Gianfranco Menghini, "Follie sulla costa"
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Follie sulla costa
Gianfranco Menghini
Booksprint edizioni
pag 292
La protagonista di “Follie sulla costa” di Gianfranco Menghini è, appunto, la Costa Azzurra, col suo mare tremulo e luccicante, i suoi bagliori di luce dorata, calda, di vita spumeggiante al sapore di Dom Perignon. Accattivante l’atmosfera del Festival di Cannes. Par di sentire l’odore del salmastro portato dalla brezza, par di calpestare il tappeto rosso in bilico su tacchi vertiginosi. Al centro di uno schema amoroso da commedia degli equivoci e degli intrighi, ci sono Henry e Christine, marito e moglie, attorno ai quali ruota una folla di personaggi, amici e non, accumunati dal desiderio di godersi la vita, soprattutto sessuale, con tutti i mezzi, leciti e illeciti.
Il romanzo denota conoscenza e interesse per i meccanismi di un certo tipo di società benestante ed è utile per capire come funziona una mente maschile. Intrighi e cattiverie da fiction, boccacceschi scambi di coppia si snodano attraverso l’operato di mariti fedifraghi ma un po’ coglioni, di mogli costantemente in fregola e dalla libido così improbabile da non sfigurare in un articolo di Man’s Health, però furbe e quasi innocenti nella loro spudoratezza. Personaggi senza chiaroscuri, tutti, più o meno, deplorevoli e amorali, come in un film di Vanzina. La licenziosità, seppur ironica, ha cadute di stile, i dialoghi sono frutto di ovvie fantasie maschili, il periodare è lungo, non disteso.
Tratto da "Nessun luogo è lontano"
"Può una distanza materiale, separarci davvero dagli amici?
Se desideri essere accanto a qualcuno che ami, non ci sei forse già?..."
"Vola libera e felice, al di la dei compleanni, in un tempo senza fine,
nel persempre.
Di tanto in tanto noi ci incontreremo -quando ci piacerà-
nel bel mezzo dell' unica festa che non può mai finire."
Richard Bach
Tre romanzi di Margherita Musella
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"Ci beviamo un caffé", "Ci vuole poco, anzi niente" e "Non dimenticare di essere felice" sono tre romanzi di Margherita Musella per le dizioni Kimerik.
"Ognuno viene al mondo per accumulare esperienza e imparare ad affrontare i problemi, sconfiggendo la paura.”
Credo che questa sia la filosofia di vita di Margherita Musella.
I suoi tre libri sono un crescendo di situazioni e migliorano anche come stile. Se il primo, “Ci beviamo un caffè”, ha delle incertezze, come se l’autrice si presentasse in punta di piedi e si chiedesse: “Ma, davvero, io posso scrivere?” il secondo denota una presa di coscienza anche personale. Questo è il mio stile, dice Margherita, questa è la mia voce, queste sono le cose che io ho da dire.
Già nel secondo libro lo stile sale di tono. Il terzo, poi, ha un linguaggio pulito e sobrio, che ti fa vivere con semplicità emozioni e situazioni Il personaggio di Carlo, un ragazzino vittima di bullismo, è il più letterario dei suoi. Ed è strano come, proprio un personaggio maschile, per il quale l’autrice sente di non essere portata, sia invece, a detta di tutti, il più riuscito. Nessuno, più di Margherita, sa descrivere la sensazione di precipitare in un gorgo senza uscita, quando, giorno dopo giorno, scendi sempre più, avvolto nelle spire di qualcosa da cui non ti puoi liberare. Fino a toccare il fondo, fino alla disperazione.
Ma disperazione è una parola che Margherita non accetta.
E lì nasce lo scatto, la risalita, la rinascita.
Il pensiero di Margherita è supportato anche da letture e studi. Lei sa che non tutti accettano il suo credo positivo e pieno di speranza, ed è pronta a subirne le conseguenze, il martirio intellettuale e sociale, e ad amare chi la disprezza.
Margherita ha un viso mutevole, che rispecchia il fluire delle sue emozioni, è una persona che è facile ferire ma che sa accettare la sofferenza meglio di chiunque altro.
Paolo Pappatà, "Sconclusioni"
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Sconclusioni
Paolo Pappatà
Lulù.com
Lei era così.
Trascorreva, fluiva, scivolava via.
Ma non era acqua, questo no, davvero, da giurarci. Anche se dagli umori spesso limpidi, dalle frasi sgocciolanti voglie e tremori, evaporazioni e condense, dalle risate fluenti come torrenti irruenti e dal corso segnato, dal letto già tracciato.
Ho deciso di leggere Paolo Pappatà quando l’ho sentito dire che a scrivere non si diverte (e nemmeno io) che scrivere è sofferenza e ha paura della pagina bianca (e pure io). Questo è uno che ci capisce, mi sono detta, e, infatti, ci capisce davvero.
“Sconclusioni” è una raccolta di racconti, e sconclusionati sono, appunto, i protagonisti, maschi troppo estenuati per avere ancora dei valori, per ricordare una vita dove, almeno, si soffriva. Persi dietro a donne che non li vogliono, fra un rave party e un concerto, donne “lucide e ciniche” che “sorridono senza sorridere”, donne come la senza nome Jay Blonde, miraggio femminino, sempre sfuggente possibilità d’amore. Velleitari e pigri, anarcoidi ma esclusivamente di maniera, capaci solo di arrotolarsi un’altra canna, perdere un’altra partita di biliardo, bere un’altra Ceres.
Uno stile estremamente studiato, quello di Pappatà, che non lascia proprio nulla al caso e non è mai banale. Fa il verso agli americani, non ultimo Updike, ma solo un po’ e in modo personale. Il suo linguaggio è pieno di rime, di assonanze, di allitterazioni che stonerebbero in chiunque altro ma non in lui. Particolarissimo il punto, a finire frasi che non finiscono in un mondo in cui, invece, tutto finisce.
Almeno nel suo caso non è vero che “non c’è un briciolo di poesia, nemmeno un po’ di prosa.”
Ci sono entrambe, eccome.
Lorenzo Spurio e Sandra Carresi, "Telefonate anonime"
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di Patrizia Poli e Ida Verrei
Un’opera narrativa a quattro mani, “Telefonate anonime” di Lorenzo Spurio e Sandra Carresi, frutto della singolare collaborazione fra un’autrice esperta e più matura e un giovane scrittore. Insolito sodalizio, che dà vita ad un breve romanzo dal sapore minimalista, dove freschezza ed ingenuità narrative si mescolano ad una sapiente strategia descrittiva, che riesce, attraverso il racconto di una normale quotidianità, ad imbrigliare l’attenzione del lettore.
Il testo parte come romanzo giallo-rosa ma elude entrambe le premesse evolvendo in una storia di agnizioni, di parentele riscoperte, di eredità. È soprattutto sviluppo e presa di coscienza di una giovane personalità femminile, un po’ timorosa all’inizio, ma più strutturata nel finale. Giada è una giornalista della moda, non donna in carriera, soltanto una ragazza che vive senza particolari ambizioni la propria routine lavorativa e sceglie solitudine e autonomia in un piccolo centro Toscano. Ma quando il caso la conduce ad intraprendere una nuova, breve esperienza nella Capitale, accoglie con entusiasmo l’occasione che le viene offerta, certa di ricavarne un arricchimento professionale e personale. Conosce e sfiora un mondo che l’affascina e la intimidisce nello stesso tempo, ma ne scopre ben presto falsità ed ipocrisia. Tuttavia non sarà questo a sconvolgerle la vita, quanto un inaspettato evento che viene dal passato e che la costringerà a interrompere la sua avventura romana.
La storia si snoda attraverso momenti dall’apparenza insignificanti, circostanze ed episodi che vengono descritti minuziosamente, quasi avessero valore simbolico proprio di quella normalità che appartiene al quotidiano di una persona qualunque: il caffè preso in un bar con un’amica, una brioche che si sbriciola, un uomo sudaticcio che sfoglia un giornale, un abito macchiato d’inchiostro. Certe rappresentazioni scrupolose dell’arredamento diventano quasi sostituto di emozioni.
La notizia di un delitto arriverà a colorare di giallo la narrazione. Ma anche questo rientrerà presto in quell’ordine di eventi in cui ci si imbatte ogni giorno.
“Le telefonate anonime”, alle quali si accenna nell’incipit, restano per tutto il corso della narrazione un accadimento ignoto e inesplorato; soltanto nel finale troveranno la loro collocazione e condurranno al recupero di emozioni e sentimenti, prima sconosciuti o rifiutati.
Lo stile è necessariamente standard, si sente lo stacco fra una mano maschile e una femminile ma questo arricchisce di spunti la narrazione.
Il silenzio: maneggiare con cura...
Camera anecoica
di Federica Vitale
Forse non tutti la conoscono, ma la camera anecoica è un vero prodigio che può indurre persino alla pazzia. E se c’è chi cerca il volume e il frastuono di cui la nostra vita è spesso contraddistinta, ci sono anche quanti si avviano, al contrario, alla ricerca quasi introspettiva dell’impareggiabile suono del silenzio.
Ebbene, quest’ultima necessità è stata finalmente esaudita dagli Orfield Laboratories, una società di Minneapolis, che è riuscita a costruire la più avanzata camera anecoica al 99,99% fonoassorbente. Ma di cosa si tratta di precisamente? Dal greco “priva di eco”, la camera anecoica è una delle invenzioni umane che, grazie alle componenti di cui è caratterizzata, la sua forma, le dimensioni ed i materiali fonoassorbenti e fonoisolanti, al suo interno è davvero impossibile sentire qualsiasi tipo di rumore.
Lo scopo di questo tipo di camera e le sue funzioni sono molteplici ed essenzialmente fanno parte dell’ambito scientifico-industriale. In particolare, la camera anecoica è servita per misurare livelli di rumore minimi, altrimenti difficilmente calcolabili. Inoltre, ci si è serviti della particolare camera per la sua capacità di prevenire rumori ed interferenze provenienti da qualsiasi tipo di elettrodomestici, orologi o automobili e da qualunque altro tipo di prodotto che potrebbe provocare inquinamento acustico o superare i decibel massimi stabiliti dalla legge.
Ma non solo. La camera anecoica si è rivelata persino uno strumento fondamentale per compiere ricerche cliniche sulla sordità e, addirittura, per sottoporre a test gli astronauti della Nasa. Ma le sue applicazioni non si limitano solo a questo: chi meglio di un musicista potrebbe, infatti, apprezzare una stanza del genere? Fu John Milton Cage il primo musicista a rimanerne totalmente assuefatto dalle incredibili possibilità della camera. Erano gli anni ’50 quando il grande compositore, dopo essere entrato nella camera anecoica di Harvard, compose uno dei suoi più grandi successi. Si trattava di ben 273 secondi di assoluto silenzio in cui l’uomo, nel suo essere fatto di battiti, respiri, sbadigli, divenne lui stesso musica.
Tuttavia, la camera è nota anche per indurre l'uomo a spazientirsi dell'assordante silenzio che vi impera. Nessun uomo, infatti, è mai riuscito a trascorrervi all’interno un lungo periodo di tempo. Si aggira ad un massimo di 45 minuti il record di resistenza all'assoluta assenza di rumori che, per fastidio, può eguagliare il chiasso irritante del martello pneumatico.
Ciò accade perché il generale silenzio provoca nell’uomo perdita d’equilibrio fisico e psicologico, senso di smarrimento e allucinazioni. Lo stesso Steven Orfield, il responsabile della struttura, spiega come all'interno della sua camera anecoica, una volta spente le luci, sia possibile sperimentare la più completa privazione sensoriale alla quale l’uomo difficilmente riesce a resistere.
Ultima curiosità. La stanza è rientrata nel 2008 a far parte del Guinness dei Primati come luogo più silenzioso del mondo. Chi si offre volontario per sperimentare il vuoto più silenzioso al limite della follia?
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Camera anecoica: l'assoluto silenzio che può portare alla follia
Dettagli Scritto da Federica Vitale Forse non tutti la conoscono, ma la camera anecoica è un vero prodigio che può indurre persino alla pazzia. E se c'è chi cerca il volume e il frastuono di cui la
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Vincenzo Calò, "C'è da giurare che siamo veri"
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Iniziamo col dire cosa non è presente in questa silloge di sedici poesie, o meglio poemetti filosofico-ermetico-esistenziali, con cappelletto prosaico introduttivo.
Di sicuro non c’è la natura, non ci sono il mare e le montagne, non ci sono l’infinito e il vago leopardiano, non c’è il particolare pascoliano. Non ci sono nemmeno “i cocci aguzzi di bottiglia” o “il meriggiare pallido e assorto”, anche se l’evoluzione ermetica è ovvia. Qui c’è semmai un giovane che si atteggia a poeta maledetto e si diverte a giocare col lettore. Lo immaginiamo chiuso una stanza, con gli occhi pesti, perso davanti al monitor del pc. Al massimo “girovaga per casa” e “ciabatta un po’ in giro”. Ci schiude uno spiraglio da cui s’intravede il microcosmo d’un io poetico inflazionato perché pieno di dubbi, di senso d’inferiorità e inadeguatezza, concentrato su se stesso nei gesti di una quotidianità spiazzante. Siamo veri in queste condizioni, si chiede, sono vere le relazioni che restano virtuali, che non maturano mai, è vera la vita di un ragazzo che si vota “all’astinenza sessuale”?
Vincenzo Calò fa riferimento a un vissuto simulato, catodico, che si esplicita in social network, in reality show, in una fredda modernità di telefoni, schermi, fiction e connessioni internet, quasi a sostituzione dei sentimenti e della gestualità. Ma sotto, o meglio dentro, a questo universo sigillato, c’è spazio per tutto ciò che da sempre ha accompagnato i sogni della gioventù, in primis l’amore, appena intravisto nella sineddoche di uno smalto per unghie che è insieme vanità, vuoto, velinismo ma anche forma, donna, femminino, e che da solo non basta, tuttavia, a colmare la solitudine, le fobie.
“Nasciamo per donarci al di fuori, per calcolare una vergogna”, “Dalla paura di misurarsi” (pag 24)
Attraverso tutto l’elucubrare di Calò è presente una ricerca di Anima, di Essenziale, di fuga dalla freddezza. Perché esistere, “essere veri” è “afferrare la vita con labbra sincere”.
Luci d’inverno (1962) di Ingmar Bergman
Titolo Originale: Nattvardsgästerna (I comunicandi). Regia, Soggetto, Sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist. Montaggio. Ulla Ryghe. Scenografia. P.A. Lundgren. Costumi: Mago (Max Goldstein). Trucco: Börje Lundh. Musica: Erik Nordgren. Suono: Stig Flodin, Evald Andersson. Produzione: Allan Ekelund per Svensk Filmindustri. Distribuzione Italiana: INDIEF. Riprese: 4 ottobre 1961 - 14 gennaio 1962. Durata: 80’. Origine: Svezia, 1962.
Interpreti: Gunnar Björnstrand (pastore Tomas Ericsson), Ingrid Thulin (Märta Lundberg, insegnante), Gunner Lindblom (Karin Persson), Max von Sydow (Jonas Persson, pescatore), Allan Edwall (Algot Frövik), Kolbjörn Knudsen (Knut Aronsson), Olof Thunberg (Fredrik Blom, organista), Elsa Ebessen-Thornblad (Magdalena Ledfors, vedova), Tor Borong (Johan Ǻkerblom), Bertha Sånnell (Hanna Appelblad), Helena Palmgren (Doris, sua figlia), Eddie Axberg (Johan Strand, il ragazzo nella classe), Lars-Owe Carlberg, Ingmari Hjort (figlia dei Persson), Stefan Larsson (uno dei figli dei Persson), Johan Olafs, Lars-Olof Andersson, Christer Öhman, Karl-Arne Bergman, Sirkka Jehkinen (controfigura di Gunnel Lindblom).
Luci d’inverno non è il secondo atto della trilogia sul “silenzio di Dio”, che Bergman avrebbe impostato partendo da Come in uno specchio (1961) per chiudere con Il silenzio (1963). Negli anni Ottanta il regista ha sconfessato questa ricostruzione critica, che in un primo tempo aveva avvalorato per motivi di promozione. “Ho creato io stesso questo malinteso. Non c’è alcuna trilogia. Tutto è stato detto a uso e consumo dei media”, si legge nel testo Conversation avec Bergman, edito in Italia da Lindau, scritto da Olivier Assayas e Stig Bjorkman.
Luci d’inverno anticipa i film da camera di fine anni Sessanta, è un lavoro di rottura rispetto a Come in uno specchio, non è tanto una critica serrata alla religione quanto un lavoro introspettivo sulla crisi d’un pastore, un uomo di mezza età vedovo della moglie, che ha perso ogni scopo nella vita. Nel cinema di Bergman torna la figura del padre, non più visto come mostro (Fanny e Alexander), ma come uomo tormentato dal dubbio e incerto sulla fede, una figura filtrata dalla sua esperienza personale, quasi giustificata da un figlio che cerca di capirne a fondo la psicologia. Luci d’inverno è un film fortemente voluto da Bergman che sentiva il bisogno di raccontare la storia d’un religioso senza più fede e vocazione, inerme nei confronti della vita, incapace di aiutare il prossimo. Gunnar Björnstrand è bravissimo nel dare vita a un personaggio complesso, tormentato dai dubbi, ma altrettanto fantastica è Ingrid Thulin, nel ruolo di un’insegnante innamorata di un uomo che la rifiuta, capace soltanto di farle del male. Max von Sydov è il pescatore suicida, tormentato e distrutto dalla depressione, che il pastore non riesce a salvare, perché ormai la sua fede è inesistente e non gli permette di aiutare nessuno. Una sequenza innovativa da un punto di vista cinematografico mostra Ingrid Thulin in primo piano, rivolta alla macchina da presa, mentre recita una lunga e disperata lettera d’amore per il suo uomo. Cinema teatrale allo stato puro, basato sulla splendida recitazione dei protagonisti, ma inserito in un lucido paesaggio invernale, fotografato con perizia da Sven Nykvist, al quarto film con Bergman. Per la fotografia d’interni, nella chiesa, Bergman chiese (e ottenne) “soltanto il graduale, quasi impercettibile mutamento, quasi senza ombre”. Dissolvenze d’inverno, alternarsi di volti in primo piano, espressioni sofferenti e intensi flashback sono la cifra stilistica d’una pellicola memorabile. Un bianco e nero livido e spettrale è la cornice ideale per ambientare un’azione composta di stati d’animo. Molto importante tutta la parte introduttiva con il regista che riprende quasi in tempo reale la funzione religiosa del pastore per mettere in evidenza la sua crisi di fede.
Il silenzio di Dio è il vero protagonista di un dramma interiore - molto shakespeariano - che si ripercuote anche all’esterno, nel rapporto con una comunità di fedeli allo sbando, lasciati in preda di pulsioni primordiali. Paesaggio candido e crisi interiore sono due facce della stessa medaglia, perché il primo è la cornice dove si inserisce la problematica psicologica, momento centrale della vicenda. Luci d’inverno è pellicola di sentimenti e al tempo stesso film introspettivo, come solo Bergman sa fare. “Dio mio perché mi hai abbandonato!”, esclama il pastore, che vive in pieno il suo dramma interiore, consapevole di non poter essere di conforto per gli altri, perché dopo la morte della moglie ha perso tutte le certezze che davano un senso alla sua vita. Il Dio del pastore non è più misericordioso, diventa un ragno, un mostro che fagocita sentimenti e persone, che assorbe la vita e uccide, senza speranza di redenzione. Bergman analizza a fondo il contrasto uomo - donna, inserendo come contraltare del pastore Tomas una maestra innamorata e remissiva come Märta, costruendo un teatro dei sentimenti che non trova eguali nel cinema contemporaneo. Tomas e Märta sono due caratteri opposti e impenetrabili, il primo non si lascia conquistare dall’amore che la seconda offre senza interesse, anzi, risponde con odio e disprezzo. Il finale della storia cala improvviso, ma non certo a sorpresa, come in ogni pellicola bergmaniana, logica conseguenza d’una vita che deve andare avanti. Il pastore resta solo con il suo inferno da vivere, in una chiesa poco frequentata, in compagnia d’una donna che rifiuta. Il sipario si chiude con una sconfitta totale, ma anche con la volontà di vivere la fede nonostante il vuoto e i dubbi che lo circondano.
Ingmar Bergman scelse come ambientazione la Chiesa di Skattunge (Orsa), situata nella regione di Uppland, a nord di Stoccolma, e in tale frangente fu decisivo il consiglio del padre, sulla cui psicologia è ricalcato il personaggio principale. Il regista cita se stesso inserendo nella scenografia il crocefisso che aveva utilizzato ne Il settimo sigillo, così come gran parte degli elementi iconografici servono a esprimere riferimenti religiosi. “Se riuscissimo a credere. Se riuscissimo a essere sicuri e a possedere una verità...”, sono le ultime parole di Märta. In fondo, la filosofia dell’opera è data da questa frase senza speranza. La passione di Cristo è la passione del pastore che ha perduto la fede, ormai abbandonato dal suo Dio.
Morando Morandini cade nella trappola critica tesa da Bergman della trilogia, dicendo che è il migliore dei tre, assegna quattro stelle, aggiunge che per il pubblico il successo è minore (due stelle), conclude che sotto la semplicità apparente c’è una complessità che non è facile da cogliere. Ingmar Bergman affermava: “Dà soddisfazione rivederlo dopo un quarto di secolo. Constato che nulla si è corrotto o si è rotto”. Tre stelle per Paolo Mereghetti, che cade anche lui nell’errore provocato da Bergman di considerare il film come facente parte d’una trilogia sul silenzio di Dio. Di vero c’è che è un film sulla difficoltà di comunicare tra gli uomini e il titolo originale - I comunicandi - starebbe a significarlo. “Un film fondato su un paradosso bergmaniano: cerca la fede chi dovrebbe averla già trovata e si accorge, in fondo, di non averla mai avuta. Un altro paradosso è stilistico: un film sull’incomunicabilità costruito su dialoghi continui”, scrive Mereghetti. Un film che conquistò i cineforum degli anni Settanta, anche per il finale aperto, che lasciava spazio a mille interpretazioni, persino a quella - a nostro avviso paradossale - che il pastore avesse ritrovato la fede. Ispirato alla visione del Diario di un curato di campagna di Bresson, resta una delle opere più profonde e spoglie di Bergman, grazie anche a una livida fotografia in bianco e nero ridotta all’essenziale (nuvole, neve e nebbia).
Franca Poli e Giovanni D'Ippolito, "Ne cives ad arma ruant"
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Ne cives ad arma ruant
Franca Poli e Giovanni D'Ippolito
Un noir che ricorda le atmosfere dei romanzi
industriali degli anni settanta. Ma è un’Emilia post industriale quella in cui si muovono protagonista e antagonista, commissario e killer. O è l’inverso?
Se segue con simpatia le vicende del commissario, il lettore non può che identificarsi col serial killer, con la sua umana sofferenza e il suo bisogno di riscatto morale. E la sua delusione per la scomparsa del mondo come lo conosceva, senza che al suo posto ne sia sorto uno migliore e più giusto, è comune a tutti noi.
Mauro Biancaniello, "Hai smesso i pantaloni corti"
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di Patrizia Poli e Ida Verrei
Sono molti e universali i temi che attraversano la raccolta di liriche “Hai smesso i pantaloni corti” di Mauro Biancaniello: l’amore, la memoria, la guerra, il dolore, il fulgore dell’estate, un eros fantasticato e represso in un legame concreto e maturo.
“Il ricordo è poesia e la poesia non è se non ricordo”, recitava G. Pascoli. Ed è attraverso la rievocazione di un vissuto recente, attraverso quella facoltà affascinante e misteriosa che è la memoria, che Mauro Biancaniello ci regala nel verso un flusso d’immagini, quasi fotogrammi di un film a colori. Cattura frammenti di vita quotidiana e li trasfigura in messaggi poetici, ingenui e lievi, ma palpitanti di emozioni. E così si dispiega il filo dei ricordi: dalla visione onirica della nonna, che “sale le scale del paradiso”, all’immagine dolente della madre, insieme alla quale “non ha mai distolto lo sguardo”, dai balenii luminosi di un’adolescenza svanita, insieme ai pantaloni corti ormai smessi, ai sogni dell’incerto futuro di un’età adulta.
I ricordi, “l’adolescente ritorno”, appartengono a un giovane che da poco “ha smesso i pantaloni corti”, e sta ora osservando, stupito e fiero, il proprio divenire uomo. La giacca e il pantalone lungo, stesi sul letto, sembrano diventare “una persona, un adulto”. In quel “sembrano” c’è tutta l’incertezza della crescita e il timore che la maturità porti con sé il “grigio” di un vivere senza più slanci. A questo proposito, torna più volte l’immagine dell’incrocio, del “crocevia infinito”, fatto di scelte temute e non ancora compiute, mentre certezze infantili crollano, ideali perdono consistenza, affiorano cinismo, egoismo e supponenza, per essere compresi, sublimati e rimossi, in un tempo che corre, “che non è infinito” perché “si è già dopo mai ora”.
C’è tutta la freschezza della giovane età nell’opera di questo sensibile artista, che riesce a cogliere nella realtà il segno dell’umana condizione, fatta di istanti di gioia, ma anche di un tempo che “è solo attimo da mordere”, “lacrime piante senza vergogna”: non solo, quindi, dolci nostalgie, ma anche un tuffo nel dolore, forse vissuto e non solo intuito. D’altra parte, come dice Alda Merini, la poesia nasce anche dai graffi dell’anima.
Contraddistingue la poesia di Biancaniello un’estrema semplicità, che è limpidezza e purezza di parole, sgorgate dal cuore e dalla mente così come le si sente e le si pensa. Un esempio è quel “abbiamo visto tanto” rivolto alla madre, capace di racchiudere un’intera vita di amore e sofferenze patite. E ancora il dolce commiato dalla nonna, con la terra che cade sulla bara. È un linguaggio facile ma ricercato, quello del nostro poeta; il verso si fa mezzo dell’esigenza comunicativa, di voglia di narrarsi; il ricordare è un rivedere, un rivivere, un rivisitare attimi di vita, ma è anche approccio a temi universali.
Questo giovane uomo ha una speranza, una forza tutta sua. Sa che, quando “si riesce a oscurare il proprio io per dar luce a un’altra persona”, allora, davvero, “si può dire di amare.”
Hai smesso i pantaloni corti di Mauro Biancaniello
di MAURO BIANCANIELLO Recensione di Ida Verrei e Patrizia Poli Sono molti e universali i temi che attraversano la raccolta di liriche "Hai smesso i pantaloni corti" di Mauro Biancaniello: l'amore, ...
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