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20 Febbraio 2013 , Scritto da Fabio Marcaccini Con tag #fabio marcaccini

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Elementi non fiabeschi di The Lord of the Rings, prima parte

20 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #fantasy

Elementi non fiabeschi di The Lord of the Rings, prima parte

Nell'appuntamento precedente di questa #TolkienWeek abbiamo evidenziato i punti di contatto tra The Lord of the Rings e il genere della fiaba tradizionale. Cerchiamo adesso di scoprire se e in che misura The Lord of the Rings si allontani dalla fiaba popolare per giungere a qualcosa di diverso.

La prima differenza è costituita dal concetto fondamentale di subcreazione. Abbiamo confrontato The Lord of the Rings con la fiaba popolare basandoci sulla definizione da noi data di tale genere. Abbiamo riscontrato notevoli somiglianze riguardo la struttura morfologica, l’irrealtà del mondo rappresentato e dei fatti narrati, la presenza indispensabile dell’elemento magico. Abbiamo escluso di proposito la poca definizione di luoghi e personaggi della fiaba, poiché essa sarà oggetto qui di analisi più approfondita. Essa costituisce la prima e più evidente differenza fra The Lord of the Rings e la fiaba popolare.

C’era una volta un taglialegna che abitava in una capannuccia al limitare della foresta…

Così prende inizio una famosa fiaba dei fratelli Grimm La casa nella foresta. In questo inizio il grado di specificazione di luoghi, personaggi, cronologie è quasi inesistente. C’era una volta: indica al più che l’azione si è svolta nel passato ma quando di preciso non viene detto. Un taglialegna: del primo personaggio introdotto veniamo a sapere due cose soltanto, cioè che si tratta di un uomo e che quest’uomo fa il taglialegna. Che abitava in una capannuccia al limitare della foresta: si accumula qualche informazione vaga, probabilmente l’uomo è povero e vive vicino ai boschi dove svolge la propria attività. Ma di quali boschi si tratta? Di che nazionalità è il taglialegna? Quanti anni ha? Chi erano i suoi antenati? E in quale margine del bosco vive? E che lingua parla? Tutto questo non ci viene detto né all’inizio, né durante, né al compimento della narrazione. La storia de La casa nella foresta ha come protagoniste principali le tre figlie del taglialegna, sulle quali non abbiamo maggiori informazioni. In termini proppiani il taglialegna è solo il mandante che dà il via alla storia. Di lui, dei suoi antenati, della sua nazionalità non interessa nulla a nessuno.

Di tutti i personaggi di The Lord of the Rings, invece, anche di quelli più sommariamente tratteggiati, veniamo a sapere:

1. la descrizione fisica:

Four tall men stood there. Two had spears in their hands with broad bright heads (…) green gauntlets covered their hands, and their faces were hooded and masked with green, except for their eyes, which were very keen and bright. At once Frodo thought of Boromir, for these men were like him in stature and bearing an in their manner of speech.

2. il nome e la genealogia: almeno il padre è sempre nominato - “Gimli, figlio di Gloin”, “Frodo, figlio di Drogo”, “Eomer, figlio di Eomund” etc.;

3. la lingua parlata (spesso riportata direttamente): un esempio significativo è la descrizione della lingua degli Ent;

As soon as the whole company was assembled, a curios and unintelligible conversation, began. The Ents began to murmur slowly: first one joined and then another, until they were all chanting together in a long rising and falling rhythm, now louder on one side of the ring, now dying away there, rising to a great boom on the other side. […]

“O erofarne, lassemista, carni mirie!”

4. il luogo in cui vive (ed eventualmente quello in cui ha vissuto prima):

The poorest went on living in burrows of the most primitive kind, mere holes indeed, with only one window or none: while the well- to- do still constructed more luxurious versions of the simple diggins of old. But suitable sites for these large and ramifying tunnels (or smials as they called them) were not everywhere to be found; and in the flats and the low-lying districts the hobbits, as they multiplied, began to build above ground.

Questo procedimento deriva a Tolkien dallo studio dell’epica medievale. Nei romanzi medievali i nomi e le genealogie sono fondamentali; il lettore viene messo a conoscenza del nome e del lignaggio di eroi, cavalli, spade, e persino mostri, come in una specie di pedigree. Propp afferma che

quando l’eroe perde il suo nome e il racconto perde il suo carattere sacrale, mito e leggenda si trasformano in fiaba.

Qui assistiamo al processo inverso. I nomi costituiscono una vera e propria ossessione per Tolkien. Il nome è tutt’uno con la cosa, incarna l’essenza della persona, muta coi mutamenti che avvengono nella vita dei protagonisti.

I am Aragorn son of Arathorn, and I am called Elessar, the elf stone, Dùnadan, the heir of Isildur Elendil’s son of Gondor.

Anche i luoghi sono ampiamente descritti. Il libro è corredato di numerose mappe, accuratamente tracciate, in cui compaiono anche siti di non immediato rilievo per la storia. La narrazione s’interrompe continuamente per dare spazio a lunghi passaggi descrittivo-contemplativi:

On the far side was a faint path leading up on to the floor of the forest, a hundred yards and more beyond the hedge; but it vanished as a soon as it brought them under the trees. Looking back they could see the dark line of the hedge through the stems of the trees that were already thick about them. Looking ahead they could see only tree-trunks of innumerable sizes and shapes: straight or bent, twisted, leaning, squat or slender, smooth or gnarled and branched; and all the stems were green or gray with moss and slimy, shaggy growths.

Manlove, in Modern Fantasy, del 1975, ha identificato questa tecnica descrittiva come una delle componenti principali del fantasy.

Anche la cronologia è accuratissima. Al “cammina cammina” delle fiabe si contrappone in The Lord of the Rings una profusione di dettagli che indica la posizione del sole, la sfumatura particolare del tramonto, l’ora del sorgere della prima stella, le condizioni atmosferiche etc.

White mists began to rise and curl on the surface of the river and stray about the roots of the trees upon its borders. Out of the very ground at their feet a shadowy steam arose and mingled with the swiftly falling dusk.

Per scrivere il suo libro di fantasia, Tolkien si è documentato in maniera ferrea: le fasi della luna descritte nel libro provengono dal calendario del 1942, la velocità delle marce dei personaggi si basa sulle cifre riportate nei manuali militari. Tutti critici, anche quelli più scettici, rimangono stupiti della cura, della minuziosità, con cui la Middle Earth è resa reale, coerente, vera.

Niente rimane sconosciuto ai lettori sulla storia, le tradizioni, la lingua e i costumi di elfi, nani, uomini, hobbit, ent, troll, orchi. Dalle appendici e dal racconto stesso veniamo a conoscenza delle storie di re e governatori di tutti i rami dinastici delle varie stirpi di molte razze umane e nanesche (il Silmarillion aveva già detto tutto sul popolo elfico). Ci viene spiegato come calcolavano gli anni elfi e hobbit, con tanto di riproduzione di calendario, vengono tracciati alberi genealogici risalenti a tredici e più generazioni precedenti, impariamo tutto su pronuncia, posizione dell’accento, diverse grafie dei due rami delle lingue elfiche (il Quenya e il Sindarin) e del linguaggio nero degli orchi.

Moltissimi dettagli di natura filologica sfuggono al lettore medio. Solo chi ha una profonda conoscenza dei meccanismi linguistici e delle lingue gallese, finnica, antico-inglese, medio-inglese, norrena, etc - alle quali si ispirano i linguaggi inventati di Tolkien - può accorgersi delle radici comuni nascoste nelle parole dei due rami delle lingue elfiche, o di quelle comuni nei termini usati dai due popoli primitivi Wose e Dunlandiani.

Questo ci porta a una prima banale constatazione: che il libro è rivolto sicuramente ad un pubblico adulto. Solo un lettore dotato d’incredibile cultura linguistica, filologica, mitologica, storica, riesce a comprendere a pieno le allusioni nascoste nel libro.

Per fare un esempio, prendiamo in considerazione il nome Frodo. In una nota erudita delle appendici, Tolkien, che si presenta sempre in qualità di semplice curatore e traduttore del Libro Rosso dei Confini Occidentali steso da Bilbo e Frodo, afferma essere la -o finale del nome Frodo solo una sua anglicizzazione di una -a nel linguaggio degli hobbit. Da ciò si ricostruisce una forma originale *Froda. Quindi Frodo, il piccolo hobbit della Contea, porta il nome del mitico Froda, o Frothi, re saggio apportatore di fertilità e pace. Questa non è che una delle tante allusioni seminascoste, disseminate per tutto il racconto.

Come abbiamo visto, Tolkien crea un mondo che è regolato dalle stesse leggi che ordinano il nostro mondo, ed è così coerente da assumere una sua realtà al di là della finzione letteraria. Nel saggio On Fairy-stories, del 1938, Tolkien ha definito tutto questo subcreazione.

Il vero narratore deve mirare alla creazione di un mondo secondario, diverso da quello primario, pieno di meraviglie, ma basato sulle cose semplici della nostra vita. Se l’arte del novellatore è sufficiente, all’interno di tale mondo ciò che egli riferisce è vero. In questo modo

the story-maker proves a successful “subcreator”. He makes a secondary world which your mind can enter. Inside it what he relates is “true”: it accords with the laws of that world. You therefore believe it, while you are, as it were, inside.Anyone inheriting the fantastic device of human language can say the green sun. Many can then imagine or picture it. But that is not enough.(…) To make a secondary world inside which the green sun will be credible, commanding secondary belief, will probably require labour and thought, and will certainly demand a special skill, a kind of elvish craft. Few attempt such difficult tasks. But when they are attempted and in any degree accomplished, then we have a rare achievement of art, story-making in its primary and most potent mode.

Il saggio On Fairy- stories consiste in una conferenza su Andrew Lang tenuta da Tolkien nel 1938. Ivi egli elabora il suo concetto di subcreazione applicandolo alla fiaba popolare. Egli ritiene, infatti, “subcreazione” il processo creativo del narratore di fiabe. Ma noi non siamo dello stesso parere. L’atmosfera rarefatta della fiaba popolare in cui né personaggi, né luoghi, né tempi, vengono specificati, non ha nulla a che vedere con l’arte della subcreazione, la quale, tramite la minuziosa precisione e coerenza dei dettagli, mira alla creazione di un mondo secondario alieno ma quasi altrettanto reale del nostro. Tale capacità (elfica direbbe Tolkien) è propria soltanto dell’arte fantasy.

A nostro avviso, chi ha proposto a Tolkien di tenere una conferenza sulla fiaba popolare, gli ha fornito invece l’opportunità di parlare della propria opera che, come abbiamo visto, contiene sì elementi della fiaba popolare, ma non si esaurisce in quelli. Della nostra opinione è anche J.S.Ryan, il quale sostiene che con On Fairy Stories Tolkien

is concerned to describe the genre, fairy-tale, in a way that does not relate well to many examples of the form, but which does apply very closely to his own writing.

Sulla struttura morfologica della quest s’inserisce una marea di dettagli che fanno di The Lord of the Rings un’opera che sbalordisce ogni lettore che vi si accosti per la prima volta.

È la materia del Silmarillion a dare il suo sapore inconfondibile a The Lord of the Rings. Frodo si muove in un paesaggio dove altri si sono mossi prima di lui, dove persino le pietre ricordano il passaggio degli Eldar nella Prima Era. È per questo che chi, come Ready, considera le appendici un divertimento dell’autore o un osso gettato in pasto ai fans della Middle Earth, non ha penetrato lo spirito della “fantasy” tolkeniana.

Come abbiamo dimostrato, The Lord of the Rings è strutturato sul modello fiabesco della quest. Si parte da uno status quo di felicità che viene minacciato, cosicché un personaggio deve intraprendere la ricerca di qualcosa che rimuoverà la minaccia. Superati numerosi ostacoli lungo il cammino, si giunge infine alla meta e si torna a casa restaurando lo status quo. Apparentemente The Lord of the Rings è solo uno sviluppo molto ampio e dettagliato di questo modello. Vedremo invece che in quest’opera Tolkien adopera il modello della quest in maniera particolare. Alcuni degli elementi di questo modello vengono rielaborati in chiave moderna, altri addirittura dissolti nel corso della narrazione, tanto da farci sospettare di non essere di fronte ad una semplice fiaba di “andata e ritorno”.

Vediamo come Tolkien ha rielaborato tre elementi portanti del modello della quest: gli ostacoli, l’eroe e il lieto fine.

In The Lord of the Rings gli ostacoli incontrati durante la quest hanno una duplice natura: ostacoli fisici, che danno luogo a nuclei di avventura, e ostacoli di natura interiore.

Gli ostacoli fisici sono costituiti dalle numerosissime e pericolose avventure a cui vanno incontro i personaggi: la fuga al guado, la lotta contro Shelob, il combattimento contro gli Orchi nelle tenebrose miniere di Moria etc. Tali ostacoli fisici o “avventure” servono a movimentare la narrazione e avvicinano The Lord of the Rings ad un moderno romanzo di avventure, in cui però molti degli eventi sono di natura soprannaturale. Questi ostacoli fisici, tuttavia (come del resto quelli delle fiabe) possono avere significati anche a livello spirituale. Essi divengono simboli della coraggiosa lotta dei protagonisti buoni contro il male e, a livello psicanalitico, rappresentano conflitti interiori. Perdersi in una foresta come la “Vecchia Foresta” o la “Foresta di Fangorn”, è sempre stato - fin dai tempi di Dante Alighieri - simbolo di discesa nell’inconscio.

Gli ostacoli di natura interiore sono costituiti da tutti quei momenti - e sono infiniti - in cui i personaggi si trovano di fronte a complicati dilemmi morali: scelte difficoltose, tentazioni, indecisioni, paure. Tali dilemmi sono apertamente registrati con la tecnica del romanzo psicologico moderno. Spesso questa registrazione - sulla quale torneremo in seguito parlando della natura dei personaggi tolkieniani - assume la forma del dialogo del personaggio con se stesso. È questo un adattamento della tecnica dello “stream of consciousness” a un romanzo fantasy in cui anche i dilemmi interiori devono oggettivarsi in qualche modo e divenire tangibili quanto le rocce e gli alberi, senza per questo perdere la loro forza e modernità.

(Sam) could not sleep and he held a debate with himself. “Well, come now, we’ve done better than you hoped” he said sturdily. “Began well anyway. I reckon we crossed half the distance before we stopped. One more day will do it.” And he paused. “Don’t be a fool, Sam Gamgee” came an answer in his own voice. “He won’t go another day like that, if he moves at all. And you can’t go on much longer giving him all the water and most of the food.” “I can go on a good way, though, and I will.” “Where to?” “To the mountain, of course.”(…) “There you are!” came the answer. It’s all quite useless. He said so himself. You are the fool, going on hoping and toiling. You could have lain down and gone to sleep together days ago, if you hadn’t been so dogged. But you’ll die just the same, or worse. You might just as well lie down now and give it up. You’ll never get to the top anyway.” “I’ll get there, if I leave anything but my bones behind”, said Sam. “And I’ll carry Mr Frodo up myself, if it breaks my back and heart. So stop arguing!”

L’eroe della quest è anch’esso scisso in due. Abbiamo già accennato al tema dei “due cercatori”, Frodo e Aragorn. Dei due, soltanto Frodo è l’eroe tipico della fiaba, l’uomo comune che inciampa nell’avventura. Aragorn è l’eroe del mito, deriva a Tolkien non dalla fiaba popolare, ma dai carmi eddici e dalla letteratura epica medievale. Ruth Noel, in The Mythology of Middle Earth, del 1977, ne mette in luce le somiglianze con re Artù e Carlomagno.

L’elemento più sorprendente tuttavia è che, come mostra Verlyn Flieger, Tolkien ha incrociato i motivi propri dei due tipi di eroe, quello mitico e quello fiabesco. Aragorn, l’eroe del mito, deve compiere una quest da fiaba. Al termine della storia egli ottiene un successo personale tipico: sale al trono e sposa la principessa. Frodo, il semplice eroe della fiaba, deve compiere invece una quest mitica per salvare un mondo in pericolo. Il successo personale di Frodo è minimo, la sua è un anti-quest volta alla “perdita” di un tesoro e non alla sua ricerca.

This crossing of motives adds an appeal which few modern readers find in conventional medieval literature, and that by exalting and refining the figure of the common man, Tolkien succeds in giving new values to a medieval story.

Nel saggio On Fairy-stories, Tolkien aveva affermato che tutte le fiabe devono avere un lieto fine, che egli denomina “eucatastrofe”. Esso è un barlume della vera gioia che toccherà ad ognuno di noi: la vita eterna.

Ora, anche se in The Lord of the Rings la quest è portata a termine e Sauron sconfitto, il libro non si conclude nella letizia. Innanzi tutto, secondo la concezione ciclica tolkieniana, qualsiasi vittoria del Bene non è che provvisoria. Come puntualizza Ready, sempre in Tolkien

After great hazard and suffering, even to the end, there is not so much a victory won, as time, time gained by the right order to recover from the loss and be more or less prepared for the next inevitable but unforeseen affray.

Alla fine del racconto tutto torna alla normalità, ma non torna certo la gioia di vivere.

Frodo, l’eroe fiabesco, il protagonista della “quest” principale, invece di salire al trono, di sposare una principessa, di diventare ricco e famoso, torna a casa sfinito dalla prova, mutilato, stanco di vivere. Nessuno riconosce il valore delle sue gesta. Nella Contea sono Merry e Pippin a ricevere il maggior merito di ciò che è successo. Per quanto riguarda Frodo, invece, o non lo si considera affatto, oppure il suo eroismo viene travisato e si pensa che abbia compiuto grandi gesta militari. Il suo vero valore, basato sulla sopportazione, sulla sofferenza, sul sacrificio, sulla rinuncia, nessuno lo capisce. A casa Frodo è ormai un disadattato e, passato qualche tempo, farà vela verso le Terre Immortali dell’Occidente, lasciando per sempre la Terra di Mezzo. Northrop Fry afferma che

con l’ascesa dell’ethos romantico, l’eroismo viene sempre più ad essere considerato in termini di sofferenza, sopportazione e pazienza.(…) Questo è anche l’ethos del mito cristiano, ove l’eroismo di Cristo prende la forma della sofferenza, della passione.

L’interpretazione cristiana dell’eroismo è la modifica più significativa apportata da Tolkien all’epica tradizionale. Frodo finisce come finiscono i grandi eroi tragici del mito. Il piccolo eroe della fiaba combatte l’ultima battaglia e perde, cedendo alla tentazione di arrogarsi l’Anello. A lui vengono riservate la fine e la disperazione dell’eroe mitico.

It is not fair. And that, of course, is just Tolkien’s point. It is not meant to be fair. We are beyond romance, and beyond the fairy- tale ending. In the real world things seldom turn out as we would like them to, and the little man is as subject to tragedy as the great one.

Non dimentichiamoci, inoltre, che, con la distruzione dell’Unico Anello, perdono potere anche i tre anelli elfici, la triade che irradia vita e bellezza nella Terra di Mezzo e da cui dipende la sopravvivenza della bellissima contrada elfica Lothlorien. Al termine del libro, gli Elfi si dipartono per sempre dalla Terra di Mezzo e con loro se ne vanno le ultime vestigia di bellezza assoluta, incontaminabile. Alla Quarta Era, all’era di noi uomini, rimane in eredità una terra in cui ancora tanti Grima possono trovare dei Theoden pronti ad ascoltarli, altri Saruman possono tradire, senza che ci sia più un Gandalf a smascherarli. E, soprattutto, Sauron non è morto.

I piccoli hobbit, gli eroi della fiaba, sono cresciuti e sanno cavasela da soli, ma chi ha conosciuto il male eterno non può più vivere come prima. Merry, Pippin e Sam ce la fanno, ma Frodo, che ha portato l’Anello per tanto tempo e ha bevuto fino in fondo il calice della sofferenza, è esausto e abbandona il mondo. “Anche tornando alla Contea” - dice Frodo - “essa non parrà più la stessa perché io sono cambiato.”

Ecco che il modello proppiano finisce per dissolversi: nella fiaba di Tolkien non esiste vero ritorno, poiché la visione del male ha trasfigurato il quotidiano. Irwin riconosce questa come una delle caratteristiche del genere fantasy: la vittoria dell’ordine non è un ritorno allo “status quo ante” ma al quotidiano trasfigurato dalla visione.

Il modello della “quest” è dunque rielaborato e dissolto dall’interno. Si parte dalla fiaba, l’idillica Contea all’inizio del libro, e, attraverso ostacoli di natura soprattutto etica, si giunge fuori di essa. Gli eroi non sono tutti eroi da fiaba, l’eucatastrofe finale è provvisoria e crepuscolare. In ogni caso, al di là del lieto fine, The Lord of the Rings rimane un libro amaro, angoscioso, pieno di terrore e minaccia, quasi materializzazione degli incubi che ossessionano tutti noi.

Abbiamo accennato alla presenza di personaggi tipici della fiaba popolare: elfi, nani, trolls, maghi, orchi. Tolkien rielabora queste figure fiabesche in maniera personale.

In primo luogo egli ridona agli elfi la maestà e lo splendore che erano loro propri nel mito e che avevano perduto nel corso degli anni per ridursi ai piccoli folletti alati e antennuti delle fiabe popolari. Gli Elfi di Tolkien sono creature immortali, luminose, alte, orgogliose, abili.

Tolkien è un esteta che ha un profondo culto della bellezza. Pur non rinunciando all’orrore sensazionale dei mostri fetidi e degli orchi immondi, purifica sempre i miti da tutto ciò che vi è di volgare e primitivo. Un esempio è la rielaborazione del mito nordico di Earendil.

La stella del vespro, Earendil, cioè Venere, sarebbe, secondo la mitologia norrena, un alluce congelato di Earendil lanciato in orbita da Odino. Questo mito di cattivo gusto viene trasformato da Tolkien nella bellissima storia di Earendil, il marinaio, che veleggia nel cielo con un Silmaril in fronte.

Ma torniamo agli Elfi. Tutto ciò che è elfico è simbolo ed espressione di bellezza pura, superba, malinconica ed immacolata. Lothlorien, la loro dolce terra, è un incanto primaverile. Un solo capello delle chiome della loro soave regina Galadriel “eclissa l’oro della terra, come le stelle eclissano le gemme delle miniere”. Quanto preraffaellitismo in questa descrizione!

Tolkien mantiene il carattere ambiguo che gli elfi avevano nel mito e in certe fiabe popolari. Galadriel, per Eomer, capitano della Marca di Rohan, è solo la “pericolosa strega del bosco d’oro”, mentre per Frodo diviene una luce spirituale di bontà e bellezza che illuminerà il suo cammino, quasi una sorta di junghiana figura dell’anima.

Per quanto riguarda i nani, essi mantengono alcune caratteristiche che possiedono nelle fiabe popolari: sono minatori, sono avidi di ricchezze, sono robusti e barbuti. Tuttavia quelli di Tolkien non sono i nanerottoli dalla vocetta stridula, quasi aborti d’uomo o bambini invecchiati, di “Biancarosa e Rosella” o “Il nano Tremotino”, e neppure le figure bloccate a livello preedipico che permettono a Biancaneve di vivere un periodo di latenza e regressione nella loro casetta nel bosco; non sono neanche i disneyani nani di The Hobbit; essi si avvicinano, semmai, ai nani del mito norreno. Tolkien ne fa un popolo d’individui che hanno padri e madri (esistono, infatti, anche delle nane, sebbene sia difficile distinguerle dai maschi). Questo popolo ha delle tradizioni, delle credenza, una lingua e dei nomi segreti, un suo orgoglio e una sua impulsiva generosità.

I troll (”vagabondi” nell’edizione italiana) sono presenti nell’opera solo perché facevano parte di The Hobbit. Tolkien sembra incapace di rinunciare a qualche elemento del suo mondo secondario, tuttavia si rende conto che i brutti omaccioni di pietra non sono molto credibili perciò in The Lord of the Rings ne limita “l’uso” a fugaci apparizioni.

Gli Orchi non hanno nulla a che vedere con gli orchi delle fiabe popolari, i quali, di solito, hanno mogli umane e si cibano di bambini grassottelli. Quella di Tolkien è una razza prolifica, allevata tramite incroci genetici come macchina da guerra. Paul Kocher, in Master of Middle Earth, del 1972, si sforza di dimostrare che gli Orchi non sono completamente malvagi. Cercare di dimostrare ciò, significa snaturare il libro che mira alla rappresentazione del male completo, incarnato, operante.

Nella conferenza Beowulf: the Monsters and the Critics, del 1936, Tolkien aveva rivalutato la figura mitica del drago in quanto potente rappresentazione di assoluta malvagità. Come il drago, gli Orchi non sono “angeli caduti”, ma bestiacce schifose che è nobile e giusto uccidere. L’assassinio di un orco suscita la stesso rimorso della soppressione di una zanzara. C’è anzi una notevole dose di compiacimento nella descrizione di un massacro di Orchi.

Oltre ad avere rielaborato in modo personale le caratteristiche dei tipici personaggi fiabeschi, Tolkien li ha riempiti di contenuto umano. Di solito, nelle fiabe, veniamo a sapere ben poco dei problemi e dei conflitti interiori della fata madrina di Cenerentola, del mago de Il libriccino magico, o dei nani di Biancaneve. In the Lord of the Rings, invece, ogni personaggio, per quanto schematico, ha una sua psicologia.

Gimli il nano rappresenta la sua razza ma anche se stesso. Un “uomo” che matura durante il viaggio iniziatico, rinuncia ai propri pregiudizi, impara ad amare gli Elfi, rinnega la cupidigia dei suoi avi: “over you gold shall have no dominion” gli predice Galadriel.

Galadriel, la fata, non è una santa, ma una donna che combatte una lotta contro se stessa per non cedere alla tentazione di accettare l’anello che Frodo le offre.

I do not deny that my heart has greatly desired what you offer. For many long years I had pondered what I might do, should the great Ring come into my hands (…) and now at last it comes. You will give me the Ring freely! In place of the Dark Lord you will set up a queen. And I shall not be dark, but beautiful and terrible as the morning and the night! Fair as the sea and the sun and the snow upon the mountain! Dreadful as the storm and the lightning! Stronger than the foundations of the earth. All shall love and despair! She lifted up her hand and from the ring that she wore there issued a great light that illuminated her alone and left all else dark. She stood before Frodo, seeming now tall beyond measurament, and beautiful beyond enduring, terrible and worshipful. Then she let her hand fall, and the light faded, and suddenly she laughed again, and lo! She was shrunken. A slender elf-woman, clad in simple white, whose gentle voice was soft and sad. “I pass the test”, she said. “I will diminish, and go into the west, and remain Galadriel.

Anche il mago Gandalf, nonostante i suoi poteri e la sua provata rettitudine, deve lottare con se stesso per non cedere alla medesima tentazione di cui è preda Galadriel. Come Merlino, egli è spesso sopraffatto da timori e preoccupazioni, si spazientisce con chi ne sa meno di lui e ha un affetto particolare, dolce e paterno, per i piccoli hobbits indifesi.

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The Lord of the Rings e la fiaba

19 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #fantasy

The Lord of the Rings e la fiaba

Vladimir J. Propp, autore di un famoso studio sulla fiaba popolare, Morfologia della fiaba, del 1928, così la definisce:

Da un punto di vista morfologico possiamo definire fiaba qualsiasi sviluppo da un danneggiamento (x) o da una mancanza (x) attraverso funzioni intermedie fino a un matrimonio (n) o ad altre funzioni impiegate a mo’ di scioglimento. A volte servono da funzioni i finali la ricompensa (z), la rimozione del danno o della mancanza (Rm), il salvataggio dall’inseguimento (s) etc.

Più specificamente, Stith Thompson, in La Fiaba nella tradizione popolare, del 1946, usa il termine maerchen per indicare una fiaba di una certa lunghezza, con una successione di motivi ed episodi, che si muove in un mondo irreale, senza una precisa definizione di luoghi e di personaggi, piena di cose meravigliose.

Bruno Bettelheim, in The Uses of Enchantment, del 1976, rileva che una fiaba è tale solo se contiene elementi magici e soprannaturali.

Partendo dalle teorie di questi tre famosi studiosi di fiaba, proponiamo ora la nostra definizione che le compendia tutte e tre. Una fiaba è tale quando:

a livello morfologico-strutturale, abbiamo uno sviluppo da un danneggiamento o da una mancanza, attraverso funzioni intermedie, fino a uno scioglimento finale che comporta la rimozione del danneggiamento o della mancanza o una ricompensa;

ci si muove in un mondo irreale;

luoghi e personaggi non sono ben definiti;

è presente l’elemento magico/soprannaturale.

In particolare, ai fini di questo studio, considereremo “fiaba tipica” quella avente la struttura monomitica della quest, così com’è stata enucleata da Joseph Campbell in The Hero with a Thousand Faces, del 1949.

In questo tipo di fiaba, il danneggiamento o la mancanza iniziale costringono il protagonista a partire alla ricerca di qualcosa (un oggetto, una persona, un luogo etc). Le funzioni intermedie sono rappresentate dagli ostacoli e dagli aiutanti che egli incontra durante il viaggio. Al termine della fiaba, il compimento della quest rimuove il danneggiamento o la mancanza ed è causa di una ricompensa. Il ritorno a casa è spesso difficoltoso.

Prima di procedere, precisiamo che trarremo molti dei nostri esempi di fiabe dalla raccolta di maerchen dei fratelli Grimm (anche se non solo da quella) sia perché riteniamo questa raccolta una delle espressioni più tipiche della tradizione fiabesca europea, sia perché essa ha costituito una delle letture preferite proprio dell’autore di The Lord of the Rings.

Proviamo ad analizzare gli elementi strutturali del fiabesco paragonando The Lord of the Rings a una famosa fiaba dei fratelli Grimm, L’uccello d’oro.

L’uccello d’oro

Danneggiamento o mancanza: il re ordina ai figli di portargli l’uccello d’oro ed essi partono alla sua ricerca.

Funzioni intermedie, ostacoli: la locanda li alletta con i suoi piaceri, dei compiti difficili vengono imposti a Bertrando (triplicazione dell’oggetto della quest: uccello, cavallo e principessa d’oro e imposizione di spianare una montagna in otto giorni).

Aiutanti (che fanno superare gli ostacoli o forniscono oggetti magici): la volpe aiuta Bertrando a spianare la montagna e gli dà consigli indispensabili all’ottenimento dell’uccello, del cavallo e della principessa fatati.

Rimozione del danneggiamento o della mancanza: Bertrando s’impossessa degli oggetti della quest.

Ritorno a casa (difficoltoso): Bertrando torna a casa in incognito e smaschera i fratelli impostori che avevano usurpato il suo posto.

The Lord of the Rings

Danneggiamento o mancanza: I cavalieri neri frugano la Contea alla ricerca del possessore dell’Anello; Frodo parte per distruggere l’Anello, salvare la Contea e tutta la Middle Earth.

Funzioni intermedie, ostacoli: Un albero rinserra gli hobbit nelle sue radici. Gli spettri dei Tumuli tentano di ucciderli, i Cavalieri Neri feriscono Frodo, la neve e i lupi impediscono alla Compagnia dell’Anello di superare le montagne, gli Orchi attaccano ripetutamente la Compagnia uccidendo Boromir, il mostro del lago vuole catturare il Portatore, un Balrog uccide Gandalf, Shelob trafigge Frodo etc.

Aiutanti (che fanno superare gli ostacoli o forniscono oggetti magici): Gandalf aiuta il portatore con la sua esperienza, i suoi poteri magici, e il suo sacrificio nella lotta contro il Balrog, Tom Bombadil disincanta l’albero assassino e disperde gli Spettri dei Tumuli, Bilbo dà a Frodo la spada Pungolo, Elrond fornisce aiuti morali e materiali agli hobbits, Galadriel dona a Frodo una spada magica etc.

Rimozione del danneggiamento o della mancanza: l’Anello viene distrutto e Sauron sconfitto.

Ritorno a casa (difficoltoso): gli hobbit tornano nella Contea ma devono abbattere un regime tirannico instauratovi da Saruman in loro assenza.

Sono riscontrabili in The Lord of the Rings anche le funzioni proppiane di “divieto”, “investigazione da parte dell’antagonista”, “richiamo dell’eroe”, “messa alla prova dell’eroe”, “matrimonio e incoronazione dell’eroe”, etc). Emerge dunque una notevole somiglianza morfologica con le fiabe, a livello, cioè, di funzioni nodali. Tolkien stesso, avido lettore di fiabe, non nega di aver usato per The Lord of the Rings il modello fiabesco della quest che aveva già sperimentato in The Hobbit in maniera ancora più evidente.

I now wanted to try my hand at writing a really, stupendously long narrative and see whether I had sufficient art, cunning or material to make a really long narrative that would hold the average reader right through. One of the best form for a long narrative is the adage found in the Hobbit, though in a much more elaborate form, of a pilgrimage and journey with an object, so that was inevitably the form I accepted.

Probabilmente ancor più che dalle fiabe dei Grimm, il modello fiabesco della quest è filtrato nell’opera di Tolkien attraverso l’epica medievale. Come tutti sanno, Tolkien, prima ancora che scrittore, è stato filologo insigne e uno dei massimi studiosi di letteratura anglosassone. A lui si devono la rivalutazione del Beowulf, la traduzione di Sir Gawain and the Green Knight e di Pearl, un rifacimento di The Battle of Maldon e così via. Fra le sue letture preferite, inoltre, si annoverano i romanzi di William Morris e di George McDonald. Appare chiaro, perciò, che motivi quali la quest del Santo Graal o la ricerca del mostro da uccidere gli erano molto familiari. Ritrovare i temi della fiaba popolare all’interno dei miti dell’epica medievale non deve stupire dal momento che, come ha dimostrato Joseph Campbell, mito, fiaba, rituale e attività onirica dell’uomo, trovano una comune espressione in motivi che nascondono al loro interno gli archetipi dell’inconscio collettivo junghiano.

The Lord of the Rings è un esempio di fiaba con “due cercatori”, i quali si separano verso la metà della narrazione per condurre a termine ognuno la propria ricerca. Abbiamo infatti due eroi principali, Frodo e Aragorn. Frodo è il portatore dell’anello e la sua quest coincide con la distruzione del proprio fardello. Aragorn è il re in incognito, la cui quest, tipica, coincide con la riconquista del regno e l’ottenimento della mano della donna amata. I due cercatori si separano alla fine del primo libro per ritrovarsi soltanto nel finale.

The Lord of the Rings, come la fiaba, è ambientato in un mondo totalmente immaginario in cui si muovono personaggi che non hanno alcun fondamento storico.

Fra gli elementi comuni alle fiabe, riscontrabili anche in The Lord of the Rings, possiamo ancora elencare:

un qualche tipo di lotta con avversari soprannaturali che si presentano spesso sotto forme mostruose: Sauron, Shelob, il Balrog, i Nazgul, possono essere messi in relazione con gli innumerevoli draghi, orchi e streghe malefiche delle fiabe;

la presenza di fantasmi: gli spettri dell’Anello, i guerrieri dei Sentieri dei Morti, i fantasmi della palude, sono l’equivalente dei morti riconoscenti o minacciosi di alcune fiabe popolari europee;

i cavalli intelligenti: Ombromanto, Nevecrino, etc, si comportano come Falada, il famoso cavallo de La piccola guardiana d’oche;

i poteri magici: i poteri di Gandalf, Sauron, Saruman, Galadriel somigliano a quelli dei maghi e delle fate delle fiabe;

gli oggetti magici: la porta di Moria si apre su comando come la famosa porta di Alì Babà e i quaranta ladroni; la fiala di Galadriel brilla di luce inestinguibile; l’Anello rende invisibili; i Palantiri permettono di vedere lontano; lo specchio di Galadriel predice il futuro; la spada Pungolo brilla in presenza di Orchi;

la piccolezza straordinaria: i nani e i piccoli hobbit somigliano ai minuscoli folletti delle fiabe;

i successi del figlio minore: Faramir, il “cenerentolo”, riesce là dove il fratello prediletto dal padre ha fallito;

le profezie: numerose sono le profezie disseminate nel corso della narrazione, ad esempio quella che concerne “il flagello d’Isildur” (cfr. la profezia ne I tre capelli dell’orco).

Sono presenti inoltre in The Lord of the Rings personaggi tipici della fiaba popolare: elfi, nani, maghi, trolls, orchi, etc. I protagonisti delle fiabe popolari di solito sono personaggi comuni i quali, messi alla prova dalle vicissitudini che devono affrontare nel corso della fiaba, maturano e ottengono successi personali: Fiumetto, il figlio del taglialegna, diventa re ed eredita una fortuna; i caprettini, ingoiati dal lupo cattivo, vengono salvati ed imparano a badare a se stessi; Biancarosa e Rosella sposano due principi. Bruno Bettelheim mostra che, persino quando nelle fiabe si parla di appartenenti a famiglie reali, in realtà il vero protagonista è sempre l’uomo comune: Biancaneve è solo una ragazzina pubere e la regina cattiva solo una madre che non accetta di essere superata in bellezza e gioventù dalla propria figlia. Il re, la regina cattiva e Biancaneve sono in realtà un padre, una madre e una figlia in una tipica costellazione edipica in cui ogni bambino (e ogni genitore) può identificarsi.

Una delle caratteristiche principali delle fiabe è perciò presentare personaggi quotidiani in cui il lettore può identificarsi facilmente. Il lettore di fiabe avverte che potrebbe accadere anche a lui di essere oggetto d’invidia da parte di un fratello o doversi districare in una situazione difficile. Anche in The Lord of the Rings alcuni (non tutti) dei personaggi hanno appunto questa caratteristica di essere eroi quotidiani.

I piccoli hobbit sono goffi e maldestri, non sono abituati come gli eroi del mito ai grandi avvenimenti. Merry e Pippin all’inizio del racconto non sono che giovani hobbit spensierati, di buon cuore e generosi, ma che devono ancora mettere alla prova il loro coraggio e la loro resistenza. Alla fine essi saranno cresciuti di statura sia in senso fisico (grazie all’acqua degli Ents) sia in senso morale. Le sofferenze li avranno maturati nel giro di un anno, facendo di loro hobbit adatti ad assumere il comando della Contea. Essi più degli altri otterranno successi personali e ricompense nel finale della storia. Anche Aragorn alla fine sale al trono e ottiene la mano della fanciulla elfica che gli era stata promessa solo a patto che riconquistasse il regno che gli spettava di diritto.

Per quanto riguarda lo stile, Tolkien usa alcune tecniche comuni alla fiaba popolare. Come afferma Marion Perret

Tolkien prefers to suggest rather than spell out: he invites his reader to participate in the imaginative act of subcreation by his use of representative actions as well as by his use of generalized language.

Così come nelle fiabe si preferisce dire “si mise a sedere e pianse”, piuttosto che dare una dettagliata descrizione dello stato d’animo disperato di colui che soffre, qualche volta Tolkien opta per il suggerimento e il simbolo piuttosto che la descrizione esplicita. In certi momenti salienti esegue un primo piano di un gesto o di un elemento.

The close up technique permits him to substitute a significant detail for an elaboration of an emotional state; repetition of that significant detail abbreviates even more.

Così tutte le volte che Frodo porta la mano all’anello, il lettore capisce che egli è in preda ad una violenta tentazione; oppure ogni volta che Sam sorregge il padrone, il suo gesto simboleggia affetto, dedizione, fedeltà, senza perdere di concretezza e plasticità narrativa. Il lettore deve partecipare con la consapevolezza di ciò che il gesto ha significato in precedenza.

Spesso nelle fiabe molto di quanto viene narrato è dato per scontato. Quando si afferma che il protagonista incontrò “la vecchina dell’aceto” e non “una vecchina”, usando l’articolo determinativo, ciò presuppone che il lettore/ascoltatore della fiaba sappia a priori dell’esistenza di una vecchina specifica dell’aceto. È una tecnica che serve a dare profondità alla narrazione e l’idea di qualcosa al di là del mero ritaglio di eventi di cui veniamo a conoscenza. Abbiamo l’impressione dell’esistenza di un regno fatato in cui le vecchine dell’aceto sono naturali e comunissime.

Tolkien afferma di apprezzare le fiabe dei Grimm proprio per “quel senso di antichità e profondità” che vi riscontra. Egli usa la stessa tecnica. Il senso di profondità gli interessa molto di più che al novellatore, dal momento che si è posto come scopo principale proprio la creazione di un “mondo secondario”. Nonostante le appendici spieghino tutto ciò che c’è da sapere sulla Terra di Mezzo, sono state inserite nell’opera soltanto nel 1966. Ed inoltre si tratta appunto di appendici, che un lettore normale di solito legge al termine del libro. Perciò, quando i primi elfi sono introdotti mentre cantano “Ghiltoniel! Oh Elbereth!”, senza una previa lettura del Silmarillion e senza una conoscenza delle lingue elfiche, il lettore medio non può sapere che essi stanno intonando un inno religioso in onore di Varda, la suprema fra i Valar, regina delle stelle, e che Elbereth è uno dei nomi che gli Elfi le danno in Sindarin.

Il lettore piomba, fin dal primo capitolo, in un mondo che esisteva già prima che egli aprisse il libro, profondo, variegato e complicatissimo. Gli eventi narrati in The Lord of the Rings hanno una datazione precisa e si svolgono in un mondo coerente che è rappresentato con minuzia fin nei più piccoli particolari. Essi si riferiscono - ce lo conferma Tolkien stesso - ad un’epoca passata della nostra terra. Tuttavia non ci viene detto quanto tempo sia trascorso da allora né dove si trovasse esattamente la Terra di Mezzo.

Those days, the third age of Middle Earth, are now long past, and the shape of all lands has been changed but the regions in which hobbits then lived were doubtless the same as those in which they still linger; the north west of the old world, east of the sea.

Questa descrizione lascia la storia in un limbo che ha il sapore vago del “c’era una volta di là dai monti e dal mare”.

Attraverso l’esame della struttura, delle componenti e di alcune tecniche stilistiche di The Lord of the Rings, siamo giunti ad una prima conclusione secondo la quale esistono innegabili somiglianze di carattere strutturale fra The Lord of the Rings e la fiaba. Un primo valore da attribuire al libro perciò è quello che gli deriva dall’apporto della fiaba popolare, ed un primo messaggio sarà quello stesso di tante fiabe: che una lotta contro le gravi difficoltà della vita è inevitabile ma che anche i più umili possono riuscire solo se non si ritraggono intimoriti. Come i piccoli fruitori delle fiabe, soffrendo e gioendo con i loro eroi, riescono a maturare e a diventare uomini, così Tolkien, eterno bambino che si è divertito con lo scherzo dell’Hobbit, attraverso la fiaba The Lord of the Rings cresce come uomo e come scrittore. Insieme a Bilbo, impara ad accettare la vecchiaia e la vicinanza della morte. Sopportando poi, con Frodo, giorno per giorno il peso crescente del terribile Anello, sfocia in una scrittura amara che della fiaba si serve per convogliare messaggi profondi.

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Poesia per i naufraghi di settembre 2012

18 Febbraio 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #poesia

 

Carico 
di membra fantasma
al fondo della chiglia,
occhi fissi come fari penetrano
il buio indistinto che leviga scogli
sbattuti dal lamento di lacrime perse 
e di persa speranza
se appena più forte
il flutto si abbatte
come ala di nero destino.
Non come chi la vita ogni giorno 
l’inventa o la sciupa
nel tranquillo bisogno.
Ma come nasce ogni volta
chi supera i nodi stretti e violenti
di guerre e soprusi.

Il vento ha spirato più forte.
Di cento che erano
solo cinquanta hanno visto la riva
e degli altri la morte.

6/9/2012

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L'arte di raccontare: gli archetipi culturali della novella

18 Febbraio 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #saggi

 

 

 
La lettura dei racconti contenuti in opere letterarie del mondo classico di più ampia e complessa struttura è il frutto di un lavoro di ricerca attraverso il quale si possono cogliere tipologie narrative identiche, sebbene in contesti letterari diversi tra loro, volte al fine di sbigottire ma anche di comunicare messaggi di verità che riguardano i comportamenti umani o le caratteristiche specifiche di una determinata società.

Attraverso esse è possibile individuare la genesi o il terreno da cui sono provenute le opere di Autori italiani o stranieri particolarmente impegnati nell'arte del racconto, nonché tanta parte dei film d'avventura.

 





Gli educatori antichi sapevano bene che il meraviglioso è un’esca potente per stimolare l’apprendimento: ”È gradevole ciò che è nuovo e che prima non si sapeva… Quando poi vi si aggiungano il meraviglioso e il portentoso, questi accrescono il piacere, che è appunto la formula magica dell’apprendimento…”.

(A.Stramaglia, Res inauditae, incredulae. Storie di fantasmi nel mondo greco-latino, levante editori, 1999, p.87).

Oggi i ragazzi conoscono spettri, fantasmi e simili attraverso il cinema (cfr. Ghostbusters ecc.), il teatro, il romanzo nero, le narrazioni di Poe, le leggende concernenti i castelli scozzesi, inglesi ecc. Ma nell'antica Roma agli spettri e simili si è creduto davvero. E tra le credenze paurose c'erano anche quelle riguardanti i lupi mannari e le streghe. Alcuni uomini, infatti, -si credeva- , avevano il potere di trasformarsi in lupo (versipelles); andavano in giro come veri lupi ad assaltare gli ovili nella notte; poi riprendevano la forma umana. Se in quelle loro azioni bestiali venivano feriti, rimaneva nell'uomo la ferita inferta al corpo del lupo. Ugualmente si credeva che certe vecchie conoscessero l'arte di trasformarsi in uccelli; messe le ali, svolazzavano malefiche nelle tenebre. Probabilmente questi racconti rispetto a certe storie dell'horror moderno fanno sorridere, ma la suggestione che tuttavia producono è notevole grazie all'impiego di un linguaggio pirotecnico in cui c'è una sapiente mescolanza di neologismi, termini onomatopeici, nonché vocaboli che in quanto espressione del sermo plebeius, cioè della lingua in cui si esprimeva l'uomo della strada, della taverna ecc., sono ravvisabili ancora oggi nel dialetto campano (es. vicus angustus nel senso di vicolo stretto attestato con leggera variazione della desinenza nel nostro dialetto).

Lo stesso Apuleio dice ad apertura di libro: ”In stile milesio voglio, per te, lettore, intrecciar varie favole e col dolce mormorio del mio narrare, carezzar le tue benevole orecchie… Avrai da stupirti, ché si tratterà delle persone e delle sorti d’uomini cangiati in altre figure, i quali con alterna vicenda ritorneranno nuovamente nella forma primitiva.” (Metamorfosi I,1 trad. C. Annaratone).



Sicché i lettori sono guidati, attraverso la lettura filologica dei testi scelti, a cogliere la corrispondenza tra lingua e significato, tra registro linguistico e funzione psicagogica della parola scritta, tutto nel piacevole ascolto di avventure mirabolanti che corrono lungo le strade della magia e della stregoneria, che costituiscono l’humus dove affondano le radici tante leggende della nostra terra riguardo a streghe e fattucchiere.

Inoltre attraverso tali racconti è possibile stimolare la curiosità verso una stagione della civiltà umana eccezionale in tutti i campi, una civiltà che è la nostra radice e la struttura profonda del presente.

Il lupo mannaro

Il lupo mannaro

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Tolkien e la critica

18 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #fantasy

Tolkien e la critica

Dalla sua pubblicazione (1954) fino a oggi, The Lord of The Rings di Tolkien ha suscitato opinioni controverse riguardo al genere letterario cui l’opera appartiene.

Fra coloro che lo ritenevano attribuibile a un genere specifico e soltanto a quello, il critico di maggior rilievo è senz’altro il canadese Northrop Frye che in The Secular Scripture del 1976, all’interno di una rivalutazione e delimitazione della tradizione del romance inglese, affermava: “Nel ventesimo secolo, il romance ritornò di moda dopo la metà degli anni 50, con il successo di Tolkien e l’ascesa di ciò che comunemente viene denominata fantascienza”. Frye quindi considera sia le opere tolkieniane sia quelle di scrittori di fantascienza alla stregua di sottogeneri del romance, per la presenza in essi di meccanismi tipici del romance stesso quali la polarizzazione (netta divisione fra personaggi positivi e personaggi negativi), la quest, il lieto fine.

Edmund Wilson, nel famoso articolo apparso su Nation nell'aprile 1956, OO those Awful Orcs, che ne ha fatto il caposcuola di una serie di detrattori, considerava The Lord of The Rings un libro per bambini, attribuendo a tale definizione tutte le valenze negative possibili. Per Wilson, The Lord of the Rings non era che una “fiaba” leggera e fatua. Sulla scia di Wilson, un recensore del Times Literary Supplement prediceva nel 1955, per altro con scarse capacità divinatorie,

this is not a work that many adults will read right through more than once

relegando anch’egli l’opera nella stanza dei bambini.

Altri commentatori, pur inserendo The Lord of the Rings nel solo genere della fiaba, non davano a questo inserimento valore spregiativo. Fra questi, Michael Tolkien, secondogenito dello scrittore, che così si esprimeva sul Daily Telegraph:

I feel certain that it was, in the first place, on account of our enthusiasm for story told and invented by my father, that the inspiration came to him to put in permanent shape what he so rightly regarded as the type of fairy story real children really want.

Un’opera diretta ai bambini dunque, ma quelli che ragionano e sentono come adulti. Un contributo italiano è l’opinione di Oriana Palusci, secondo la quale Tolkien ha compiuto una “ricerca attraverso i materiali della fiaba” per giungere a qualcosa di differente.

Un altro gruppo di critici evita di inserire The Lord of the Rings in un genere preciso, considerandolo un’opera sincretica che riunisce caratteristiche di generi disparati. Leggenda e fiaba, tragedia e poema cavalleresco, il romanzo di Tolkien è in realtà un’allegoria della condizione umana che ripropone in chiave moderna i miti antichi. Ecco cosa si legge sulla copertina dell’edizione Rusconi di The Lord of the Rings curata da Elemire Zolla, il critico italiano che maggiormente ha preso in considerazione Tolkien. Qui, arbitrariamente e confusamente, si parla di un “romanzo” che avrebbe come argomento una “leggenda” ma che può essere anche considerato una “fiaba”, o una “tragedia” (senza considerare che, a causa del lieto fine la fiaba esclude la tragedia) o, infine, una “allegoria” basata su di una “mitologia” riproposta in chiave moderna. Che esista un sincretismo nell’opera di Tolkien è evidente, ma la definizione di Zolla, pur contenendo un innegabile nucleo di verità, così come si presenta, ingenera più confusione che chiarezza. Più cauta e precisa Verlyn Flieger che, fra i critici che si sono interessati all’opera di Tolkien ha dato, secondo noi, le interpretazioni più sottili, raffinate ed esaurienti. Questa la sua opinione:

I do not propose to assigne The Lord of the Rings to a particular genre such as fairy tale, epic, or romance. The book quite clearly derives from all three, and to see it as belonging only to one category is to miss the essential elements it shares with the others.

Simile a quella della Flieger l’opinione di J. Mc Kellan

The Lord of the Rings is a special kind of fiction, midway between medieval romance and modern novel.

“A special kind of fiction”: ecco la chiave per l’interpretazione dell’opera di Tolkien. The Lord of the Rings appartiene a un genere nuovo che nasce dall’unione di caratteristiche di più generi, quali la fiaba popolare, l’epica medievale, il romanzo (inteso nei suoi due sottogenri di romanzo d’avventure e romanzo psicologico moderno) il tutto tenuto insieme e amalgamato da uno spirito moderno che dà importanza ai problemi e ai valori dell’uomo.

Una categoria di critici individua questo genere nuovo nel fantasy e costruisce una tradizione di opere fantasy in cui inserire quella di Tolkien. Così Irwin accomuna Tolkien ai suoi amici “Inklings”, C. Williams e C.S. Lewis, sostenendo che

all have (…) a way of absorbing variant straints of myth into a general Christian oriented pattern, which reveals a clear artistic, and perhaps also doctrinal syncretism.

Manlove, dopo aver dato una definizione del fantasy molto accurata, e aver individuato altri scrittori afferenti allo stesso genere, analizza purtroppo l’opera tolkieniana in modo piuttosto superficiale, e sembra non raggiungere un’effettiva comprensione della sua portata fondamentale proprio all’interno del genere che egli va individuando.

A sua volta, Patrick Grant costruisce una tradizione inglese in cui inserire Tolkien, che spazia dalle Nursery Rhymes di Mother Goose ad Alice in Wonderland di Carrol, ai Jungle Books di Kipling e afferma che:

Fantasy in The Lord of the Rings has been pushed to its logical limits, beyond Kipling, and beyond Carrol too, finally presenting itself to itself as a peculiar combination of literary conventions.

Ma qual è l’opinione di Tolkien? Nel 1950 così egli presentava il suo libro agli editori:

il mio lavoro è sfuggito al mio controllo e ho prodotto un mostro: un romance estremamente lungo, complesso, piuttosto amaro e piuttosto terrificante, inadatto a ragazzi (ammesso che sia adatto a qualcuno).

E ancora, in una lettera a Manlove del 1967, affermava

The Lord of the Rings fu un tentativo intenzionale di scrivere una fiaba per adulti.

Queste due definizioni indicano l’incertezza di Tolkien stesso riguardo all’attribuzione della sua opera a un genere preciso. Ciò conferma il carattere sincretico di tale opera che usufruisce di stili, motivi e tecniche propri di generi diversi. La seconda affermazione poi, contiene un elemento fondamentale per la nostra ricerca. “Una fiaba per adulti” dice Tolkien. Da questa definizione partiremo per vedere in cosa quest’opera magmatica possa essere considerata una fiaba e come Tolkien abbia sfruttato il materiale fiabesco indirizzandolo ad un pubblico adulto. The Lord of the Rings è complesso, sfaccettato, concerne valori esistenziali di notevole profondità, tali da avvicinare l’opera al romanzo moderno.

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La grande scala del Palazzo Legislativo

17 Febbraio 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #racconto

La grande scala del Palazzo Legislativo (1957)

da El que vino a salvarme (1970)

di Virgilio Piñera

Traduzione di Gordiano Lupi

Il libro mi cade dalle mani, la musica che ascolto sembra noiosa e oscura, disturba il mio udito; parlo con mia madre e sento le parole congelarsi sulla punta delle labbra; scrivo una lettera a M. - ho molte cose da raccontargli - ma dopo due righe interrompo la scrittura. Mi fermo sulla porta del cinema: non mi decido a entrare; non partecipo al venerdì della seducente Eva e non vado neppure al tè della frivola Elena. Proprio loro, con le loro mani, hanno lasciato l’invito sulla mia scrivania. Resteranno di stucco quando sapranno che non parteciperò. Ma come! Mancherò proprio io, l’ornamento dei loro saloni, il sale e il pepe delle loro serate; io, che mando via la tristezza, che elettrizzo i presenti, che scaccio le ombre dai volti e che consolo i cuori angosciati… Il bello è che non soffro, non mi angustia il fatto di non partecipare. Come un servo che ha ancora tempo prima di raggiungere il letto per riposare, sto chiudendo, una dopo l’altra, le porte al mondo.

Sarà che morirò presto? Ma se mi sento pieno di salute, non mi fa male niente, il mio polso è normale, non ho febbre; inoltre, non sono un anziano; ho appena trent’anni. Malgrado ciò, tutto mi cade dalle mani, il poco che faccio viene in automatico, meccanicamente, sono carente di vita e calore. Mi guardo con indifferenza, mi annoia la mia stessa esistenza, vorrei vederla molto lontana da me. Al mattino, lo spettacolo è terribile: tiro fuori una gamba dalle lenzuola e la sua vista mi provoca l’effetto di un animale selvaggio. Raggiungo il colmo dell’orrore quando faccio le abluzioni mattutine e vedo riflessa la mia testa nello specchio. Quella testa… in altri tempi oggetto di ammirazione per i miei occhi, orgoglio per i miei sensi.

Conosco la causa della mia strana libertà. È - non voglio attendere oltre per confessarlo - la grande scala del Palazzo Legislativo. Giovedì scorso sono dovuto andare al Palazzo. Ero molto in ritardo nel pagamento di alcune imposte. Gli uffici dove riscuotono certe imposte si trovano al terzo piano. Ho cominciato a salire la grande scala. All’improvviso mi sono trovato inchiodato al quinto gradino. Ho sentito che mi risucchiava e nello stesso istante mi liberavo da tutto il resto. Era lei, dunque, la sola cosa che mi interessava. Salire e scendere. Ho sceso i pochi gradini che avevo salito e una volta raggiunto il punto dove cominciava la scala ho cominciato una lunga contemplazione. Ho fatto la sensazionale scoperta che un gradino si compone di una lastra verticale e di una lastra orizzontale. Quindi ho avuto la chiara e precisa sensazione che quando saliamo vediamo prima la lastra verticale e, subito dopo, la lastra orizzontale; e che, al tempo stesso, quando scendiamo, vediamo prima la lastra orizzontale e dopo la lastra verticale. Altra rivelazione: visto che a ogni gradino corrisponde un passo delle nostre gambe, accade che finiamo per non sapere se siano i nostri passi a salire lungo i gradini o se i gradini salgano a causa dei nostri passi. Altra cosa di grandissima importanza: i pianerottoli. Non sono luoghi dai quali si guarda la vita dall’alto, non servono a lanciare sguardi di disprezzo sui vili mortali; questi pianerottoli non sono una meta e, proprio per questo, non siamo interessati a fermarci su di loro e a commuoverci con le nostre pene. No, sarebbe molto infantile, molto miserabile considerare il pianerottolo dal punto di vista delle nostre sofferenze. Al contrario, dobbiamo considerarli soltanto come i pianerottoli che sono. E cosa si guarda da tali luoghi? Certo, solo grandini…che scendono se la vista si abbandona in rumorose cascate dall’alto del pianerottolo verso la base della scala; che salgono se gli occhi, armati di scarpe ferrate e di grosse corde, intraprendono la faticosa ascensione in direzione del prossimo pianerottolo. Per parlare di loro: sono dodici i pianerottoli di questa grande scala in marmo rosa del Palazzo Legislativo, cupo edificio la cui costruzione è molto precedente rispetto alla scoperta dell’ascensore.

Bene, se come ho detto, il primo e il secondo di tali pianerottoli ci consentono di contemplare, secondo i capricci dell’occhio, il gioco ora ascendente ora discendente dei gradini, non accadrebbe la stessa cosa se ci trovassimo posizionati nel terzo pianerottolo di ogni piano. L’architetto che ha progettato questa scala l’ha messa in una curva così ripida, ad angolo acuto, che non permette di vedere, neppure sporgendosi, nessuna parte della scala. Effetto sconcertante, direi che è persino capace di far perdere d’animo. Quando raggiunsi per la prima volta quel pianerottolo capriccioso del primo piano, siccome non vidi i gradini che avevo lasciato alle mie spalle così come quelli che mi avrebbero condotto al secondo piano del Palazzo, sentii che le mie gambe si impuntavano come cavalli piantati davanti all’abisso. Dispiacere, angoscia, instabilità si impadronirono di me, mentre gli occhi, privi di un punto di riferimento, si muovevano follemente nelle loro orbite come inutili scoiattoli nella loro ruota. Ma non potevo voltarmi indietro: mi mancavano ancora due piani. Feci un enorme sforzo di volontà e continuai ad andare avanti. Improvvisamente, come una zampata di tigre, mi si presentò di nuovo la scala in tutta la sua grandiosa maestà. Ah, quanta inutile allegria! Subito tornai ad abbattermi e caddi nella stessa disperazione: dopo aver salito pochi scalini mi capitò di guardare ciò che lasciavo alle mie spalle. I miei occhi non poterono scoprire neppure la traccia di un pianerottolo.

Come si poteva supporre non pagai l’imposta. In cambio, per tre volte consecutive salii e scesi la scala. L’ora era propizia, avevo un folto pubblico, io ero uno dei tanti che saliva quei sublimi gradini e nessuno si tratteneva dall’indicarmi con un dito accusatore. Inoltre, non poteva essere che parte di quel pubblico si trovasse in quel posto per i miei stessi motivi? In ogni caso non è importante. La scala è monumentale, la sua notevole ampiezza permette che tramite lei salgano e scendano comodamente fino a dieci persone, le quali, sia detto en passant, non mi fanno né caldo né freddo. Adesso ricordo che un suicida si gettò dall’alto di questa scala circa un anno fa. Non lo giudico e ancor meno lo maledico per aver macchiato con il suo sangue le stupende scale. Allo stesso modo non mi prendo gioco del triste pazzoide che si fece venire la voglia di defecare su quei gradini di marmo. Per l’uno come per l’altro la scala aveva un significato ben preciso. La scala ha una qualità singolare: è sempre lei stessa ma rappresenta anche la libertà di chi la sceglie.

La mia libertà! Ho affittato una casa davanti al Palazzo. Dalla mia finestra la osservo come un amante e, in silenzio, sono molto grato a un impiegato che di notte lava quei gradini. Per caso ha scelto anche lui la sua libertà? Un contrattempo facilmente rimediabile: ogni sabato e domenica il Palazzo è chiuso. In quel caso percorro la scala del Liceo, più modesta, quattro pianerottoli semplici e marmi grigi, ma, nonostante tutto, placa la mia ansia di libertà e mantiene in forma le mie gambe per le grandi giornate al Palazzo Legislativo.

Per quel che concerne la seducente Eva, la frivola Elena, l’amico, la musica, il libro, il cinema, gli incontri erotici, le vacanze in spiaggia, i foruncoli sul volto, le condoglianze, i raffreddori cronici, il tram… ogni cosa è dimenticata. Mi interessa soltanto la grande scala del Palazzo Legislativo. La mia libertà dipende da lei. E se demolissero il Palazzo e con lui questa stupenda libertà? Non mi perderei d’animo. La città possiede altri palazzi e altre scale. Per esempio, quelle del Palazzo di Giustizia: monumentale, con marmi screziati, con sessanta pianerottoli e angoli intricati. Credo che guadagnerei nel cambio. Non vi sembra?

VIRGILIO PIÑERA (1912 – 1979) - Teatro dell’assurdo, poesia modernista e narrativa fantastica di uno scrittore pericoloso che non si è mai piegato al regime cubano.

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Emanuele Marcuccio, "Pensieri minimi e massime"

17 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Emanuele Marcuccio, "Pensieri minimi e massime"

Pensieri minimi e massime

di Emanuele Marcuccio

prefazione di Luciano Domenighini

postfazione di Lorenzo Spurio

PhotoCity Edizioni, Pozzuoli (Na), 2012, pp. 47

ISBN: 978-88-6682-240-0

Prezzo: 7,60 Euro

Parafrasando Shakespeare (cfr. La Tempesta, atto IV, scena I), siamo fatti della materia di cui sono fatte le stelle: principalmente di atomi di carbonio e di carbonio sono fatti i diamanti. Immensa come le stelle è la vita, preziosa più dei diamanti (aforisma 69)

Non è un saggio né una silloge poetica “Pensieri minimi e massime” di Emanuele Marcuccio bensì una raccolta di ottantotto aforismi più una appendice che costituisce parte integrante dell’opera.

L’aforisma 14 è l’enunciazione della poetica di Marcuccio: “Nelle arti, come nella vita, se c’è spontaneità, c’è anche personalità.” L’autore ci appare come un giovane che annota i suoi pensieri, “semplici ma profondi”, come egli stesso tiene a precisare, un giovane d’altri tempi, imbevuto di poesia, da Leopardi, a Pascoli, a Shakespeare, un giovane che si abbevera alla fonte poetica, che ne trae consolazione. Non fa mistero del suo bisogno di recuperare uno sguardo meravigliato sul mondo, il fanciullo pascoliano che è in noi, l’espressione semplice, le parole povere e ripetute ma non prive di valore, la genuinità di baci e abbracci in un rapporto d’amore che è anche dialogo, raccontarsi la vita come dono. È significativa l’insistenza sul concetto di “meraviglia”.

L’autore alterna questa enunciazione istintiva con riflessioni più articolate, più intellettuali, forse estrapolazioni e rielaborazioni di saggi, e addirittura con echi da tragedia greca: “Cupo è il nostro tempo, cupa è la scena di questo mondo e il nostro sentire in una tempesta si inabissa.” (aforisma 42)

Mentre riflette sulla lirica, ha barlumi poetici egli stesso: “L’anima del mondo ha ali ad abbracciare il tutto” (aforisma 32).

Marcuccio conosce la poesia e le sue figure retoriche, il correlativo oggettivo che passa da Eliot a Montale – nell’appendice compie, infatti, un notevole e avvincente excursus attraverso i secoli, da Omero a San Francesco fino a Ungaretti – ma è convinto che alla base di tutto ci sia, sempre e comunque, l’ispirazione, vista come folgorazione irrazionale, o meglio pre-razionale, scorciatoia intuitiva.

L’ispirazione è come la grazia divina, un dono, un capriccio degli dei che investe il poeta, che è solo un recettore, un vaso che attende l’illuminazione, senza la quale c’è solo arido e sterile artificio. Il poeta deve porsi in ascolto, attendere questa voce, questa luce che lo colmerà, che lo trasfigurerà. Solo in seguito potrà rielaborare, limare, ricostruire il materiale grezzo che è, però, già di per sé diamante.

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Fabio Marcaccini, "Buongiorno anche a te"

16 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #fabio marcaccini, #recensioni

Fabio Marcaccini, "Buongiorno anche a te"

Prefazione di Patrizia Poli

Oltre ogni inganno, l'uomo, il poeta Marcaccini, è solo. Solo di fronte alla sua coscienza, solo con la consapevolezza dei propri umanissimi errori e di ciò che non sarà mai piu', solo di fronte al tempo che se ne va. Niente piu' abbellimenti, niente illusioni, bensì parole, pulite e scabre. Egli trova conforto nella natura, madre e non matrigna, intesa come archetipo, elemento primigenio. Il mare sarà quindi il suo mare di Calafuria, ma anche “il mare” di tutti noi, il mare di ogni epoca ed ogni vita. Di fronte all'onda, allo scoglio, alla risacca, come di fronte all'aquila e alla vetta, egli sarà ancora una volta solo col suo dolore, appena mitigato, a tratti, da tenui bagliori di speranza. Come unico riscatto, l'Amore, ormai scevro da connotazioni profane, capace di sublimare la carnalità in un dolcissimo sentimento che unisce e redime, che solleva al di sopra delle brutture del mondo. Insieme all'amore, l'amicizia, sempre desiderata e sempre tradita da coloro in cui si era riposta fiducia. Ultimo ma non certo ultimo, l'affetto paterno, che trasmette il testimone a chi viene dopo di noi, a chi si ama di un amore smisurato ed infinitamente indulgente. La poesia di Marcaccini ci tocca nel profondo, perché sgorga dall'umano bisogno di redenzione e dignità, contro tutto e tutti.

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Gianfranco Menghini, "Follie sulla costa"

15 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Gianfranco Menghini, "Follie sulla costa"

Follie sulla costa

Gianfranco Menghini

Booksprint edizioni

pag 292

La protagonista di “Follie sulla costa” di Gianfranco Menghini è, appunto, la Costa Azzurra, col suo mare tremulo e luccicante, i suoi bagliori di luce dorata, calda, di vita spumeggiante al sapore di Dom Perignon. Accattivante l’atmosfera del Festival di Cannes. Par di sentire l’odore del salmastro portato dalla brezza, par di calpestare il tappeto rosso in bilico su tacchi vertiginosi. Al centro di uno schema amoroso da commedia degli equivoci e degli intrighi, ci sono Henry e Christine, marito e moglie, attorno ai quali ruota una folla di personaggi, amici e non, accumunati dal desiderio di godersi la vita, soprattutto sessuale, con tutti i mezzi, leciti e illeciti.

Il romanzo denota conoscenza e interesse per i meccanismi di un certo tipo di società benestante ed è utile per capire come funziona una mente maschile. Intrighi e cattiverie da fiction, boccacceschi scambi di coppia si snodano attraverso l’operato di mariti fedifraghi ma un po’ coglioni, di mogli costantemente in fregola e dalla libido così improbabile da non sfigurare in un articolo di Man’s Health, però furbe e quasi innocenti nella loro spudoratezza. Personaggi senza chiaroscuri, tutti, più o meno, deplorevoli e amorali, come in un film di Vanzina. La licenziosità, seppur ironica, ha cadute di stile, i dialoghi sono frutto di ovvie fantasie maschili, il periodare è lungo, non disteso.

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