhi"

3 Novembre 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #animali

 

 

 

 

Attraverso i miei piccoli occhi

Emilio Ortiz

Traduzione di S. Cavarero

Salani, 2017

 

 

Mi spiace. Non ho potuto leggere Attraverso i miei piccoli occhi, dello spagnolo Emilio Ortiz, da recensore, e nemmeno da lettore comune. L’ho letto da cinofila, da proprietaria di un cane, e ho pianto. Ho pianto e mi sono arrabbiata. Quindi scriverò questa recensione solo di pancia.

Non parlerò della struttura del libro, sbilanciata nella parte centrale, troppo esile a confronto dell’inizio e della fine. Non parlerò del personaggio umano principale, Mario, che non è ben caratterizzato, specialmente nel suo essere non vedente, nelle sue sensazioni, nel suo disagio fisico e psichico. Non parlerò nemmeno del positivo coinvolgimento creato dal punto di vista del narratore cane, dell’indubbia conoscenza di alcuni meccanismi cinofili.

Parlerò, invece, di fiducia tradita. D’ingratitudine. Perché di questo si tratta, questa è la trama, inconfutabile, di una storia di amore e di abbandono, di fiducia e tradimento, di sfruttamento e ingratitudine. E pazienza se lo sguardo del cane riesce a mettere in evidenza certe storture del nostro modo di vivere, non è proprio quello il punto, non lo è stato per me che ho letto col magone e il cuore in mano.

Prendete Cross, un golden retriver maschio, bello, spumeggiante, voglioso di slanciarsi e correre, di giocare con altri cani, di nuotare a perdifiato in ogni pozza d’acqua che incontra. Costringetelo a una vita da oggetto, da strumento di un non vedente che, fino a quel giorno, non ha mai avuto simpatia per gli animali e si prende in casa un cane solo perché gli serve. Obbligate questa forza dirompente della natura a vivere per servire, forzatelo a tediose passeggiate al piede del padrone, a interminabili sedute di noia quando egli studia, lavora, o frequenta gli insipidi amici, tenetelo legato persino di notte vicino al giaciglio, o col guinzaglio sotto il sedere del padrone per timore di fughe. Ascoltate i suoi sospiri e i suoi guaiti di uggia, guardate le sue zampe che scalciano mentre sogna la libertà.

Fate tutto questo quando il cane ha già subito due abbandoni, da parte della famiglia che lo ha cresciuto e lo aveva in stallo, e da parte del suo istruttore. Lasciate che il cane svolga con dedizione il suo compito, lasciate che si affezioni al suo padrone e alla di lui famiglia, che diventi tutt’uno con lui, diventi i suoi occhi, il suo piede, il suo cuore, che segua ogni suo passo e ogni suo respiro, che si assuma il compito di proteggere suo figlio.

Poi abbandonatelo in un rifugio per animali perché è diventato troppo vecchio per guidare ancora  il padrone. Lasciate che gli si spezzi il cuore, che si senta solo e abbandonato.

Lasciate che il lettore sia sconfitto insieme a lui.

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AA.VV, "L'amore non crolla: storie di Natale"

15 Dicembre 2017 , Scritto da Nadia Banaudi Con tag #nadia banaudi, #recensioni, #unasettimanamagica

 

 

 

 

Leggere racconti è una mia vecchia abitudine legata all'infanzia che soprattutto a Natale mi piace rispolverare. Così ho scelto di parlarvi oggi di questa antologia di racconti che si rivolge a un pubblico ampio, dai più giovani ai meno, in cui emergono diversi elementi e dal sapore davvero speziato.

Primo tra tutti la speranza. Questa bella aspirazione viene sviscerata non solo legandola al Natale ma agli affetti e alle cose importanti della vita come i sogni, i ricordi, la famiglia e la grande forza che riesce a tramettere se usata come motrice energetica.

Secondo l'emozione. L'intero libro è permeato di uno stato affettivo puro, intenso e autentico quasi da esondare dalle pagine e attaccarsi al lettore (a me per lo meno è accaduto con il fazzoletto alla mano, le mie emozioni hanno preso il sopravvento sulla lucidità risvegliando empatia per le storie narrate).

L'ultimo a chiudere il trio vincente: l'amore. Amore inteso nel suo senso più lato, come forza motrice capace di mitigare il dolore, avvicinare le persone, abbattere le frontiere. Lo dice in effetti già il titolo: L'amore non crolla. Al giorno d'oggi almeno questa è una piccola certezza, dove c'è amore c'è sempre quel barlume di speranza che aiuta a sopravvivere. Perché qui entra in gioco il quarto elemento: la beneficenza.

L'intero ricavato del libro, in entrambi i formati cartaceo e digitale, viene devoluto alla Croce Rossa del Centro Italia per sostenere i fabbisogni dei terremotati.

Insomma una raccolta con 21 racconti diversi tra loro per genere, tipologia di narrazione, per il messaggio che veicolano, che percorrono dentro le strade del cuore e si propongono di trasformare le parole in benzina per i buoni sentimenti, proprio in tema con il Natale. Un libro capace di fare scivolare qualche lacrima e di muovere riflessioni sulla fugacità delle cose, che non fa mai male tenere a mente, tutto l'anno.

Su Amazon

 

 

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L'inganno del primo dell'anno

1 Gennaio 2020 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #costantino delfo, #racconto

 

 

 

 

Aveva settant’anni, ma era ancora un giocherellone. Sua madre aveva cercato il suo nome guardando le stelle in una notte chiara, e aveva deciso per Castore, la stella più splendente. Abbaglio o inganno, Castore non fu così splendente, ma anzi proprio brutto, fin da ragazzino. Era piccolo ed esile come un fuscello ed era difficile dire quale dei singoli attributi del suo viso meritasse la sufficienza: gli occhi erano piccoli e neri come le pelose sopracciglia, il naso sporgeva grosso e adunco. Forse la bocca dalle grandi labbra o i capelli corvini tutti ricci meritavano la sufficienza, ma in un migliore contesto corporale. Di professione faceva il calzolaio: bravo ad aggiustare, lucidare e colorare scarpe, aveva la sua clientela e in città era conosciuto.

Nonostante l’età smanettava sullo smartphone e aveva più di mille amici su Facebook: con tanti chattava e scambiava opinioni, like e aneddoti. Soffriva di cuore e anche i polmoni non erano tanto in salute, ma non era ancora così mal ridotto da cedere alla paura della morte. Dunque, avvicinandosi l’età matura per morire, non era detto che quel termine così vicino dovesse per forza essere imminente, ma l'incertezza di quando, dove e come sarebbe morto gli impediva di vivere serenamente. “Si può morire da un momento all'altro, ma chi è vecchio e malato sa che tra un anno o dieci, forse anche fra un solo mese o un giorno, non ci sarà più. Potrei morire anche adesso se mi venisse un colpo” pensava.

Per il dove e come si era creato delle certezze: “Morirò nel mio letto a causa di un colpo al cuore o di una crisi di respiro” mugugnava. Era il quando che più lo turbava e così, poco a poco, cominciò a delineare un profilo della situazione alla sua morte: senza famiglia, solo al mondo, nessuno l'avrebbe pianto.

Si inventò allora uno stratagemma per eludere l’ora della sua morte e, forse, anche farsi piangere… ogni anno, al primo giorno di gennaio, prese a pubblicare sul diario di Facebook il proprio necrologio: Oggi è venuto a mancare all’affetto dei propri cari... , con tanto di croce nera e fotografia. Molti furono i ‘RIP’ e i commenti commemorativi alla sua anima, ma dopo un giorno o due Castore smentiva l’accaduto e tornava in vita. Durò così per anni, e, anche se molti amici non lo piansero più, altri se ne aggiunsero commossi, così Castore scordò ogni malinconia di morte.

Quell’anno il suo necrologio non fu più cancellato. Gli emoticon con le faccine tristi fioccarono, forse qualcuno lo pianse. Castore era riuscito ad ingannare il giorno e l’ora della sua morte.

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Francesco Domenico Guerrazzi

8 Settembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #personaggi da conoscere

Francesco Domenico Guerrazzi

Avere in casa un libro di Francesco Domenico Guerrazzi (1804- 1873) voleva dire essere arrestati. Eppure, i suoi romanzi, animati da tensione patriottica risorgimentale e da spirito pessimistico, conobbero un enorme successo di popolo.

Il Guerrazzi venne alla luce nel 1804, nella vecchia Livorno, mentre in città dilagava l’epidemia di febbre gialla; la sua nascita non fu ben accolta dai genitori e questo lo immalinconì per tutta la vita, contribuendo a forgiare il suo carattere triste, solitario, vendicativo, attaccabrighe. Studiò presso i Barnabiti ma non amò la scuola, considerandola tetra, litigò col padre e fuggì da casa. Fu coinvolto in risse con gli ebrei ed espulso dall’università

Per tutta la sua esistenza fece avanti e indietro dal carcere, sempre per motivi politici, subì processi, condanne e il confino. Fervente mazziniano affiliato alla Giovane Italia e ardente repubblicano, ebbe gran parte nei moti del 48, diventando persino dittatore per quindici giorni, durante la rivoluzione toscana. Fu incarcerato nel Forte della Stella insieme a Carlo Bini, con cui aveva fondato l’Indicatore Livornese, poi soppresso dal regime.

Teorico della rivoluzione, ma anche piuttosto realista in politica, vide sempre disattese le sue aspirazioni, sviluppando una crescente amarezza e disillusione. Solo l’educazione dei nipoti lo distolse, in parte, dal suo impegno.

Oltre che alla politica attiva, si dedicò anche alla scrittura, intesa sempre come veicolo d’idee risorgimentali e civili. Conobbe Byron e la sua poetica, soprattutto quella degli inizi, ne fu influenzata.

I suoi testi più famosi sono “L’Assedio di Firenze”, “La Beatrice Cenci” e “La Battaglia di Benevento”, si può dire che con lui nacque il romanzo storico risorgimentale.

“Nella sua fantasia esuberante e violenta”, spiega il Cappuccio, “nel suo gusto del truce, del macabro, dell’orrendo, nei modi stessi dell’espressione convulsa ed enfatica, si rispecchiano, più forse che in nessuno degli altri scrittori italiani dell’Ottocento, certi aspetti estremi del romanticismo europeo, da Byron a Victor Hugo”.

Ciò non toglie che i suoi romanzi andavano a ruba nonostante il prezzo elevatissimo. Passavano di mano in mano, e piacevano per gli ideali ma anche per il sensazionalismo, a onta di quella che il Sapegno definisce “turgida oratoria tribunizia”. Anche Carducci fu un ammiratore del Guerrazzi, che difese la tradizione linguistica italiana, fu di orientamento classicista e non disdegnò nemmeno tratti umoristici. Il successo si attenuò nella seconda metà dell’ottocento, con l’affermarsi del positivismo.

Guerrazzi visse gli ultimi anni alla “Cinquantina”, una fattoria presso Cecina, dove si prese cura dei nipoti fino alla sua morte, avvenuta nel 1873.

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Davide Rubini, "Il fischio finale"

26 Gennaio 2016 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

Davide Rubini, "Il fischio finale"

Davide Rubini

Il fischio finale

Gilgamesh edizioni - Pag. 370 - Euro 15

www.gilgameshedizioni.com

Davide Rubini (Torino, 1979) scrive un romanzo calcistico che si pone sulla scia di Giovanni Arpino (Azzurro tenebra), ma soprattutto di Pupi Avati, che con il suo Ultimo minuto aveva realizzato uno dei primi spaccati veritieri a metà strada tra umanità sportiva e scandali.

Un romanzo scritto con passione in meno di sei mesi, tra Bruxelles, Arezzo e Procchio, per raccontare una stagione sportiva da fiction che va dalla primavera del 1994 all'estate del 1995. Abbiamo una squadra calcistica di fantasia - il Rivaermosa - per la prima volta in C2, tra i semiprofessionisti -, grazie anche alla sua bandiera storica, il capitano Brando Adelmi, finito a giocare nella squadra del suo paese dopo anni di campionati importanti. La vita sentimentale di Brando non va bene, la moglie non accetta i sacrifici come in passato, perché la contropartita non è la stessa dei campionati maggiori, mentre l'impegno continua a essere alto. Brando finisce in politica, ai tempi di Tangentopoli, consigliere comunale di un paese del Nord, coinvolto da un uomo che vive di scandali ma vede nel calciatore una scialuppa di salvataggio e un bacino di voti.

Il romanzo è scritto con stile piano e coinvolgente, ben strutturato e in perfetto equilibrio tra la parte calcistica e quella più propriamente politico - sociale. Personaggi ben definiti, ai quali è facile affezionarsi, soprattutto il vecchio calciatore di provincia, stritolato da una serie di ingranaggi più grandi di lui. Crepuscolare e decadente, quando si parla della fine di una carriera sportiva che si avvicina al tramonto. Ironico e sferzante quando si affrontano argomenti politici e si punta il dito sulla corruzione, tra appalti e tangenti.

Gilgamesh fa buoni libri, anche da un punto di vista grafico, e pubblica giovani autori interessanti. Un romanzo da leggere e un editore da incoraggiare.

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Dante Diddi un esempio d’amore

13 Gennaio 2021 , Scritto da Cinzia Diddi Con tag #cinzia diddi, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

Dante Diddi nasce a Pistoia il 26 luglio del 1946 da una famiglia altolocata. La sua passione sono la moda, l’arte, la lettura e la beneficenza. Dante segue studi regolari, frequentando l’istituto Pacinotti di Pistoia, sempre al centro della cronaca in paese, conosciuto come un ragazzo dalla mente geniale. Da adolescente rivela già il talento nel disegno, che manifesta sotto forma di vignette e caricature di compagni e professori. Attentissimo a chi gli sta intorno, sempre pronto ad aiutare il prossimo. La sua passione viene oggi brillantemente portata avanti dalla figlia Cinzia: stilista per amore e per passione.

Dante fa molto per la sua Prato, città di adozione, e per la sua Pistoia. Ristruttura ospedali, vecchie scuole, asili, case di cura, cercando sempre di mantenere l’anonimato. E' solito dire: La vita registra le tue azioni non è importante palesarleÈ a lui e a pochi altri imprenditori pratesi che dobbiamo la ristrutturazione del Teatro Politeama. Dante riceve nel 2012 il riconoscimento da parte del sindaco di Volterra per la ristrutturazione della clinica Auxilium vitae.

Molte altre le opere di beneficenza portate avanti dalla figlia dopo il 2011, data della sua scomparsa.

 

Intervista a Cinzia Diddi

 

È lei che sta portando avanti il volere di suo padre?

Mi sembra di essere vicino a lui a farlo. Io ho vissuto in una casa dove la beneficenza era all’ordine del giorno, per me è normale.

 

Quali sono le cose incompiute da suo padre e che lei ha portato avanti?

Molte, mio padre era vicino veramente a tutti. Figura particolare, un imprenditore conosciuto e affermato anche per le sue competenze amministrative.  Non c’è un imprenditore a Prato che non abbia chiesto consiglio a questo grande uomo. Conoscitore della Divina Commedia e della Gerusalemme Liberata, amante delle materie letterarie quanto scientifiche. Noi amiamo ricordarlo come il gigante buono: per la sua grandezza umana e per la grande competenza nel suo lavoro

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Doc nelle tue mani

28 Marzo 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #serie tv, #televisione

 

 

 

 

Sono arrivata alla fine della terza stagione di Doc nelle tue mani, medical drama strepitoso – probabilmente ce ne sarà una quarta, visto il successo – ma l’ultimo episodio mi ha molto scontentata. Dopo una “puntatona” grandiosa come la sesta, quella del terremoto per capirci, degna delle migliori serie americane e del capostipite E. R., sono rimasta delusa dal finale.

Nelle altre puntate si era creata una suspence incredibile, tutti lì ad aspettare di conoscere i motivi per cui Doc aveva lasciato la moglie, e gli intrighi di potere che lo coinvolgevano insieme alla sua ex e a un politicante senza scrupoli, per avere alla fine una spiegazione debole e acquosa.

E poi, diciamolo, tutti parteggiavamo per Giulia Giordano (alias Matilde Gioli), da sempre innamorata di Doc (al secolo Luca Argentero). Per tre stagioni aveva atteso che lui si rammentasse della loro storia d’amore cancellata dall’amnesia, e che si liberasse del fantasma della ex moglie (non considerata per niente ex da lui) ed ecco che, quando finalmente i due si ritrovano, Doc si riavvicina ancora una volta alla moglie, minacciata da una mortale recidiva di un vecchio tumore. Ma povera Giulia! Il suo sguardo nell’ultima inquadratura è tutto un programma.

Peccato, dicevo, che il finale sia così insoddisfacente, perché questa fiction ci ha tenuti incollati allo schermo – tv, tablet o telefonino che sia– per tre stagioni, a seguire difficili e intriganti casi sanitari ma, soprattutto, le vicende di straordinari personaggi impersonati da straordinari attori. Medici preparati, professionali, innamorati del proprio mestiere, che si prendono a cuore le vicende di ogni malato come fosse un loro parente. Una squadra giovane, affiatata, fatta di bella gente dall'enorme carica emotiva, con sulle labbra sempre la parola adatta a tirarti su il morale e farti ritrovare la strada, non solo della salute ma anche della vita.

Fra tutti spicca il grande successo di pubblico e di carriera di Pierpaolo Spollon, che interpreta il dottor Riccardo Bonvegna, con una protesi di metallo al posto della gamba e un pezzo d’oro fuso al posto del cuore. Ma, soprattutto, in primo piano c’è lui, il protagonista principale, Andrea Fanti, ispirato a una vicenda realmente esistita.

Bello, sexy e dal sorriso dolce, sogno erotico di sane e malate, Fanti è un prefrontale, costretto a dire sempre la verità a causa di un incidente, capace di entrare in empatia anche col tubo dell’ossigeno. Da un microscopico dettaglio – da come gratti la punta del naso o sbatti le ciglia – ti fa all’istante una diagnosi salvifica. Insomma, il medico che chiunque vorrebbe trovare sul suo cammino.

Impossibilitati a pensare di non rivederlo ancora all’opera, attendiamo fiduciosi il riscatto, nella prossima stagione, di un finale decisamente appiccicaticcio.

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Giuseppe Benassi, "Una favolosa eredità"

8 Aprile 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

Una favolosa eredità

Giuseppe Benassi

Extempora Edizioni, 2024

pp 324

16,00

 

Una cavalcata nel disgusto, sempre più esplicito, sempre meno mitigato dal sublime dell’arte o dal lirismo del paesaggio, quest’ultima fatica di Giuseppe Benassi. In Una favolosa eredità ritroviamo l’immancabile avvocato labronico Borrani alle prese con un caso pieno di cavilli legali oltre che penali, un’ingente eredità contesa fra quattro persone, con altrettanti testamenti a favore ora dell’uno ora dell’altro. Ci scappa il morto, come viene preconizzato dalla prima vittima nell’incipit del romanzo, anzi, i morti ammazzati sono due, e non è facile districarsi fra i vari personaggi, che hanno tutti più o meno un motivo per delinquere. L’ambiente in cui ci si muove non è più Livorno bensì Fauglia, dolce e perversa campagna toscana, fatta di arte, di vecchie ville polverose, di odi e risentimenti inconfessabili. Le eredità sono contese, la gente muore in circostanze misteriose, gli avvocati si scannano, c’è di mezzo persino un autentico Michelangelo, l’arte alla fine vince su tutto e beato chi può goderne a pieno, riscattando persino il male commesso in una sorta di Parnaso.

La vicenda gialla è, come negli altri romanzi di Benassi, un pretesto per indagare nell’animo umano, con sempre maggiore schifo e insofferenza. Ma, si sa, dove c’è disprezzo c’è invidia. O forse c’è un malcelato mettersi a nudo, oggettivarsi, alienarsi per poter sguazzare nella melma tenendo a bada il senso di colpa.

Borrani insiste sulla vita sessuale e privata dei personaggi che incontra, addentrandosi in particolari scabrosi che evidentemente lo affascinano e insieme repellono, mostrandone sempre maggiore conoscenza e dimestichezza. Inalterato è anche il disdegno per gli altri avvocati, legulei untuosi e avidi come avvoltoi, che si avventano sui testamenti dei defunti. Come al solito non si fa sconto a nessuno.

Rispetto alle altre opere di Benassi c’è molto meno esoterismo, meno intellettualismo culturale e molto più resoconto dell’ambiente legale, fatto di tribunali, perizie, giudici e portaborse. Un ecosistema che l’autore conosce bene, essendo avvocato.

Qualcuno ha paragonato Benassi a Federigo Tozzi. Non so se il paragone sia calzante ma l’oggettivazione dello squallore c’è tutta, e insistita, spesso neppure finalizzata alla trama. Ed è presente anche l’alternanza fra realismo e lirismo.

La morte è vista dall’autore come un contrappasso alla depravazione, di tutti i protagonisti indistintamente, persino dei più insospettabili. Nessuno è esente da peccati, da vizi nascosti, da pervertimenti. Alla fine la colpa per eccellenza rimane sempre “l’omosessualità”, vagheggiata e insieme disprezzata, sublimata e insieme esperita nel peggiore dei modi.

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Gordiano Lupi, "L'Avana, amore mio"

8 Luglio 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #gordiano lupi, #luoghi da conoscere, #il mondo intorno a noi, #recensioni

Gordiano Lupi, "L'Avana, amore mio"

L’Avana amore mio

Gordiano Lupi

Edizioni il Foglio, 2016

pp 161

12,00

Che sia Piombino, che sia L’Avana, la nostalgia di ciò che è perduto strazia Gordiano Lupi allo stesso modo. Nel primo caso si tratta di qualcosa di lontano nel tempo, che non può tornare perché non esiste più, cioè la città natale di quando l’autore era ragazzo. Nel secondo è un luogo che non si può riavere, perché distante nello spazio e proibito, l’Avana che Lupi non deve visitare in quanto “persona non gradita”, L’Avana che sua moglie Dargys si è portata dietro nell’abbandonarla, consapevole che salire sull’aereo significava dare un taglio al passato, rompere i ponti con la famiglia e con tutto il mondo conosciuto fino a quel momento. È la stessa Avana di tanti poeti e scrittori esuli, invisi al regime e desiderosi di libertà, una libertà che ha un sapore non dolce bensì dolciastro, quasi stucchevole, mentre le memorie si tingono del rosso acceso degli alberi flamboyant, del sangue dei tramonti, del muro sgretolato del Maleςon.

Sia che parli di Piombino, sia che rimembri i giorni perduti dell’Avana, Gordiano Lupi ha la stessa marcia struggente, la stessa malinconia che ti afferra, lo stesso stile fatto di ripetizioni estenuanti, di parole reiterate, che mi fa venire in mente come Anne Rice descrive la sua New Orleans.

L’Avana è un luogo amato perché vi si è amato, un luogo di cui, per apprezzarlo a pieno, bisogna sentire la mancanza, magari morendo esule fra le nebbie di Londra. Lupi si riconosce nel dolore degli scrittori, specie di quelli proscritti, Carpentier e Cabrera Infante, ci racconta la città attraverso le loro parole, parafrasandole, riprendendole qua e là come in un contrappunto, una melodia triste e sensuale.

L’Avana affacciata sul mare, sgretolata, fatiscente, fetida di odori scaldati dal sole, eppure bellissima per chi sa vedere, per chi ama le cose come sono e non come dovrebbero essere. Sole spietato, belle donne dai fianchi sensuali, jineteras maliziose, vicoli e colonne, facciate di vecchie case coloniali mai restaurate, rovine del tempo di Battista e penosi cartelloni pubblicitari di un regime che ha “nazionalizzato la miseria”. A Cuba io sono stata di recente e posso confermare che c’è giustizia sociale, nel senso che stanno male tutti allo stesso modo.

Fanno sorridere le idee dei propagandisti della fame, della serie a Cuba non c’è niente ma sono tutti felici. Felici un cazzo. Vorrei vedere voi, razza di cretini, vivere con dieci dollari al mese in tasca in un posto dove per campare decentemente ne servono almeno cento. I cubani hanno un buon carattere, questo è vero, ma non ci dimentichiamo che soffre anche chi prende la vita per il verso giusto.” (pag 84)

È proprio così, i cubani sono sereni e gentili, uno mi ha detto, con uno sguardo malinconico dove si leggeva il contrario: “Non mi manca ciò che non conosco”. Ma la vita sull’isola è dura se non hai soldi in tasca, se i negozi sono vuoti e sprovvisti di tutto, se solo ai visitatori è riservato il meglio, se essere laureato significa fare la fame e bisogna inventarsi guida turistica per campare.

Andarsene, però, comporta il rischio del dolore perenne, della rinuncia, della delusione di un consumismo che riempie la pancia ma non il cuore, di perdere per sempre “la felicità di una notte di luna piena con una bottiglia di rum e un registratore che suona un bolero spagnolo.”

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Vecchio violino

7 Aprile 2013 , Scritto da Impronte d'Arte Con tag #Impronte d'Arte, #fabio marcaccini, #fotografia

Fotografia Fabio Marcaccini

Fotografia Fabio Marcaccini

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