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Le enciclopedie a fascicoli e i libri di Selezione del Reader's Digest

22 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo

 

 

 

Ancora e sempre gli anni sessanta. Quelli del boom economico e della speranza nel modernismo e nel progresso. Progresso che voleva dire anche civiltà e cultura perciò, dopo che il maestro Manzi ebbe alfabetizzato la popolazione, ecco che ognuno di noi si mise in casa le fatidiche enciclopedie a fascicoli.

Mio padre le comprava in edicola e poi venivano fatte amorosamente rilegare, volume dopo volume. Noi avevamo, innanzi tutto, La Motta, una sorta di Wikipedia ante litteram, grossa, pesante e marrone. In essa era conservato tutto lo scibile umano. Poi quelle più specifiche: Le Muse, sulle arti (pittura, scultura, musica etc), un’enciclopedia della scienza e della tecnica di cui non ricordo il nome, La storia della civiltà di Will Durant (che arrivò per ultima) e per me, ovviamente, i mitici Quindici. Il livello di qualità era altissimo.

Sempre nello spirito della cultura veloce per tutti, andavano di moda anche le riduzioni dei classici per l’infanzia e persino i famosi libri di Selezione del Reader’s Digest, ovvero i best seller mondiali del momento condensati in poche pagine.

Divoravo letteralmente quei volumi marroni con dentro tre o quattro romanzi alla volta. Ne ricordo bene uno ambientato in Scozia, in una fumosa distilleria di whisky, e il famoso Kim, un dono da Vietnam, storia vera e commovente di una bambina adottata. Libri letti e riletti mille volte, quando, annoiata, sola e affamata di libri, giravo per casa rivoltando la libreria dei miei a caccia di qualcosa da leggere.

Quante ore raggomitolata sul divano tenendo sulle ginocchia volumi di tutti i generi, qualunque cosa riuscissi a scovare in casa, dalle fiabe a Maupassant, da Liala a Scerbanenco, da Verne a Salgari. E quanti pomeriggi d’estate in terrazza, in attesa che mia madre tornasse dal lavoro, con una bibita e un libro da finire entro la giornata, i gomiti accarezzati dal sole che piano piano si abbassava, sorda ai rumori della strada, delle cinquecento che passavano, dei ragazzi che ancora rincorrevano la palla sotto i marciapiedi. Io, dall’alto, potevo solo guardarli, curiosa e timida, per poi tonare a tuffarmi nelle mie storie. Che cosa sarebbe stata la mia vita senza la lettura? Non so nemmeno immaginarlo.

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Dopo le 11

21 Febbraio 2019 , Scritto da Costantino Delfo Con tag #costantino delfo, #racconto


 

 

 

 

Era chiuso. Solo un foglietto, con su scritto ‘Dopo le 11’, animava il vetro della porta. Era scritto con un pennarello blu e una calligrafia incerta e tremolante. Le lettere e il numero stavano un poco inclinate, in un corsivo antico, come scrivono le persone anziane. Scocciata, mi avviai zoppicando per la via ma già, dopo pochi passi, mi sentivo ridicola per quella mia camminata sbilenca, parevo una ruota quadrata che sobbalzava su e giù per una discesa. Le tolsi, le scarpe, e affrettai i passi. Più avanti, all’angolo, c’era un bar dove avrei potuto sedermi e finalmente arrivai al tavolino e soprattutto alla sedia del bar. Maledette grate, trappole dove giusto un tacco di scarpa si può infilare e staccarsi. Guardai il mio piede e dalla borsetta tirai fuori la scarpa, che ormai sembrava una pantofola, e il tacco che avevo recuperato, strappandolo alla maledetta griglia di ferro che lo serrava. Tentai anche di riunirli, inutilmente. Avvilita, ripensai al negozio chiuso del calzolaio e a quel biglietto. Probabilmente l’aveva scritto lui. Il vecchio Gino era una vita che stava lì, in via Aporti, ad aggiustare e lucidare scarpe. Perché non scrivere chiaro ‘Apro dopo le 11’, invece solo quel ‘Dopo le 11’ che pareva non dire. Dopo che? 11 e cinque? 11 e trenta? Dopo… e poi quel numero 11, due asticelle uguali, tremolanti, sembrava stessero per cadere. Due numeri primi affiancati e allora perché non scrivere 22 o 33, gli anni di Cristo quando è morto? Mah, sarò matta. Sì, una matta senza tacco. «Un caffè», ho risposto al cameriere che mi aveva distratto con quella domanda: «Desidera?» Non desideravo un caffè ma, in certe occasioni, bisogna rispondere a tono. Io desideravo un’altra vita. Ancora con questa storia? Trentatré anni, come quelli di Cristo, quando è morto, ma potrebbero essere anche quarantaquattro, come i gatti o 11 ma dopo… fuori di testa, sarà il caldo. Segretaria di studi medici, di avvocati, di magazzini e altro. Nubile, single, mora, uno e settantatré. Ma soprattutto sola. Fidanzati alcuni, da dimenticare e… senza una scarpa, ora. «Ciao Marina», mi ha detto con voce incerta. Al momento non l’ho riconosciuto e l’ho fissato. Elegante, con la giacca blu e i capelli chiari come gli occhi. «Giorgio... » ha detto e io ho sorriso, ancora non ricordavo. Cinque anni erano passati come un vento e quel Giorgio era stata una nuvoletta volata via nei ricordi. Era stato a una festa che me l’avevano presentato, più visto. «Ciao», gli ho risposto, allargando il sorriso. «Che fai qui?» ha chiesto. «Scarpa rotta», e gli ho mostrato il piede nudo. Si sedette sulla sedia accanto e mi prese dalla mano il tacco. «Calzolaio», disse. «Dopo le 11», risposi. «Se vuoi ti accompagno, ho la macchina». Stavo per dire: ‘No grazie, è qui vicino’. Invece sorrisi e con un balzo lui era già per via. Prima il rumore scoppiettante, poi la cinquecento degli anni ‘80 con lui dentro che mi faceva cenno di salire. Era ormai fatta, lasciai due euro sul tavolino, raccolsi le scarpe ed entrai nel buco. «È l’Abarth», disse, quasi a scusarsi. «Dove andiamo?» chiese. «Ormai è tardi, se non ti spiace portami a casa che mi cambio le scarpe, sto in via Acquedotti, vicino all’ospedale vecchio». Teneva le marce alte per far meno rumore, ma scoppiettava come un vulcano e arrivammo sani e salvi. «Ti aspetto? » chiese. «No, grazie», e avrei voluto aggiungere: ‘per oggi, basta così’. Ma lui insisteva. Ci scambiammo il numero di cellulare. Infine disse: «Allora ti invito a cena, stasera». Stremata e senza avvenire ho detto di sì e lui: «Alle otto, ti faccio uno squillo». Non ce ne sarebbe stato bisogno, arrivò con un fragore infernale e io mi affacciai alla finestra gridando: «Arrivo!». «Ciao», disse sorridendo. «Ciao, risposi sorridendo», e poi zitti fino al ristorante che stava sul lungomare. Lui era vestito ancora con la giacca blu ma aveva messo un farfallino e io con la solita vestaglietta da sera coi fiori rossi e i tacchi alti, ma stavo attenta. ‘Il Gabbiano’, così si chiamava il ristorante e lui era davvero un gabbiano. Ogni tanto svolazzava fra i tavoli a cinguettare e non permetteva mai ai camerieri di servirmi, fu sempre lui a farlo. Era il capo, il proprietario. Scoppiettando, mi riaccompagnò a casa e mi baciò e anche io lo baciai, con passione. Ero felice. Il giorno dopo era domenica e Giorgio sarebbe passato dopo le 11 per andare insieme al mare. Stavo uscendo dal portone quando la Tina, la portinaia, mi salutò: «Buongiorno signorina». «Buongiorno, Tina», risposi. «Lo sa?», disse. «No, che cosa?» «Gino, il ciabattino, è morto. Lo conosceva, vero?» Rimasi impassibile. «Quando?» «Ieri, dopo le 11», rispose. Con fragore, Giorgio era arrivato. «Perché piangi?» mi chiese.

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Viva la pappa col pomodoro

20 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione

 

Avevo solo tre anni ma non mi perdevo una puntata de Il giornalino di Gianburrasca, sceneggiato televisivo andato in onda nel 1864/65, tratto dal libro di Vamba, per la regia di Lina Wertmüller. Ricordo di averlo seguito con la stessa attenzione e comprensione di adesso e che la visione coinvolgeva tutta la famiglia, soprattutto mia madre e mia nonna ne andavano pazze quanto me. Ci piaceva tantissimo la giovane Rita Pavone nei panni del terribile Giannino Stoppani, lei era una di noi, con la faccia semplice e pulita. Non ricordo se anch’io fui una di quelle bambine che s’innamoravano di Giannino rimanendoci poi male quando scoprivano che era una femmina.

Mi divertivano anche gli altri personaggi, soprattutto la terribile direttrice interpretata da Bice Valori che, si dice, recitasse in ginocchio per sembrare nana. La musica era di Nino Rota, e, ovviamente, quella più famosa, La pappa col pomodoro, divenne una hit. Avevo il disco e lo suonavo in continuazione. Era una straordinaria canzone di protesta, così come la scena dove Giannino scappa dal collegio, che all’epoca fu ritenuta diseducativa. Ma io so solo che il motivetto non l’ho mai scordato e lo canto anche oggi alle mie nipotine.

 

La storia del passato

Ormai ce l´ha insegnato

Che un popolo affamato

Fa la rivoluzion

Ragion per cui affamati

Abbiamo combattuto

Perciò "buon appetito"

Facciamo colazion

 

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Laura Nuti, "Come le ciliegie"

19 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #laura nuti, #miti e leggende

 

 

 

 

Come le ciliegie

Laura Nuti

Marchetti Editore, 2018

 

Il delizioso Come le ciliegie, di Laura Nuti, edito da Marchetti e ben illustrato da Roberta Malasomma, mi ha riportato indietro nel tempo, mi sono rivista bambina, leggere con foga e meraviglia adattamenti di classici e riduzioni di opere immortali: il Kalevala, il Peer Gynt, le storie di Carlomagno e Berta dal grande piede, la Divina Commedia spiegata ai ragazzi, la mitologia greca. Questo libro ha il sapore (inimitabile) di ciò che leggevamo allora, con un piglio, però, moderno. Che cosa sono le fiabe se non miti e leggende rielaborati, che cosa c’è nella fiaba se non la struttura stessa di un singolo grande mito (come ci insegnano Propp e Joseph Campbell)? E non era forse un’operazione simile quella compiuta negli anni sessanta con le fiabe sonore e con le riduzioni dei classici per bambini?  

Sonnolenti pomeriggi d’estate, un giardino afoso, una nonna che culla una piccina mentre racconta – o meglio, fa raccontare dall’immaginario cane Argo -  alla sorellina più grande le meravigliose vicende degli eroi omerici, prima, durante e dopo la guerra di Troia, adattate a un palato infantile e odierno ma appetibili per tutti, perché le storie, si sa, quando sono belle, sono godibili a ogni età.

Storie come ciliegie, una tira l’altra. Storie succose, colorate, multiformi, tutte diverse ma concatenate. Storie di mostri chimere (ovvero puzzle), di cavalli alati, di guerrieri belli e coraggiosi, (ovvero fighi), di principesse affascinanti, ma anche di dei che più umani di così non si può, con tutti i nostri difetti: l’infedeltà, l’invidia, la gelosia, la rabbia.

Come afferma la stessa autrice nel saggio Narrare e leggere belle storie:

I “ racconti tradizionali, cioè le fiabe, le favole, i miti, le saghe e le leggende epiche, devono avere un ruolo fondamentale. Perché? Perché sono storie che “hanno una storia”, che vengono da lontano, che “hanno viaggiato attraverso il mondo e si sono colorate qua e là di sfumatureriferimenti, chiaroscuri attinti cammin facendo”; sono storie nate dalla narrazione, dalla tradizione orale (perciò si prestano ad essere narrate, raccontate) e sono divenute poi letteratura (perciò si prestano ad essere lette, indagate nella loro struttura, “ricalcate” per dar vita ad altre storie). (Laura Nuti)

Ecco il valore di questo “ri-raccontare” miti e saghe conosciute, ecco il valore degli adattamenti e delle rivisitazioni. E l’immagine della nonna è la più azzeccata. Spetta alle generazioni più anziane, infatti, il compito di tramandare, di trasmettere la cultura, cioè il patrimonio comune delle conoscenze e delle storie, arricchendole di valori contemporanei, di novelli spunti, d’immagini  consone alla nuova epoca.

Ben vengano operazioni culturali così fresche e piacevoli. Se in libreria ci fossero meno Peppa Pig, meno Pija Masks, e più libri deliziosi come questo, resterebbe la speranza che il mondo, pur evolvendosi, mantenesse quelle conoscenze che fanno di noi ciò che siamo e che vorremmo continuare a essere in futuro.

 

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Il girasole e i pipistrelli

18 Febbraio 2019 , Scritto da Laura Nuti Con tag #laura nuti, #miti e leggende

Il girasole e i pipistrelliIl girasole e i pipistrelli

 

 

 

Anche la seconda storia era finita e ormai sulla città in festa calava la notte. Dalla finestra della casa di Minia, si vedevano brillare mille fiaccole.

 - Vi  ringrazio, figlie mie - disse il re - Ora però scendiamo in strada con gli altri, balliamo e onoriamo anche noi il grande dio del vino! Non possiamo più attendere ... –

- E Clizia? Non vuoi sapere quale fu la sua sorte? Hai ascoltato le tue figlie maggiori, caro padre; perché non vuoi sentire me, che sono la più piccola? - disse la terza sorella.

 

Re Minia aveva un debole per lei, come poteva deluderla! Così, con il cuore pieno di tristi presagi, il re si mise ad ascoltare anche la sua storia. E la figlia minore incominciò a narrare:

 

- Quando Clizia seppe della triste sorte dell'amica, si disperò e maledisse la sua gelosia. Avrebbe dato la vita per poter tornare indietro, ma ormai non c’era più modo di cambiare il destino e di sfuggire all’ira del Sole. Il dio, infatti, raccolse l’arbusto d’incenso, nato dal corpo della sua innamorata, lo strinse al cuore e si recò da Clizia.

 

- Ti maledico! - le disse - E non voglio più vederti: se ti guardo, provo un tremendo dolore, perché mi ricordi la felicità che ho perduto per sempre! -

 

Poi le volse le spalle e si allontanò, avvolto nel mantello scuro.

Clizia rimase sola con i sui rimpianti.

 

- Ho perduto la mia unica amica e il mio unico amore ...  - mormorava fra le lacrime, e si struggeva di dolore e d’amore, perché continuava ad amare il Sole, disperatamente.

 

Il dio, invece, passava alto nel cielo col suo carro di fuoco e volgeva la testa per non vedere la fanciulla; lei, desolata, lo seguiva con gli occhi, finché scompariva all’orizzonte.

 

- Perdonami! - diceva, alzando le braccia verso il Sole - Sono tanto infelice! Darei la vita per un tuo sguardo... -

 

Ma il dio, irato, non ascoltava quella preghiera.

Il tempo passava e l’amore di Clizia diventava sempre più forte. La fanciulla piangeva, deperiva, sfuggiva la compagnia degli altri; cercava solo luoghi deserti, lontani dalla città, dove né le case, né gli alberi potevano impedirle di guardare il Sole

Infine Clizia abbandonò la sua famiglia e fuggì in mezzo alla campagna.

Cercò un luogo brullo e solitario, completamente inondato di luce; lì si sedette e rimase ferma per giorni e giorni, con il viso rivolto verso il cielo. Non mangiava, non dormiva, piangeva soltanto e non si stancava di fissare il Sole che passava rapido sopra di lei, senza mai degnarla di uno sguardo.

Alla fine, i piedi della fanciulla cominciano ad aderire al suolo, il corpo magro diviene uno stelo sottile, il volto è un fiore giallo, simile a un gigantesco occhio ornato di ciglia dorate; e benché trattenuta dalla radice, Clizia continua sempre a seguire con lo sguardo il Sole, perché lo ama, anche se ormai è solo un fiore ...

 

- Allora il girasole, un tempo, era una giovinetta come te ... - disse Re Minia, commosso, quando la terza figlia smi­se di raccontare.

- Sì, padre mio, e ...  - fece per rispondere la fanciulla, ma non riuscì a terminate la frase.

 

Improvvisamente il suono roco e insistente dei tamburelli riempie la casa, un profumo fortissimo di vino e di mitra si diffonde ovunque, dai tetto cadono ghirlande di rose … Ma nessuno suona o sparge fiori e profumi: tutto è fatto da mani invisibili!

Poi i telai cominciano a divenire verdi, le stoffe a trasformarsi in pampini o in rose, i fili diventano tralci di vite, grappoli d’uva tingono di rosso la lana ancora da filare. Le mura della reggia tremano, le lampade si accendono; il palazzo è rischiarato dai bagliori di mille fiaccole e ovunque si odono ruggiti di belve feroci ...

Le sorelle corrono qua e là per la casa invasa dal fumo, si nascondono ora in un angolo ora in un altro per sfuggire ai fuochi e ai lampi; re Minia assiste alla scena e mormora, piangendo:

 

- Ecco, la vendetta del dio è giunta! Nessuno può salvare le mie povere figlie ... -

 

E mentre le tre fanciulle cercano un luogo dove nascondersi, il loro corpo rimpicciolisce; le gambe, che non hanno voluto danzare in onore di Bacco, quasi scompaiono; le dita, così abili a intrecciare fili, si allungano incredibilmente e una membrana, simile a stoffa sottile, le unisce e le imprigiona.

Le tre sorelle sono ormai strani uccelli neri: non hanno piume, ma volano ugualmente, sorrette da ali trasparenti; quando cercano di parlare, emettono una voce sommessa e sottile. Abitano in luoghi chiusi e riparati; detestano i rumori e la luce, perciò volano di notte. Gli antichi davano loro un nome che ricorda la tarda sera: “vespertili”, noi li chiamiamo pipistrelli

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Federica Cabras, "Un sogno, un amore e un equivoco"

17 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #federica cabras

 

 

 

 

Un sogno, un amore e un equivoco

Federica Cabras

Literary Romance, 2019

pp 249

13,90

 

All’inizio di tutto c’è lei, Elizabeth Bennet di Orgoglio e pregiudizio. Poi, secoli dopo, è arrivata la capostipite della chicklit, Bridget Jones, goffa, imbranata, romantica. In seguito sono venute le eroine di Lauren Weisberger e di Jojo Moyes, Andrea Sachs e Louisa Clark, tanto per citare le più famose. Qui da noi, invece, Alice Allevi di Alessia Gazzola. È questo il filone in cui inserire l’ultimo libro di Federica Cabras, Un sogno, un amore e un equivoco.

Quando lessi il suo primo romanzo, al quale feci una critica severa, dissi, però, che questa ragazza aveva talento da vendere e che prima o poi si “sarebbe fatta”. Con questa nuova prova ce l’ha dimostrato. Qui la Cabras sembra aver saputo distinguere i generi e calarsi pienamente nel filone che predilige. O, almeno, che la parte di lei più epidermica predilige.

Il romanzo è spumeggiante come la copertina, fatto di dialoghi serrati e divertenti come sceneggiature di serie tv. Tutto ruota intorno ai tre poli: il sogno, l’amore e l’equivoco. L’amore è quello per il bel datore di lavoro, luogo comune del romance, trama immortale della solita cenerentola che riuscirà a farsi valere, e a conquistare, con la sola purezza del cuore, un uomo apparentemente fuori della sua portata; l’equivoco è quello che permetterà alla protagonista di sciogliere tutti i nodi e soddisfare i suoi desideri; il sogno, infine, è quello di diventare scrittrice, altro stereotipo delle eroine moderne ma, in questo caso, non solo superficiale ambizione ma autentica e sofferta aspirazione interiore.

Siamo tutti luce e buio. La parte luminosa della Cabras è dolce, coraggiosa, sentimentale. È la parte dei palloncini colorati in copertina. È quella di questo romanzo, divertente e tenero. Poi c’è il lato oscuro, tenuto a freno, rimosso. Era evidente nel suo primo libro ma non si amalgamava col resto del racconto. Qui non c’è perché non deve esserci, pena la perdita di coerenza, ma emerge a momenti quando il tessuto del linguaggio si lacera, quando la mano della Cabras corre da sola sul foglio e vengono a galla  cupezze, sofferenze e dolori. Soprattutto ansia, paura di non essere all’altezza, voglia di essere amata, orrore e fascinazione della morte.

Virginia Carta, la protagonista, è quella che lavora al bar, ma non lo è. Virginia è quella che esce con le amiche, ma non lo è. La vera Virginia è colei che batte sulla tastiera evocando mondi, scavando nel dolore proprio e altrui. Alla fine, il personaggio di Ester, la donna che ha ispirato e conservato le lettere che Virginia ritroverà, prende il sopravvento. E così abbiamo una triplice identificazione: Federica Cabras che scrive di Virginia Carta che scrive di Ester Lai.

Riassumendo, abbiamo Virginia, una ragazza ambiziosa e gentile, abbiamo Giorgio, un bel principe azzurro, padrone del locale dove lei lavora, abbiamo degli amici affezionati e due genitori da non deludere. La vicenda si snoda fra la ricerca del lavoro e il bisogno di provare sentimenti autentici e profondi, fra l’investigazione del sé e la necessità di affidarsi agli altri. Virginia è insicura, si crede fragile, ha bisogno di un uomo maturo e protettivo, di un caro amico d’infanzia, delle coinquiline affettuose, della lingua tiepida di un cucciolo. Ha bisogno di tutto questo ma, intuiamo, potrebbe farcela anche da sola, potrebbe vivere esclusivamente di sé e della sua ambizione, nella spaventosa e sublime solitudine dello scrittore. Ancora una volta è la parte più superficiale della protagonista a innamorarsi del capo e a gestire i rapporti con le amiche. La parte più profonda, invece, ama la scrittura che fa emergere angoscia e rimorso, che avviluppa e consuma come una fiamma.

Nessuna dichiarazione d’amore per un uomo fu mai appassionata come quella che, a pag 234, Virginia indirizza all’atto insopprimibile dello scrivere. Nessun “ti amo” detto al bel Giorgio può equivalere a quella passione bruciante. Credo, anzi, che il bel Giorgio sia solo un cliché, e il rapporto con lui dovrebbe essere più sfumato, più graduale, meno dichiarato da subito. Ma ciò accade perché il vero innamoramento la protagonista lo prova verso le proprie ambizioni letterarie, verso la ricerca di fama e soddisfazione.

Il romanzo della Cabras è “carico di spirito e di passione”, esattamente come viene definita la scrittura della protagonista dall’implacabile direttrice di un magazine di successo. Si sentono l’impegno, il lavoro di lima, la fatica fatta per far quadrare gli elementi della trama, lo scavo e l’amore delle parole, la ricerca del termine giusto. Un’ottima prova ma, soprattutto, un’ottima base di partenza.

Penso che questo racconto, seppure piacevole, fluido, accattivante e intrigante, sia solo un trampolino di lancio, e che l’autrice sia pronta per fare un ulteriore passo avanti, tirando fuori il rimosso, soffrendo sulla carta come nessuno di noi vorrebbe mai fare, uscendo dalla chicklit e dal romance per entrare in un luogo buio e profondo, fatto di passione e tormento, il luogo dove nasce la grande letteratura.  E qui ne dà un assaggio nelle belle lettere che la protagonista ritrova nella borsa dell’anziana signora, Ester Lai, cliente abituale del bar dove lavora, e verso la quale ella prova un’inspiegabile attrazione.  

Se l’autrice saprà librarsi sopra gli stereotipi imposti dal genere (e dalla frequentazione con le serie televisive), se avrà il coraggio di sprofondare nella parte più tenebrosa di sé, senza farsene travolgere ma incanalando le emozioni in qualcosa di organico e letterario, se metterà tutta se stessa al servizio di quella passione che la divora, credo che, in futuro, sentiremo sempre più spesso parlare di lei.

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Lucca Art Fair 2019: la quarta edizione

16 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #eventi, #arte

 

 

 

 

Mossa da una costante ricerca verso l’innovazione e la sperimentazione, Lucca Art Fair conferma anche nel 2019 la sua missione di fiera attenta alla scoperta e riscoperta di talenti con due consolidati progetti: Letture Critiche e Art Tracker.

Il primo, alla guida del quale si conferma anche quest’anno Francesca Baboni, è dedicato alle gallerie che propongono progetti espositivi con due artisti in dialogo, in modo da suscitare interrogativi e fornire nuovi spunti di riflessione. Il secondo Art Tracker, con progetti site-specific realizzati nel centro della città e in fiera da quattro artisti under 35 selezionati tra i finalisti del Combat Prize 2018, per creare un utile strumento di riflessione sulle nuove tendenze nella giovane arte contemporanea italiana. La curatela è affidata a Gabriele Tosi e gli artisti sono Stefano Bazzano, Maddalena Tesser, Paolo Alberto Peroni e Francesco Levy.

 

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Moved by a constant search for innovation and experimentation, Lucca Art Fair confirms also in 2019 its mission as a fair focus on the discovery and rediscovery of talent with two consolidated projects: Letture Critiche and Art Tracker.

The first, at the head of which is confirmed Francesca Baboni, is dedicated to the galleries that propose exhibition projects with two artists in dialogue, in order to raise questions and provide new ideas for reflection. Art Tracker has the aim of creating a useful tool for reflection on new trends in young International contemporary art, through site-specific projects in the city center and at the fair made by four artists under 35 selected among the finalists of the Combat Prize 2018.

The curatorship is entrusted to Gabriele Tosi and the artists are Stefano Bazzano, Maddalena Tesser, Paolo Alberto Peroni and Francesco Levy.

 

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Natale a sorpresa

16 Febbraio 2019 , Scritto da Dario De Santis Con tag #dario de santis, #racconto, #unasettimanamagica

 

 

 
 
 
Dal diario del comandante
Ci siamo, oggi pomeriggio finalmente sarà il momento, Danilo detto Nilo e Dora hanno a disposizione la casa dei genitori di lui, i quali hanno deciso di passare un week-end sulla neve, l’ultima per quest’anno.
È il momento che i ragazzi aspettavano da due mesi, da quando lei ha capito che
A) lui è l’uomo della sua vita
B) non vuole raggiungere i diciott'anni con un pezzettino di carne superflua (se la sentissero parlare così i suoi, paladini di Comunione e Liberazione, le taglierebbero la lingua, come ai bei tempi della Santa Inquisizione)
Dora arriva in tarda mattinata a casa di Nilo vestita di molti strati di lino, cotone e jeans come se questi ultimi ostacoli potessero, nei suoi più intimi pensieri, ritardare il momento sacrificale.
Avevano deciso di aspettare con calma dopo pranzo, ma al primo bacio entrambi capiscono che quel momento non è più procrastinabile, iniziano a strapparsi i vestiti di dosso, toccando quei punti finora solo sognati...
... e qui intervengo io, ancora non avete capito chi sono? Il terzo incomodo, il mio compito è di allungarmi per facilitare il compito del mio socio di entrare nel corpo di lei.
Tutto tranquillo, eravamo già pronti prima che lei arrivasse, il pensiero del corpo di lei, acerbo ma già maturo, mi ha quasi fatto raggiungere molte volte il punto di non ritorno, avevamo dovuto pensare ad una partita di pallone persa tre a zero, per uscire dal pericolo.
Finalmente posso sognare autonomamente attraverso il mio occhietto. Tolti gli slip la prima cosa che vedo è il viso di lei che guarda curiosamente la mia erezione, si allontana soddisfatta, si getta all’indietro sul letto e si toglie gli ultimi vestiti.
È goffa nello spogliarello, ma per questo ancora più sexy.
Che bella che è, anch’io vedo la passerotta per la prima volta senza il fermo immagine dei video su you tube.
In effetti anche Dora è ferma, si concede timidamente allo sguardo di noi due. Non riesce a guardare Nilo negli occhi, continua a studiarmi, come ipnotizzata.
Il momento è giunto, mi avvicino ed entriamo.
È tutto buio ma è come scivolare in Paradiso, un posto caldo ed invitante, supero gli ostacoli e...
CAVOLO, mi sono distratto, ho lanciato il carico troppo presto, non ero abituato ad essere stretto in modo così bello, vedo i miei spermatozoi prendere di mira un bellissimo ovulo, circondandolo senza pietà, una battaglia persa... o vinta in partenza.
24 dicembre, ore 19
Nove mesi dopo, in casa dei genitori di Nilo, Diego e Maura, una coppia di quarantenni troppo giovani per aver fatto il ’68, diventati adulti con gli ideali derisi dai nuovi liberisti e cresciuti con la nostalgia del passato. Si erano ritrovati in una delle ultime sezioni del PCI, amore a prima vista con figlio annesso. Era stata dura,
ma ora vivevano felici, nostalgici e desiderosi di mettere ancora in pratica il loro passato di lotta, purtroppo, non per colpa loro, mai espresso pienamente.
«Maura ti avverto, non rinuncio alla carne, per la mia famiglia è sempre stato un vanto, un esigenza, volete che festeggi? Datemi una bistecca!»
«Diego, smettila, dall’odore dell’incenso in avvicinamento, i consuoceri stanno arrivando, spero che Nilo abbia già avvertito Dora, comunque per loro ho cucinato pesce»
«Cosa cambia? Sono cattolici, non serve farli contenti, pretendono che anche noi facessimo le stesse cose che fanno loro».
«Speriamo che i ragazzi arrivino per primi, non sopporterei la tensione. Ricordati che ufficialmente Dora è al settimo mese, se sapessero che il bambinello sta arrivando ci sarebbero svenimenti, capirebbero che i ragazzi l’hanno fatto quando non erano ancora fidanzati».
«Vittoria si sciacquetterebbe con l’acqua santa e Giovanni si fustigherebbe come l’albino Silas del “Codice Da Vinci”! Quanta ipocrisia, che schifo!»
«Te lo dico per l’ultima volta, smettila!»
«Solo se fai un primo giro di bistecche per tutti, devono avere il diritto di rifiutare, ma non di cambiare la vita al prossimo!»


 

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MARIO & TONY MAL A SPASSO PE' ROMA: Er Mascherone dèr Mandrione

15 Febbraio 2019 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #luoghi da conoscere

Mascherone al Mandrione e l'omaggio di Walter FestMascherone al Mandrione e l'omaggio di Walter FestMascherone al Mandrione e l'omaggio di Walter Fest

Mascherone al Mandrione e l'omaggio di Walter Fest

 

 

 


- A To', come stai?
 

- Mario mio, si sapessi ieri che nottata! Avrò pure guadambiato, ma mànco cjò ho magnato! Daje, accòmpagname a pjà er caffè e poi se ne annamo a Frascati.
 

- Er solito mezzo litro, na gazzosa co' la porchetta e er pane dè Lariano cotto a legna?
 

- E te credo, daje, annamo a pjà er cinque piotte.
 

- Sì, daje, così scappottamo e se spettinamo!
 

- Veramente io me vorrei svejà!
 

- Allora ce vòle n'caffè ar bacio!
 

- Nooo... Basta, te prego, stanotte so stato tutto n'bacio!!... Daje, va' a pjà er cinquino che t'aspetto qua.
 

Er cinquecento de Mario era n'automobbile molto caratteristica, perché, grazie a 'na particolare verniciatura americana, ogni mese je cambiava colore, annava da Walterfest l'artista, che sapeva quello che doveva fa pe accontentà la gente. Sta vòrta er cinque piotte era tutto giallo dippato de rosso e nero, 'no spettacolo!
 

- Oh, 'mazza che bella! Me sembra 'n pò coatta, però l'artista ha fatto 'n bel lavoro.
 

- 'A prossima vòrta me la deve da fa tutta rosa co' le sfumature arancioni.
 

- E perché?
 

- Vojo fa morì lì turisti Giapponesi che me fanno sempre le fotografie, nun poi capìì come li faccio ride!!
 

- Penza sì, se la volessero comprà e te offreno 'n milione!
 

- E mica jè la do, senti, nun rompe er cazzo co' 'ste cazzate, daje, monta che prima de pjà 'a discesa der Quadraro se fermamo alla funtana der Mandrione.

La funtana cor mascherone de Porta Furba se trova sulla via Tuscolana, all'inizzio de via der Mandrione. E' 'n monumento ordinato nel 1733 da Papa Clemente Xll Corsini e, probabilmente, ma nun ne sèmo certi, è stata ideata dall'architetto Francesco Bianchi 'n sostituzzione de 'n'àrtra funtana der 1586, quando era Papa Sisto V, e de questa vecchia àrimane solo 'n epigrafe sull'arco de fianco alla funtana.

Quello che corpisce de più la gente che passa da quelle parti è la figura ar centro della funtana, 'n mascherone che 'n po' te fa paura e 'n po' te fa ride, perché sembra che te vòle pjà p' èr culo.
Dopo er bombardamento a S.Lorenzo der 1943, la gente sfollata scappò e, pe la paura, se nascose sotto l'archi dell'Acquedotto, co' la speranza che l'aeroplani avrebbero àrisparmiato la robba antica de 'mportanza storica.

Finita la guera, la gente àritòrnò ar vecchio quartiere ma oramai sotto quell'archi quarcuno ce s'era fatta casa, l'anni '50 erano tempi de fame e disperazzione, e così via der Mandrione divenne na strada de mignotte, de papponi, de banditi e de povera gente baraccata. Adesso pe' fortuna è 'na via normale, tranquilla e, si vòlemo, pure chic, solo la funtana nun s'è mai spostata, è rimasta sempre lì, quasi a ricordacce tutto quello che Roma nei secoli ha passato, ma che è sempre caput mundi pe' la storia de tutto er monno.

- Mario, te piace sta funtana?
 

- E' bella davvero, me viè da penzà che, quanno ce l'hanno messa, qua era tutta campagna.
 

- A me, me sembra pure troppo bella pe sta da sola così isolata, a quell'epoca, a parte le mura dell'acquedotto, 'ntorno nun ce doveva sta gnente, qui stamo quasi più vicino a li castelli che ar centro de Roma.
 

- Cjai raggione, sicuramente ce passavano le pecore co li pecorari, la via der Mandrione forze ha preso er nome da tutti li gregge che ce passavano vicino, qua ce se fermava la gente de passaggio e se faceva na bevuta, ma sai che te dico?
 

- Dimme, dimme.
 

- Che sto mascherone er Papa ce lo mise pe mette paura a li briganti e a la gente senza fede, 'o vedi er faccione cor nasone, l'occhi furbi e la bocca larga che sputa l'acqua dentro a na conchija? Nun te mette soggezzione?
 

- E che te devo dìì? A me n'poco me fa ride!
 

- 'Nfatti, prima te fa ride e dopo, si nun te comporti bene, te fa piagne, che nun le vedi le ali largheaàr posto delle recchie?
 

- Ma mica è 'n mostro.
 

- No, me pare 'n pòro vecchio, però, seconno me, è Caronte, che te dice, bevi fratello ma si nun righi dritto te porto co me dà satanasso, zozzo tizzone d'enferno.
 

- Vòi scommette che te piace Tex Willer?
 

- E che vòi fa? Noiartri da regazzini mica cjavevamo tutto come quelli de adesso, dovevamo divertisse co' la fantasia.
 

- 'Nfatti, daje, arimontamo 'n machina e ànnàmòse a divertì, nannì.


Mario e Tony Mal risalgono in macchina.
 

- Bòngiorno!
 

- Oh! Mo sei diventato pure educato?
 

- Perché?
 

- Maj detto "Bòngiorno"
 

-E mica so stato io!
 

- E allora chi è stato?Io l'ho sentito co' l'orecchie mie!
 

- Certo che je l'avete fatta, eh!
 

- Ma limortacci tua! E te che ce stai a fa dentro la machina? Chi t'ha detto de entrà? E te che sei 'n gatto come fai a parlà?
 

- Ma sète proprio du' rincojoniti, ma nun la sapete che co' la fantasia se po' fa tutto? E poi, che ve possino acciàccàvve nun eravamo amici?
 

- Boh? A mè nun mè pare, a Tò, ma che adesso er gatto è diventato n'amico tuo?
 

- No!


- Scusateme, nun m'ero presentato e nun ve avevo detto de chi artro ero amico.
 

- Annàmo bene! Mo cjai pure artra gente alla quale scrocchi er pranzo e la cena?
 

- Me chiamo Armando e so amico de Dario.


- Ahhh... Mo ho capito!
 

- Vabbè, pure Dario è 'n grande amico nostro, ma adesso che voresti?
 

- Venìì co' voi a Frascati, perché, nun me ce volete?
 

- A Tò, che famo?
 

- A Mario, e che famo, se lo pòrtamo, oramai questo ce s'è accollato!
 

- Come ve vojo bene, me metto de dietro sur sedile, bòno, bòno, e nun ve darò fastidio.
 

- Sì ma, m'arriccomanno, nun te fa sentìì che parli, artrimenti a chi te sente je faremo pjà 'n infarto.
 

- A Mario, mica sei matto! Io parlo solo co' voi che semo amici!
 

-A Tò, ma allora è vero che li gatti so ruffiani.


- Ma che stai a dìì, noi gatti de strada cjavemo er savoir fair.
 

- 'A capito? Mecojoni!
 

E così Mario, Tony e Armando er gatto se ne andiedero a Frascati, se fionnarono dentro a na fraschetta e passarono in allegria er resto de la giornata, domani sarebbe stato 'n artro giorno a spasso pe' la città più bella der monno!

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Chiara Tortorelli, "Noi due punto zero"

14 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli

 

 

 

 

 

Noi due punto zero

Chiara Tortorelli

Homo Scrivens, 2018

pp 241

15,00

 

Non si può certo dire che Noi due punto zero, di Chiara Tortorelli, sia mal scritto. Tutt’altro, la lingua è oltremodo bella e letteraria. Fin troppo: non è detto che ogni frase debba per forza essere la frase del secolo, pena una certa pesantezza. Ma, comunque, è una scrittura chiaramente raffinata, studiata, in un certo qual senso, “snervante”.

All’inizio la storia ti prende, complice appunto l'ottima scrittura, vuoi sapere perché la quarantenne Emma - separata da Paolo e con una figlia adolescente, Alice, che ora vive con la nonna - si sia lasciata trascinare in un rapporto frustrante con il maschilista Pietro. Egli la incontra solo quando e dove vuole lui, non le ha detto nemmeno il suo vero nome, non parla mai d’amore, la tratta con indifferenza, venera e usa il suo corpo, senza che il loro rapporto possa mai uscire da questa sorta di limbo (mai parola fu più azzeccata).

Poi, però, il tessuto della narrazione s’incrina, cominciano ad affiorare crepe, le cose “non tornano” più, la realtà si mescola al ricordo e al sogno, per confluire in un finale a sorpresa che non possiamo rivelare e che lascia interdetti e spiazzati. A livello personale, non amo questo genere che mescola realtà ed esperienza onirica, flash back e attualità, prosa e poesia, e che ti costringe ad una lettura non solo attiva - il che non sarebbe male - ma addirittura “superattiva”. Ciò nondimeno, è la scelta dell’autrice e va rispettata. Colpisce, inoltre, il contrasto fra il realismo con cui vengono descritte scene di vita quotidiane e il loro essere esperienze oniriche o, comunque, surreali.

Nel mentre, ci ritroviamo al punto zero, quello della fisica quantistica dove tutto è ancora possibile. E di là partono e si diramano tasselli di vita  - reale, ricordata, sognata, limbica, finita? –, di là partono le tarsie di un mosaico che il lettore, se ne avrà voglia, potrà ricomporre, andando avanti e indietro nella storia, nella mente della protagonista, nel passato e nel futuro.

All’improvviso spunta anche un coro, che forse deriva dal desiderio dell’autrice di inserire poesie nel libro, e che dovrebbe indirizzare il lettore, accompagnandolo nella ricerca e nella ricomposizione dei tasselli. Quindi arriva anche Anna Karenina, con cui l’eroina a volte s’identifica, Anna che, guarda caso, è morta sotto un treno. Tutto, in ogni caso, si svolge nella mente della protagonista, a riprova che è il pensiero a creare la realtà e non viceversa, e che esso può contenere e generare l’universo intero.

Se proprio devo fare un paragone, mi viene a mente la serie televisiva Lost, dove ogni personaggio aveva un back ground articolato, pesante e mutevole, dove ogni cosa non era come sembrava, dove lo spettatore si caricava di enormi aspettative sempre disattese, e dove alla fine tutti erano morti in un finale appiccicaticcio e sbrigativo fatto tanto per chiudere la serie.

Insomma, davvero non so che dire di questo libro. Per coloro ai quali piace il genere è senz’altro un romanzo perfetto, per me, che amo una scrittura asciutta e una narrazione lineare, da un punto A a uno B, mi sembra uno spreco, sia di energia sia dello straordinario talento linguistico dell’autrice. Ma questa è solo un’opinione personale.     

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