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La fontana del cavallo e il dio Ammone

6 Aprile 2019 , Scritto da Laura Nuti Con tag #laura nuti, #miti e leggende

 

 

 

 

Minerva, seduta in mezzo alle nuvole, osservava felice la vittoria del fratello Perseo: ormai il giovane eroe non aveva più bisogno di aiuto...

«Finalmente posso concedermi un po’ di riposo!» pensò la dea.

Si tolse l’armatura e l’elmo, depose a terra la lancia e lo scudo e indossò una semplice tunica; poi, avvolta in una nuvola cava, volò leggera sul monte Elicona, dove vivevano le nove Muse.

Le Muse erano divinità figlie di Giove e proteggevano le arti: Calliope, la poesia epica; Clio, la storia; Erato, la poesia amorosa; Euterpe, la musica; Melpomene, la tragedia; Polimnia, il canto sacro; Talia, la commedia; Tersicore, la danza e Urania, l’astronomia.

-  Benvenuta, cara amica nostra - disse Erato, rivolta a Minerva, che si accomodava la veste scomposta dal rapido volo, - A che cosa dobbiamo la tua gradita visita? -

- Sono venuta qui - rispose la dea dagli occhi azzurri - perché ho saputo che Pegaso, il cavallo alato, colpendo con uno zoccolo la roccia dell'Elicona, ne ha fatto scaturire una fonte –

-  È vero! Ed è una fonte magnifica, sacra alle ninfe! Vuoi vederla? – domandò gentilmente Calliope.

-  Ne sarei felice. Ho visto nascere quel cavallo ... È balzato fuori dal sangue di Medusa: quando mio fratello Perseo ha tagliato la testa del mostro, io gli stavo accanto e guidavo la sua mano! -

Allora Talia condusse la dea vicino alla nuova fonte di acqua azzurra e purissima, che sgorgava in mezzo a una foresta secolare. Minerva si chinò a bere, poi sedette all’ombra di un albero. Si sentiva rinascere: solo le sue nove sorelle sapevano darle quella pace, quella celeste armonia...

- Com’è bello qui, come siete fortunate ... - diceva la dea, guardandosi intorno.

- Anche noi abbiamo le nostre amarezze, cara sorella!  - rispose Clio - Ascolta, voglio raccontarti una storia accaduta poco tempo fa.

«Non lontano da questi sacri luoghi, abitavano nove fanciulle, figlie di re. Erano molto ricche e belle: vestivano abiti neri e bianchi, adorni di lunghi strascichi, che mettevano in risalto la loro snella figura. Però erano anche molto sciocche e orgogliose, per questo osarono sfidarci:

-  Gareggiate con noi, o Muse, se ne avete il coraggio! Abbiamo una voce bellissima, conosciamo tutte le arti e siamo nove, come voi. Le ninfe dei fiumi saranno i giudici della gara: se vinciamo, voi ci lascerete la sacra fonte creata da Pegaso, altrimenti noi vi daremo le più belle terre del nostro regno! -

Accettammo la sfida e la gara incominciò. Le ninfe giurarono di essere arbitri imparziali e si accomodarono su sedili di pietra. Allora una delle sfidanti si staccò dalle altre, acconciò la bella veste bianca e nera, dispose armoniosamente il lungo strascico e, accompagnandosi con la cetra, iniziò a cantare così:

Tifeo era il capo dei Giganti, tremende creature con lunghe code di serpente al posto dei piedi. Aveva grandi ali e cento teste; dalle sue cento bocche uscivano grida spaventose! Voleva prendere il posto di Giove, perciò decise di scalare l’Olimpo ...

Gli immortali, alla sua vista, fuggirono in preda al terrore; arrestarono la loro corsa solo quando giunsero in Egitto! Ma Tifeo li raggiunse anche in quei luoghi lontani ed essi, per nascondersi, si trasformarono in animali: Giove prese l'aspetto di un ariete, il capo del gregge (per questo Ammone, il grande dio di Tebe, ha la testa adorna di corna ricurve!); Apollo divenne un corvo, Diana un gatto, Giunone una bianca giovenca, Venere un pesce, Apollo un ibis dalle grandi ali ... Tifeo, furioso, dava loro la caccia ed essi, tremando, cercavano rifugio in grotte profonde!

 

 

 

 

 

 

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Animaletti

5 Aprile 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Non ci poteva credere. Crispin aprì del tutto i balconi e si sporse verso l'esterno, scrutando il marciapiede sottostante, tentando di scorgere qualcosa sotto i raggi arancione dei lampioni. Lentamente si ritrasse sconcertato. Era iniziato tutto poche ore prima, quando, per burla ed esperimento, aveva calato il filo di un qualche alimentatore nel bidone giallo, per osservare se avrebbero tentato la scalata e se sarebbero riusciti ad uscire. Tornò dall'altro lato della stanza esaminando le carte che stava sistemando, e dimenticando il resto per non più di 40 secondi – quando finalmente si volse, e vide che sul bordo del bidone giallo vi era Madre Snatura, la cicciobombola, che si guardava alle spalle con il suo sguardo malinconicamente ingordo, e vedendolo avvicinarsi per fermala, si decise finalmente a buttarsi e scappare lungo le pareti sotto qualche mobile. Era sorpreso dalla rapidità con cui aveva sfruttato l'occasione di fuga, lei, o almeno presumeva fosse una lei, ovvero la madre, che si era sempre dimostrata la meno audace, la meno coraggiosa e la meno attiva: eccetto quando si trattava di rubare il pranzo agli sfortunati figlioletti. Guardò nel contenitore e non vide movimenti. Dovevano essere tutti sotto il cartoncino che usavano come riparo. Lo alzò. Nessuno. Niente.

La Panciona doveva esser stata l'ultima: erano spariti tutti e quattro. Tutti e cinque, contando quello che era riuscito a scappargli quella mattina, arrampicandosi sul suo braccio, come avevano imparato a fare, dribblando la sua mano che si raccoglieva a fermarlo, sbucando tra indice e pollice, saltando sul bordo del bidone e poi gettandosi senza pressoché indugio, per saettare più veloce dell'occhio umano che aveva cercato di seguirlo, da qualche parte, forse fuori dalla stanza. Era straordinario.

Per fortuna non era il custode di qualche zoo. Quindi li sopportò per due ore mentre spuntavano ovunque, facevano capolino da dentro i cassetti, si arrampicavano fin sopra la porta seguendo l'anacronistico filo del suo antico modem d'antiquariato o d'anticagliato, spiavano da sotto le doghe del letto, quando non apparivano direttamente SUL letto e venivano a tormentargli le ascelle e fargli solletico alle costole per poi sparire precipitosamente non appena li squadrava scocciato, per poi tornare e leggere con lui qualche pagina del quadernone che reggeva. Di quello che era sparito durante la mattina, non aveva più trovato tracce. Ora stavano mordendosi vicendevolmente la coda scalando libri sugli scaffali e annusando qualsiasi cosa.

Decise infine che era ora di riprendere controllo della stanza, portò la trappoletta disfunzionale, da cui erano in grado di entrare ed uscire a piacimento, vi sistemò dentro una fetta biscottata sormontata da un'olezzante fettina di formaggio, e guardò la prima preda avvicinarsi, studiando, sniffando, circumnavigando prima di fidarsi ad entrare, iniziare a banchettare e farsi sorprendere dall'improvvisa calata dall'alto di una ciotola di plastica con cui lui ostruiva l'uscita – poi, tenendo premuta quest'ultima – si portava presso il bidone giallo, e lasciava saltassero giù. Riuscì tre volte consecutive senza problemi, aveva preso tutti i piccoli, ed era rimasta solo la Bombolona, ultima.

Data la mole, con lei fu ancora più semplice. Si spaventò molto. Lui tenne sospesa la trappoletta all'altezza dei propri occhi, tentando di rassicurarla e chiedendole se non vedeva, era lui, possibile avesse ancora paura? Decise per un cambiamento. Aveva esumato da una cantina, e lavato, la gabbietta di un criceto, con tanto di ruota, e voleva trasferire Madre Snatura lì, in maniera tale che la piantasse di rapinare pezzetti di pane dalla bocca dei supposti figli, e che facesse anche un po' di moto per bruciare i numerosi grassi in eccesso. Aprì la porticina, infilò dentro la trappoletta, e la Bombolona saltò fuori, dentro la gabbietta. Ma non si fermò lì. Con suo grande stupore proseguì la sua corsa OLTRE la sua nuova casa, riuscendo a infilarsi attraverso le sbarre, e lanciandosi oltre la fessura dei balconi. Aprì del tutto i balconi. Non era sull'estremità esterna del davanzale. Non era più da nessuna parte. Si era suicidata. Scese in strada sul marciapiede, ma non trovò nulla, seguito da un gatto annusante. Era amareggiato, e allo stesso tempo a una porzione di lui non spiaceva essersene liberato. Tornò a letto pensieroso, quando alla luce dell'abat-jour vide lo sciocchino che era fuggito la mattina. Lo catturò facilmente e lo inserì nel bidone giallo, insieme agli altri tre.

Stava pensando a quale sarebbe stata la morale se questa fosse stata una storiella. Forse di non spaventare un animaletto ansioso proprio mentre è sul davanzale di una finestra.

 

Continua...

 

 

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Paola Barbato, "Non ti faccio niente"

4 Aprile 2019 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni

 

 

 

Non ti faccio niente

Paola Barbato

 

Piemme, 2017

 

 

Conosco Paola Barbato da 20 anni, credo, da quando a pagina 4 di Dylan Dog gli autori annunciarono che avrebbero fatto un’eccezione all’utilizzo di sceneggiature inviate per il fumetto, (avvertivano chiaramente che i contenuti di quel genere sarebbero stati cestinati senza nemmeno aprirli per evitare spiacevoli ritorsioni legali da eventuali citazioni più o meno inconsce) proprio perché la giovane studentessa aveva inviato dei soggetti che era impossibile ignorare per la loro bellezza. In seguito l’ho sempre seguita da lontano, apprendendo che si era poi buttata nel genere del romanzo thriller, ma solo il mese scorso, complice Audible, ho deciso di ascoltare un suo romanzo, quello che peraltro aveva avuto tantissimi commenti positivi.

L’incipit del resto è intrigante a dir poco: in una ventina di anni una serie di bambini viene rapita in tutta Italia per 2-3 giorni da un uomo che li tratta bene, li lava, li veste, li fa giocare e poi li riporta a casa più felici che mai.  Il motivo va ricercato nelle famiglie dei sequestrati: sono tutti piccoli trascurati dai genitori in maniera più o meno grave e il rapitore sa che la loro assenza cambierà l’atteggiamento dei genitori verso di loro. Diciamo che già questo rovesciamento di prospettiva al primo capitolo è intrigante ma, al secondo, siamo ribaltati nuovamente, perché i figli di due dei ragazzini rapiti, ormai grandi e genitori a loro volta, vengono vigliaccamente uccisi. Che sia il primitivo rapitore a operare in questo modo, magari per punirli di qualcosa? No, perché lui ci viene introdotto al terzo capitolo, è un omone strano ma buono, non avrebbe mai fatto una cosa simile, anzi, quando si rende conto della sinistra coincidenza è il primo ad essere allarmato, perché intuisce che lo vogliono tirare in ballo affinché riveli la sua identità, o comunque si ponga in una situazione di pericolo.

E i bambini, direte voi, i bambini cresciuti, possibile che nessuno abbia fatto 2 + 2 e abbia intuito la doppia rete intessuta su quegli ormai storici rapimenti? Certo che si. Uno, particolarmente sveglio e senza figli, contatta altri suoi “fratelli”, come li chiama lui, sempre senza figli, che possano indagare. Perché, anche se non si sono riprodotti, forse non è il caso di stare troppo sereni, no? E la polizia, ora vi chiederete, la polizia che fa? Hanno tirato i fili, scorto le coincidenze, ricostruito gli avvenimenti, fatto supposizioni? Ma sì, ma sì, tranquilli, che hanno fatto tutto e ci stanno lavorando su. Anzi, le due poliziotte che sono costrette a lavorare insieme nonostante la scarsa reciproca simpatia, vengono descritte in maniera davvero spumeggiante con le loro storie, i loro tic, il rapporto conflittuale che viene messo da parte per lasciare spazio e respiro all'indagine.

Tutto questo ammasso di personaggi (bambini cresciuti, poliziotti nuovi sul caso, poliziotti vecchi che andarono, vecchio rapitore con compagna, nuovi bambini cresciuti con prole che viene puntualmente rapita e uccisa o narcotizzata) proseguono nel racconto come un’imponente falange macedone, cercando di non inciampare troppo nei colpi di scena e non rimanere avvolti nelle trame di un thriller che si fa sempre più complicato ma, ahimè, in questo la Barbato non riesce. Troppa, troppa carne al fuoco, non potendo uccidere tutti i personaggi che non ha più interesse a portare avanti, inizia a dimenticarli per strada, il dramma è che molla proprio le due poliziotte, a cui subentra un loro collega in pensione che aveva seguito il caso; nell'avvitamento totale a un certo punto dal cilindro deve sbucare un colpevole e, ovviamente, lo tira fuori ma proprio per il pelo, manco per le orecchie, la presa è poco salda e, infatti, rischia di sfuggirle via per tutto il tempo.

Alla fine ci troviamo di fronte una buona idea di base, sceneggiata in maniera troppo pesante e arzigogolata, e che perde di vista la credibilità nella svolta finale, troppo cervellotica e improbabile. Peccato, perché la scrittrice sa tenere benissimo la tensione. 

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Porchinstein

3 Aprile 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Sbarcò all'astroporto dove fu accolta da un entourage della CSK che la portò in un albergo a cinque nane gialle. Fu informata che Porchinstein era nella sua stanza e voleva vederla.

Vi fu condotta. Ora era faccia a faccia con il suo grugno.

«Eccoti cara» sbavò lui, divorandola con le fauci degli occhi, melliflui come piranha in uno stagno di miele.

«Hai avuto quello che volevi» disse avvicinandosi ulteriormente. «Forse è arrivato il momento di essere simpatica con me» aggiunse, tentando un sorriso soave, cosa che lo fece diventare ancor più un raccapricciante colabrodo di bave e acquolina.

Lei rimase impassibile. Lo guardò per qualche momento.

Poi proferì «Potremmo affrontare l'argomento dopo il mio discorso di debutto. Ora sono stanca e necessito di concentrazione. Per il bene della CSK. E della Inoculazione Universale.»

Lui deglutì. Rischiando di soffocare. O annegare. Tentò di controllarsi.

Diventò paonazzo. Esplose.

«Maledetto pesce! Ne ho abbastanza della tua ritrosia. Non è più tempo di contrattare.»

E accompagnò queste parole con un brusco movimento del braccio destro, che condusse la sua mano verso il collo, dove era presente un bottone, e quel bottone fu premuto e il premerlo produsse un'improvvisa apertura del suo vestito. Si ruppe a metà, e le due porzioni cominciarono a cadere lateralmente sul pavimento, rivelando una progressiva nudità.

Quell'essere era una discarica di pustole, verruche, foruncoli, ruvidi superfici epidermiche da cui spiccavano brancolanti tentacoli, tenaglie, ventose e chele. Il tutto innaffiato di abbondante muco e viscidume. Forse significava che era bramoso, se non smanioso.

«Sei meraviglioso, Orrido» gli sorrise lei con, non avrei dubbi, sincera ammirazione.

«Mi è davvero difficile resisterti, ma, come detto, sono molto stanca. È davvero il caso che vada» e s'indirizzò risolutamente verso la porta automatica bilaterale startrekiana.

«Credimi. Tu non stai andando da nessuna parte» ringhiò lui arrancando verso di lei. Ma inciampò goffamente sul vestito afflosciato ai suoi piedi, o zampe, la qual cosa concesse a Miss Inoculo tutto il tempo per raggiungere l'uscita con assoluta calma: poi, una volta nel corridoio, si girò a guardarlo. Si era rialzato, si era avvicinato con due occhi spaventosi e stava per uscir fuori anche lui – e del resto in parte lo era già.

«Beh, buonanotte caro. Mi raccomando, pensami» gli disse lei con semplicità, e premette un pulsante sulla parete.

La porta elettronica si richiuse con decisione sul tentacolo del signor Orrido Porchinstein.

 

Continua...

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Ada Tufano, "Nascosto al cuore"

2 Aprile 2019 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #recensioni

 

 

 

 

Nascosto al cuore

Ada Tufano

 

Giovane Holden Edizioni, 2017

 

 

- Ciao, Mario.
 

- Ciao, Walter.
 

- Mario, conosci Ada Tufano?
 

- No, chi è?
 

- Una scrittrice.
 

- Ah! E che ha fatto di speciale?
 

- Ha scritto un romanzo: Nascosto al cuore.
 

- E vabbè, mo scrivono tutti.
 

- Mario, non fare il critico, scrive chi ha qualcosa da dire, tu ha qualcosa da dire?
 

- Certo.
 

- E allora perché non scrivi?
 

- Perché non so scrivere, ma potrei sempre iniziare.
 

- Perderesti tempo, perché non sei nato per scrivere come Ada Tufano.
 

- Walter, non ti contraddico perché, nonostante siamo un popolo di artisti, di letterati, di inventori e di navigatori, ognuno, effettivamente, deve fare quello che tiene nel cuore... Forza, non cianciamo, parlami del libro di questa scrittrice.
 

- E' un bel romanzo d'amore, un po' pink, un po' noir, un po' giallo. Pensa, in qualche modo fa anche ridere e poi...
 

- E poi?
 

- E poi il lettore potrà anche trovarsi avvolto in una velatura misteriosa sessuale, del tipo "si vede ma non si vede".
 

- In che senso?
 

- Hai presente al mare? Se vedi una donna senza il pezzo di sopra non ti fa effetto, se la vedi con la maglietta bagnata la tua immaginazione comincerà a galoppare.
 

- A galoppare sulle onde del mare..
 

- Bravo, bella rima, non lo sapevo che eri un poeta.
 

- E' colpa delle cattive amicizie.
 

- Capisco... Forza, torniamo a Nascosto al cuore... Ora ti spiego... Questa è la storia di una donna nel vortice di una crisi esistenziale, in bilico su un filo, come una funambola, fra l'amore per Daniel, l'amicizia per Gena, una donna dal carattere spigoloso, e il dolore per la perdita della madre. Kate, la protagonista, durante un viaggio di lavoro, per una coincidenza, salva la vita a una donna, che si rivelerà amletica, e qui scatta l'atmosfera di mistero, succedono cose da film che inchioderanno il lettore alla poltrona.
 

- Come in un giallo.
 

- Sì, ma con sfumature noir.
 

- E quelle rosa?
 

- Sono alla fine.
 

- Come finisce?
 

- Non lo so, la scrittrice non me l'ha detto...
 

- Questa Ada Tufano mi piace, offriamole un caffè e facciamola parlare.
 

- Credo sarà difficile, possiamo sempre passare in libreria.
 

- E il caffè?
 

- Ce lo prendiamo adesso?
 

- Al solito bar?
 

- Sì ma la musica al juke box la scelgo io.
 

- Per fortuna questa recensione non è la solita musica.
 

Amici lettori della signoradeifiltri, il blog che ama le cose belle vi ha presentato Ada Tufano e il suo romanzo Nascosto al cuore e, mi raccomando, non cambiate canale, casomai girate pagina.

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L'oroscopo letterario di Aprile

1 Aprile 2019 , Scritto da Loredana Galiano Con tag #loredana galiano, #astrologia, #walter fest, #pittura

 

Aria di cambiamento e di novità aleggia nel cielo, si respira maggiore entusiasmo e passione, generosità e amore, ottimismo e benessere. Qualsiasi cosa state facendo, leggete il vostro oroscopo, si spalancano nuovi orizzonti per tutti i dodici segni zodiacali, e condividetelo con i vostri amici. Tra le righe del cuore trovate i grandi classici d’amore. Ad ogni segno vi sono pagine d’amore che non tramontano mai.

 

ARIETE: 21/3 – 20/4:  energia irresistibile

Buon compleanno a voi e alla splendida creatività che vi accompagna per tutto il tempo con Sole, Venere e Mercurio nel vostro cielo, siete inarrestabili, un vero e proprio vulcano di idee e di iniziative, un terremoto che farà tremare tutti quelli che vi sono vicini.

Johann W. Goethe “I dolori del giovane Werther”. Romanzo d’amore o piuttosto del desiderio d’amore, racconta la passione infelice e tragica del protagonista per l’affascinante Lotte, già promessa in sposa a un altro uomo.

 

TORO:  21/3 – 20/5:  ambizione e concretezza

Felice colui che ha trovato il suo lavoro”, scriveva Thomas Carlyle, la primavera vi porta questa consapevolezza per sentirvi ancora più motivati a un impegno serio e costante per raggiungere traguardi sempre nuovi e stimolanti.

Gabriele D’Annunzio “Il piacere”. Il primo romanzo di Gabriele D’annunzio e ancora oggi il più letto. Sullo sfondo di una Roma aristocratica, la vita tormentata, sul filo dell’eccezionalità e della corruzione, del giovane esteta Andrea Sperelli.

 

GEMELLI:  21/5 – 21/6:    troppo movimento

Il periodo si presenta frenetico sotto il profilo di incontri, occasioni mondane, riunioni, nuove conoscenze e nuovi interessi. Simpatia e brio vi accompagnano per tutto il periodo mentre Marte nel segno vi rende impazienti e iperadrenalinici. Forse è il caso di rallentare la corsa, come suggerisce Giove contrario.

David H. Lawrence “L’amante di Lady Chatterley”. Per il verismo con il quale racconta l’amore sessuale, per la critica aperta alle convenzioni, l’opera uscì “purgata" nel 1928. Sarà pubblicata in edizione integrale sono nel 1960.

 

CANCRO:  22/6 – 22/7:  tutti all’attacco

Vi sentite  sotto assedio e non avete tutti i torti dal momento che la maggior parte dei pianeti vi guarda storto. La buona notizia è che Nettuno vi regala leggerezza e immaginazione, sogni e fantasia, le uniche ancore di salvezza per questo periodo.

Francis Scott Fitzgerald “Il grande Gatsby” . L’età del jazz: luci, feste, belle auto. Ma dietro la tenerezza della notte si cela la sua oscurità, il senso di solitudine che può strangolare anche la vita più promettente.

 

LEONE:  23/7 – 23/8:   cento idee, mille progetti, diecimila gratificazioni

È primavera e vi sentite pieni di energie, grazie anche alle temperature più miti, siete pieni di slancio, pieni di idee, di iniziative. I vostri progetti non si contano più e sapete essere anche tenaci quanto basta per realizzarne buona parte.

Jane Austen “Orgoglio e Pregiudizio”. Le vicende delle cinque figlie di Mrs Bennet, tutte in cerca di un matrimonio adeguato, offrono l’occasione per tracciare un quadro frizzante della vita nella campagna inglese di fine settecento.

 

VERGINE:  24/8 – 22/9:   Urano è la vostra bussola

Il periodo vi sorride con uno smile gigantesco e vi permette di segnare non pochi punti a vostro favore. Avete fiuto, determinazione, intuito in quantità industriale. Nessun risultato vi destabilizza, un po’ di confusione certo, ma nulla vi sfugge.

Gustave Flaubert “Madame Bovary”. Assoluto capolavoro del romanzo moderno: Emma insegue l’amore tra le braccia dei suoi amanti e si indebita per riempire il vuoto della sua anima, vivendo al di sopra delle possibilità del marito.

 

BILANCIA: 23/9 -22/10:   profumo di sfide nell’aria

La primavera sembra mettervi alla prova, vi costringe ad agire, ad essere più prudenti, a mettere in pratica la vostra arte del compromesso, contando solo sul vostro equilibro interiore.

William Shakespeare “Romeo e Giulietta”. La più celebre e la più amata tra le opere dell’autore mette in scena la lotta tra le ragioni dell’odio e quelle dell’amore in un drammatico conflitto tra le generazioni.

 

SCORPIONE:   23/10 – 22/11:   il momento di fare progetti

Il quotidiano si colora di tinte vivaci, mentre siete alle prese con nuovi progetti e nuove ambizioni. Intelligenza e arguzia non vi mancano, ma al momento vi sentite spinti da una forza impetuosa che vi porta a rivedere il vostro spirito di squadra con i vostri colleghi.

Emily Bronte “Cime tempestose”. Una fosca vicenda di odi, di sadismo e di represse passioni, narrati con uno stile teso e corrusco spirante, fra i tragici fatti, una selvaggia purezza.

 

SAGITTARIO:  23/11 – 21/12:   primavera di fuoco

Partite all’arrembaggio di ogni azione e situazione senza guardare chi si mette sulla vostra strada per ostacolarvi. Siete sostenuti dalla determinazione, dall’ottimismo e dalla fortuna, prendete pura la rincorsa e ma volate basso, facendo attenzione.

Charlotte Bronte “Jane Eyre” . Un romanzo di acuta sensibilità psicologica, pervaso, forse per la prima volta nella storia della letteratura femminile, da un sottile sensualità.

 

CAPRICORNO:    22/12 – 20/1:  anche l’amore vuole la sua parte

Qualche tensione potrebbe turbarvi, forse quelle interiori o quelle familiari, che non vi danno tregua. Avete bisogno di rallentare un po’, di prendervi una pausa anche dalle vostre ambizioni.

Gabriel Garcia Marquez “L’amore ai tempi del colera”. Una storia d’amore e di speranza, un racconto di passione e di ottimismo; un’epopea romantica, uno sfrenato e travolgente inno alla vita e alla fantasia.

 

AQUARIO:  21/1 – 19/2:  teneri e dolci intese

La primavera è tutta dalla vostra e vi assicura cieli sereni, pianeti propizi e una comunicazione eccellente. Socievolezza e curiosità sono al primo piano, il vostro portafoglio è assicurato, mentre cercate stabilità e certezze.

Alessandro Manzoni  ”I promessi sposi”. Il primo romanzo moderno della letteratura italiana, che racconta il sentimento casto, puro e sincero di due giovani, Renzo e Lucia, il cui amore trionferà non prima di aver superato mille peripezie.

 

PESCI:  20/2 – 20/3:    voglia di certezze emotive

Con Nettuno nel vostro cielo la fantasia si scatena, l’immaginazione domina le vostre giornate, le emozioni avi accompagnano ogni ora, certo sentite il bisogno di punti fermi, ma nemmeno questi vi mancano!

Shakespeare: “Romeo e Giulietta”. Amore perfetto ma avversato dalla società. Non si tratta di un romanzo, eppure è innegabile che la contrastata relazione dei due giovani amanti di Verona abbia influenzato secoli di letteratura romantica.

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Babbo Naziale

1 Aprile 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Fu preso per il bavero e trascinato nel buio di un covo, una tana, un tugurio scuro che odorava di scarafaggi – la porta che si chiudeva prima che lui potesse formulare un pensiero coerente, ma del resto per formulare un pensiero coerente egli poteva impiegare interi minuti, se non ore, quindi ciò non era un riferimento molto utile per stabilire la velocità con cui l'uscio era stato nuovamente sbarrato.

In ogni caso ora lo era.

«Tu» sibilò un alito non del tutto sconosciuto, «Tu sei il figlio di Pyotr».

«Vecchio idiota, lo so che lo sono, lo so che sai che lo sono, e so chi sei e chi sono: non è un buon motivo per trascinarmi via dalla strada mentre cammino per i fatti miei».

Era Babbo Naziale.

«Shhhh, potrebbero sentirci»

«Ma chi»

«Gli annegazionisti» sussurrò strabuzzando gli occhi ed emettendo un risolino e un ululato, un fischio e uno schiocco.

«Basterebbe che ti adeguassi alle nozioni storiche ufficiali e non avresti problemi» rispose il figlio di Pyotr, spolverandosi dopo esser caduto a causa degli strattonamenti del vecchio.

Babbo Naziale era un sostenitore della teoria anti-olocaustica secondo cui la setta degli Abramoidi non era stata maciullata e tritata in massa attraverso macinacarne giganti per essere trasformata in würstel alla fine della Seconda Guerra Interstellare – la qual cosa, nell'ambito di una società comunque democratica e fondata sulla libertà di espressione, era considerata un'eresia sanzionabile con lo stritolamento dei testicoli. Chi sosteneva che gli Abramoidi non avessero sofferto quello che avevano sofferto, e che del resto non potevano non aver sofferto perché altrimenti non si spiegava il perché avessero sofferto, era considerato un Naziale. I Naziali erano coloro che avevano obbedito a Dark “Adolf” Vader, detto Führer, e sguinzagliato i dobermann della guerra nella galassia, trasformandola in un cruento grumo di sangue che aveva schizzato e imbrattato le pareti del cosmo.

Le spese per ripulire erano state enormi. Ecco perché le Imprese di Smacchiatori erano tra le maggiori sostenitrici della guerra. Ad ogni modo, i Naziali ce l'avevano in particolare con gli Abramoidi, che, come recitava la Storiografia Ufficiale, erano finiti nei tritacarne – per essere sminuzzati fino all'estinzione. Negare questa verità, che veniva, per qualche motivo, costantemente ribadita attraverso ologrammi filmici, videogiochi letterari, fumetti tridimensionali e sculture interattive, nonché iniziative commemorative e culturali come La Giornata del Guai a Te se lo Scordi!, era come dichiararsi razzisti anti-Abramoidi, sostenitori del loro annientamento, la qual cosa era ormai uno dei peggiori insulti e motivi di emarginazione sociale, specie negli ambienti culturali, persino peggio che avercela con i Nettuniani, o i Marziani, o i Saturnini, o tutte e tre le cose insieme. Era più o meno al livello della infantofilia, ma con in più connotati politici, filosofici e di Adesione Metafisica al Male Assoluto, laddove, in definitiva, per quanto compissero uno degli atti peggiori del mondo,  gli stuprinfanti erano solamente dei disgustosi, rivoltanti debosciati che seguivano istinti snaturati, belve dai cervelli divorati da vermi – non assaltavano alcuna visione del mondo, alcuna gerarchia di idee - o forse era perché nella classe dominante c'era del resto una ben protetta porzione di loro, soprattutto attorno a Betelgeuse.

E Babbo Naziale era, come forse intuibile, proprio un Naziale. O, ad ogni modo, così veniva considerato in virtù della sua posizione in conflitto con la Storia Ufficiale. Si poteva fare scelta più sconsideratamente scellerata, e più scientificamente appropriata, se lo scopo era il suicidio sociale?

Ma lui era così. E somigliava a Babbo Natale. Aveva questa morbida barba bianca da cui spuntavano rubiconde gote paffute e un bonario sguardo ridente. Era certamente il Naziale più grazioso e rassicurate del circondario, se non della contea. Era anche, per qualche motivo, vestito con un tutù, dalla cintola in giù, e saltellava irrequietamente di mattonella in mattonella, di mobile in mobile, di balzo in balzo, il prominente ventre leggiadramente sobbalzante.

«Non posso smettere, è così divertente – così divertente!» cinguettava alacremente.

Il figlio di Pyotr lo guardava con l'espressione di qualcuno che s'era appena versato del latte cagliato nella tazza.

«Seriamente. Come puoi sostenere ciò che sostieni? È comprovato che esistono contratti con i fornitori dei Tritacarne Giganti, i Trytzon B – cosa se ne facevano?»

«I Tritacarne Giganti erano stati forniti a tutti i Campi di Abramocentramento, compresi quelli ufficialmente non considerati di tritamento. Quindi, come può costituire una prova di Abramicidio di massa? »

«Ma c'è il Verbale Fuhrioso dell'Incontro di Uanseh, in cui si parla esplicitamente di Tritamento Finale, come soluzione al problema Abraimico»

«E, dove, in quel documento, il Tritamento Finale viene definito come sminuzzamento degli Abramoidi?»

«Ebbene, cos'altro può significare? Non mi pare il caso di fingere non sia chiaro: si tratta di minuto squartamento dei Nasopotati[1] – operazione che spesso risulta letale per l'organismo»

«Orbene, figliolo, nel contesto dei documenti interni dell'Impero del Male Assoluto, il Tritamento Finale non era altro che l'ultima macellazione di carni (di infima qualità) con cui farli pasteggiare prima di catapultarli definitivamente su Endor, pianeta vegetale vegetariano. Dark “Adolf” Vader aveva tre pallini: disfarsi degli Abramoidi, sottomettere l'Universo e diffondere la dieta vegetariana. E lì voleva confinarli.  C'è scritto nei documenti imperiali certificati ed esaminati dalle Commissioni di Giustizia contro il Nazialismo istituite dopo la sua disfatta.»

«L'ammissione di colpevolezza del luogotenente Horst Tappert...»

«Ottenuta con la tortura»

«Ho capito. Hai una risposta ingannevole per ogni obiezione ragionevole. Ma puoi dire quello che ti piace e tentare di farmi credere quel che preferisci. Perché, del resto, io stesso non conosco approfonditamente l'argomento. Ma lo conoscono gli Espertoni. E quindi perché dovrei fidarmi di te, invece che di loro? Sono un'intera comunità di persone che ha studiato la faccenda per anni condividendo le stesse conclusioni. Tu sei una singola persona, socialmente emarginata, derisa, dalla dubbia preparazione. Quindi, ripeto, perché dovrei fidarmi di te?»

«Potresti  metterla in quest'altro modo: perché dovresti fidarti di chiunque?» rispose lui, mentre roteava sulla propria stessa testa sogghignando.

 

Quella notte il figlio di Pyotr sognò la cantina di casa. Era uno dei suoi sogni ricorrenti. Ma ogni volta la cantina era diversa. Come al solito vi si accedeva da un comparto separato, in fondo al laboratorio di suo padre. Spesso nel sogno c'era anche lui, con i suoi attrezzi, i suoi lavori misteriosi, i suoi utensili incomprensibili. E ogni volta il numero di piani attraverso cui si poteva scendere era differente, l'estensione e la forma delle stanze umide e diroccate variava, così come le sue nicchie, i suoi passaggi, i suoi varchi. Era un luogo indecifrabile, forse un po' inquietante, ma al medesimo tempo in esso si sentiva più protetto che in pericolo. Nascosto al mondo.

 

 


[1]    Era un modo popolare di chiamare gli Abramoidi, dovuto ad una loro pratica religiosa che richiedeva la potatura della punta del naso

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Bei ricordi della “tolleranza repressiva”, come la chiamava Marcuse

31 Marzo 2019 , Scritto da Guido Mina di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #storia

 

 

 

 

Di Guido Mina di Sospiro – pubblicato nell’originale inglese da New English Review, tradotto in italiano da Patrizia Poli.

 

Il contesto: l’Italia durante gli anni di piombo nei secondi anni settanta.  

 

La situazione: dopo la seconda guerra mondiale, si era creata una tregua camuffata da pace; l’Italia era riuscita a rimanere nell’Occidente, ed era divenuta un membro della NATO. La sinistra italiana non poteva accettare questa realtà, né poteva farlo il blocco sovietico. Ma il boom economico degli anni cinquanta e sessanta aveva distrutto qualsiasi speranza realistica di una rivoluzione marxista. Con l’economia che peggiorava nei tardi anni sessanta, e poi con la crisi del petrolio, la sinistra, i sindacati di sinistra, e la sinistra extraparlamentare cercarono tutte di trarre vantaggio dalla situazione. A suon di picchetti, scioperi, dimostrazioni sempre più frequenti e tumultuose, edifici occupati, e di tutti i mezzi a loro disposizione, un certo numero d’italiani, ingenui ma duri, si persuasero che il destino dell’Italia fosse nelle loro mani piuttosto che in quelle delle due superpotenze e dei loro alleati. Perciò, fecero tutto quanto poterono per realizzare una rivoluzione marxista. I simpatizzanti dell’estrema sinistra – i radicali, quelli che tiravano bombe Molotov e facevano fuoco durante le dimostrazioni – e i terroristi in piena regola, decisero di prendere una scorciatoia, e si dettero alla lotta armata, trasformando le principali città della nazione in zona di guerra.

 

Tali convulsioni riaccesero la miccia, e cominciò così la “strategia della tensione” - con bombe presumibilmente esplose da agenti italiani (ma non necessariamente), i quali seguivano l’agenda delle organizzazioni straniere o dei governi che non comparivano (“stay-away-gornments”).

 

Logistica dell’autore: giusto nel mezzo di tutto ciò, da ragazzo, nel liceo più caldo di Milano.

 

Il nuovo anno scolastico poteva cominciare trionfalmente, con uno sciopero, seguito da un’assemblea generale.

 

Il liceo scientifico Leonardo da Vinci era dotato di quella che oggi è conosciuta come la sala dei congressi della provincia di Milano, un auditorio che accoglie cinquecentoventicinque ospiti ma, allora, con sedili più striminziti, di più.  Era sottoterra, proprio sotto la scuola. Gli attivisti politici lo avevano requisito, e trasformato nell’aula magna delle loro assemblee generali.

 

Io saltavo le assemblee ogni volta che le circostanze me lo permettevano, ma era prudente non saltarle tutte, poiché eravamo osservati dalla Psicopolizia (per usare il termine coniato da Orwell in 1984), e un saltatore seriale poteva essere un qualunquista o, peggio ancora, un apolitico, passi falsi entrambi.

 

I relatori alle assemblee avevano preso a cuore la massima latina repetita iuvant. Erano i leader o rappresentanti di vari gruppi di ultra sinistra, come Movimento Studentesco, Lotta Continua, Il Manifesto, Avanguardia Operaia e altri, oltre alla Federazione Italiana Giovani Comunisti.

 

Il primo oratore esprimeva sdegno per questo o quello (di solito qualcosa di molto topico, che interpretavano come una provocazione fascista o borghese),  quindi giurava sostegno alla tale o talaltra causa, e finiva con un elettrizzante incitamento a combattere per tutti i compagni. Dopo un applauso non proprio fragoroso, l’oratore successivo esprimeva sdegno per questo e quello (lo stesso argomento del suo predecessore), poi giurava sostegno alla tale o talaltra causa, e finiva con un elettrizzante incitamento a combattere per tutti i compagni. Dopo un applauso ancor meno fragoroso, l’oratore successivo esprimeva sdegno per questo e quello, (lo stesso argomento del suo predecessore / dei suoi predecessori), poi giurava sostegno a questo e quello, e terminava con un eccitante incitamento a combattere per tutti i compagni. Siccome c’erano diversi gruppi di ultra sinistra, ogni capo rappresentante sentiva che fosse suo dovere politico parlare, così il tutto andava avanti per ore.

 

Ogni tanto, un roboante “Lenin-Stalin-Mao-Ze-tung!” si frapponeva (per darci la sveglia?); suonava sia ideologicamente appropriato sia ritmicamente accattivante.

 

Se qualcuno fuori dei ranghi esprimeva un modicum di dissenso, gli o le veniva istantaneamente urlato “boo”, e gli o le veniva tolto dalla bocca il microfono altrettanto velocemente. Se qualcuno esprimeva dissenso effettivo, un accadimento molto ma molto più raro, che da solo valeva la partecipazione all’assemblea, veniva pestato a sangue. E perciò l’armonia regnava suprema nell’aula magna durante tali maratone di libertà di parola.

 

Quando questa particolare assemblea terminò, lasciai l’aula tutto anchilosato e, come se mi stesse aspettando, m’imbattei in Fletcher (un attivista di estrema sinistra che alla fine diventò un terrorista a tutti gli effetti e che, per ragioni che non capivo, visto che di certo non lo avevo mai incoraggiato, aveva deciso che mi avrebbe fatto da mentore in questioni rivoluzionarie). Avevo cercato di stargli lontano dopo la sua lezione sulle molteplici categorie umane che dovevano essere spazzate via per poter ottenere l’ideale società marxista senza classi, ma inciampare l’uno nell’altro di quando in quando sembrava inevitabile.

 

 “Ehi, compagno!” disse.  

 

 Ancora quell’appellativo. “Ehi, come stai?” risposi.

 

 “Sto bene – ma sono preoccupato.”

 

 “Oh, no! Per cosa?” chiesi, mostrandomi interessato.

 

“Può darsi che ci siano dei neofascisti nei gabinetti,” disse indicandoli. “Vai a controllare, compagno, e fammi sapere cos’hai scoperto.”  

 

“Vacci tu,” pensai, ma invece mi sentii dire: “Consideralo fatto,” e all’interno dei gabinetti marciai stoicamente.

  

Non si muoveva una foglia, e comunque a dire il vero non ce n’erano. I gabinetti erano piuttosto grandi. Mi sarei preso tutto il tempo per ispezionarli. Non avevo paura, ero piuttosto sul riflessivo, forse come risultato della stimolante assemblea alla quale avevo partecipato.

 

Nei gabinetti c’era puzza di urina e di quell’altra secrezione umana; inoltre, altra cosa prevedibile, non c’era traccia dei fantomatici neofascisti.

 

Quando uscii, trovai Fletcher esattamente dove lo avevo lasciato. “Allora?” mi chiese, ansiosamente. 

 

“Non c’è nessuno lì dentro,” dissi. “I neo fascisti se la sono squagliata. Che peccato, compagno.”

 

Mi riservò lo stesso sguardo dell’insegnante compiaciuto dei progressi del suo allievo.

 

Mentre tornavo a casa, a piedi, poiché i mezzi pubblici erano spesso inutilizzabili per via degli scioperi, fui fermato dalla polizia. Niente d’insolito in questo; succedeva tutti i giorni, a volte anche due volte al giorno.

 

La polizia e i carabinieri come categoria erano uno strano gruppo. Molti venivano dal mezzogiorno rurale e poverissimo, dove la scelta era fra arruolarsi o morire di fame. Avevano subito un acuto shock culturale mentre, nello stesso tempo, erano già traumatizzati. Esili, bassi, spaventati, confusi, e di solo pochi anni più grandi di noi, o in alcuni casi ragazzi come noi, ci odiavano perché, a differenza di loro, ci stavamo facendo una cultura (insomma, di tanto in tanto); perché non eravamo contadini; e perché parlavamo italiano senza il loro pesante accento, del quale erano diventati acutamente consapevoli, poiché a casa parlavano esclusivamente nel dialetto del loro paese d’origine, e di cui erano ora imbarazzati. Ci percepivano come esseri privilegiati di un altro universo, il che non faceva che fomentare il conflitto di classe e il razzismo. Ad esempio, il termine usato da molti settentrionali per definire i meridionali era terroni, termine tanto offensivo quanto nigger in America; i poliziotti e i carabinieri l’avevano sentito raramente o addirittura mai quando vivevano ancora nel mezzogiorno. 

 

E c’era di più, la cosa più importante di tutte – il sospetto strisciante che dovevano provare di essere dalla parte sbagliata delle barricate: anche loro erano proletari, forse erano i veri proletari ma, durante le dimostrazioni, dovevano sopportare la furia distruttiva di una moltitudine di militanti invasati, e per poche lire.

 

Nessuna meraviglia, quindi, se la polizia e i carabinieri erano abbattuti e attoniti allo stesso tempo. Non c’era possibilità che potessero contrastare ogni reato, e ciò comportava che la criminalità comune prosperava. E, - ci credereste? – non amavano affatto la gioventù. Si basavano sull’equazione: giovane maschio abile, capelli lunghi, blue jeans = più che sospetto. La cosa arrivava fino a ciò che oggi si chiama “profiling razziale”, un serio passo falso nel decalogo della correttezza politica. A quei tempi la correttezza politica significava che ti avrebbero sparato alle gambe invece che al petto, come gentile avvertimento che t’inducesse a desistere dalle tue attività. Tali attività potevano consistere nell’esprimere il tuo dissenso come professore d’università, investigare alcuni compagni-che-sbagliavano come giudice, o ficcare il naso dove non dovevi come giornalista. Molta di questa gente veniva gambizzata (sparata nelle gambe), mentre altrettanti venivano direttamente ammazzati.


Io, e decine di migliaia di altri ragazzi della mia età, subivamo il profiling razziale giornalmente. Ecco perché la polizia fermava me e la mia criniera ondulata, talvolta puntandomi una mitraglietta, chiedeva la mia carta d’identità, e poi mi faceva aspettare per una mezz’oretta. Inoltravano via radio i miei dati al quartier generale per vedere se ero o meno su qualche loro lista nera. Nel frattempo, mi prendevano in giro nel loro accento pittoresco, e parlavano fra loro in un dialetto per me misterioso, sperando che reagissi in qualche modo. Qualunque cosa avessi detto diversa da “Sì, signore” o “No, signore” avrebbe dato loro un pretesto per arrestarmi e trascinarmi fino alla più vicina stazione di polizia per accertamenti, ovvero ulteriori investigazioni. Ben addestrato dalla Psicopolizia dell’estrema sinistra, tuttavia, riuscivo sempre a rimanere calmo. Alcuni amici e mie conoscenze non erano altrettanto composti e, portati in qualche stazione, sperimentavano la loro parte di brutalità poliziesca, sebbene non avessero fatto alcunché.

 

Perché non mi tagliavo i capelli? Perché, in quel caso, i militanti dell’estrema sinistra mi avrebbero potuto scambiare per un neo-fascista, e mostrare ancor meno civiltà della polizia. I capelli corti erano un altro passo falso del decalogo. La scelta era fra essere vessato dalla polizia o finire col cranio fracassato. Era più sicuro sembrare un attivista di sinistra.

 

***

 

 

The context: Italy during the Years of Lead in the 1970s.

 

The situation: After WWII, a truce-camouflaged-as-peace had come into being; Italy had managed to remain within the West, and had become a member of NATO. The Italian Left could not accept this reality, nor could the Soviet Bloc. But the economic boom of the 1950s and of the 60s had thwarted any realistic hope for a Marxist revolution. With the economy worsening in the late 1960s, and then with the oil crisis, the Left, Leftist trade unions, and the extra-parliamentary Left all tried to take advantage of the situation. By dint of picket lines, strikes, ever-more frequent and tumultuous demonstrations, occupied buildings, and all the means at their disposal, a number of Italians, naïve but tough, became persuaded that Italy's destiny was in their hands rather than in those of the two superpowers and their accessory allies. Accordingly, they did all they could to bring about a Marxist revolution. Ultra-Left sympathizers—the radical ones among them, those who threw Molotov cocktails and fired guns during demonstrations—and full-blown terrorists decided to take a shortcut, and engaged in armed struggle, turning the country's major cities into a warzone.

 

Such convulsions reignited the fuse, and the "strategy of tension" began—with bombs going off presumably exploded by Italian agents (but not necessarily) carrying out the agenda of foreign organizations or stay-away governments. In other words: if no revolution had been so tenaciously and so stubbornly pursued, in all likelihood the Years of Lead would not have happened. Then, with the fall of the Berlin Wall and with the falling apart of the Soviet Union, the elements of friction would have gone missing altogether, as they did.

 

Logistics of the author: right in the midst of it all as a teenager in Milan's most hazardous high school.

 

 

The new academic year could now commence triumphantly, with a strike followed by a general assembly.

 

The Leonardo da Vinci High School was graced with what is now known as the Congress Hall of the Milan Province, an auditorium that accommodates five hundred and twenty-five guests but then, with skimpier seats, more. It was underground, right beneath the school. Political activists had possessed themselves of it, and turned it into the official great hall for their general assemblies.

 

I used to skip assemblies whenever circumstances allowed me to, but it was judicious not to skip them all, as we were being watched by the thought police, and a serial-skipper may well be an anythingarian or, worse yet, an apolitical element—faux pas both.

 

Read more in New English Review:

• The Insidious Bond Between Political Correctness and Intolerance

• The Battling, Baffling Watergate Editor

• Our Irrepressible Conflict

 

Speakers at the assemblies had taken the Latin maxim repetita iuvant (repeating does good) to heart. They were the leaders or representatives of various ultra-left groups, such as Students’ Movement, Continuous Struggle, The Manifest, Working Class Avant-Garde and others, as well as the Federation of Italian Communist Youth.

 

The first speaker would express outrage at this and that (usually something very topical, possibly what they interpreted as a fascist or bourgeois provocation), then pledge support to so-and-so, and end with a rousing incitement to all comrades to fight on. After not-so-thunderous applause, the next speaker would express outrage at this and that (the same topic as his predecessor), then pledge support to so-and-so, and end with a rousing incitement to all comrades to fight on. After even-less-thunderous applause, the next speaker would express outrage at this and that (the same topic as his predecessor[s]), then pledge support to so-and-so, and end with a rousing incitement to all comrades to fight on. As there was quite a number of ultra-left groups, each chief representative felt that it was his political duty to speak, so this went on for hours.

 

From time to time, a loud “Lenin-Stalin-Mao-Ze-dong!” would be interposed (as a wake-up call?); it sounded both ideologically appropriate and rhythmically fetching.

 

If somebody from outside the ranks expressed a modicum of dissent, he or she was instantly booed, with the microphone being removed from their lips just as quickly. If somebody expressed actual dissent, a far, far rarer occurrence which alone was worth attending the event for its entertainment value, he was beaten unconscious. That was why harmony reigned supreme in the great hall during these marathons of free speech.

 

As this particular assembly came to an end, I left the hall feeling stiff in the joints and, as if he were waiting for me, I stumbled upon Fletcher (an ultra-left activist who eventually turned into a full-fledged terrorist and who, for reasons I could not understand since I certainly had never encouraged him, had decided that he would be mentoring me in revolutionary matters), I’d been trying to stay away from him after his lecture about the many categories of human beings that needed to be swept away in order to achieve the ideal Marxist classless society, but bumping into each other from time to time seemed unavoidable.

 

“Hey, comrade!” he said.

 

That appellation, again. “Hey, how are you?” I replied.

 

“I’m good—but worried.”

 

“Oh no! About what?” I asked, looking concerned.

 

“There may be neo-fascists in the restrooms,” he pointed at them. “Go check them out, comrade, and let me know what you’ve found.”

 

"You’re quite welcome to go yourself," I thought—but heard myself say, “Consider it done,” and into the restrooms I did march.

 

Nothing stirred. The restrooms were sizable. I’d take my time to inspect them. I was not afraid, but in a meditative mood, perhaps as a result of the stimulating assembly I had just sat through.

 

In the restrooms it reeked of urine and of that other human excretion; also predictably, there was no trace of the phantasmal neo-fascists.

 

As I exited, I found Fletcher exactly where I’d left him. “So?” he asked, anxiously.

 

“There’s no one in there,” I said. “The neo-fascists got away. Too bad, comrade.”

 

He looked at me like a teacher pleased with his pupil’s progress.

 

On my way home on foot, as public transportation was so often unavailable due to strikes, I was stopped by the police. Nothing unusual in that; it happened every day, sometimes twice within the same day.

 

The police and carabinieri as a category were a funky lot. Most of them came from the rural and impoverished south, where their choice had been between enlisting and starving. They were undergoing acute culture shock while at the same time they were already shell-shocked. Skinny, short, frightened, in a daze and only a few years older than we were, or in some cases teenagers like us, they hated us because, unlike them, we were getting an education (well, on and off); because we were not peasants; and because we spoke Italian without their heavy accent, of which they had become acutely aware, since at home they spoke almost exclusively in the dialect from their town of origin, and by which they were embarrassed. They perceived us as privileged beings from another universe, which only fomented class conflict, and racism. For example, the word used by many northerners to call southern Italians was terroni, as offensive as the N-word in America; policemen and carabinieri had never heard it as much, or even at all when they were still living in the south.

 

And there was something else, which topped it all—the sneaking suspicion they must have felt that they were on the wrong side of the barricade: they too were proletarians, in fact they probably were the real proletarians but, during demonstrations, they had to endure the destructive wrath of a multitude of possessed militants, and for a pittance.

 

No wonder, then, if the police and carabinieri were overwhelmed and stupefied alike. There was no way that they could address every violation, which entailed that ordinary criminality thrived. And—wouldn’t you know it?—they didn’t like young people one bit. They went by the equation: young, able-bodied male, long hair, blue jeans = more than a suspect. That amounted to what today is called racial profiling, a very serious faux pas in the scale of political correctness. Back then political correctness meant that you’d be shot in the legs rather than in the chest as a polite warning to desist from your activities. Such activities could be voicing your dissent as a university professor, investigating some comrades-who-make-mistakes as a judge, or sticking your nose where it didn’t belong as a journalist. Many such people were gambizzati (“legged”, shot in the legs), while as many were killed outright.

 

Read more in New English Review:

• Skewed Projection in a Broken Mirror

• The Revolution of Evolution

• Days and Work (Part One)

 

I, and tens of thousands of other kids my age, experienced profiling on a daily basis. That was why the police stopped me and my mane of wavy hair, sometimes at gunpoint, asked for my ID, and then made me wait for about half an hour. They’d radio in my data to headquarters, and see whether or not I was on some black list of theirs. In the meantime, they would mock me in their colorful accents, and speak in dialect among themselves, which I couldn’t understand, hoping for some reaction from me. Anything I’d say other than “Yes, Sir,” or “No, Sir,” would prompt them to arrest me and whisk me to the nearest police station for accertamenti, further investigations. Well-schooled by the ultra-left thought police, however, I always managed to keep calm. Some friends and acquaintances of mine were not as collected and, taken to some station, they experienced their share of police brutality although they had done nothing.

 

Why didn’t I cut my hair short? In that case, ultra-left militants might have mistaken me for a neo-fascist and they would have shown less civility than the police. Short hair was yet another faux pas from the decalogue. The option was between being harassed by the police or ending up with a crushed skull. It was safer to look like a left-leaning activist.

 

 

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Miss Inoculo II

30 Marzo 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Miss Inoculo, splendore della notte. Mi sposti e rimesti come un relitto nell'oceano.

Mi sciacqui e lavi di desideri e ricordi. Mi spezzi a poppa e a prua. Ghermisci le mie vele e le soffi verso il sole. Vuoi forse vedermi bruciare? Tessi nuvole di zucchero filato in cielo, e lo dipingi terso e incontaminato. Come l'ho immaginato. Com'era in un tempo lontano privo di turbamenti. Ora le menti si turbano. Ora son turbe di pensieri oscuri, invocati da un mondo di tenebra. Ora son turbolente nubi di procelle scagliate contro i galeoni della bellezza.

 

Leggeva la corrispondenza, la posta dei suoi ammiratori, ammaliati dal suo viso, dai suoi riccioli, dalle sue fossette. Dalle sue squame.

 

Miss Inoculo, quando sono nel reparto ortofrutta, penso sempre a te.

 

Alcuni forse più dal suo corpo.

 

Era in viaggio verso la prossima destinazione, nel suo tour promozionale per la CSK, e la sensibilizzazione verso la Inoculazione, nonché la promozione della Inoculazione contro la Inoculazione.

 

Miss Inoculo, vorrei inocularti tutto il mio siero.

 

Tutti volevano pezzi di lei, o la volevano a pezzi, come il direttore della CSK, Porchinstein.

L'aveva fatta eleggere solo per quello. Per averla. La votazione del pubblico era solo una farsa.

Lei aveva fatto intendere che dopo l'incoronazione si sarebbe concessa. Era un bluff.

Voleva solo raggiungere il suo obiettivo. Ora avrebbe dovuto affrontarlo.

Le lettere che riceveva dagli ammiratori variavano da manifestazioni rigurgitanti di lussuria, a passionali dichiarazioni, da ridondanti espressioni romantiche che nascondevano meri impulsi primari, a goffaggini sgrammaticate a malapena comprensibili. Poi c'erano i visionari e i disperati, e i disperati visionari: per cui era uno schermo su cui proiettare le loro fantasie di salvezza.

 

L'alba sorge con lo schiudersi delle tue palpebre, nel sole dei tuoi occhi.

 

Costui probabilmente scriveva dalla galassia di Tattoine, se non era stata definitivamente detonata dall'Impero del Male. O da quello del Bene.

 

So che se ti incontrassi, la disperazione si dissiperebbe come nebbia, e potrei trovare la forza di vivere. Questo è il potere che hai su di me. Per favore, usalo bene. Rispondimi, e uno spiraglio fenderà la mia notte. Sei la mia unica speranza. Giacché percepisco la tua purezza. Giugno è il mese preferito del tuo calendario. Cordiali saluti.

 

Ad ogni modo, sperava fosse sito in una galassia davvero lontana lontana. Nella gamma delle specie che l'assediavano, questo esempio si poneva all'estremo opposto di Porchenstein. Se per quest'ultimo lei era solo un pezzo di carne, o di pesce, da consumare e su cui sfogare le proprie pulsioni bestiali, per l'Uomo di Tattoine o Simili, lei era un essere etereo, intoccabile, ma dotato di tutte le virtù metafisiche in grado di sciogliere quel nodo che gli legava la testa e stringeva la psiche in qualche morsa incomprensibile. Le facevano entrambi paura, in modo diverso. Porchinstein anche un po' schifo, in effetti. L'Uomo di Tattoine pena. Ma entrambi costituivano un assedio. Il secondo, con l'attribuzione taumaturgica, l'affardellava di una responsabilità che non poteva essere sua, e che non poteva essere vera. Lei, forse, poteva sembrare una creatura speciale, in virtù della grazia irradiata dal proprio aspetto, ma era solo una normale, ordinaria sirena. E aveva una missione da cui non poteva essere distratta.

 

Continua...

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"Parlami di te"

29 Marzo 2019 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni, #cinema

 

 

 

 

Parlami di te

Hervé Mimran, 2018

 

Brutta commedia pasticciata questa di Hervé Mimran, che spreca il buon Fabrice Luchini per raccontare non si sa bene cosa, pare la vera storia di Christian Streiff, ex CEO di Airbus e del gruppo PSA, il quale ha scritto un libro che è, come riporta Wikipedia, “un’autobiografia nel quale racconta la sua malattia e la lenta convalescenza”. LENTA. Perché riprendersi da due ictus susseguitisi in una manciata di ore senza soccorso medico richiede tempo, non certo il mesetto scarso mostrato nel film, in cui il protagonista, afflitto da afasia fluente a seguito della patologia (significa che produce frasi con ritmo e intonazione nella norma ma composte da parole disconnesse tra loro per significato e sintassi rendendo il discorso poco o non comprensibile), liquida la sua convalescenza con un paio di sketch basati su giochi di parole tradotti anche decentemente in italiano e poi, sulle sue gambe, torna a casa. E si limitasse a questo, potremmo anche accettarlo. La sospensione dell’incredulità decide di suicidarsi quando, sempre nel giro di pochissime settimane, con l’aiuto di un’ortofonista, sceglie di partecipare a un importante salone espositivo enunciando il suo discorso da CEO con grande successo. Partono gli applausi, le congratulazioni, le pacche sulle spalle e un bel licenziamento in tronco comunicato anche con fastidio perché le multinazionali sono tutte fatte da persone cattive e insensibili contro i disabili volenterosi. E poi è il karma, no? Dall’inizio mostravano Luchini come un animale da profitto e sfruttamento, che a malapena si occupava della figlia nonostante una moglie morta atrocemente, di cui conservano ancora il letto di morte come un mausoleo (anche questo, come si dirà in seguito, intuito da un’inquadratura mostrata un attimo senza un commento, un’interazione tra gli attori, una spiegazione, nulla), scontroso con tutti, che non dice mai grazie. E allora tiè, così impari. Francamente tra i manager e il regista non saprei dire chi è il più cinico. In tutto ciò Mimran pensa bene di buttare a casaccio la storia dell’ortofonista che ricerca la sua madre biologica, la sua storia d’amore con l’infermiere a metà tra il simpaticone e il ritardo mentale lieve e, ovviamente, di lasciarle mezzo in sospeso, con intermezzi di pochi minuti che dovrebbero farci intuire epiloghi scialbi e muti, senza un briciolo di introspezione psicologica, insoddisfacenti e francamente inutili nel contesto. L’ultimo terzo del film è semplicemente insopportabile per i dialoghi, lo sviluppo della trama, il mutare dei rapporti tra i protagonisti, indegni anche di una sceneggiatura di un cartone per bambini della materna. Il film, quindi, che in una scena pensa bene di strizzare l’occhio a Quasi amici rendendo ancora più evidente l’abisso tra i due film, sempre che ce ne fosse bisogno, è una banalizzazione quasi offensiva del percorso di riabilitazione psicologica e fisica di chiunque abbia subito un grave sconvolgimento della propria esistenza per motivi di salute. Nemmeno oso un accostamento con Lo scafandro e la farfalla, perché andrei nel penale. Comunque, alla fine il protagonista impara a dire “grazie”. Non lo avreste mai immaginato, eh?

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