Patrizia Poli, "Signora dei filtri"

Signora dei Filtri
Patrizia Poli
Marchetti Editore, 2017
Singolare romanzo, romanzo colto, intenso, rivisitazione del mito attraverso un’esplorazione anche di tipo psicologico.
La storia di Medea e Giasone, il viaggio degli Argonauti: storia forte e delicata allo stesso tempo; percorso di anime tormentate; personaggi potenti, scolpiti con un linguaggio che ti trasporta in terre, in mondi, in tempi ed atmosfere che affascinano ed incantano.
In una struttura narrativa robusta, costruita con grande abilità linguistica, si intrecciano mito e affabulazione, fantasia e verosimiglianza, sogno e ricordo, sempre sostenuti da una ricerca accurata del particolare, dall’aderenza al fatto storico.
Prendono vita, così, e si umanizzano i personaggi, rivisitati ma fedeli al mito; sospesi in una dimensione dove elementi fantastici e realismo descrittivo contribuiscono a dar loro spessore e concretezza.
Si intrecciano vite e destini, s’incontrano figure emblematiche, si susseguono eventi epici e drammatici, si compiono profezie ed oracoli. E ogni personaggio, ogni elemento della storia, anche minore, possiede incisività e significato.
Su tutti, giganteggia Medea, principessa della Colchide: madre-terra e lupa. Governata dai contrasti: figlia del sole, quando ama; figlia delle tenebre lunari, quando è posseduta dalle forze oscure della sua “magia”. Tragica figura, che porta in sé, sin dall’infanzia, il presagio di un destino funesto.
“Sei tu la lupa che azzannò i suoi cuccioli?” chiedono, “Sei la Signora dei filtri?” “Sono io…” rispondo, “…ma un tempo, ero la Figlia del Sole”.
“…Si, Orfeo. Medea di Colchide NON SI DIMENTICA”.
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Marchetti Editore è una giovane casa editrice con sede a Pisa, dalle idee molto chiare: produrre solo libri di qualità, radicati nella società attuale, ben tradotti se si tratta di autori stranieri
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Fabio Marcaccini, "Soul"
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È arrabbiato, Soul, se la prende col mondo che l’ha tradito. Sa di attribuire agli altri anche colpe proprie, ma la rabbia trabocca, minaccia di travolgere il suo amore puro, passionale, celeste. Lui e Lei sono soli come il primo uomo e la prima donna, contro tutto e tutti. Sporcati, avviliti, scacciati nella foresta, come Ginevra e Lancillotto, fino quasi a perdersi, a confondersi, a risvegliarsi incerti e tremanti. Troppo soli per farcela, troppo stanchi. Per fortuna Lei è serena, salda nel suo amore. Asciuga sul suo seno le lacrime infantili di lui, accoglie i suoi sogni di bambino perduto, accetta le sue inconcludenze, lo rivede nel frutto del loro amore che ora dà un senso ad ogni sofferenza. Molto belle "Stella cadente" e "L’Infinito".
I MITI DEL MEDITERRANEO
I miti del Mediterraneo
Il presente col suo pesante bagaglio (minacce di guerra, guerre in atto, profughi, esiliati, condizione dell’extracomunitario, donne tradite e violentate, bambini vilipesi) rispecchiandosi nei drammi del passato, può trovare nel racconto degli anziani l’anello di congiunzione sulle tematiche in questione e i giovani grazie sia all’autorità dei testi classici, sia al racconto (storia, favola, leggenda) spesso vibrante di emozionanti ricordi di chi ha vissuto in prima persona esperienze dolorose potranno trovare nella “memoria” appunto, se non la soluzione ai loro interrogativi, almeno una spinta a far meglio.
Ma più di ogni altro oggi è gravemente presente, anche nel nostro Paese, il fenomeno degli immigrati, una moltitudine di persone che per vari motivi abbandonano il loro paese d’origine e cercano una vita migliore altrove solcando le onde del Mediterraneo. Non sempre trovano accoglienza, non sempre raggiungono altre terre dove vivere e lì fondare casa, famiglia, futuro.
Non sempre si ravvisano in questi popoli in movimento i segni del nostro passato.
A questo punto ci soccorre il mito: il mito è la memoria, il riferimento unico quando si voglia scoprire il senso delle radici, come senso di appartenenza. Ma il mito è anche favola dalle valenze simboliche e sacrali. Il mito è la speranza che si tramuta in sogno, è il sogno che perpetua la speranza. Il mito permette di andare oltre la cronaca, di superare le barriere del Tempo, costruendo un bagaglio di ricordi che costituiscono la memoria storica, senza la quale non solo non è l’uomo, ma neppure una società, un popolo.
L’andare verso terre è penetrare il senso della storia. Una storia che si raccoglie appunto nella nostalgia perché è fatta di mito, di simboli, di echi. E di quel mondo noi abbiamo raccolto i profili, il sentimento del destino, il sacro e le proiezioni della divinità, l’amore e l’eros, l’eroismo, l’attesa. Si tratta solo di riconoscersi in esso.
Forse la perdita di senso dell’età contemporanea è anche nello smarrimento delle radici primordiali a cui la vita tende. I conflitti che agitano l’uomo contemporaneo forse dipendono anche dalla perdita della fantasia, quella che sconfigge la storia e quindi la morte, creando personaggi e racconti nella favola, che, proprio perché tale, ritorna sempre nel suo tessuto poetico, passando di generazione in generazione e coltivando così la memoria.
Pertanto solo attraverso il recupero di una dimensione mitica si può penetrare la crisi dell’uomo e superarla. Perché il mito è oltre la storia, è la sacralità che vive il tempo abbandonandolo e ritrovandolo. Non può esserci memoria senza mito. I popoli e gli uomini si ritrovano allora soltanto nella memoria.
Questo è vero per ogni latitudine, dovunque ci sia un territorio da dove uomini e donne sono partiti, lasciando lì le loro radici per piantare germogli altrove. Spesso il percorso lungo il quale interi popoli si sono mossi è stato un percorso di acqua, di fiumi, più spesso di mari.
Anche il Mediterraneo è stato ad un tempo elemento di approdo e di partenza. Il Mediterraneo non solo viaggio; soprattutto attesa.
Il Mediterraneo ha conosciuto e conosce tuttora l’incontro e lo scontro tra civiltà. Il Mediterraneo antico fu greco, fenicio-punico, romano. Tutto un mondo arabo si trovò a fare i conti con diverse identità. Bisogna saper cogliere quella eredità: un’eredità la cui chiave di lettura è nell’interpretazione dei miti, che ci raccontano delle avventure dei popoli.
E il mito mediterraneo per eccellenza è quello di Ulisse, seguito da quello di Enea. Il loro viaggio si compie per mare, esso rappresenta il futuro. Entrambi gli eroi hanno in comune l’esperienza di navigazione, dei ritorni avventurosi e delle sofferenze sia di chi anela a ritornare nella propria patria lontana, sia di chi, sopravvissuto alla guerra, desidera trasmigrare in nuove sedi.
Sono essi dunque i simboli che ci permettono di captare il nostro essere nel tempo, che custodiscono la memoria delle nostre radici mai recise, e che attraverso le epoche tramandano, come onde sonore, suoni di viaggi, di naufraghi, di migranti.
L’eredità è saper riconoscere queste voci che ci suggeriscono nuovi percorsi, che dentro la memoria ridisegnano il futuro. Un futuro che ora come allora è dipinto di nostalgia, che contrappone al canto delle Sirene il muto dolore dei naufraghi che a migliaia tentano di approdare a nuove rive.
Ma c’è di più. Non interessa sapere se Ulisse sia un personaggio reale o frutto di fantasia. Ci appassiona la nostalgia del suo nostos, che è testimonianza di un tempo archetipale che traccia misteri, segni, luoghi e fa della nostra ricerca un viaggio per tentare di catturare i segreti di quell’isola che è il nostro destino, dei destini che diventano avventure. Gli eventi condizionano tutto il percorso. Il mito allora come rivisitazione degli eventi.
Il viaggio di Ulisse si risolveva in un’avventurosa peregrinazione per i mari le isole i porti del Mediterraneo; Enea, viceversa, edifica nel suo itinerario una biografia etico-religiosa con finalità politico-universalistiche.
L’ Odissea insegna negli avvenimenti di Ulisse, e nella sua saggia condotta, la sapienza privata appresa dalla lunga conoscenza del mondo e dalla conoscenza della fortuna, le cui vicende, come spesso dal sommo della felicità ci urtano nel sommo delle disgrazie, così dal fondo delle disgrazie ci sollevano al sommo della felicità; in modo che né sicuri delle cose prospere dobbiamo vivere, né abbandonarci nelle avversità; ma piuttosto armarci di fortezza, per resistere e riservarci allo stato migliore. Perciò Ulisse sbattuto dai venti, minacciato dai pericoli, allontanato dalla patria da tante tempeste, pur non si perde mai d’animo: come avvenne quando, partito da Calipso, scampato agli inganni di Circe, all’empietà di Polifemo, alla crudeltà dei Ciconi, alle lusinghe delle Sirene, e ad altri travagli, fu alla fine della tempesta portato alla regione dei Feaci dove, ristorato da Nausicaa, fu accolto dal re Alcinoo e rimandato felicemente a casa.
Ora le avventure di Ulisse possono ben rappresentare il repertorio più completo della realtà umana: un inventario della vita e del destino, che si esplicano in esperienze e caratteri d’apertura universale. E dietro le figure e le peripezie di Ulisse e dei compagni, nella parabola delle sorti individuali, si riflette l’infinita trama dell’essere.
A distanza di tanti secoli la vetusta poesia omerica continua a trasmettere gli “esemplari” dell’umanità; e alla nostra sensibilità palesa una vigorosa dimensione di realismo proiettata in una dimensione leggendaria. Secondo Manara Valgimigli Ulisse rimane “la figura più ricca di umanità che la poesia greca abbia creato, nella sua ricchezza singolarissima di prudenza e di coraggio, di curiosità e di intelligenza, di generosità impetuosa e di calcolata freddezza, di fiducia e di dubbio, di caldissima e nobilissima astuzia”.
Egli ha capito che la vita è conoscenza, ma anche memoria e rispetto della propria intimità, degli affetti originari, della casa avita.
All’opposto di Ulisse che circumnaviga le terre mediterranee per concludere la vita nel ritorno, il destino di Enea nasce dalla distruzione, dalla fuga e dall’esilio definitivo. Troia brucia, c’è il massacro dei vinti. Enea fugge dalla sua terra e comincia a percorrere una nuova rotta; perduta ogni speranza cerca nuove radici. La patria, i Penati, gli affetti se li porta con sé verso l’ignoto, ma con l’idea della terra promessa e l’occulto progetto di fondare una nuova patria e un nuovo ordine.
Nell’Eneide il destino si fa storia e civiltà, e queste sono dirette da un’idea di progresso e d’universalità. È la prima volta che un organismo mitico-letterario si assume il ruolo della missione storica e si ipostatizza a capostipite di una tradizione secolare.
L’esperienza dell’eroe non può dissociarsi da un significato simboleggiante che la supera. È la prima volta che il personaggio incarna un’idea e si identifica con lo spirito della storia. Egli edifica nel suo itinerario una biografia etico-religiosa con finalità politico-universalistiche.
Gli incontri che Enea fa nel panorama geografico non hanno più nulla della curiosità leggendaria implicita nei viaggi di Ulisse. Il rapporto che egli inaugura con la realtà si fonda ogni volta su una situazione di coscienza. Enea compie il suo viaggio non per cercare la morte, ma per impossessarsi della vita attraverso il Tempo. Non aveva un’Itaca da ritrovare ma una patria da rifondare. Anch’egli però si trova tra le acque a remare e, una volta approdato in terraferma il suo destino è quello di creare la dimensione della rinascita., di costruire il futuro con dentro gli occhi l’identità della perdita.
Rileggere oggi questi miti non è soltanto un tuffo in una visione archeologica, ma è sostanzialmente qualcosa di più. È un viaggio nel quale l’appartenenza oltre ad essere una metafora è una costante nostalgia.
L’uomo di una civiltà perduta (orfano e senza progetti) va alla ricerca della sua identità. Ma la sua identità è nella storia del tempo.
Enea ed Ulisse lo hanno testimoniato. L’uno, andando alla ricerca di una nuova patria da edificare sull’immagine di quella distrutta. L’altro andando alla ricerca del ritorno. Ma in entrambi il ritorno alle antiche origini ha rappresentato l’asse dominante intorno al quale far ruotare la coscienza dell’essere e del tempo.
Enea ed Ulisse navigano ancora le acque di questa civiltà? O vanno alla ricerca, come noi, di una nuova età?
L’anima del mondo ha sempre più bisogno di restare fedele a un’identità. La certezza dell’identità sta nel saper riandare alle origini della coscienza. Enea ed Ulisse sono i simboli dell’esistenza e del destino dell’uomo e della sua capacità di essere e di comprendere la solitudine e l’angoscia del tempo, ma anche le ragioni della rinascita di questa coscienza.
Se li rimeditiamo, forse saremo in grado di meditare noi stessi, dispersi nella civiltà della non identità e del progresso, incapaci di comunicare in una stagione della società definita troppe volte della comunicazione totale.
Abbiamo tutti bisogno di radici perché “siamo tutti inseguiti dalle nostre radici” (E.M.Cioran).
E abbiamo bisogno di memoria per capire ciò che siamo stati e per identificare ciò che siamo.
La nostalgia di una civiltà! Una nostalgia che i popoli mediterranei rincorrono. Una nostalgia che è dentro il viaggio di quelle culture e il vivere di quelle culture che hanno avuto e hanno come riferimento il mare.
Il mare è il punto di contatto certo dell’identità della mediterraneità. I popoli che costeggiano il mare sono popoli che hanno conosciuto l’attesa, la partenza e il ritorno. Sono popoli che non dimenticano. La continuità tra i popoli è la riaffermazione di quei valori che hanno fatto del Mediterraneo un centro di culture.
Riscoprire i miti significa dunque riappropriarsi degli archetipi che mancano ad una società ormai desacralizzata. I miti sono la decodificazione di un vissuto, sono nel fascino e nel mistero, sono quella quotidiana attesa nella quale ci ritroviamo.
E l’Europa sarà capace di rispondere alle sfide del mondo moderno solo se sarà capace di difendere la sua cultura. E la sua cultura si difende se tutti saremo capaci di riappropriarci della tradizione e rendere questa tradizione identità del (e per il) futuro.
Mostre: Il viaggio nel Mediterraneo di un Ulisse clandestino - Albania - ANSAMed.it
(di Luana De Micco) (ANSAmed) - MARSIGLIA, 14 GEN - Un Ulisse clandestino dei giorni nostri, senza nome e senza documenti, si imbarca per un viaggio nel Mediterraneo, facendo scalo nelle sue citta'
Gordiano Lupi legge I luoghidella memoria
di Gordiano Lupi su Kultunderground, rivista di letteratura on line attiva dal 1994
Pag. 110 – Euro 12 - Arduino Sacco Editore
“Arduino Sacco è un editore che non chiede contributi agli autori e che non gode di finanziamenti pubblici”, recita il sito Internet della casa editrice - spartano ma efficace - che denota una struttura ai limiti dell’amatoriale, ma ben venga in questi tempi grami dove tutti si spacciano per professionisti della letteratura. Viva l’underground, che forse sarà la nostra salvezza!
A proposito di Arduino Sacco vi invito a leggere I luoghi della memoria di Adriana Pedicini, un libro proustiano come tutti noi modesti scrittori abbiamo tentato (o siamo in procinto) di scrivere, una sfida alla ricerca del tempo perduto che ogni amante delle lettere cerca di intraprendere con esiti più o meno felici. Adriana Pedicini tocca le corde giuste con questi racconti sul filo della memoria, realisti, autobiografici, ebbri di ricordi, zeppi di odori e sapori del tempo passato. L’autrice rievoca il sapore dell’infanzia, personaggi indimenticabili del passato, lutti indelebili, mancanze che lasciano il segno, frammenti di amori perduti, esami di scuola vissuti con nostalgia, un esempio paterno e una fanciullezza lontana. I critici veri, che sanno di letteratura, storceranno il naso, diranno che Adriana Pedicini racconta i fatti suoi, che non si fa così, meglio inventare, costruire trame, affascinare il lettore con il solito giallo o con uno dei tanti inutili noir. Lasciamo ai soloni il loro compito, da tempo non ascoltiamo le campane che suonano il funerale della letteratura, accogliamo con entusiasmo questo libro di racconti e ricordi, perché l’autrice narrando i fatti proprio racconta il passato di un’intera generazione. Da leggere e meditare.
Dal realismo al simbolismo: Ignazio Silone, "Vino e pane"
Vino e Pane
di Ignazio Silone
Mondadori, 1955
Vino e Pane di Ignazio Silone, al secolo Secondo Tranquilli (1900- 1978), uscito nell’edizione definitiva Mondadori nel 1955, s’iscrive nell’ambito della narrativa meridionalista degli anni ’30, molto diversa da quella verista della fine dell’800, quella cioè di Verga, di Capuana e de Roberto.
Alvaro, Brancati e, in parte, Silone, accompagnano il loro grido di protesta sociale con un moto di nostalgia verso un mondo che va scomparendo. La città, nella fattispecie Roma, rappresenta la realtà, il vero, mentre la campagna abruzzese dei cafoni ha connotazioni ancora tardo romantiche, liriche, è popolata di figure ottocentesche e attraversata da un senso della natura panico e mistico.
Laddove, fra ottocento e novecento, il reale perde senso, si fa simbolo e decadenza, l’opera dei meridionalisti oscilla fra naturalismo e simbolismo. Possiamo dire che Verga passa attraverso d’Annunzio, che i Malavoglia s’intridono del lirismo delle Novelle della Pescara.
Il prete tardò a tornare nella locanda. Si sedette sul ciglio erboso della strada, oppresso da molti pensieri. Voci perdute si udivano in lontananza, richiami di pecorai, latrati di cani, sommessi belati di greggi. Dalla terra umida si levava un leggero odore di timo e di rosmarino selvatico. Era l’ora in cui i cafoni rientravano gli asini nelle stalle e andavano a dormire. Dai vani delle finestre le madri chiamavano i figli ritardatari. Era un’ora propizia all’umiltà. L’uomo rientrava nell’animale, l’animale nella pianta, la pianta nella terra. Il ruscello in fondo alla valle si gremiva di stelle. Di Pietrasecca sommersa nell’ombra, non si distingueva che la cervice di vacca con le due grandi corna arcuate sulla sommità della locanda.
È nostro convincimento che brani come questi non si possano né spiegare né insegnare, il lettore deve sentirli da solo, dentro di sé.
Vino e pane descrive l’angoscia dell’intellettuale di sinistra che vede crollare tutti gli ideali, ridotti a schemi e regole di partito, malvagi quanto il potere al governo che sfrutta e opprime la popolazione, i cafoni, ora rinominati “rurali”. La differenza fra il protagonista Pietro Spina e le altre figure letterarie di ribelli, immaginate da autori contemporanei di Silone, è l’inazione. Spina è costretto dalla malattia all’inattività, la sua rivolta è tutta interiore, sta nel passaggio da un nome all’altro, da Pietro a Paolo, don Paolo, (non a caso entrambi nomi di apostoli) per poi tornare di nuovo a Pietro senza preavviso. Pietro è il rivoluzionario, Paolo il finto prete, alla disperata, ma autentica, ricerca di Dio. La sua ribellione è interna, morale, intellettuale, per questo “Vino e pane” si configura come testo incerto fra romanzo d’azione e d’idee.
La figura di Luigi Murica, il giovane comunista infiltrato tra i fascisti ucciso dalla milizia, ha connotazioni fortemente cristologiche. Un intero capitolo, il penultimo, è dedicato al suo martirio che richiama la crocifissione, dove il vino e il pane sono quelli della comunione e rappresentano, com’è esplicitamente detto, l’unità, la fraternità, la solidarietà fra uomini.
Cristina Colamartini, l’aspirante novizia di cui Pietro s’innamora, raffigura l’innocenza, l’agnello sbranato dal lupo, e la sua morte ha tratti decadenti e sensazionali.
Matalena, Cassola, Sciatàp, Magascià e tutti gli altri protagonisti, sono figure realistiche ma anche simboliche, attingono al naturalismo di Zolà ma anche a d’Annunzio, a Mistral e allo stesso Verga di Storia di una capinera e di La lupa, bestia evocativa di lussuria, di pulsioni rimosse.
Egli mostrò sulla collottola della bestia il segno dell’amore, il morso profondo di una femmina. L’amore dei lupi è serio. Banduccia sapeva riconoscere da lontano gli urli dei lupi: l’urlo del pericolo, che il lupo lancia quando è attaccato con le armi; l’urlo della carnaccia, che vuol dire che ha trovato qualche bestia da sbranare e chiama i compagni, perché alle bestie non piace mangiare da sole; l’urlo dell’amore, che vuol dire che avrebbe bisogno di una femmina e non si vergogna di farlo sapere.
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Riferimenti bibliografici:
Ignazio Silone, Introduzione a Vino e pane, Oscar Mondadori, 1970
Romano Luperini, Il Novecento, 1981
Salinari Ricci, Storia della Letteratura italiana, 1978
Rita Verdirame La Rosa di Gèrico, La Sicilia fantastica da Linares a Brancati, Dimensione Cosmica anno 7, luglio/agosto 1991
Bread and Wine by Ignazio Silone - Secondo Tranquilli (1900- 1978) - published in the definitive Mondadori edition in 1955, is part of the southernist narrative of the 1930s, very different from the realist narrative of the late 1800s that is Verga, Capuana and de Roberto.
Alvaro, Brancati and, in part, Silone, accompany their cry of social protest with a movement of nostalgia for a world that is disappearing. The city, in this case Rome, represents reality, the truth, while the Abruzzo countryside of cafoni still has late romantic, lyrical connotations, is populated with nineteenth-century figures and crossed by a mystical sense of nature.
Where, between the nineteenth and twentieth centuries, the real loses its meaning, becomes symbol and decadence, the work of the southernists oscillates between naturalism and symbolism. We can say that Verga passes through d'Annunzio, that the Malavoglia are intruding on the lyricism of the Pescara novels.
The priest was late returning to the inn. He sat on the grassy side of the road, overwhelmed by many thoughts. Lost voices could be heard in the distance, the calls of shepherds, the barking of dogs, the low bleating of flocks. A slight smell of thyme and wild rosemary rose from the damp earth. It was the time when the peasants returned the donkeys to the stables and went to sleep. From the windows, the mothers called their latecomers. It was an hour conducive to humility. Man re-entered in the animal, the animal in the plant, the plant in the earth. The stream at the bottom of the valley was full of stars. Of Pietrasecca submerged in the shade, we could only distinguish the cow's cervix with the two large arched horns on the top of the inn.
It is our belief that passages like these cannot be explained or taught, the reader must feel them alone, within himself.
Bread and Wine describes the anguish of the leftist intellectual who sees all the ideals collapse, reduced to party schemes and rules, as evil as the government power that exploits and oppresses the population, the peasants, now renamed "rural". The difference between the protagonist Pietro Spina and the other literary figures of rebels, imagined by contemporary authors of Silone, is inaction. Spina is forced by sickness into inactivity, his revolt is entirely internal, lies in the passage from one name to another, from Peter to Paul, don Paolo, (not surprisingly both names of apostles) and then back again to Peter without notice. Peter is the revolutionary, Paul the fake priest, desperate, but authentic, in search of God. His rebellion is internal, moral, intellectual, which is why "Wine and bread" is configured as an uncertain text between action and ideas novel.
The figure of Luigi Murica, the young communist infiltrated among the fascists killed by the militia, has strongly Christological connotations. An entire chapter, the penultimate one, is dedicated to his martyrdom which recalls the crucifixion, where wine and bread are those of communion and represent, as is explicitly said, unity, fraternity, solidarity between men.
Cristina Colamartini, the aspiring novice with whom Pietro falls in love, depicts the innocence, the lamb torn to pieces by the wolf, and his death has decadent and sensational features.
Matalena, Cassola, Sciatàp, Magascià and all the other protagonists, are realistic but also symbolic figures, they draw on the naturalism of Zolà but also on d'Annunzio, Mistral and Verga of Storia di una capinera and La lupa, an evocative beast of lust, of impulses removed.
He showed on the scruff of the beast the sign of love, the deep bite of a female. The love of wolves is serious. Banduccia was able to recognize from afar the screams of wolves: the scream of danger, which the wolf casts when attacked with weapons; the scream of flesh, which means that he has found some beast to tear and calls his companions, because the beasts don't like to eat alone; the scream of love, which means that he would need a female and is not ashamed to let her know.
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L'italiana in Algeri, opera di Gioacchino Rossini e Livorno
Giuseppe Benassi, "Omicidio a Calafuria e altri putiferi"
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Omicidio a Calafuria e altri putiferi
Di Giuseppe Benassi
Bastogi 2011
pp. 210
15.00
Rischia volutamente l’insofferenza del lettore, Giuseppe Benassi, in questo “Omicidio a Calafuria e altri putiferi”, giallo destrutturato, senza inchieste e senza deduzioni logiche, ambientato in una Livorno dove di vero ci sono solo strade e monumenti, popolato da un sottobosco di personaggi erotomani che praticano orge e scambi di coppia.
Sull’omicidio di Filippo Bondelli - rampollo di famiglia nobiliare con villa ad Antignano, trovato morto, nudo e unto d’olio, sugli scogli sotto la torre di Calafuria - indaga l’avvocato Borrani, personaggio sgradevole, cinico, irriverente, dalla sessualità volgare e dionisiaca. Borrani getta in padella pesci vivi per il gusto di osservarli mentre guizzano e si contorcono, prova soddisfazione alla vista di un gatto spiaccicato sull’asfalto, è profondamente misogino, non ama il suo mestiere né i colleghi avvocati, non ama l’umanità e il suo prossimo, fa e dice cose che c’infastidiscono perché sappiano vere.
“Si vede che siamo proprio dei fuscelli al vento basta un niente e diventiamo diversi io per esempio non ho ancora capito se sono un uomo serio o un buffone se sono intelligente o un coglione” (pag 71)
Attorno all’omicidio si muove una folla di caratteri che sembrano usciti dalla Torino di A che punto è la notte di Fruttero e Lucentini o dalla penna di un Dickens iperrealista. Personaggi di cui seguiamo il flusso di coscienza in lunghi capitoli che non sviluppano la trama ma la attorcigliano su se stessa senza sbocco, in modo involuto. La maga Gilda aleggia su tutta la storia senza mai concretizzare il suo peso nell’intreccio, attempato travestito che legge i tarocchi alle madame con le quali un tempo copulava. Silvana Oldini, la fidanzata casta del morto, sembra appartenere a una poesia del suo amato Gozzano, sorta di signorina Felicita d’altri tempi, incarnazione del femminino puro cui tutti i libertini in fondo tendono, donna irraggiungibile, angelicata, stilnovista. Solo a lei, alle sue lettere appassionate, sono affidati gli unici momenti lirici di tutta la storia. Mafalda, la madre del giovane praticante dell’avvocato, vive persa nelle sue credenze esoteriche che vanno dagli angeli alla New Age. Artemisio Cocci, scultore blasfemo e dissacrante sta per partecipare alla biennale di Venezia. Marcello, il praticante senza stipendio, è alla disperata ricerca di una ragazza. C’è, più in generale, una folla fatta di avvocati, pretori, giudici, giornalisti, una moltitudine ghignante, onirica, oscena come in un quadro surreale.
E per cercare chi ha ucciso Bondelli, si riflette sulla reliquia del santo prepuzio, sulla possibile clonazione di Gesù, sull’energia vitale della Kundalini, sull’astrologia, sulla musica e sulla pittura.
I capitoli hanno stili diversi, come se Benassi stesse ancora cercando il suo e ne sperimentasse più di uno, anche per mostrarci la sua versatilità. Dal lirismo delle lettere di Silvana, si passa alla mimesi ironica del linguaggio della critica e del giornalismo. Grande spazio è dato a fitti ed estenuanti dialoghi, ricchi di giochi di parole, di aforismi quasi wildiani, “sposarsi vuol dire prendere una persona e farla diventare la peggiore delle nostre abitudini”, di botta e risposta da teatro dell’assurdo, di volgarità scatologiche e ironiche citazioni colte, fra narrazione in terza persona e flusso di coscienza, fra presente storico e passato, in un tentativo di riscatto da una perenne, frustrante, alienazione dal resto del mondo. Borrani è descritto per sentito dire, “c’è chi dice che”, ma anche, e soprattutto, tramite il suo incessante monologo interiore.
“E stare ore a pescare non vuol dire per l’avvocato cercare di prendere pesci, vuol dire stare ore a vedere nel galleggiante una parte di sé che vaga fra l’aria, l’acqua del fiume, l’acqua del mare. Vuol dire inebetirsi nel sole del pomeriggio, dimenticarsi di sé e del mondo e raggiungere uno stato animale, una consistenza di vegetale, una natura minerale" (pag 22)
La "Signora dei filtri"
Patrizia Poli nasce a Livorno nel 1961 e qui risiede. Laureata in lingua e letteratura inglese con una tesi su Il Signore degli anelli di Tolkien, ha vinto il premio Guerrazzi con il suo racconto "Quand'ero scemo", a sua volta pubblicato anche sulla rivista "La Ballata". Attualmente responsabile della sessione "Arte e Cultura" per la nostra rivista LivornoMagazine.it e del relativo social forum su facebook, collabora a "CriticaLetteraria" e gestisce, insieme a Ida Verrei, la pagina "Laboratorio di Narrativa" su Facebook.
Ha scritto "Il Respiro del Fiume", "Signora dei Filtri", "Bianca come la Neve", ed è autrice di una lunga serie di racconti. Insieme ad un gruppo di autori livornesi ha anche pubblicato "La Livorno che c'è", una raccolta di storie brevi e poesie.
Leggere Patrizia ha senz'altro qualcosa di magico. Le sue narrazioni ti afferrano con delicata prepotenza e ti proiettano da subito in un tourbillon di emozioni, le stesse che molto probabilmente la scrittrice vive quando dà vita a personaggi, ambientazioni e situazioni. Mai banale, mai distaccata dai suoi racconti, è un perfetto cocktail di maestria e creatività. E di creatività dimostra di averne davvero tanta, visto gli innumerevoli racconti prodotti dalla sua mente, con storie sempre nuove e dai contenuti mai abusati. Nel racconto, il protagonista dimostra di avere sempre un cuore ed un anima: un contraddittorio di emozioni buone e cattive, come poi si riscontra sempre nella vita di tutti i giorni. Sentimento, amore, odio, pietà si mescolano tra loro. Così è per il bambino down (Quand'ero scemo), lo stesso vale per il boia che deve sopprimere la vita di un efferato criminale (Dead Man Walking), ma lo è perfino quando il protagonista della storia è una macchina di ferro computerizzata ed inviata dalla Terra ad esplorare il pianeta Marte (Solo il rumore del vento).
Ciò che resta difficile da spiegare è perché in una letteratura che dà spazio e fama anche ad orrende creazioni, non sia ancora stato riconosciuto il valore che si deve ad una scrittrice vera come la nostra Patrizia. O forse, molto più semplicemente, le cose stanno come la stessa scrittrice ci insegna nel suo articolo "Caro aspirante scrittore...".
Insomma per farvi capire meglio il tutto e darvi la possibilità di apprezzare o meno, vi invitiamo a leggere alcuni dei suoi racconti che segnaliamo a seguito con accanto il nostro personalissimo giudizio.
- Asili ****
- Bugie e fantasie ****
- Di spalle ****
- Dona Sol ****
- Effimera ****
- Gli Angeli di St. Jeremy ****
- Il bastone e la conchiglia ****
- Il campo di mais ****
- Il figlio dell'uomo *****
- Il vento libero ****
- Incompiuta ****
- Io e Evelyn *****
- Io e te ****
- La corda e la pietra ****
- La scelta ****
- La terza notte ****
- L'inchiesta ***
- Marta ci vede ****
- Nessun dolore ****
- Quand'ero scemo *****
- Solo il rumore del vento *****
- Sordocieco *****
- Ultime ore prima dell'alba *****
- Un'estate sola ****
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Patrizia Poli nasce a Livorno nel 1961 e qui risiede. Laureata in lingua e letteratura inglese con una tesi su Il Signore degli anelli di Tolkien, ha vinto il premio Guerrazzi con il suo racconto "
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Giovanni Boccaccio, il Decameron e il Romito di Livorno
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