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Nicaragua: terra dei sorrisi e della natura incontaminata

4 Ottobre 2013 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Nicaragua: terra dei sorrisi e della natura incontaminata

Testo e foto di Liliana Comandè.

C’è un angolo del mondo dove sembra che il tempo si sia fermato e i colori della natura splendono come i volti delle persone, semplici, luminosi, genuini.

C’è un paese “antico” che si sta aprendo alla modernità preservando, però, i grandi valori, quelli della natura, dell’ambiente e dello spirito. Un paese, che rappresenta un angolo di Eden, e si contrappone al degrado del terzo millennio. E’ il Nicaragua, posto al centro del Continente americano. Bagnato dalle acque dell’Oceano Pacifico e del Mar dei Caraibi, il suo nome lo deve all’antica lingua della cultura Nàhuatl, significa “Qui, unito all’acqua” (Aqui junto al agua). Nicaragua, territorio ricco di storia e di una bellezza naturale tanto inaspettata così come la generosità e la cordialità dei suoi abitanti. Laghi, lagune, fiumi, foreste, cascate, vulcani, spiagge bianche e incontaminate, splendide città coloniali, villaggi caratteristici, una flora e fauna ricchissima, rendono il Paese un prezioso “universo turistico” ancora tutto da scoprire e apprezzare per le forti emozioni che riesce a trasmettere a chi ha la fortuna di visitarlo.

E’ così ‘vergine’ ed esuberante nella sua natura che nel piccolo Paese esistono più di 70 ecosistemi diversi. Questa particolarità lo fa riconoscere – fra gli altri unici sette paesi al mondo – come nazione dotata di una megadiversità biologica. Nelle strade e nei paesi e nelle piccole cittadine si respira un’aria di serenità, di tranquillità, di voglia di vivere gioiosamente, nonostante il Nicaragua non sia una nazione economicamente ricca, anzi, è fra le più povere della terra. Ma la vera ricchezza l’ha nel grande cuore della sua gente e dal suo sincero senso di ospitalità, che ti conquista immediatamente.

Conserva il fascino di un paese che mantiene ancora intatte le sue tradizioni, la sua cultura, la sua musica e lo splendido ambiente che la natura gli ha generosamente regalato.

Il Paese è ricco di campagne coltivate con banani, palmitos (specie di banani i cui frutti, però, vengono solo cucinati – sottili come patatine fritte o a rondelle e mangiate al posto del pane- buonissimi!), papaia, mango e ottimo caffè, rigorosamente biologico. Sicuramente non è un posto per chi ama i villaggi turistici perché in Nicaragua ci si va per conoscere un mondo nel quale si deve abbandonare lo stress quotidiano per assorbire un po’ lo scorrere lento del tempo, senza nessun affanno. E’ un Paese estraneo al turismo di massa nel quale si concentra cultura, architettura coloniale, grande varietà di ecosistemi, bellezze naturali e gente straordinaria. E’ ideale per il viaggiatore che è alla ricerca di autentiche emozioni.

Sulle strade di campagna è facile incontrare mucche, cavalli, galline, maiali che, con molta indolenza e a malincuore, le lasciano per far passare le automobili e gli autobus. C’è un’aria permeata di magia, la cui maggioranza è di religione cattolica e festeggia i Santi con Feste e processioni. I tramonti sono molto suggestivi ovunque ci si trovi e il cielo è talmente terso che la sera le stelle sono lì, a portata di mano, e si possono distinguere perfettamente tutte le costellazioni. La mezza luna è messa in orizzontale e non in verticale, come la vediamo qui da noi. Nel paese ci sono ben 57 vulcani, verdi montagne e tanti giardini tropicali. Possiede, quindi, uno dei patrimoni più importanti della terra: quello naturalistico e, inoltre, l’intelligenza di essere consapevole di volerlo mantenere così com’è.

Ora il Nicaragua ha capito che può condividere questo suo patrimonio con il resto del mondo, quello che, però, ne può rispettare il suo ecosistema e, attraverso una nuova politica di promozione in Europa, portata avanti dal Ministro del Turismo, Mario Salinas, già s’iniziano a vedere i primi risultati. C’è un incremento del turismo europeo nel Paese, costituito soprattutto da tedeschi, spagnoli e inglesi, i quali hanno iniziato ad apprezzare “le tradizioni, la cultura autentica e originale ma, soprattutto, la gente. Il popolo nicaraguense, infatti, è fra le nostre più importanti bellezze” – come ha affermato il Ministro nel corso di una conferenza stampa con i pochi giornalisti e operatori italiani invitati dal Governo a conoscere il suo Paese. “Il Nicaragua è un paese diverso e si avverte. Vorremmo, pertanto, che in Europa se ne accorgessero. Il nostro intento è quello di far conoscere ciò che di meglio ha da offrire il nostro Paese e ci rendiamo anche conto che la componente turismo si sta convertendo in una ricchezza per il Paese. Il Nicaragua è una nazione dove la fantasia non ha frontiere e dove c’è un realismo fantastico”. Ha concluso il Ministro Salinas.

Io mi sento di aggiungere che esistono altre potenzialità turistiche quali l’artigianato, la gastronomia, le attività sportive come il trekking, andare a cavallo, fare birdwatching, quelle acquatiche quali il surf e lo snorkeling, la pesca d’altura, l’antica cultura, l’architettura coloniale, l’aspetto religioso popolare, oltre a quanto già detto prima.

Di sicuro c’è che lo sviluppo delle attività turistiche, coinvolgendo le comunità e gli operatori locali, non può che far bene al Paese perché è un mezzo di crescita economica che genera anche lavoro e migliora la qualità della vita della popolazione. Il tutto, però, nell’ottica della preservazione del patrimonio identitario, ambientale e culturale.

In questo mio diario di viaggio vorrei poter trasmettere le emozioni vissute in 9 giorni trascorsi nel piccolo Stato nel quale vivono 5milioni e 800mila abitanti, dei quali 1milione e mezzo sono nella capitale Managua. Una piccola curiosità, nel Paese non esistono i numeri civici né i nomi delle vie, ma solo punti di riferimento, perciò, se dovete andarci da soli, attenzione a non ritrovarvi a… vagare come tanti Fantozzi alla ricerca del vostro hotel!

Diario di Viaggio

Primo giorno: Managua

Arriviamo in Nicaragua dal Venezuela, dove abbiamo trascorso già trascorso un press tour di 8 giorni e del quale racconterò in un altro momento. Partiamo la mattina molto presto da Caracas e arriviamo a Managua, la capitale, dopo aver fatto scalo anche a Panamà. Spostiamo ancora una volta le lancette dell’orologio e torniamo indietro con il fuso orario. Ora abbiamo 7 ore di differenza con l’Italia. Gli incaricati del Ministero ci prendono in aeroporto per accompagnarci in albergo. Ammiriamo lungo il tragitto un mosaico di vita rurale e di case moderne. Managua, infatti, fu rasa al suolo nel 1972 da un terremoto ed ora, per sua sfortuna, non possiede una vera e propria identità. Non ha un centro storico ma tante strade e molti viali.

C’è una nuova Cattedrale, il Teatro intitolato al suo più importante poeta: Ruben Dario, centri commerciali, ottimi hotel e Il 27 per cento della popolazione è Nica. Allontanandosi dalla città si entra in quello che può sembrare un centro rurale composto da case basse. E’ strano, ma subito avverto un’aria familiare, merito, forse, della simpatia delle persone che ci hanno portato in Hotel. L’albergo è molto bello e dotato di ogni comfort, una gradevolissima sorpresa. Si chiama Seminole, come gli indigeni originari di qui e alcuni – li vedi dai tratti caratteristici somatici – vi lavorano. Abbiamo qualche ora a disposizione prima di incontrare il Ministro del Turismo che cenerà con noi nel nostro albergo. Non so cosa fanno i miei compagni di viaggio e così, da sola, e senza alcun timore, mi avvio a piedi nel centro commerciale più vicino all’hotel per dare un’occhiata e per fare qualche acquisto che, probabilmente, non avrò più il tempo di fare quando ci muoveremo da Managua. Assomiglia ai nostri centri commerciali, ma è un po’ più piccolo.

La prima cosa che mi colpisce è che a Managua fa un gran caldo, ma a meno di 2 mesi dal Natale, i negozianti stanno già addobbando i loro esercizi con alberi e decorazioni varie! Entro in un grande negozio di abbigliamento e mi piace immediatamente la cordialità delle commesse che si mettono a mia disposizione. Resto lì dentro quasi un paio di ore perché mi sono ‘incaponita’ su una maglietta particolare che, purtroppo, non ha più il codice a barre e non può essere venduta. La commessa parla con la direzione fino a che non riesce a trovare un articolo simile che ha lo stesso codice e così, alla fine riesco a comprare la sospirata maglietta! Ma nel frattempo, un’altra commessa mi ha portato una sedia per farmi stare più comoda nell’attesa e anche lei si dà da fare per trovare una soluzione. E’ ormai buio fuori, e sono entrata che c’era il sole. Le commesse mi salutano con abbracci e baci, felici… per la mia felicità! Questa esperienza mi fa già capire il carattere della gente e mi sono detta subito che quel paese mi sarebbe sicuramente piaciuto! Torno in albergo giusto in tempo per fare una doccia e prepararmi per la cena con il Ministro. Non sono per niente in agitazione per la sua presenza perché ho già avuto modo di incontrarlo a Roma, nell’Ambasciata del Nicaragua, e mi è subito piaciuta la sua semplicità e la capacità di essere “normale”. Arriva senza scorta e vestito in maniera comoda (completo e nessuna cravatta). Parla anche un perfetto italiano ed è contento di rivederci e stare con noi. Non si dà le arie dei nostri politici e, soprattutto, Ministri, e nessuno si “scappella” quando arriva in albergo – il pensiero va immediatamente al nostro servilismo e al nostro mettere sul piedistallo chi arriva a quel grado – mi assale subito un senso di nausea comparando i nostri 2 popoli. Il Ministro è informale (nel senso di normale) e la cena diventa un pasto serale tra amici. Ad un tratto Il Ministro Salinas ci fa notare che, seduta in un altro tavolo del ristorante c’è una persona speciale. Ci giriamo e ci dice che la Signora è Rigoberta Menchù Tum, guatemalteca e Premio Nobel per la Pace nel 1992. Il Premio le è stato conferito quale riconoscimento dei suoi sforzi a favore della giustizia sociale e la riconciliazione etnoculturale fondata sul rispetto per i diritti delle popolazioni indigene. Siamo, chiaramente, emozionati e ci alziamo per parlare con lei che si dimostra contenta di vederci e di spiegarci quali sono i progetti che sta portando avanti nel suo Paese. Ci illustra i progetti turistici comunitari che porta avanti con la comunità indigena e di 2 centri intorno al lago Atitlan che vorrebbe fossero affidati alle popolazioni indigene per renderle autonome attraverso le entrate economiche. Ci dice che si augura di trovare turisti responsabili che partecipino alla vita comunitaria in modo da assaporare veramente la vita dei locali. Ci spiega anche che il nostro tenore Luciano Pavarotti ha donato alla comunità un centro che porta ancora il suo nome.

Il Ministro Salinas ci comunica che anche in Nicaragua sta nascendo una cooperativa agricola che l’anno prossimo sarà già in grado di ricevere i primi turisti. Ci salutiamo con abbracci e baci e… una foto ricordo con lei. E’ il mio secondo Premio Nobel che incontro, dopo Rita Levi Montalcini, e tutto avrei immaginato fuorché di incontrarne un altro, anzi, un’altra, in un Paese così lontano! Due donne semplici ma meritevoli del prestigioso Premio.

Secondo giorno: Salinas Grandes-Leon

Oggi ci attende una giornata impegnativa e molto emozionante. Siamo diretti a Salinas Grandes, villaggio vicino all’Oceano Pacifico dove avremo modo di visitare la comunità di Salinas. Ma prima ci rechiamo al piccolissimo hotel Grace March Lodge Somar, situato direttamente su una larga e lunga spiaggia dove è previsto il pranzo La proprietaria, Grace March, è la titolare anche di un Tour Operator locale ed è dotata di grande energia e cuore . Ci fa visitare i lodge, semplici e rustici ma dotati di ogni comfort e interamente costruiti in maniera artigianale, dai mobili alle sculture, dai lampadari agli elementi che compongono anche le docce (alcune cose sono veramente geniali). Grace aiuta le persone che si trovano nella comunità acquistando il pane che preparano e facendo lavorare all’interno del suo hotel alcune donne che preparano braccialetti fatti con le conchiglie oppure altri oggetti che vendono poi ai turisti, oppure vanno a Leon. I ragazzi, invece, sono impegnati nell’organizzazione delle escursioni alle isole con le barche. Inoltre, i giovani sono coinvolti nella conservazione dell’ambiente, puliscono le spiagge, raccolgono la spazzatura portata dal mare con la quale creano opere d’arte che vengono premiate (la più bella) e collocate all’interno delle camere dei Lodge. Ci rechiamo nella comunità, e qui, ci rendiamo conto che c’è tanto da fare per il prossimo e di quanto egoismo c’è fra noi che ci lamentiamo per il “troppo di ogni cosa che abbiamo”, mentre in questo Centro (ma ce ne sono tanti altri come questo), c’è gente che ha bisogno di aiuto e cerca di vivere dignitosamente ‘inventandosi’ il lavoro. La Comunità è composta da persone di ogni età e alcune hanno degli handicap motori, fisici o mentali, ma è straordinario vedere quanto aiuto ricevano da chi si sente più fortunato solo perché è normale. Senza il sostegno di una ONG italiana, di organizzazioni internazionali, di una delegazione nicaraguense e di donazioni private, la comunità non potrebbe andare avanti così come i bambini con handicap non potrebbero andare nella capitale per essere curati. Ma all’interno la Comunità, di cui fanno parte anche 22 bambini, si aiutano allevando maiali e galline, vendendo il pane, vivendo di pesca, di una piccola fabbrica di sale e creando oggetti artigianali. I giovani hanno fondato 4 anni fa un Gruppo Culturale Giovanile e oggi prepara attività ricreative per altre 12 Comunità, ma non solo. Si occupa di insegnare a parlare a chi ha difficoltà nel farlo, insegna a scrivere, a leggere e a dipingere. Ben 64 ragazzi provenienti dalle Comunità hanno ottenuto delle borse di studi grazie al lavoro di questi giovani “fortunati”.

Il loro scopo è quello di occuparsi che il benessere dei bambini sia sempre protetto e che possano avvalersi anche delle tecnologie che li aiutino ad andare avanti, progredire e creare alternative. Straordinaria e benedetta gioventù che si dà da fare per gli altri! Ma noi siamo lì per prendere atto di ciò che si fa nel centro e per scattare fotografie per illustre meglio la comunità. Fotografo qualche bambina, ma poi non riesco più a scattare fotografie a gente così sfortunata. Mi sembra quasi di profanare la loro intimità. Mi isolo dal gruppo ed esco e, ad un tratto, sento una piccola mano che mi tocca il braccio all’altezza del gomito per poi scendere a stringermi la mano. Mi giro e un visetto serio mi guarda e accenna un timido sorriso. E’ Luisa, la prima bambina che ho fotografato appena sono entrata nella Comunità e ancora non sapevo ciò che avrei trovato. La sua piccola mano mi stringe ogni volta che vuole che io la guardi e le sorrida. I suoi occhi sono tristi nonostante mi sorrida. Sento che ha bisogno di un contatto fisico e così l’abbraccio. E’ contenta. Mi si è posta accanto e non si è più staccata da me. Mi sono sentita assalire da una tenerezza infinita nei confronti della bambina e di tutta la gente che era nella Comunità. Non ho più retto all’emozione di stare lì e di guardare quei tanti occhi tristi puntati verso di noi che sembravamo i “nababbi” fra i poveri o quelli che andavano lì solo per vedere un posto come un altro. Ho provato vergogna per l’egoismo e l’indifferenza che ognuno di noi, da sempre, mostra verso gli altri veramente sfortunati e mi sono sentita inerte, priva di una bacchetta magica che può cambiare lo stato di vita di tutta quella gente. Un pianto di sconforto e di pena è arrivato all’improvviso e solo un operatore del gruppo, Roberto, se n’è accorto ed ha capito perché piangessi. Mi ha cinto le spalle con il suo braccio e mi ha fatto capire maggiormente il significato della nostra visita in quella Comunità. Il viaggio non è soltanto gioia di visitare nuovi paesi ma è capire come il mondo può insegnarci che la solidarietà è essenziale per poterci definire essere umani e fare qualcosa di concreto per gli altri, non solo per noi stessi. L’egoismo non porta mai nulla di buono. E… quelle persone le avrò negli occhi e avranno sempre un posto speciale nel mio cuore. Ma siamo qui per lavorare e, salutati i ragazzi della comunità siamo tornati al Somar Lodge dove abbiamo pranzato in maniera eccellente, anche delle Tortillas preparate da noi. Ma siamo in ritardo perché la prossima tappa è la città di Leon e non vorremmo arrivare troppo tardi.

Leon, ex capitale del Nicaragua, è la seconda città più popolata del Paese con 300mila abitanti. La parte più antica della città è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità in quanto un disastroso terremoto del 1610 la distrusse quasi completamente. Leon è considerata oggi la capitale culturale e religiosa del Paese e ci accoglie quasi al tramonto con le sue belle case in stile coloniale sempre molto colorate e caratteristiche. Però non abbiamo molto tempo per visitarla e, quindi, ci rechiamo subito nella piazza principale dove si trova la bellissima Cattedrale. Saliamo sul campanile e la veduta è sorprendente! E’ tutto lì, sotto di noi, e possiamo ammirare la città a 360°. Dalla sommità vediamo i patii delle abitazioni, ricche di palme, che spiccano fra le tegole dei tetti. Le grosse campane, che ancora sono suonate a mano, sono lì a farci da ornamento in questo momento molto particolare e speciale. Saltiamo e camminiamo sui tetti della Cattedrale, fra pinnacoli, cupole e balaustre, alla ricerca del posto migliore per scattare foto. Ma la piazza ci attrae e scendiamo a curiosare fra le persone che passeggiano, mangiano, lavorano. C’è aria di festa e un gruppo di bambini sta suonando con alcuni tamburi una musica cadenzata. Due di loro sono mascherati come 2 personaggi tradizionali e folcloristici del Nicaragua. Uno è la ‘Gigantona’, che balla e si gira in continuazione, mentre l’altro è ‘l’Enano Cabezon’. I bambini, oltre a suonare, scrivono delle filastrocche per le persone che vogliono godere della loro compagnia. Ci sono tante belle persone: famiglie con bambini che ci sorridono con simpatia e gente che vende del cibo a noi sconosciuto. Ci sono anche delle persone che praticano dei mestieri che da noi sono scomparsi, come quello del lustrascarpe. C’è molta dignità in questa gente ed è contenta di essere fotografata e di riguardarsi nelle nostre macchine reflex. Ci ringrazia anche per essere stato/a prescelto/a da noi! Quanta semplicità e quanta serenità nei loro sguardi, anche quando sono intenti nei loro lavori più faticosi. Peccato non avere il tempo visitare le altre belle chiese di Leon come quella di S. Francisco, una delle più antiche (è del 1639), e quella della Mercedes. Pazienza! Faccio ancora un giro nei dintorni, ma è ormai ora di andare nel nostro hotel “El Convento”. Il nome non è casuale perché prima era un Convento francescano. All’interno ha conservato molti degli oggetti che vi erano quando era un centro religioso: statue, quadri, un bellissimo mobile ligneo dorato e molto grande che sembra un altare. C’è anche una splendida collezione di vecchie bilance. Un bel giardino è situato proprio al centro della costruzione.

Terzo giorno: Vulcano Cerro Negro e Matagalpa

Di primo mattino, abbiamo effettuato un giro interessante nel colorato mercato della città. Mi piace sempre visitarne uno ovunque mi trovi perché rispecchiano i gusti alimentari delle popolazioni e le produzioni delle loro terre. A Leon c’è n’è uno coperto ed uno scoperto e, quest’ultimo, è situato in uno dei lati della Cattedrale. La vivacità cromatica della frutta fa bella mostra di sé sui banchi dei venditori e, così, ci attardiamo a fotografare tutto e tutti e a chiedere il nome di alcuni prodotti che non conosciamo. Sui banconi, tutta la merce è disposta in maniera molto ordinata e, nonostante ci sia già un gran fermento fra venditori e acquirenti, anche qui riceviamo sorrisi e disponibilità a rispondere alle nostre domande e a farsi fotografare. Ci dispiace lasciare il mercato, per noi indubbiamente caratteristico e singolare, ma questa è la giornata nella quale andremo a fare trekking sul vulcano Cerro Negro, per poi ridiscendere facendo una specie i snowboard. Purtroppo la giornata piovosa non ci faceva presagire nulla di buono per l’escursione al vulcano, ma questo era il programma stabilito per noi e questo si doveva fare.

Saliamo a bordo di un camion tipo militare con i sedili in verticale, sul quale sale anche un gruppo di americani piuttosto ‘caciaroni’ come si dice a Roma.

Non capiamo il perché di questo tipo di mezzo di trasporto, ma lo abbiamo compreso immediatamente appena siamo usciti dalla città. Avete presente il Camel Trophy o la Parigi Dakar? Ecco, il viaggio è stato proprio simile a quello delle note manifestazioni sportive. Percorsi non asfaltati, pieni di buche e di acqua, ci facevano sballottare da una parte all’altra, ci facevano saltare dal sedile quando c’erano avvallamenti, il tutto in mezzo ad una natura rigogliosa… sotto l’acqua. Ma quando siamo arrivati davanti al vulcano, la cui sommità era coperta da una grossa nuvola nera mentre tutto attorno era circondato da una fitta nebbia, ci è preso un po’ di sconforto perché pensavamo di non poter salire sulla sua cima. All’improvviso, per fortuna, la pioggia è cessata e, caricate le tavole, gli zaini in spalla, e un sacco con la tuta da indossare per la discesa, ci siamo avviati in fila indiana verso le pendici del vulcano le cui fumose caldarole spargevano nell’aria un vago odore di zolfo e davano l’impressione che da un momento all’altro la montagna si dovesse risvegliare. .. Alto poco più di 800 metri, è il più giovane vulcano di tutto il Nicaragua e 3 anni fa ha avuto l’ultima eruzione, quindi, l’idea di una ripresa non era poi così campata in aria!

Incominciamo a salire. Il nero della lava e il fumo che esce dalle fenditure della montagna, rende il panorama irreale ma molto spettacolare. Il cielo è sempre cupo e la nebbia non ne vuole sapere di diradarsi. Alla nostra destra, però, incominciamo a vedere che il cielo si apre e il sole che filtra attraverso l’apertura ci mostra lo spettacolo bellissimo di un territorio ricoperto da verdi piante L’aria, nonostante il caldo, è diventata gradevole. Con i nostri pesi addosso, procediamo abbastanza speditamente, tranne gli operatori che sono carichi di attrezzatura bella pesante. Finalmente arriviamo alla meta: la cima del vulcano, e subito a qualcuno viene la tentazione di tornare indietro.

La parte dove si deve scendere con la tavola è coperta dalla nebbia e la pendenza è di ben 41°. Ma ormai siamo là e dobbiamo scendere alla meno peggio. Ci infiliamo le tute color arancione e gli occhiali da mare (quelli per lo snorkeling, per intenderci, ma piuttosto scheggiati) – per proteggere gli occhi dai sassi di lava che si alzano mentre si effettua la discesa. Nebbia più occhiali rovinati non era un binomio che dava sicurezza, ma molti scendono con più o meno difficoltà ed io, in quel caso non ci faccio una gran bella figura perché mi sono dovuta fermare varie volte per vuotare la tavola dai sassi che si erano accumulati e per sollevare gli occhiali per vedere dove stavo andando! Ma ciò che disse Gesù, “gli ultimi saranno i più fortunati”, si è verificato per gli ultimi che sono scesi: la nebbia era scomparsa e il sole era apparso nel cielo. Vince Roberto, che scende più velocemente degli altri.

Risaliamo sul camion e facciamo il percorso all’inverso, ma stavolta sembra ancora più accidentato e fra grandi risate e urla per gli scossoni nel camion, torniamo a Leon giusto per mangiare qualcosa e partire per Matagalpa, dove arriveremo in tarda serata. Ceniamo con il Sindaco del luogo e andiamo a dormire in un luogo chiamato Selva Negra.

Quarto Giorno: Selva Negra – Granada

Il risveglio è quanto mai da fiaba! Selva Negra, infatti, è un posto assolutamente incredibile esteso ben 850 ettari e fondata nel 1881 da immigrati tedeschi che vi impiantarono la prima industria del caffè in Nicaragua. Selva Negra si trova a nord di Matagalpa, a 2.200 metri di altezza, ed è una riserva naturale con una foresta nebulosa, vergine e lussureggiante, meta di studenti che vengono a visitarla, ma anche di turisti che soggiornano nel bel Resort. All’interno c’è un Resort molto accogliente e funzionale, la cui architettura non stona in quest’area protetta. C’è, inoltre, un ristorante, un piccolo museo, una chiesa, una piccola piantagione di caffè, un lago con ninfee e cigni, una piccola piantagione di orchidee, cavalli e..tante scimmie sugli alberi.

Alcuni tetti degli chalet sono ricoperti di bromeliacee, soprattutto di colore ciclamino. L’attuale proprietario, anche lui tedesco: Eddy Kuhl Arauz, ha acquistato questo paradiso terrestre, ricco di flora e di fauna, nel 1975 ed ha scritto vari libri, compreso quello che narra la storia di questo luogo incantato. Nella zona di Matagalpa si coltiva il caffè, definito il migliore al mondo per il gusto e l’aroma, e che viene esportato anche in Italia. E’ certificato arabico al 100 per cento ed è coltivato solo in maniera biologica. Quando il chicco è maturo assume un colo rosso e per preservare le piante dagli insetti, si mette una bottiglia di plastica con un prodotto organico per allontanarli.

Il Signor Eddy mi prende in simpatia e incomincia a farmi visitare la riserva. Mi dice di amare molto l’Italia, soprattutto Firenze e il Palazzo degli Uffizi e le canzoni liriche, che ogni tanto accenna a cantare. Gli descrivo, però, le bellezze di altre città come Venezia e Roma e ne rimane estasiato. Mi fa entrare nel giardino delle orchidee, ma non ci sono solo questi fiori, ci sono vari tipi di alberi, di piante, anche di caffè dal frutto acerbo o maturo e tanti banani.

E’ un posto incantevole questo, dove si sente il canto degli uccelli. Riesco a vedere anche un colibrì che sta picchiando su un albero. All’improvviso si odono suoni diversi, gutturali, mentre le fronde degli alberi più alti incominciano a muoversi. Eddy mi spiega che ci sono le scimmie. Le vedo, sono intere famiglie che saltano da un albero all’altro e mi emoziono per il privilegio che ho di stare in quel posto incantato. Cerco di fotografarle, ma sono troppo alte e non ci batte il sole, sicuramente non riuscirò ad ottenere dei buoni scatti. Eddy è contento della mia attenzione e meraviglia su ciò che vedo e mi chiama in continuazione per farmi notare ogni cosa. Incomincia a chiamarmi “Pura Vida” anziché Liliana, mentre io lo definisco un uomo da invidiare perché è riuscito a crearsi un ambiente unico al mondo per viverci.

Mi vuole far cavalcare uno dei suoi cavalli e me ne fa sellare uno per farmi scoprire la Selva. Herique, l’uomo che si occupa dei cavalli mi accompagna in questo giro fantastico dove gli unici rumori sono quelli degli zoccoli dei cavalli. Quanta pace! Che posto incredibile e unico è questo!

Ci sono persino dei piccoli ruscelli che attraversano i giardini che portano agli chalet. Ma in questo paradiso Eddy ha pensato anche ai bambini e per i piccoli ospiti c’è anche un parco giochi situato dietro il ristorante.

Mi dispiace lasciare questo posto e penso che la mattina, appena ho aperto la porta dello chalet, mi sono trovata a 3 metri di distanza dal lago con le oche che passeggiavano quasi davanti alla mia porta! Eddy viene a salutarmi e mi dice ancora “Tu eres pura vida” (tu sei pura vita. Y cuando tu quiere estar aquí esta es tu casa”(tu sei pura vita e quando vuoi venire qui, questa è la tua casa), e queste parole mi rimangono impresse nella mente e nel cuore.

Io lo ringrazio, invece, per aver preservato questo angolo di mondo e consentire a chi vuole conoscerlo di venire qui e condividere con lui le tante meraviglie di Selva Negra.

Sulla macchina che ci porta a Matagalpa rifletto sul fatto che il Nicaragua mi sta sorprendendo ogni giorno di più e mi sta facendo provare emozioni che recano beneficio al mio spirito. Arrivati nel bel Paese, che conserva ancora un’aria un po’ antica, assaggiamo un eccellente caffè nel locale più noto del luogo e poi di nuovo per la strada per scattare fotografie alle persone che ci sembrano più particolari o più interessanti da fotografare.

Non c’è che l’imbarazzo della scelta: Ragazze e bambini bellissimi si mettono tranquillamente in posa tranne i più timidi e, a volte, questo ci fa vergognare per la nostra veemenza nel chieder loro di essere ripresi.

Lasciamo Matagalpa e ci dirigiamo a Granada, dove arriveremo dopo 3 ore di macchina. Nel piccolo pullman dormono quasi tutti.

Io non posso, non ce la faccio. Come sempre devo vedere il paese nelle parti più vere come la campagna, con la quotidianità della vita contadina. Osservo le semplici case con il classico recinto per i maiali, le mucche allo stato libero che mangiano l’erba dei campi, la gente che si riposa sulle amache, gli animali domestici come i cani che mai ti molestano o abbaiano contro chi non conoscono. Attraversiamo località con piccoli laghi, piccoli cimiteri e piccole colline. Notiamo tanti bambini che giocano con poco o fra loro, bucato steso sui fili ad asciugare, il consueto verde degli alberi e delle piante e i rapaci che volano in cielo.

Arriviamo a Granada nell’ora migliore per poterla osservare nella parte più alta della Cattedrale. Che spettacolo vista dall’alto! Anche questa città è molto bella e interessante e sempre con le case in stile coloniale, molte delle quali restaurate. Ammiriamo le caratteristiche abitazioni costruite attorno ad un patio centrale sempre ricco di piante tipiche locali e dagli immancabili banani. Che bella che è questa città. Arriviamo giusto in tempo per assistere ad una piccola processione che termina il suo percorso dentro la Cattedrale.

La guida ci spiega che Granada è una delle città più importanti del Nicaragua e fra le più belle città coloniali dell’America centrale.

E’ la rivale di Leon, anche se è più piccola ed ha appena 160mila abitanti, ma è molto monumentale e aristocratica. Si trova a sud di Managua, dalla quale dista solo 40 chilometri, 90 dalla Costa Rica e 50 dalle più belle spiagge dell’Oceano Pacifico.

Al centro della città c’è il Parco Centrale, che è presente in ogni città piccola o grande del Nicaragua. Facciamo in tempo a fare i classici due passi intorno alla Cattedrale, ma anche qui è arrivata l’ora di andare nel nostro nuovo hotel e di cenare con le autorità locali.

L’Albergo è il Gran Francia, bellissimo esempio di stile coloniale spagnolo, che si pensa possa risalire addirittura al 1.524. Completamente restaurato, sono molte le leggende su questo storico edificio.

Quinto giorno:

Granada- Las Isletas-San Juan del Sur

Questa mattina sarà dedicata alla visita di Granada a bordo di un calesse. Ne apprezziamo l’armoniosità delle costruzioni, molto belle e ben conservate, il grande Parco centrale, la bella Cattedrale e il Municipio.

Poco distante dalla Piazza centrale c’è il classico mercato affollato di venditori di ogni genere di merce alimentare, compresa la frutta tropicale che non abbiamo mai visto. Infine, ci troviamo in un piccolo ma interessante museo che conserva reperti molto belli di vasellame risalenti al periodo precolombiano, ma anche al 500 a.c. All’interno del Museo c’è un patio ed un bel parco pieno di piante e alte palme.

In mezzo ad un albero, mimetizzato nei colori, osserviamo un grosso gufo imperturbabile ai nostri commenti di stupore!

Oggi il Museo è affollato di studenti, tutti ben ordinati in fila e con il grembiule – come si usa in ogni parte del mondo, tranne che nel nostro Paese! Sempre in calesse attraversiamo strade piene di colore. Le case coloniali sono un piacere per i nostri occhi – e gli obiettivi – e i bambini sono pronti a salutarci.

Ci dirigiamo verso il porto Cesar, a sud di Granada, e ci imbarchiamo su una moderna lancia per scoprire un altro posto di grande fascino, il lago Cocibolca, detto anche “La Mar Dulce”, perché è vastissimo – secondo al mondo solo dopo il Titicaca –. Il nostro programma prevede la visita alle numerose ‘Isletas’ che “sbucano” dalle acque di questo lago. Questa mattina c’è anche il sole, il cielo ha un bel colore azzurro e la temperatura è molto piacevole: finalmente ci gusteremo il panorama con più allegria e felicità. Partiamo e… restiamo letteralmente sedotti dallo spettacolo che ci presenta davanti agli occhi.

Come al solito, non c’è niente che non si vorrebbe fotografare, ma i circa 365 isolotti disseminati nell’arcipelago sono troppo belli per non essere fissati per sempre negli obiettivi.

Las Isletas sono di varia grandezza e tutti ricoperti da una fitta vegetazione tanto che gli uccelli le hanno elette propria dimora. : aironi, cormorani, caracara (una specie di aquila, ma più piccola e con più bianco nel corpo, praticamente è un’aquila pescatrice), Ibis e tanti altri tipi di uccelli volano sulle nostre teste e poi si posano sull’acqua o sulle piante. Ci sono anche tante iguane che prendono il sole su alcune rocce e tartarughe che nuotano pigramente!

Qui c’è il loro Paradiso, come lo è per i pescatori che incontriamo mentre ritirano velocemente a bordo delle loro strette e colorate barche le proprie piccole, e strane per noi, reti sempre piene di pesci.

E’ magnifico trovarsi lì ed osservare questo stupendo miracolo della natura. Gli isolotti sono per lo più disabitati, alcune sono di proprietà di privati, ma in alcuni vi dimorano gli stessi pescatori in semplici case, dove fa bella mostra di sé il solito bucato messo ad asciugare, ma sempre in perfetto ordine.

In questo arcipelago, c’è un’isola, Zapatera, dichiarata Parco Naturale e sulla quale c’è uno dei siti archeologici più importanti per ciò che riguarda statue e caverne risalenti all’età precolombiana, più l’isola di San Pablo, sulla quale si erge una fortificazione del XIX° secolo, ed un’altra che è di proprietà di una …colonia di scimmie curiose, tanto abituate alla presenza umana che vengono a curiosare appena ci fermiamo davanti ad alcuni alberi.

Visitiamo anche un isolotto molto speciale: è quello dove è situato un piccolo Resort molto particolare, il Jicaro Hotel, tutto rigorosamente ecocompatibile con una Spa ecologica. Gli chalet sono tutti costruiti con legno certificato e gli arredamenti sono costruiti con prodotti naturali, così come la biancheria da letto e da bagno. Niente televisione ma solo relax totale, è questo il concetto del Jicaro Hotel. I

n sostanza, è un paradiso nel paradiso! Terminata con molto dispiacere la piacevole gita, ritorniamo a Granada per pranzare. Come sempre, il cibo non ci delude mai, soprattutto il pesce e la carne hanno un sapore eccellente, ben diverso da quello al quale siamo abituati noi.

La loro cucina è sana, gustosa e mai grassa e l’unico problema è che è talmente buona che mangiamo sempre troppo! Ma è ora di riprendere il cammino e, ci rimettiamo in macchina in direzione di San Juan Del Sur, un posto di mare molto noto in Nicaragua, non molto distante dalla Costa Rica. Durante il tragitto incomincia a piovere. I miei compagni di viaggio ne approfittano per dormire, mentre io continuo ad osservare il paesaggio che scorre interno a noi.

La campagna qui è un po’ diversa dalle altre che abbiamo visto nel Paese. Ci sono molti allevamenti di bovini e le solite estese piantagioni di banani. Si capisce che in queste zone c’è più benessere rispetto a quelle dove siamo passati ieri. Ogni tanto si incontrano agglomerati di case, bar-caffè, piccole industrie, motociclette, automobili, camion, autobus colorati, moto-taxi tradizionali – che poi non sono altro che una specie di baracchino coperto con una moto avanti, ma ci sono anche i taxi moderni. Si ha sempre l’impressione di un Paese in bilico fra l’antico e il moderno e, forse, questo mix costituisce uno dei suoi fascini. In lontananza si intravedono i vulcani più belli e noti del Nicaragua e che si trovano sull’isola di Ometepe.

Finalmente arriviamo a destinazione e pur essendo un posto di mare, all’improvviso l’umidità sembra sparita, anzi, tira un’arietta gradevole e inaspettata. Prima di entrare nell’hotel, ci fermiamo ad ammirare il tramonto.

In mezzo alle nuvole, che sembrano cariche di pioggia, si fa largo una “macchia” rossastra e questo ci fa sperare in un’apertura del cielo. Sotto di noi, una larga e lunga spiaggia sulla quale alcuni ragazzi improvvisano una partita di pallone.

Nel mare, non troppo distante dalla riva, tante piccole barche sono ancorate pronte per prendere il largo per una battuta di pesca della popolazione locale. San Juan è una bella cittadina, nota per i suoi numerosi ristoranti dove è possibile gustare crostacei e pesce vario, per le sue discoteche e per le onde, a volte piuttosto alte, ideali per chi pratica il surf.

Ci sono anche tanti negozi e tanto fermento di gioventù. La nostra interprete Emmanuelle, ha qui un’amica triestina, che si è trasferita da oltre 11 anni in questa parte del mondo così lontana dal suo Paese, perché si è innamorata della gente e della particolarissima casa, che ha comprato e nella quale vive ormai da sola. Sia la storia della signora, sia la casa mi mettono curiosità e vengo invitata per un aperitivo.

La casa è in quella che viene definita la “zona bene” di Isla del Sur, ma descriverne la bellezza e la unicità è molto difficile. E’ una delle ultime case del luogo costruite interamente in legno e al suo interno, nell’immenso salone, ha addirittura dei tronchi di alberi dalla forma irregolare che sostengono le amache e decorano l’ambiente.

La signora affitta da qualche tempo le 3 camere da letto disponibili, e così, oltre a guadagnare qualcosa, può parlare ancora italiano. Il personaggio e la sua storia di vita mi affascinano, ma il ristorante ci aspetta per una cena a base di aragoste e pesci dal sapore molto speciale, così ci avviamo in Hotel per cambiarci. Anche questo hotel, il Vittoriano, è molto bello e caratteristico e dotato di ogni comfort, compresa la piscina con Jacuzzi. Il letto è comodo e confortevole. Meno male, domani avremo una giornata piuttosto impegnativa.

Sesto giorno: San Juan del Sur

Ci alziamo con un bel sole e la giornata promette molto bene. L’hotel è di fronte al mare, calmo, e mentre faccio colazione già noto un gran movimento sulla spiaggia. Ma noi dobbiamo andare in un’altra parte del paese dove si può fare surf.

Saliamo a bordo di alcuni fuoristrada e arriviamo quasi al confine con il Costa Rica attraversando alcuni centri abitati e tanta campagna. Il verde è sempre preponderante e rigoglioso. In alcuni tratti il percorso è nuovamente da trasmissioni come “Overland”, ma è divertente ed eccitante.

Arriviamo ad una spiaggia, ma le onde non sono quelle giuste per lo sport e così ci rispostiamo nuovamente fino a quando arriviamo in un luogo che ci trasporta sul set del film “Un mercoledì da leoni”. La spiaggia, anche questa larga e lunghissima, è piena di giovani, soprattutto americani, che cavalcano le onde. Arrivano con i Pick up, scaricano il loro surf e si avviano sicuri fra le onde del mare. Sulla spiaggia ci sono alcune “collinette” ricoperte completamente da alberi di alto fusto, fiori e piante tropicali. Fra questa vegetazione, quasi nascoste dagli alberi e dagli occhi indiscreti delle persone, un paio di invidiabili case dominano tutta la spiaggia. Penso che non sarebbe male possedere una casa qui!

Finisce il divertimento sulle tavole dei surf e ci rechiamo a pranzare nel Resort Morgans Rock, una splendida struttura i cui chalet sono nascosti dalla vegetazione e, anche questi sono costruiti nel pieno rispetto della salvaguardia ambientale. Mi piace molto questo posto! Dal tavolo del ristorante la vista è meravigliosa. Sono le 14 e 20, sotto di noi una bellissima piscina mentre, un po’ più in basso, il mare “luccica” sotto il sole, è calmo, sembra color argento. Sull’acqua c’è solo un peschereccio, mentre il piccolo lato di una verde collina si staglia sulla nostra destra. Il silenzio del luogo è piacevole e il solo rumore che arriva alle nostre orecchie è solo quello delle onde che si infrangono sulla battigia. E’ molto bello e naturale questo luogo con l’hotel totalmente ecologico dotato di soli 15 bungalow. La proprietà, vanta 1800 ettari, di cui solo l’hotel ne occupa 600, ha una spiaggia privata. Gli chalet si raggiungono attraversando un ponte sulla jungla e, all’improvviso, mentre ci stiamo passando sopra, fra gli alberi notiamo un certo movimento.

Capiamo che anche qui ci sono delle scimmie e incominciamo ad osservarne i movimenti e a fotografarle. La direttrice del Resort ci spiega che qui è possibile praticare escursioni a cavallo, in kayak, pescare, osservare i vari animali che ci sono nella zona come le scimmie – tra le quali il bradipo – e poi cerbiatti, volpi, scoiattoli.

Anche qui è tutto rigorosamente naturale e costruito per il relax delle persone: niente televisione, niente telefono, ma si può collegare il PC.

Incomincia ad imbrunire ed è ora di ritornare a San Juan del Sur giusto in tempo per goderci il bel tramonto e i fuochi d’artificio che stanno illuminando una parte di cielo.

Questa è l’ultima notte che trascorreremo qui perché domani saremo in un posto stupendo e irreale: Ometepe.

Settimo giorno: Ometepe

Anche oggi il sole è dalla nostra parte e, prima di lasciare l’hotel, faccio una passeggiata sul lungomare per scattare nuove fotografie. Sono le 7, è presto, ma spero sempre di trovare qualche volto interessante o scene di vita quotidiana locale. San Juan del Sur, oltre ad essere un luogo di villeggiatura è un piccolo porticciolo e a quest’ora trovo i pescatori intenti a restaurare le proprie barche.

Alcuni bambini giocano con la sabbia e lacune donne sono già pronte per vendere la propria merce esposta in piccoli banchi.

Ma una cosa attrae la mia attenzione: vicino alla riva c’è un gruppo di persone, che si tiene per mano e, cantando, entra completamente vestita nell’acqua. Alcune persone si immergono totalmente, altre restano in piedi, bagnati fino a metà del corpo. Sono troppo lontana perché capisca cosa stiano facendo, così le fotografo sperando di capire più tardi il significato di quella che sembra una cerimonia religiosa. E così è, infatti. Scendo in spiaggia e chiedo cosa stia accadendo. Mi viene detto che sono state appena battezzate 2 giovani ragazze – completamente bagnate e infreddolite – che appartengono alla Chiesa Evangelista e che il gruppo partecipa all’evento con canti e preghiere.

Mi allontano contenta per aver appreso qualcosa di nuovo e ancora una volta siamo in auto per arrivare al porto dove prenderemo il traghetto che ci porterà all’isola lacustre più grande del mondo: Ometepe. Anche quest’isola è all’interno del vasto lago Cocibolca (La Mar Dulce, grande quanto l’Umbria), nel quale si trovava l’unica specie di squalo di acqua dolce, ed è formata da 2 grandi vulcani : il Conception – ancora attivo – e il Madera – ormai spento. Il lago, oggi, è molto agitato e l’acqua è color marrone.

Non sarà una traversata tranquilla, ma lo spettacolo dei 2 vulcani, che sono sullo sfondo, è veramente appagante. Soprattutto il più alto, Conception, ha una forma conica perfetta e una bianca nuvoletta le ricopre proprio la cima e le pendici totalmente prive di vegetazione, mentre Madera, è ricoperto da una verde foresta, in quanto non più attivo. Questi 2 vulcani sono stati inseriti fra le nuove 7 meraviglie del mondo e sono poche le persone straniere che hanno avuto il privilegio di ammirarli. Mi ritengo fortunata per essere stata prescelta per questo viaggio stampa e felice di aver visto un paese che riserva splendide sorprese in continuazione e apprezzarlo ogni giorno di più. Per non sentire troppo il movimento delle onde vado a sedermi proprio in basso dove ci sono gli oblò a pelo d’acqua e dove l’acqua si infrange contro il vetro con una bella violenza.

Ma arriviamo a Ometepe (che vista dall’alto sembra un grande numero 8 e il cui nome deriva dall’atzeco Ome=due + Tepelth= colline), e ci avviamo verso il Museo del Ceibo che, però, è chiuso. Lungo la strada noto che, di nuovo, la vegetazione è differente dal resto del Paese. Ci sono meno palme e sono anche più basse.

Ci sono molte piantagioni di Palmitos e di banani, tante piccole case – sempre con il bucato messo ad asciugare al sole, ma anche tanti fiori molto colorati e bouganvillee. Notiamo campi dove si sta giocando a baseball e la guida ci spiega che in Nicaragua è lo sport nazionale. In alcuni posti notiamo secchiper la raccolta differenziata.

La nostra prima tappa è presso una vasta piscina termale, ricca di minerali curativi, dove troviamo un centro ben attrezzato e pieno di stranieri e locali. La piscina è divisa in due da un passaggio dal quale i bambini si tuffano e giocano.

Non è piastrellata, ma sul fondo ci sono sassi e pietre vulcaniche. Una leggenda narra che chiunque s’immerge nell’acqua alle ore 12 del Venerdì Santo, cambierà sesso! Peccato non aver portato il costume, l’acqua è veramente invitante e anche tiepida!

La piscina è circondata da piante e alberi e ci sono tante grandi farfalle colorate che svolazzano in mezzo alla gente. Usciamo e ci rechiamo in un sito archeologico nel quale sono state ritrovate pietre incise che risalgono al periodo precolombiano e chi lo ha scoperto è stato non un archeologo, ma un biologo. Nel sito c’è anche “La Finca Magdalena”, un piccolo Resort per giovani. Una specie di ostello della gioventù.

In queste terre c’erano i Seminole che offrivano agli dei offerte che consistevano anche in sacrifici umani. Nell’antichità gli uomini volevano essere più vicini al cielo, e per i Seminole quest’isola era l’ideale per la presenza dei vulcani così alti.

E’ di nuovo buio e dobbiamo andare ancora nel nostro hotel. Molte strade non sono asfaltate e ci mettiamo più tempo per arrivare a destinazione. Siamo un po’ stanchi e il “Camel Trophy” questa sera ci rende impazienti. Dopo un lungo tragitto (o tale c’è sembrato per il tipo di strada che abbiamo percorso e per gli animali che tranquillamente passeggiavano per le strade),

Attraverso un guado, formatosi per le insistenti piogge dei giorni precedenti – arriviamo finalmente nel Resort Sal Juan de la Isla.

Prima di vedere il Resort, però. Notiamo un’estesa piantagione di Platanos e nessuna luce artificiale, ma sentiamo il rumore dell’acqua che va a sbattere su una battigia o rocce. Appena scendiamo dalle auto, veniamo quasi assaliti da nugoli di “Chalules”, specie di moscerini che fortunatamente non pizzicano. Il Resort ha pochissimi chalet quasi tutti dislocati vicino al ristorante. Le stanze sono semplici ma essenziali con aria condizionata e ventola. E’ situato proprio vicino al lago ed è in mezzo ad un ambiente naturale di rara bellezza. Ceniamo con la famiglia del Direttore del Museo locale, che c’invita per il giorno dopo a visitarlo, accompagnati dal canto degli uccelli.

Il cielo è pieno di stelle e promette bene per il giorno dopo.

La curiosità di veder bene in quale altro paradiso ci siamo fermati è molto grande!

Ottavo giorno: Ometepe

Come sempre sono in piedi abbastanza presto da poter scattare foto con la giusta luce o per avere l’opportunità di vedere particolari, strane, inusuali. Mi guardo attorno e tutto ciò che ieri sera era quasi inquietante per il buio, oggi è idilliaco.

Fiori e piante sono ovunque e avanti ad ogni bungalow ci sono le amache colorate. Scatto foto a destra e a manca, ma sono attratta dal rumore dell’acqua e percorro i 50 metri che mi separano dal lago.

La scena che ho davanti mi riporta indietro nel tempo, a quando in Italia non c’era il benessere e non si avevano gli elettrodomestici in casa.

Due donne, madre e figlia, stanno lavando il bucato nel lago, una su una piccola base di cemento, l’altra su una grossa pietra lavica. Sono incuranti delle onde che si abbattono con violenza su di loro. Sono completamente fradice, ma hanno per me un dolce sorriso e l’augurio di un “buen dia”. Rimango ad osservarle per un bel po’ pensando che qui siamo proprio in un’altra dimensione, sia umana sia di preservazione dell’ambiente.

Le due donne mi guardano spesso con il sorriso sulle labbra ed io quasi mi vergogno di essere lì a fotografarle che se fossero delle “marziane”.

Ma a me, abituata alla maleducazione della gente delle nostre città, sentirmi chiedere “permiso” ogni volta che ingombro il marciapiede per scattare qualche foto oppure essere ringraziata per averli scelti come soggetto stesso delle foto, questa cosa commuove e mi fa rimpiangere il tempo in cui anche in Italia c’era il rispetto per gli altri e non si sgomitava o ti dava spinte per sedersi prima di te in un autobus o in metro! Qui, invece, è ancora così. Non conta il solo io, ma anche gli altri.

Non ho più il tempo di fare considerazioni perché è l’ora di recarci ad Altagracia per visitare il paese e il Museo. Iniziamo con la visita della Chiesa principale, già in pieno fermento. La chiesa risale al 1700 circa ed è divisa in 2 parti: quella vecchia e l’altra nuova. In quest’ultima è stata spostato l’antico altare tutto in legno lavorato.

All’esterno della chiesa ci sono alcune statue in pietra risalenti all’800 d.c. Intorno a noi una musica di soli tamburi e un coro si stanno preparando per la festa del Santo locale: “San Diego”, che cade il 16 novembre.

Anche qui i ragazzi che vanno a scuola hanno i turni e, così, è facile incontrarne tanti che vanno o tornano a casa. La gioventù costituisce il 60% della popolazione e, quindi, si può affermare che il futuro nel Nicaragua sarà in mano a questi ragazzi e ragazze.

Al mattino ci eravamo fermati in una piccola hacienda nella quale molte persone erano in attesa di far pulire dalla pellicola esterna il proprio riso, portato con sacchi piuttosto grandi e pesanti. Mi aveva colpito la serenità e la pazienza con la quale ognuno attendeva il proprio turno! In giro, notiamo che davanti ad alcune case, ingenti quantità di riso sono poste ad asciugare su un grande telo di plastica. E poi, lungo il percorso, ancora verde, tanta selva tropicale, tanta gente intenta a lavorare i campi e le donne impegnate ad accudire la casa e… tanta aria pulita priva di ogni inquinamento.

Ricordo che ieri sera, mentre ero seduta sull’amaca posta davanti al mio chalet, osservavo il cielo e le stelle che sembravano molto più grandi e lucenti del solito. Avevo alzato le braccia e mi era sembrato di poter quasi arrivare a toccarle con le mani! Che cosa meravigliosa sentirsi così vicini al cielo e alle sue costellazioni, non capita spesso da noi! Ma la guida ci chiama per andare a visitare il piccolo ma interessante museo che conserva reperti antichissimi come vasellame – ancora ottimamente conservato – oggetti in oro e statue di pietra, che assomigliano tanto a quelli che per noi sono dei Totem.

Non solo quest’isola possiede una varietà di specie di animali di interesse internazionale e di vegetazione lussureggiante, ma anche 2 piccoli Musei dove si può comprendere meglio la storia del luogo e del suo popolo. Torniamo al Resort ed abbiamo una sorpresa: oltre al cibo locale avremo anche quello.

Un giornalista del gruppo, infatti, molto bravo ai fornelli, ha preparato per la gioia di tutti 2 tipi di pasta cucinata in maniera differente. Dopo il lauto pasto, siamo i protagonisti di una caccia al tesoro organizzata all’interno del Resort e, così, ognuno di noi è contento di aver ricevuto un premio. E’ ancora presto, ma domani dobbiamo tornare a Managua e ne approfittiamo per goderci un po’ di relax. Cena e poi…tutti a dormire!

Nono giorno: Masaya-Managua

Dopo la prima colazione del bel patio del ristorante, ritorniamo nelle jeep per recarci al porto. Le acque del lago sono più calme, ma il nostro traghetto è in ritardo.

Però non c’è tempo per annoiarsi! Intorno a noi uccelli colorati e farfalle sembrano darci l’arrivederci, mentre un airone bianco, incurante del chiasso che c’è intorno a lui – siamo pur sempre in un porticciolo – passeggia tranquillamente su una base di cemento posta nell’acqua. Nel porto fervono le attività di ogni giorno: imbarco e sbarco di passeggeri, piccoli negozi aperti, bambini che giocano nel cortile delle loro case, uomini seduti al bar a chiacchierare e sorseggiare succhi di frutta.

Finalmente arriva il Ferry e in 45 minuti siamo nuovamente nella penisola in direzione di Masaya, dove visiteremo un mercato artigianale famoso in tutto il Nicaragua.

Il mercato è circondato da bellissime mura e, all’interno di esso, si trovano oggetti come amache, tessuti, cuoio, sigari e ceramiche, oltre a piccoli ristoranti. Ma io, più che agli oggetti, sono interessata dalla gente normale ed esco alla ricerca di qualche scena di vita reale.

Una signora è davanti ad un grande pentolone, e un buon profumo di minestra si sparge nell’aria. Mi avvicino e le chiedo cosa stia cucinando. Mi risponde che quello è il piatto tipico del Nicaragua ed è preparato con yucca, carne e patate e mi chiede se mi piacerebbe assaggiarlo. Come rispondere negativamente davanti ad un sorriso e a quel buon cibo?

Ne mangio un piatto e mi allontano per fotografare un bambino che sta preparando dei grilli con le foglie morbide della pianta del cocco. Ha un’aria molto vispa e sveglia e mi chiede per quale squadra di calcio io tifo.

Rimango sorpresa (come lui per il fatto che io non segua il calcio), ma rispondo che non ho una squadra del cuore, mentre lui, invece, tifa per il Milan perché “son fortes”. E’ simpatico ed ha una bella faccia. Mi chiede se voglio provare a fare qualcosa con le foglie di cocco. Accetto ed inizio a lavorare senza sapere cosa mi stia facendo eseguire: Nel frattempo, sono arrivati altri ragazzini e, sotto i loro occhi divertiti, incomincio ad eseguire quello che il ragazzo vispo mi dice di fare. Ad un certo punto mi dice di tirare un piccolo bastoncino che era nel centro del lavoro e…mi ritrovo nelle mani un fiore che mi regala dandomi un bacio sulla guancia.

Come sempre mi commuovo di fronte a queste espressioni di gentilezza e generosità e, nel lasciarlo, gli chiedo cosa gli piacerebbe fare nella vita. Mi risponde di voler studiare turismo e mi rallegro per lui. Questo paese ha molto da offrire ai turisti e serviranno persone sveglie come lui. Ma oggi siamo in ritardo sulla tabella di marcia e dobbiamo arrivare in tempo in Hotel per renderci un po’ più presentabili di come siamo ora.

Fra non molto dovremo recarci al Ministero del Turismo per la conferenza stampa finale.

Il Ministro è puntualissimo, molto informale e non la “tira per le lunghe”, come normalmente fanno i nostri politici, anche quando non hanno nulla di interessante da dire. E’ simpatico, semplice, conciso e concreto e ci ringrazia per aver accettato il suo invito di visitare il Nicaragua – mentre dovremmo essere noi a farlo – e ci dà appuntamento per una cena di arrivederci.

Il locale prescelto è caratteristico. Ci tiene compagnia un gruppo di musicisti e una cantante molto noti nel paese, che ci allietano con i loro brani e canzoni. Noi donne, come al solito, siamo sempre “in tiro”, mentre gli uomini, come al silo anche loro, sono vestiti in modo casual, Ministro compreso.

Trascorriamo una bella serata, fra canti e balli e senza alcun imbarazzo per la presenza del Ministro che, anzi, balla e canta con noi.

E’ strano, ma ad un tratto mi viene un po’ di tristezza perché domani lasceremo questa terra, ora non più sconosciuta o solo un nome su una carta geografica.

Mi piace questo Paese che ha saputo regalarmi tante intense emozioni e ringrazio il Ministro Mario Salinas per l’opportunità che mi ha concesso di visitarlo e di innamorarmene immediatamente.

Il viaggio è stato un crescendo di stupore e di meraviglie e penso che il Nicaragua andrebbe visitato nella maniera più corretta e da turisti “giusti”, quelli che hanno rispetto e amore per l’ambiente, lo stesso che ha il popolo nicaraguense per la sua terra ricca di bellezze, certo, ma, soprattutto, di tanto calore umano.

Arrivederci Nicaragua, paradiso naturalistico che affascina per le emozioni che sa offrire e per i paesaggi incontaminati, selvaggi e pieni di suggestione.

Nicaragua, terra di contrasti e quasi sconosciuta turisticamente, ma unica nel suo genere!

Liliana Comandè

Nicaragua: terra dei sorrisi e della natura incontaminata
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DUE RACCONTI DI FRANZ KAFKA

3 Ottobre 2013 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

DUE RACCONTI DI FRANZ KAFKA (PRAGA 1883 – KIERLING, VIENNA 1924)

Estraiamo con determinazione questi due racconti dall’immensa e inesauribile miniera dell’autore praghese. Sono succinti e quanto mai densi di temi. La loro composizione risale al 1922, ossia a solo due anni prima della morte dello scrittore. Data la brevità, riportiamoli, nella traduzione di E. Pocar per l’edizione Mondadori.

LA PARTENZA

Comandai di andare a prendere il mio cavallo dalla stalla. Il servo non mi comprese. Andai io stesso nella stalla, sellai il cavallo e montai in groppa. Udii suonare una tromba in lontananza e domandai al servo cosa significasse. Egli non lo sapeva e non aveva udito niente. Presso il portone mi trattenne e chiese: “Dove vai, signore?”.

“Non lo so” risposi. “Pur che sia via- di- qua, sempre via- di- qua, sempre via- di- qua, soltanto così posso raggiungere la meta”.

“Dunque sai quale è la tua meta” osservò.

“Si” risposi. “Te l’ho detto. Via- di- qua; ecco la mia meta.”

“Non hai provviste con te”.

“Non ne ho bisogno” risposi. “Il viaggio è così lungo che dovrò morir di fame se non trovo nulla per via. Nessuna provvista mi può salvare. Per fortuna è un viaggio veramente straordinario”.

Il protagonista da un ordine netto, ma non viene capito dal suo subordinato. Perché? Potrebbe trattarsi di un servo sciocco o distratto. Poco dopo il testo ci riporta che un misterioso suono di tromba viene udito solo dal partente. Ciò deporrebbe di nuovo a sfavore del servitore. Eppure questi è sollecito verso il padrone. Gli chiede dove va e poi osserva giustamente che lui deve conoscere la sua meta. Possiamo allora pensare che l’uomo si muova di rado, tanto che il suo ordine non è stato compreso; potrebbe essere una persona che forse all’improvviso raccoglie le forze che gli restano per compiere un viaggio importante, meravigliando chi lo conosce. Un viaggio che intraprende da solo e per di più senza provviste. Si può ritenere che le normali risorse, quelle materiali, in questo caso non servano a nulla. Si tratta, infatti, di un’impresa notevole dato che si usa il termine straordinario.

Altra parola forte è “salvare”. Si parla di vita e di conseguenza anche di morte. Quel “via- di- qua” ribadito quattro volte segna una cesura netta tra due mondi, tra il noto e l’ignoto. Il protagonista va verso la morte; come ogni uomo anch’egli compie il suo percorso individualmente, potendo contare solo su se stesso nel momento in cui la sua esistenza si avvia alla conclusione, richiedendo tutto ciò riflessioni personali che solo nella propria interiorità si possono fare. Non è un andare senza speranza, poiché potrebbe trovare qualcosa per via, ci viene detto. Quel qualcosa può essere molte cose; senz’altro si tratta di un percorso di conoscenza e di ricerca, da compiere quando il corpo e le forze lo permettono. Non ci sembra si tratti di un vecchio, pronto a lasciare una vita che nulla può più offrirgli, dato che il protagonista è in grado di sellarsi da solo il cavallo e di montarlo senza aiuto. Inoltre i suoi sensi sono all’erta: sente infatti la tromba. Quello che si configura è il viaggio di ognuno, l’essere per morire; esso va iniziato per tempo, in solitudine.

Non tutti lo fanno con la stessa consapevolezza. Non tutti sentono il suono della tromba e si mettono in marcia; nemmeno si può trasferire agli altri questa sensibilità particolare, come ci attesta lo scarno dialogo che si svolge tra due persone che parlano su piani diversi. La distanza dal servo si acuisce infatti quando si parla delle provviste. Il padrone alla fine ci appare come una figura superiore, animata da coraggio e determinazione. C’è qualcosa di epico e di eroico nelle ultime parole del testo. Il viaggio che deve compiere è lungo e doloroso, ma “per fortuna veramente straordinario”. Bisogna raggiungere la coscienza della straordinarietà della propria vita e avere la forza per andare a cercare la prova di questa straordinarietà, andando “via- di- qua”.

RINUNCIA!

Era la mattina per tempo, le vie pulite e deserte. Andavo alla stazione. Confrontando il mio orologio con quello di un campanile, vidi che era molto più tardi di quanto avessi pensato, dovevo affrettarmi assai, lo spavento di quella scoperta mi rese incerto della via, non conoscevo ancora bene questa città; fortunatamente vidi una guardia poco distante, corsi da lui e senza fiato gli domandai la strada. Egli sorrise e disse:

“Da me vuoi sapere la via?”

“Appunto,” risposi “dato che non so trovarla da me.”

“Rinuncia, rinuncia!”. E si girò con grande slancio, come chi vuole essere solo con la propria risata.

Anche qui si parla di un viaggio, ma non di un viaggio improvviso. Non si tratta di andare a cavallo, ma di prendere un treno. Tutto dovrebbe essere comodo e agevole. Il protagonista è partito per tempo e trova le vie pulite e deserte. Quindi ci sono ordine e razionalità. La partenza per la stazione non è stata decisa all’ultimo momento. Eppure tutto si incrina in modo precipitoso; uno sguardo all’orologio del campanile fa sorgere il dubbio che sia già tardi e inoltre l’uomo teme di sbagliare strada. Le categorie di tempo e spazio sfuggono alla serena conoscenza del partente. Si cerca allora di avere una risposta da una guardia, non da un passante qualunque. L’autorità pubblica dovrebbe dare sicurezza nella quotidianità dei cittadini. Eppure la risposta appare beffarda; anzi è una domanda seguita da un secco “Rinuncia, rinuncia!”.

La guardia si volta in fretta, ridendo. Eppure dalle autorità ci si dovrebbe aspettare compostezza e serietà. In pochi momenti ogni appiglio razionale è venuto meno; il protagonista è solo, in un ambiente che non conosce e la sua situazione di disagio sembra essere senza sbocchi. Non c’è la parola speranza che abbiamo trovato alla fine dell’altro testo. Risuona fortissimo il rude invito a rinunciare, a non cercare di sapere, come se farlo non avesse senso. La conclusione è drammatica, senza elementi consolatori. Non c’è quindi ragione di conoscere? Si deve rinunciare? L’esortazione della guardia appare brutale, quasi inumana, accompagnata da un atteggiamento canzonatorio. Ci si potrebbe chiedere allora quale sia il ruolo dell’autorità se essa non costituisce un riferimento serio e attendibile.

Il pensiero va al Processo. Pensiamo al dialogo tra K. e il cappellano nel Duomo e alle oscure (forse perché troppo chiare) parole di quest’ultimo: “Il tribunale ti riceve quando vieni, ti lascia andare quando te ne vai”. Parole difficili da interpretare, ma che sembrano certificare l’inutilità della ricerca di chiarezza del protagonista. L’autorità è indifferente e lontana; esiste, c’è, ma non ti cerca, non ti trattiene, e soprattutto lascia a te i tuoi interrogativi, li respinge. Non offre risposte, anzi si meraviglia che il cittadino ne chieda come mostrano il sorriso della guardia e le sue parole: “Da me vuoi sapere la via?”.

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Divagazione su Francesco Bruni

2 Ottobre 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema

Scialla - Stai sereno (2011)

di Francesco Bruni

Francesco Bruni è bravo. Gli addetti ai lavori lo sanno bene, il pubblico distratto meno, ma quasi tutte le storie che Paolo Virzì ha portato al cinema sono state scritte dalla prolifica penna di Bruni. Scialla! è la sua prima regia, nel solco della commedia l'italiana nuova maniera, che parte dalla vita quotidiana, accenna a elementi drammatici, racconta il mondo contemporaneo e termina con un lieto fine realistico. Dolce ma non sdolcinata. Vera, lontana mille miglia dalla fiction televisiva, ben calata nella realtà. Bruni racconta una piccola storia italiana ambientata a Roma, tra il mondo della scuola, un controverso rapporto padre figlio e l'ambiente dei piccoli spacciatori. Fabrizio Bentivoglio è straordinario nei panni di Bruno, il professore disilluso che ha mollato la scuola per scrivere biografie, per raccontare la vita degli altri, attori come cantanti. Non sopportava più le nuove generazioni, non le capiva. In compenso si trova a combattere con Luca (l'esordiente Scicchitano), un figlio ritrovato con cui deve inventare un rapporto che non ha mai avuto, e persino con il mondo della scuola dal quale era uscito. Dialetto romanesco e gergo giovanilistico a volontà: "scialla", "me so' sciallato", "nun t'accolla"…, bella fotografia seppiata di una Roma realistica, musica rap mixata a momenti melodici, montaggio serrato quanto basta e suspense narrativa da sceneggiatore provetto. La cosa più bella di Scialla! è l'analisi introspettiva dei personaggi, che non sono macchiette, ma caratteri ben definiti, personaggi ai quali ci si affeziona e si freme per le loro sorti. Bentivoglio tratteggia un professore disilluso dalla vita, cinico, uno scrittore fallito, ma anche un uomo che - grazie al figlio - vorrebbe riscattare un'esistenza distratta, lontana da ogni impegno. Il professore divide la sua vita tra il ragazzo da accudire per superare l'ostacolo scolastico e il libro da scrivere su una pornostar che finisce per innamorarsi di lui. "La cosa di cui avrei più bisogno è dormire abbracciato a qualcuno", confessa il professore. Pura poesia. Barbara Bobulova è ben calata nel ruolo della pornostar imborghesita che riesce ancora a innamorarsi. Molto ben scritte le parti in cui il professore cerca di spiegare al figlio il rapporto tra Achille e Patroclo, ma anche il concetto di pietas greca. Altrettanto suggestiva la scena in cui il ragazzo prende in spalla il padre come fece Enea con Anchise, ma lui che non è un grande studente lo chiama Ascanio. Scicchitano è un perfetto sedicenne, un adolescente svogliato e insicuro che piacerà ai suoi coetanei, un ragazzo vero, calato in un ambiente scolastico per niente artefatto. Persino i personaggi più irreali sono ben delineati. Si pensi al poeta, il piccolo spacciatore che protegge il professore dopo averlo riconosciuto come l'insegnante di italiano delle superiori, il solo che gli abbia trasmesso dei valori. "Quanto ci manca Pasolini, professore!", dice. Vero che il finale profuma un po' di fiaba, ma è riscattato da un'ultima sorpresa, quando il figlio chiede di essere bocciato perché non merita sconti. "Mi davano tre materie. Mi giocavo l'estate", dice al padre allibito. Una poetica lunga sequenza cita il Nanni Moretti di Caro Diario con il padre che vaga per Roma in motorino e immagina il figlio a ogni angolo di strada intento a fare un mestiere diverso (lavavetri, militare, cameriere…). Originale la trovata dei titoli di coda che scorrono a destra, mentre a sinistra assistiamo al divertente colloquio tra il professore e il poeta che discutono su come scrivere un libro di successo raccontando la vita criminale dello spacciatore

Il cinema italiano non è morto se è in grado di raccontare ancora piccole ma intense storie che profumano di vita vera. Il segreto sta nel partire dal racconto, dalla scrittura filmica, senza troppa pretenziosità intellettuale. Bravo Bruni. Confidiamo in te, ma anche in Cerami, Virzì e altre perle di un piccolo cinema italiano che può tornare grande e sempre meno provinciale.

Condominio (1991)

di Felice Farina

Il ragionier Michele Marrone si trasferisce con moglie e figlie in un enorme condominio di un quartiere romano composto da quattro scale e quattrocento alloggi. Accetta l'incarico di amministratore ma si trova sommerso dai problemi. Il vecchio amministratore era un imbroglione che è scappato con i soldi, i condomini non sono migliori, le bollette e le quote scadute sono molte, mentre le liti non mancano. Marrone è un uomo tenace quanto gentile, suona alle porte con modi cortesi, si fa aiutare dai più volenterosi, ottiene i primi successi. Il maresciallo Gaetano Scarfi lo appoggia in modo disinteressato, mentre lo stesso amministratore anticipare il suo denaro per svolgere lavori. Incontriamo molti personaggi: Adelaide, matura estetista nubile; Pasquale Sciarretta, dipendente Alitalia abbandonato dalla moglie; Roberto Sgorlon, impiegato dei telefoni impiccione; Lia, ragazza madre; un anziano garagista, piccoli impiegati, donne di casa alle prese con i problemi quotidiani, giovanotti sfaccendati e scapestrati. Marrone risolve un sacco di problemi e insegna ai condomini come vivere nell'interesse comune, poi viene trasferito in un'altra città e lascia una comunità radicalmente cambiata. Tutti lo rimpiangono ma grazie a lui sono diventati meno egoisti.

Un piccolo gioiello di film che viene accolto bene dalla critica.

"Il regista romano Farina tesse con grazia ironica il suo piccolo arazzo. La sceneggiatura ha dei vuoti, e nel racconto manca un pizzico di cattiveria. Farina mette a frutto il suo spirito d'osservazione dipingendo figure e figurine con gusto del colore. Muovendosi lungo la tastiera del tenero e del grottesco, conferma l'attenzione dei nuovi talenti registi italiani nei confronti del sociale e insieme rinfresca la vecchia tradizione della commedia di costume. Una ventina di attori danno vivacità e freschezza al film. (Giovanni Grazzini, Il Messaggero, 31 marzo 1991).

"Trasferitosi con la famiglia dal Sud in un palazzone della Magliana, alla periferia di Roma, puntiglioso ragioniere è nominato amministratore del condominio. Aiutato da un ex poliziotto, cerca di risanare la situazione in nome della solidarietà e degli interessi comuni. Favola metropolitana in forma di commedia dolceamara a mosaico con qualche scivolata nella demagogia sentimentale, ma con molti meriti tra cui il gusto e la capacità di costruire sequenze senza dialogo e una gustosa galleria di figure, disegnate con brio, tra le quali spiccano la parrucchiera smaniosa di Ottavia Piccolo e la madre fiorentina di N. Boris. Tra gli sceneggiatori, Paolo Virzì. (Il Morandini, Dizionario dei film - Zanichelli - giudizio: due stelle e mezzo).

"Dopo Sembra morto ma è solo svenuto (piccola sorpresa della Settimana della Critica veneziana del 1986), l'invisibile Affetti speciali, e la parentesi di un episodio di Sposi, un film prodotto da Pupi Avati, Felice Farina approda con la sua ultima fatica a un condominio della Magliana, un quartiere della periferia della capitale. Nel condominio di Farina arriva un ragioniere zavattiniano, costretto a trasferirsi a Roma con moglie e due figli per motivi di lavoro. I personaggi di Condominio divergono dai modelli imposti dal cinema-verità alla Risi-Tognazzi; sono dei perdenti, che vivono la loro vita in uno stato quasi ipnotico, dal quale faticano a tirarsi fuori. L'impatto con la vita di ogni giorno riesce difficile e le loro maschere sono troppo tenui per poterli difendere. Il film è stato ambientato dal regista in uno dei quartieri che più di altri vive ogni giorno storie di ordinaria violenza e indifferenza. Una particolare citazione va riservata ad un meraviglioso Ciccio Ingrassia, che con una recitazione mai sopra le righe riesce a donare tutta la amarezza di un vecchio triste per la lontananza di un figlio che non si fa vivo, e il dolore per la tragica morte di una moglie molto amata". (Fabrizio Liberti, Cineforum n.304, maggio 1991).

Paolo Mereghetti concede due stelle: "In un palazzone della disastrata Magliana un timido ma puntiglioso inquilino (Delle Piane) viene nominato amministratore condominiale: spalleggiato da un ex poliziotto (Ingrassia), cercherà di far prevalere le ragioni della convivenza e della solidarietà. Il regista impagina una riuscita galleria di ritratti (come l'estetista in tutta di finto leopardo disperatamente sola interpretata da Ottavia Piccolo) in un film gradevole, dichiaratamente ispirato al cinema popolare che sarebbe piaciuto a Zavattini e che, come quello, rischia di scivolare nel patetismo. Il giornalista tv Antonio Lubrano interpreta se stesso,. Sceneggiatura di Paolo Virzì, Francesco Bruni, Gianluca Greco e del regista".

Pino Farinotti assegna tre stelle: "Terza pellicola per il regista Felice Farina. Il tema è quello scottante dell'amministrazione dei condomini. In chiave commedia all'italiana vecchio stampo, girato con garbo, il film narra le gesta, si fa per dire, di un amministratore modello. Oltre a essere diligente, onesto e attento, riesce anche a sanare tutti i problemi e le manovre illegali messe in atto dai precedenti amministratori". Roberto Poppi: "Condominio è la storia di un gruppo di persone ritratte nella loro quotidianità, realista e ricco di felici notazioni psicologiche".

Felice Farina (1954) è un regista che proviene dal teatro, fotografo, attore, sceneggiatore e documentarista. Comincia a recitare nei teatri di cantina dell'avanguardia teatrale romana, si avvicina al cinema grazie alla passione per la tecnica e la sperimentazione, si occupa di animazione, effetti speciali, tecniche di ripresa. I suoi primi lavori sono cortometraggi (Il mentitore, 1982) e documentari industriali, si occupa di alcuni programmi per Rai Due e Rai Tre. Il suo film d'esordio è Sembra morto… ma è solo svenuto (1986), ben accolto dalla critica. I suoi lavori di fiction più riusciti sono le commedie Condominio e Bidoni (1995). Produttore indipendente con la Ninafilm, società di produzione di cinema e audiovisivo con cui realizza documentari per programmi Rai.

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Francesco Bruni

1 Ottobre 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema

Francesco Bruni nasce a Roma nel 1961, ma vive e si forma culturalmente a Livorno, dove la sua passione per lo spettacolo mette radici. Si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dove insegna Sceneggiatura, pure se adesso si chiama Scuola Nazionale di Cinema. Francesco Bruni sceneggia tutti i film di Virzì e in molti casi partecipa alla stesura del soggetto. Bruni e Virzì si conoscono dai tempi del liceo e formano un sodalizio inscindibile. Sceneggia i film di Mimmo Calopresti (La seconda volta, La parola amore esiste, Preferisco il rumore del mare, La felicità non costa niente), Sotto la luna di Franco Bernini, Condominio di Felice Farina, Bonus Malus di Vito Zagarrio, Le parole di mio padre di Francesca Comencini, Velocipedi ai Tropici di David Riondino, Nati stanchi, Il 7 e l'8, La matassa di Ficarra e Picone, I vicerè di Roberto Faenza, Miracolo a Sant'Anna di Spike Lee e collabora al soggetto del lungometraggio in quattro episodi 4-4-2 Il gioco più bello del mondo, prodotto da Virzì. Per la televisione sceneggia la serie del Commissario Montalbano tratta dai libri di Andrea Camilleri, il Commissario De Luca, tratta dai libri di Lucarelli, e il film Il tunnel della libertà di Enzo Monteleone. Molti i riconoscimenti: il Solinas per La seconda volta, l'Amidei per Ferie d'agosto, il Ciack d'Oro per Ovosodo. Attore per una piccola parte ne La guerra degli Antò (1999) di Riccardo Milani. Scrive insieme al grande Furio Scarpelli la sceneggiatura di un film di Virzì tratto dal romanzo Vita di Melania Mazzucco, ma la pellicola non è stata ancora girata. Nel 2011 debutta alla regia con Scialla, presentato al Festival di Venezia, dove vince il Premio Controcampo. Scialla frutta al suo autore anche un David di Donatello e un Nastro d'Argento. Un film nelle corde di Bruni, girato a Roma, che affronta il rapporto padre - figlio, la microcriminalità in una grande città e il cambiamento del mondo della scuola. Tutto inserito in una vitale sceneggiatura che ricorda la commedia all'italiana. Ne parleremo con una scheda apposita. Bruni è Presidente di Giuria del Festival del Cinema di Roma, sezione Prospettive Italia.
La sua fortuna nasce all'ombra dei Quattro Mori dove ha una casa sul lungomare di Ardenza, vicino alla stupenda Terazza Mascagni, dalle parti dell'Accademia Militare. Roma è stata una tappa obbligata, lo è sempre per chi vuol fare cinema. Vive nella Beverly Hills dei livornesi, nella parte più nobile della città, come lui stesso la definisce in Ovosodo, anche se Livorno è una città quasi priva di una vera borghesia. A Livorno, vivere dove è nato Virzi, dalle parti della raffineria, nel quartiere Ovosodo tipicamente proletario, o vivere dalle parti della Baracchina Rossa o in Via Roma non fa grande differenza. Il ceto dominante è pur sempre mercantile, la gente ha un'anima portuale, una rude scorza scalfita dal vento di libeccio. Il livornese è ironico, graffiante, a tratti persino volgare, ma senza eccedere, ed è proprio Livorno che fornisce a Bruni il materiale per diventare scrittore di cinema. La madre di Bruni è livornese, figlia di un ufficiale di marina, il padre invece è un dirigente di azienda milanese che ha scelto di vivere Livorno per far contenta la moglie. Bruni si sente Livornese e conosce Virzì fin dai tempi del liceo, fanno teatro amatoriale insieme, scrivono e interpretano spettacoli. Virzì si iscrive al Centro Sperimentale di Roma pochi anni prima di Bruni che lo segue a ruota. Un destino legato, dunque. Indissolubile. I film di Virzì non sarebbero quello che sono senza le sceneggiature e i soggetti di Francesco Bruni che è davvero un narratore, un romanziere, uno che scrive per il cinema ma che potrebbe scrivere letteratura con la elle maiuscola. Livorno è la fucina di base, la città che traspare da tutte le opere di Bruni, perché se è vero che è un centro culturalmente povero è anche vero che come stile di vita è una città interessante. I livornesi hanno il senso del paradosso e un humour spontaneo nella vita di tutti i giorni, la loro esistenza scorre con ritmi mediterranei, quasi latini, senza troppa fretta e angoscia, si compiacciono dell'ignoranza, sono diffidenti, inventano battute che sono davvero uniche. Solo a Livorno può esistere una rivista di satira volgare e crassa - sia detto senza offesa ma con stima e ammirazione - come Il Vernacoliere, letta in tutta Italia, che sforna battute prese dalla vita quotidiana. Nei film di Bruni e Virzì (nel loro caso la paternità non è mai di uno solo dei due) Livorno viene raccontata a fondo e forse è proprio questo il segreto del successo. Gli autori analizzano un particolare che conoscono molto bene e diventano universali con un messaggio che viene ben accolto ovunque. Il gruppo, la factory, di Virzì nasce a Livorno e da qui si muove alla conquista del mondo cinematografico. Paolo Virzì, Francesco e Alessandro Bruni, Giorgio Algranti, Emanuele Barresi e altri amici che fanno i registi e gli attori dilettanti, che a Livorno sono additati e considerati diversi, strani e che adesso sono professionisti di un modo di fare cinema davvero unico. La factory di Virzì nasce al Palazzo dei Portuali dove il gruppo prova e mette in scene testi teatrali, da questo luogo di ritrovo analizza un intero mondo che scorre per le strade di una provincia portuale. Livorno e i livornesi, un popolo di scettici non incline all'intellettualismo che tratta da bischeri velleitari Bruni e Virzì che escono dal piccolo centro per cercare successo. Livorno è una città chiusa, il livornese crede di vivere nel posto più bello del mondo, per questo guarda con diffidenza chi la vuol lasciare. Il livornese giudica diverso pure uno che parla un italiano scelto e non utilizza il gergo locale, il vernacolo. Livorno è una riserva indiana nel centro Italia, un posto dove vivono persone un po' strane, malate di ironia che solo con il loro esistere contribuiscono allo sviluppo di due talenti naturali me Bruni e Virzì. Lo diciamo con simpatia, perché anche noi siamo livornesi, in fondo. Non è sbagliato affermare che i due cineasti danno vita a un'epopea livornese che parte alla conquista del mondo. I loro migliori film sono frutto del contatto vitale con questa città portuale, Ovosodo e La prima cosa bella sono lì a dimostrarlo.

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La pietra e la corda

30 Settembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Il sole c’è, e allora forza, bevi il caffè, fatti la doccia, metti i pantaloni e vai, che non si prevede pioggia né oggi né domani e camminare ti fa bene.

Felpa, zaino, cappello, scarponi. Su, non essere pigra, non pensarci anche mentre t’infili i calzini, non chiederti cosa avrebbe detto lui di quest’aria frizzante. Lo sai, avrebbe tirato fuori la macchina digitale dallo zaino, avrebbe scattato foto su foto, costringendoti in posa, immortalando cime e nuvole, camosci così piccoli e lontani che li vedeva solo lui. Avrebbe detto le parole che sai, le parole che ti parevano banali e ora ti mancano come manca l’aria a uno che affoga.

Sei venuta quassù, hai affittato la solita casa, forse perché le foto non ti bastano, forse perché hai paura di dimenticare anche un solo dettaglio.

Coraggio, metti un piede avanti all’altro e attenta a non inciampare. Il sentiero è ripido, bagnato, lui stava sempre dietro casomai tu scivolassi. Ora sei sola e hai già l’affanno, ma l’odore dei pini ti aiuta a respirare.

Ecco la prima cascata, poi la seconda. Qui è dove ti levavi sempre le scarpe e lui restava a guardare mentre immergevi i piedi nell’acqua fredda. Non ne hai voglia, non ti sembra più così divertente. Allora, dai, prosegui.

Eccoti in cima, finalmente, sull’altopiano dove il fiume gorgoglia e le marmotte urlano. Ne scopri una lì davanti, di vedetta, pronta a lanciare l’allarme alle compagne. Intorno la consueta pace, il silenzio sovrumano dei monti. Non c’è anima viva qui.

Invece no, qualcuno siede a gambe incrociate sotto la roccia e guarda in alto. Punti il binocolo ma non scorgi scalatori aggrappati alla parete. Allora cosa sta fissando l’uomo?

Gli arrivi alle spalle, in punta di piedi. Non si volta, non ti ha nemmeno sentito. Ora anche tu puoi vedere ciò che il suo corpo nasconde. Una lapide da cui penzola una corda. È davvero quello che pensi la macchia scura sulla corda?

In ricordo

di

Antonio Marradi

19 Agosto 2001

Siedi accanto all’uomo, che neanche ora si volta.

“Era suo figlio?”

“Sì.”

Quasi due ore di salita e lui, vecchio com’è, deve farsela ogni volta, per poi investigare le rocce che conservano ancora una traccia del suo ragazzo, forse l’impronta di una mano, o forse l’eco di un urlo. Si chiede cosa ha provato quando gli è mancato l’appiglio, quando la pelle si è lacerata e la corda ha frustato l’aria.

Sai cosa sta pensando perché è ciò che hai pensato anche tu la notte che ti hanno fatto vedere il corpo. Ti è rimasto dentro lo scricchiolio del carrello, il fruscio del lenzuolo.

“È suo marito?” hanno chiesto. E tu non riuscivi a dire sì, perché, se lo avessi detto, il corpo che avevi di fronte sarebbe diventato davvero di tuo marito. Lo fissavi incredula, ti chiedevi se si era accorto di morire mentre l’auto si ribaltava, se era ancora vivo nel fosso. Ti domandavi perché da sua madre quella sera lo avevi lasciato andare solo. “Vai da mammina?” avevi chiesto sarcastica e lui aveva alzato le spalle. Sapeva che il nervoso ti sarebbe passato presto.

“L’ho portato io, in montagna, mio figlio, la prima volta. Gli ho comprato pure una piccozza.”

“Anche mio marito è morto.” Ecco, l’hai detto, hai pronunciato l’impronunciabile. Di solito usi frasi come “lui ora non è qui”.

“Non ci si perdona più niente, vero?”

“Già.”

Chi dei due ha parlato? È la tua voce o è quella di quest’uomo anziano che ora sta piangendo?

“Dicono che la morte è un atto di generosità. Dobbiamo lasciare il posto a chi viene dopo di noi. Ma mio figlio era giovane.”

“Ho smesso di chiedermi perché mio marito è morto. Se anche un motivo ci fosse, ciò che provo non cambierebbe.”

“Gli amici sostengono che mio figlio è scomparso facendo ciò che più amava, che quando arrampicava metteva in conto di morire. Io non lo credo.”

“Non si mette mai in conto di morire.”

Ora, se la tua vita fosse un film americano, abbracceresti quest’uomo sconosciuto ed ognuno di voi sfogherebbe il suo dolore, lo lenirebbe, dividendolo con l’altro. Ma non è un film e così non ti muovi, non gli prendi la mano, non gli porgi nemmeno un fazzoletto. Rimanete in silenzio, a un metro di distanza, e lui continua a piangere e fissare la roccia.

Tu, intanto, ascolti il grido dell’aquila, tocchi il lichene e i ciottoli lavorati dal movimento del ghiacciaio. Ti chiedi se non tutto è perduto, se una vibrazione almeno si conserva. Sai che l’uomo che ti siede accanto prova il tuo stesso strazio e si sta ponendo le stesse domande

Ma neanche lui ha le risposte.

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Virzì, un romanziere prestato al cinema

29 Settembre 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema

Paolo Virzì nasce nel 1964 a Livorno, città di mare ricca di ironia, la Napoli del Centro Italia, una fetta di meridione capitata per caso vicino a Firenze. Livorno è importante per la formazione culturale di Virzì, per quel che dice, per le storie che si porta dentro e che ci racconta con delicata maestria. Il regista nasce nel quartiere popolare delle Sorgenti, cresce con la passione della letteratura, delle storie di vita quotidiana raccontate nei romanzi di Mark Twain e Charles Dickens. Il romanzo di formazione è nel suo futuro di intellettuale, di regista che rivitalizza e rinnova i canoni della commedia all'italiana. Francesco Bruni è suo sodale sin dai tempi del liceo, con lui comincia a scrivere per alcune filodrammatiche e coltiva il sogno del cinema. Virzì si trasferisce a Roma, studia al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove si diploma in sceneggiatura con il maestro (in tutti i sensi) Furio Scarpelli. Tra i suoi autori di riferimenti va citato anche Gianni Amelio, che gli insegna i trucchi del mestiere al Centro Sperimentale. Collabora alla sceneggiatura di Tempo di uccidere di Giuliano Montaldo (1989), Turné di Gabriele Salvatores (1990), Condominio di Felice Farina (1990), Centro storico di Roberto Giannarelli. Esordisce alla regia con La bella vita (1994), dove racconta la vita problematica di Piombino alle prese con la crisi della siderurgia. Il film viene presentato a Venezia e ottiene il Ciak d'Oro come nuova proposta italiana. Non solo: Sabrina Ferilli ottiene il Nastro d'argento come migliore interprete femminile dell'anno. Il titolo in lavorazione è Dimenticare Piombino. Realizza Ferie d'agosto (1996), che racconta la difficile convivenza sull'isola di Ventotene di due gruppi di turisti italiani in vacanza. Questo film si aggiudica il David di Donatello. Nel 1997 è la volta di Ovosodo, scritto dal maestro Furio Scarpelli e sceneggiato come sempre da Virzì e dall'ottimo Francesco Bruni. Ovosodo vince il Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia e il Ciak d'oro per la migliore sceneggiatura ed è uno dei titoli italiani di maggior successo della stagione. Ovosodo consacra la grandezza di Paolo Virzì e della sua factory tutta livornese (o quasi) composta da autori e attori semi professionisti, ma eccezionali. Nel 1999 Virzì gira Baci e abbracci, un'altra commedia tragicomica con protagonisti un gruppo di disoccupati che si inventano allevatori di struzzi nelle campagne della Val di Cecina. Il film convince critica e pubblico ed entra in competizione al Festival di Locarno. Nel 2001, dopo vicende difficili legate al fallimento della produzione Cecchi Gori, esce finalmente l'ottimo My nime is Tanino, un film fuori dalle corde di Virzì, girato tra la Sicilia e New York. La mano del narratore e del grande Francesco Bruni tuttavia si sente ancora. Caterina va in città (2003) è un buon lavoro non compreso fino in fondo dalla critica. Il regista con mano delicata traccia pregi e difetti dell'Italia di oggi, tra una destra di governo, una sinistra indecisa e la povera gente che si sente sempre più abbandonata. Passano tre anni per rivedere Virzì all'opera, ancora una volta con una pellicola girata a Piombino: N (Io e Napoleone) (2006), che rappresenta l'Isola d'Elba ai tempi dell'esilio dell'imperatore francese, ma la location sono le fonti dei Canali di Marina e il centro storico piombinese, giudicato più idoneo e meglio conservato, ideale per restituire il colore del tempo. Il film è un adattamento del romanzo omonimo di Ernesto Ferrero, risulta piacevole, ma non è tra le cose memorabili del registra livornese, non troppo tagliato per le commedie in costume. Monica Bellucci fa girare la testa ai piombinesi per il periodo in cui si trattiene in città.
Tutta la vita davanti (2008) è un film politico, azzeccato per tempi comici e amarezza di fondo, che affronta il problema del lavoro, dei ragazzi sottopagati sfruttati all'interno di infimi call center. Sabrina Ferilli, Isabella Ragonese e Micaela Ramazzotti sono le mattatrici di una pellicola galeotta che fa incontrare il regista con l'amore della sua vita. Una commedia realistica interpretata da donne.
Virzì vince il Premio Sergio Leone alla carriera, assegnato dal Festival di Annecy nel 2008, gira L'uomo che aveva picchiato la testa (2009), un documentario sull'amato Bobo Rondelli, cantautore livornese underground poco noto al grande pubblico. La pellicola è prodotta dalla sua casa di produzione, Motorino Amaranto, fondata nel 2001, che produce anche La prima cosa bella (2010), forse il suo miglior film, sospeso tra ricordi del passato, ricerca del tempo perduto e sogni di un futuro migliore. Un bel cast composto da Micaela Ramazzotti (fresca sposa del regista), Valerio Mastandrea, Claudia Pandolfi, Stefania Sandrelli e Marco Messeri. Le vicende di una famiglia livornese e di una madre bellissima (Ramazzotti e poi Sandrelli), dagli anni Settanta a oggi, che condiziona la vita dei figli, soprattutto di Bruno, che torna a Livorno per starle accanto negli ultimi giorni di vita. Diciotto candidature al David di Donatello. Tre successi: sceneggiatura (Virzì, Bruni e Piccolo), attrice protagonista (Ramazzotti) e attore protagonista (Mastandrea). Nastro d'Argento a Taorimina, come miglior film dell'anno.
Tutti i santi giorni (2012) è l'ultimo lavoro di Virzì, purtroppo non all'altezza del precedente, un passo indietro per il regista livornese che gira una storia paradossale, ispirata al romanzo La generazione di Simone Lenzi. La cosa più bella della pellicola è la colonna sonora, composta dalla protagonista Thony, del tutto fuori ruolo come attrice. Luca Marinelli nei panni di Guido salva il film a livello di recitazione, ma può fare poco di fronte a una storia improbabile che finisce per diventare irritante mano a mano che scorrono le immagini. Il desiderio di maternità è il tema conduttore, ma è trattato in maniera troppo sopra le righe e ai limiti della farsa per risultare interessante.
Paolo Virzì è il maestro della nuova commedia all'italiana, quella di Furio Scarpelli e di Age, fatta di storie e di personaggi, non certo la commedia scollacciata e ridanciana che non fa pensare. I migliori film di Virzì sono ambientati in provincia, costituiscono un'epopea livornese dei ceti più umili, degli sconfitti che lottano senza speranza ma che sanno pure stemperare le difficoltà in un sorriso liberatore.
Parlare di Virzì vuol dire anche affrontare il problema di cosa voglia dire per lui essere oggi un uomo di sinistra.
"La mia sinistra è un connubio tra l'allegria popolare e le tematiche alte, ma soprattutto deve essere unita e non elitaria" ha detto a Il Tirreno di Livorno in un'intervista rilasciata a Mario Lancisi, il 18 novembre del 2003. Paolo Virzì è contro chi ha creato un Ulivo-chic e partendo dall'esempio della sua Livorno mezza rossa e mezza anarchica attacca l'intellettualismo girotondino di Nanni Moretti e il politichese di Fabio Mussi. C'è già chi lo ha definito l'anti-Moretti, ma lui non vuole essere contro nessuno, caso mai si sente propositivo e non è abituato a esibire la sua persona. Virzì viene da simpatie giovanili per gli anarchici, ha frequentato la sede di via Ernesto Rossi e il piccolo bar dei vecchietti reduci dalla guerra di Spagna del 1936. Per il giovane Virzì l'anarchia è il comunismo libertario, le canzoni di De Andrè, la lotta contro il palazzo guidato dalla sinistra ufficiale. Dopo il liceo Virzì viene eletto come indipendente nelle liste del PCI, nel consiglio della Circoscrizione 1, quella dei quartieri popolari di Sorgenti e di Corea. Ricopre per alcuni anni la carica di assessore alla cultura e dà una mano per il cinema e per il teatro anche a Claudio Frontera, assessore alla cultura del Comune di Livorno.
Paolo Virzì proviene da una famiglia di sinistra che ha solide radici popolari, gli zii sono socialisti e comunisti, lavorano al Cantiere, le sue letture e le prime visioni cinematografiche sono nutrite di cultura popolare. Quello che Virzì vuole dalla sinistra di oggi è un ritorno all'unità e un riavvicinarsi alle esigenze della gente. "La sinistra deve tornare a essere quella delle vecchie Feste dell'Unità dove andavano a braccetto la porchetta e i dibattiti sulla fame nel mondo", afferma. Virzì vede una borghesia di destra inaffidabile, senza una forte impronta morale e democratica, priva di senso dello Stato. A suo parere serve una sinistra aperta alla società civile che faccia propri gli interessi culturali e politici dei ceti più bassi. Per Virzì la sinistra di governo deve essere come la Biblioteca dei Portuali della sua Livorno: un luogo dove si mescolano tematiche sociali e culturali che provengono dall'alto e dal basso. "La sinistra deve smettere di avere fastidio per ciò che è popolare", conclude Virzì. Un'impostazione condivisibile, più di tanti snobismi elitari.
Per approfondire la figura del regista consigliamo: Alessio Accardo, Gabriele Acerbo, My name is Virzì. L'avventurosa storia di un regista di Livorno, prefazione Gianni Canova, Le Mani, 2010.

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Un uomo fortunato

28 Settembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

“Pronto, sì? Dimmi, Iole. Hai ordinato il completino? Hai fatto bene. Il compleanno dei gemelli? Sì, certo che mi ricordo la torta. Tuo marito? Ha ottenuto punti d’invalidità? Uhm… quanti? Così tanti, però eh, caspita…”
Perché quel “caspita” le era uscito così strascicato e invidioso, si chiese la Tilde, e cos’era quell’improvviso magone? “Bene, bene, sono felice per voi”. Mise giù la cornetta con un senso di scontentezza crescente.
“Tilde, amore…”
Dalla stanza accanto, Gino, suo marito, le lanciò un bacio sulla punta delle dita e sorrise coi suoi trentadue denti da pubblicità di dentifricio. Aveva appena ripudiato i calzoncini da tennis in favore della tuta da jogging. “Io esco, amore.”
“Sì, vai, vai.”
La Tilde Tacconi andò in cerca di un fazzoletto perché sapeva che presto il magone sarebbe evoluto in lacrime amare. Si affacciò alla finestra e guardò Gino che, appena sbucato dal portone, già accennava i balzelli elastici della sua corsa. Lo fissò con tutta l’attenzione possibile, fece schermo al sole con la mano aperta, strizzò gli occhi per vedere meglio.
Niente da fare. Gino era irrimediabilmente giovane, bello e sano.
Ogni giorno, scalpitante come un puledro allo start, timbrava il cartellino allo scoccare delle diciassette. Dopo cinque minuti, era già sul campo da tennis, dove non sbagliava mai un colpo. L’idolo degli amici, saltava e guizzava sul terreno di gioco, mentre dal bordo le signore lanciavano occhiate vogliose ai suoi muscoli da discobolo greco.
Tilde non era gelosa, no. Tilde si vergognava.
Un uomo che guadagnava mille euro il mese era ridicolo con quell’abbronzatura da barca a vela. Gli impiegatucci, gli scribacchini, le oscure mezze maniche perse nei sottoscala dell’azienda come lui, non hanno la sfacciataggine d’essere belli e felici come se possedessero panfili e macchine da corsa.
Le lacrime traboccarono, calde ed inesorabili. Com’erano fortunate le sue amiche, la Iole, la Vanda, la Sirte, ad avere quei maritini pelati ed asmatici, panciuti e colitici, che giravano col digestivo in tasca e le pillole per la pressione nel portafoglio. Tutte le fortune capitavano alle altre.
Il marito di quella linguacciuta della Iole s’era allevato la sua bronchite come un figlio piccolo, fino a farsi venire un bell’enfisema coi fiocchi, capace di regalarti tutti quei punti d’invalidità in un colpo solo. Ora, si sa, tempo un mese avrebbe fatto un bel passo avanti e allora chi la reggeva più la Iole. Chissà quanto si sarebbe vantata della sua nuova posizione! Che le venisse un accidente, a lei, a suo marito e a quelle bestie dei gemelli.
Cosa gli sarebbe costato al suo Gino di ammalarsi un po’, magari solo un tantino per farla contenta, per strappare qualche punto all’annuale visita di controllo dell’azienda?
Macché.
Ogni volta il medico si congratulava: “Complimenti, Tacconi, lei ha occhi di falco, polmoni perfetti e cuore d’atleta.”
E quell’idiota di Gino tornava a casa felice. “Il dottore ha assicurato che sono sano come un pesce”, la informava, stringendola forte da toglierle il fiato, senza capire che per lei quelle parole erano una coltellata.
Ah, ma lo aveva sempre detto la mamma che Gino non avrebbe mai mosso un dito per far carriera! A quei tempi, lei, accecata dall’amore, non ci aveva dato peso. Pensava che alla fine Gino avrebbe messo la testa a posto, si sarebbe dato da fare per guadagnare di più.
Invece niente. Tennis e jogging, jogging e palestra, palestra e piscina. Una condanna.
La sera, dopo cena, Tilde raccontò a Gino la fortuna che era capitata alla Iole Grimaldi. Gli disse quanto lei, invece, si sentisse triste ed infelice. Gli ricordò i suoi doveri di padre di famiglia. Spiegò che i bambini a scuola si vergognavano, dovendo confessare ai figli degli avvocati e degli ingegneri che il loro padre era un modestissimo impiegato aziendale.
“Ma, amore”, si difese Gino, “i bambini crescono bene, non abbiamo debiti, la casa è di proprietà. Siamo felici anche così.”
“Tu!” ruggì Tilde, “tu sei felice! Sei contento come una Pasqua di quel misero impiego, di questi quattro soldi, degli stracci che indossa tua moglie. Eh, certo, perché tanto, poi, il signorino si fa una bella partita a tennis e una corsa nel parco. Ah, ma aveva ragione la mamma! Perché non l’ho ascoltata?”
Per ore Tilde pianse, gridò, fece appello al senso del dovere, rivangò la magia del loro primo incontro, minacciò il divorzio. Finalmente, attorno alla mezzanotte, un Gino frastornato e insonnolito ammise che, forse, era un po’ immaturo per un uomo di trentacinque anni essere ancora tanto atletico ed in salute.
Tilde, allora, si alzò dal divano e scomparve per qualche istante. Tornò con un misterioso pacchetto, che scartò con amore. Apparve una boccettina e lei la sorresse con mani tremanti, come una reliquia. “Ecco, tesoro.”
“Che cos’è, cara?” chiese lui, sbadigliando.
Tilde lo baciò con devozione sulla guancia. “Oh, amore, non è niente. E’ una cosina che tenevo in serbo per te, per quando ti fossi deciso. Sapessi quanto l’ho pagata, Ginuccio.”
“Sì, ma cos’è?”
“Ma, niente, ti ho detto. E’… è solo acido farnetico.”
Gino spalancò gli occhi, fece un balzo che catapultò il gatto giù dal divano. “Acido farnetico! Ma è paralizzante! Sei diventata matta, non vorrai fami prendere quella roba!”
Tilde era arrivata al culmine della pazienza. Tanta ingratitudine da parte di Gino le pareva crudele. Si sforzò di mantenere un tono calmo. “Via, Ginuccio, non sentirai niente. Sarà un momento. Ti darà un deficit lievissimo, ed otterrai qualche punto. Su, fallo per me, apri la boccuccia, guarda, ti ci metto anche lo zucchero, da bravo!”
Gino strabuzzò gli occhi, fece di no con la testa, serrò le labbra, tanto che Tilde fu costretta a fargli gli occhiacci e a ricordargli che, se non si decideva a spalancare quella benedetta bocca, avrebbe chiesto la custodia dei bambini.
Prima d’ingoiare lo zuccherino bagnato con tre gocce di acido farnetico, Gino strinse forte a sé la moglie. “Ti amo tanto, Tilde. Amo te ed i ragazzi.”
La mattina dopo si svegliò con tutti i sintomi di un’emiparesi facciale. Il suo bellissimo occhio sinistro, di un azzurro spettacolare, ora se ne stava là, semichiuso ed incrostato di cispa lattiginosa. La bocca era scesa in giù di qualche spanna, la lingua sporgeva un pochettino all’angolo delle labbra.
Gli amici furono assai sorpresi e dispiaciuti, i dottori non si capacitarono della disgrazia. Fece subito domanda ed ottenne i punti d’invalidità. L’avanzamento fu automatico nella sua amministrazione.
Non potendo giocare a tennis, per colpa dell’occhio che non inquadrava la palla come prima, Gino si fermava di più in ufficio. Il capo era contento del suo nuovo zelo. Comprarono il frigo con il tritaghiaccio all’americana. Tilde acquistò qualche vestito nuovo per sé e per i bambini.
Passarono alcuni mesi sereni, poi, una sera, Tilde accennò ad un appartamento che aveva visitato nel pomeriggio. Era nel centro storico, disse, ed anche molto luminoso. I ragazzi avrebbero avuto camere separate come desideravano.
“Ma, amore, non possiamo permettercelo”, sorrise Gino.
“No, certo, con quello che guadagni adesso, non possiamo proprio, ma se tu potessi fare un altro piccolo passo avanti…”
Dopo mezz’ora Gino era là, con la lingua di fuori, che inghiottiva cinque gocce di acido farnetico. Nella nottata ebbe una crisi epilettica e lo portarono all’ospedale. Guarì in fretta ma rimase impedito al braccio ed alla gamba. Gli affidarono immediatamente un settore tutto suo da dirigere. Ottenne una scrivania di mogano e una segretaria che faceva le veci della sua mano. Si trasferirono nel nuovo appartamento, i bambini furono iscritti ad una scuola privata e Tilde si comprò la pelliccia. La domenica uscivano a passeggio sul corso, Tilde si pavoneggiava nel visone nuovo, mentre Gino si strascicava dietro la gamba come una scopa.
E poi la carriera continuò. Ogni anno a Gino veniva un colpo che gli storpiava un braccio, un occhio, la favella, secondo il numero di gocce che la sua premurosa moglie versava sullo zuccherino.
Colpo dopo colpo, Gino Tacconi salì ai vertici dell’amministrazione aziendale.

Come ogni mattina, la signorina Elisabetta spinse la carrozzella del direttore nel suo faraonico ufficio. Gli accese un sigaro di marca e versò le pillole nel bicchiere. Il direttore strabuzzò gli occhi, mugolò un ringraziamento ed inghiottì un sorso d’acqua con una compressa.
“Se non ha più bisogno di me, io vado, direttore.”
“Uuuughh…”
“Buon lavoro anche a lei, direttore.
Il direttor Tacconi rimase solo. Aspirò alcune boccate del sigaro, lottando contro il catarro che gl’intasava la laringe. Roteando gli occhi, riuscì a vedere il lato della scrivania dove erano in mostra le immagini della sua famiglia. I suoi ragazzi, ormai grandi, sorridevano fieri col cappello della laurea. Con la maturità, Tilde si era fatta, se possibile, ancora più bella. Il completo da montagna le donava, nella foto presa a Cortina insieme al maestro di sci. Era veramente orgoglioso della sua famiglia.
Davvero, Gino Tacconi poteva dirsi un uomo fortunato.
Il sigaro gli si scollò dalle labbra e gli cadde in grembo. Si agitò sulla sedia quel tanto che bastava a farlo scivolare a terra, prima che gli bruciasse i pantaloni. Una lacrima, una sola, seguì il contorno del naso prima di guadagnare il mento, dove rimase a dondolarsi, indecisa.
Le sue mani non erano in grado di asciugarla.

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EROS NELLA SENSIBILITÀ DEI POETI GRECI E LATINI

27 Settembre 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #saggi

Tracciare un iter ideale della evoluzione di EROS attraverso i maggiori poeti latini e greci è un tentativo di per sé destinato a non concludersi. Basti ricordare quanto sostiene Platone sulla impossibilità di definire Eros: eros dolceamaro, eros dominatore nato dalle origini del caos, eros demiurgo, eros paredro di Afrodite; tuttavia, pur nella molteplicità e varietà di forme della figura che per i Greci incarna la forza dell’amore, si riflette la sua posizione centrale in una cultura e in un sistema di pensiero e di sentimento profondamente segnati dall’attrattiva amorosa.

È da notare, però, se applichiamo un’analisi semantica al termine in questione nei diversi contesti in cui esso è usato fin da Omero, che il termine eros esprime un concetto che solo parzialmente coincide con ciò che noi intendiamo per amore.

Nei primi testi classici, infatti, eros designa il desiderio di gloria o di potere politico, quando non indichi (confondendosi con “imeros”) il rimpianto (es. di Achille nei confronti dell’amico morto Patroclo); tuttavia nella maggioranza dei casi eros sta ad indicare il desiderio dell’amato/a.

E già attraverso Omero possiamo delineare una vera e propria fisiologia dell’amore secondo i Greci.

Eros in effetti vi è descritto come una forza esterna che afferra colui che prova desiderio. Questa forza agisce sull’organo che per i Greci è la sede dei sentimenti: il petto; inonda il cuore, per sottometterlo, e provoca nella persona che ne è colpita uno stato che trova espressione nel verbo éramai “desiderare”,”amare”. Questo stato di desiderio è collegato a un’altra persona, ossia a quella che l’ha suscitato.

Usando la terminologia contemporanea, si potrebbe dire che la persona amata è al tempo stesso l’origine e la meta della forza che si qualifica come desiderio in colui che ama e lo fa tendere verso di essa.

In questo gioco di sollecitazioni dell’amante ad opera della persona amata, lo sguardo assume un ruolo essenziale; è il veicolo della potenza dell’eros. E viene a determinarsi come un flusso che emana dall’oggetto amato per invadere l’amante e quindi rifluire in parte sul primo. E’ così che l’anima dell’amato è investita a sua volta dalla potenza dell’eros; è così che l’eròmenos (l’amato) brucia anche lui dal desiderio del suo erastès (amante) e che, riflettendone i sentimenti, è preso da “antèros”, l’amore ricambiato.

Questa rappresentazione della potenza oggettiva dell’ eros che invade l’uomo o la donna per stregarli, si ritrova in tutta la letteratura greca da Omero agli epigrammi dell’Antologia Palatina.

Quali sono le manifestazioni dell’eros?

Nella poesia lirica arcaica: eros riscalda il cuore, gli si avviluppa, brucia l’anima, scioglie le membra, scuote l’amante come un vento montano, strema, stronca, soggioga, abbatte.

Eros, di nuovo, colui che scioglie le membra, mi agita (Saffo 130 V.)

Eros come tagliatore d’alberi/ mi colpì con una grande scure/ e mi riversò alla deriva/ d’un torrente invernale (Anacreonte fr. 45 D)

Mi invase il cuore tanto desiderio d’amore/ che una fitta nebbia m’offusca gli occhi/ strappandomi dal petto la tenera anima. (Archiloco fr. 112 D.)

A questi modi di agire sono associate le qualità corrispondenti: dolcezza, dolcezza e amarezza insieme, sfrontatezza, insolenza ecc.;

Eros ora per volere di Cipride/ dolce stillando mi scalda il cuore (Alcmane fr. 101 D).

Dolce, d’estate, alla sete la neve, a chi naviga dolce,/ come inverno dilegua, la Ghirlanda./* Molto più dolce s’è una la coltre che cela gli amanti/ se Cipride la celebrano entrambi. (Asclepiade A.P. V, 169)

*costellazione delle Pleiadi

Nulla è più dolce di amore, ogni altro diletto vien dopo/ di lui; dalla mia bocca io sputo pure il miele. (Nosside A.P. V, 170)

Eros, infine, agisce come una belva a cui non si sfugge: è amèchanos.

Invincibile fiera dolceamara (Saffo fr. 131 V.)

Ma il desiderio non raggiunge solo la sede dei sentimenti: invade l’intera persona. Col suo fascino può arrivare a impadronirsi dell’intelletto stesso; nella misura in cui vi riesce provoca in colui o colei che ha invaso uno stato di vera e propria manìa, di delirio e invasamento.

Ed Eros mi ha sconvolto la mente/ Come un vento che si abbatte sul monte contro le querce (Saffo fr. 50 D)

Amo di nuovo, non amo/ e folle sono, non folle (Anacreonte fr. 79 D)

In epoca alessandrina, perfino Polifemo, il Ciclope dell’Odissea, l’orco antropofago, vinto da eros, diventa lo spasimante di Galatea.

Mi sono innamorato di te o fanciulla, allorché dapprima venisti con mia madre,….Cessare, dopo che ti ho visto anche in seguito, non posso più da allora…(Teocrito XI)

Agli attacchi dell’eros non è dunque possibile resistere. È Deianira nelle Trachinie di Sofocle ad avvertircene:

chi affronta il desiderio come un lottatore, è fuori di senno

e, riprendendo nell’Antigone la metafora agonistica, Sofocle aggiunge

eros nella lotta invincibile

I suoi attributi, i suoi modi di agire, la possibilità di impegnare con lui un vero e proprio combattimento, fanno del desiderio, come è inteso dai Greci, un’entità assolutamente antropomorfa.

Porta l’acqua ragazzo, porta il vino/ e ghirlande portaci di fiori/ orsù portate, ché voglio/ con Eros fare a pugni (Anacreonte fr. 27 D)

Di qui la tendenza a scrivere il suo nome come un antroponimo; cosa che per gli antichi significa non solo ravvisarvi un tiranno implacabile e un dominatore di uomini, ma estenderne il potere anche sugli dei.

a me piace cantare il molle Eros/ di ghirlande fiorito ricolmo/ egli è signore degli dei/ egli doma i mortali (Anacreonte fr.28 D)

Eros così è lui stesso una divinità, complementare ad Afrodite: Afrodite presiede all’ unione ma nulla essa è senza la forza che attira l’uno verso l’altra i suoi protagonisti.

Nuovamente Eros/ di sotto alle palpebre languido/ mi guarda coi suoi occhi di mare:/ con oscure dolcezze/ mi spinge nelle reti di Cipride/ inestricabili./ Ora io trepido quando si avvicina,/ come cavallo che uso alle vittorie,/ a tarda giovinezza, contro voglia/ tra carri veloci torna a gara. (Ibico fr. 7 D)

Adriana Pedicini

EROS NELLA SENSIBILITÀ DEI POETI GRECI E LATINI

Tracciare un iter ideale della evoluzione di EROS attraverso i maggiori poeti latini e greci è un tentativo di per sé destinato a non concludersi. Basti ricordare quanto sostiene Platone sulla impossibilità di definire Eros: eros dolceamaro, eros dominatore nato dalle origini del caos, eros demiurgo, eros paredro di Afrodite; tuttavia, pur nella molteplicità e varietà di forme della figura che per i Greci incarna la forza dell’amore, si riflette la sua posizione centrale in una cultura e in un sistema di pensiero e di sentimento profondamente segnati dall’attrattiva amorosa.

È da notare, però, se applichiamo un’analisi semantica al termine in questione nei diversi contesti in cui esso è usato fin da Omero, che il termine eros esprime un concetto che solo parzialmente coincide con ciò che noi intendiamo per amore.

Nei primi testi classici, infatti, eros designa il desiderio di gloria o di potere politico, quando non indichi (confondendosi con “imeros”) il rimpianto (es. di Achille nei confronti dell’amico morto Patroclo); tuttavia nella maggioranza dei casi eros sta ad indicare il desiderio dell’amato/a.

E già attraverso Omero possiamo delineare una vera e propria fisiologia dell’amore secondo i Greci.

Eros in effetti vi è descritto come una forza esterna che afferra colui che prova desiderio. Questa forza agisce sull’organo che per i Greci è la sede dei sentimenti: il petto; inonda il cuore, per sottometterlo, e provoca nella persona che ne è colpita uno stato che trova espressione nel verbo éramai “desiderare”,”amare”. Questo stato di desiderio è collegato a un’altra persona, ossia a quella che l’ha suscitato.

Usando la terminologia contemporanea, si potrebbe dire che la persona amata è al tempo stesso l’origine e la meta della forza che si qualifica come desiderio in colui che ama e lo fa tendere verso di essa.

In questo gioco di sollecitazioni dell’amante ad opera della persona amata, lo sguardo assume un ruolo essenziale; è il veicolo della potenza dell’eros. E viene a determinarsi come un flusso che emana dall’oggetto amato per invadere l’amante e quindi rifluire in parte sul primo. E’ così che l’anima dell’amato è investita a sua volta dalla potenza dell’eros; è così che l’eròmenos (l’amato) brucia anche lui dal desiderio del suo erastès (amante) e che, riflettendone i sentimenti, è preso da “antèros”, l’amore ricambiato.

Questa rappresentazione della potenza oggettiva dell’ eros che invade l’uomo o la donna per stregarli, si ritrova in tutta la letteratura greca da Omero agli epigrammi dell’Antologia Palatina.

Quali sono le manifestazioni dell’eros?

Nella poesia lirica arcaica: eros riscalda il cuore, gli si avviluppa, brucia l’anima, scioglie le membra, scuote l’amante come un vento montano, strema, stronca, soggioga, abbatte.

Eros, di nuovo, colui che scioglie le membra, mi agita (Saffo 130 V.)

Eros come tagliatore d’alberi/ mi colpì con una grande scure/ e mi riversò alla deriva/ d’un torrente invernale (Anacreonte fr. 45 D)

Mi invase il cuore tanto desiderio d’amore/ che una fitta nebbia m’offusca gli occhi/ strappandomi dal petto la tenera anima. (Archiloco fr. 112 D.)

A questi modi di agire sono associate le qualità corrispondenti: dolcezza, dolcezza e amarezza insieme, sfrontatezza, insolenza ecc.;

Eros ora per volere di Cipride/ dolce stillando mi scalda il cuore (Alcmane fr. 101 D).

Dolce, d’estate, alla sete la neve, a chi naviga dolce,/ come inverno dilegua, la Ghirlanda./* Molto più dolce s’è una la coltre che cela gli amanti/ se Cipride la celebrano entrambi. (Asclepiade A.P. V, 169)

*costellazione delle Pleiadi

Nulla è più dolce di amore, ogni altro diletto vien dopo/ di lui; dalla mia bocca io sputo pure il miele. (Nosside A.P. V, 170)

Eros, infine, agisce come una belva a cui non si sfugge: è amèchanos.

Invincibile fiera dolceamara (Saffo fr. 131 V.)

Ma il desiderio non raggiunge solo la sede dei sentimenti: invade l’intera persona. Col suo fascino può arrivare a impadronirsi dell’intelletto stesso; nella misura in cui vi riesce provoca in colui o colei che ha invaso uno stato di vera e propria manìa, di delirio e invasamento.

Ed Eros mi ha sconvolto la mente/ Come un vento che si abbatte sul monte contro le querce (Saffo fr. 50 D)

Amo di nuovo, non amo/ e folle sono, non folle (Anacreonte fr. 79 D)

In epoca alessandrina, perfino Polifemo, il Ciclope dell’Odissea, l’orco antropofago, vinto da eros, diventa lo spasimante di Galatea.

Mi sono innamorato di te o fanciulla, allorché dapprima venisti con mia madre,….Cessare, dopo che ti ho visto anche in seguito, non posso più da allora…(Teocrito XI)

Agli attacchi dell’eros non è dunque possibile resistere. È Deianira nelle Trachinie di Sofocle ad avvertircene:

chi affronta il desiderio come un lottatore, è fuori di senno

e, riprendendo nell’Antigone la metafora agonistica, Sofocle aggiunge

eros nella lotta invincibile

I suoi attributi, i suoi modi di agire, la possibilità di impegnare con lui un vero e proprio combattimento, fanno del desiderio, come è inteso dai Greci, un’entità assolutamente antropomorfa.

Porta l’acqua ragazzo, porta il vino/ e ghirlande portaci di fiori/ orsù portate, ché voglio/ con Eros fare a pugni (Anacreonte fr. 27 D)

Di qui la tendenza a scrivere il suo nome come un antroponimo; cosa che per gli antichi significa non solo ravvisarvi un tiranno implacabile e un dominatore di uomini, ma estenderne il potere anche sugli dei.

a me piace cantare il molle Eros/ di ghirlande fiorito ricolmo/ egli è signore degli dei/ egli doma i mortali (Anacreonte fr.28 D)

Eros così è lui stesso una divinità, complementare ad Afrodite: Afrodite presiede all’ unione ma nulla essa è senza la forza che attira l’uno verso l’altra i suoi protagonisti.

Nuovamente Eros/ di sotto alle palpebre languido/ mi guarda coi suoi occhi di mare:/ con oscure dolcezze/ mi spinge nelle reti di Cipride/ inestricabili./ Ora io trepido quando si avvicina,/ come cavallo che uso alle vittorie,/ a tarda giovinezza, contro voglia/ tra carri veloci torna a gara. (Ibico fr. 7 D)

Adriana Pedicini

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Heberto Padilla, "Fuera del Juego"

26 Settembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #gordiano lupi

 

 

Fuera del juego

Heberto Padilla

Traduzione di Gordiano Lupi

 

Edizioni Il Foglio

pp 157

12,00

 

“The knock at our door came around seven in the morning.” Così Cuza Malè racconta il momento dell’arresto del marito, il poeta cubano, di lingua castigliana, Herberto Padilla.

Dopo che, nel 1968, la raccolta di poesie “Fuera del juego”, di Padilla, vinse il premio UNEAC, il libro venne considerato controrivoluzionario e pubblicato con un’appendice che ne stigmatizzava il contenuto come anticastrista. Padilla fu arrestato nel 1971 e, per riottenere la libertà, fu costretto ad apparire davanti al collegio degli scrittori e fare pubblica abiura di se stesso, dei suoi scritti, “confessando” supposti crimini suoi e della moglie contro la Rivoluzione. Così si esprimeva Padilla riguardo alla sua “autocritica”:

Il procedimento è stato ideato da Lenin per recuperare i rivoluzionari nelle file del partito comunista e perfezionato da Stalin come strumento per distruggere moralmente chi esprimeva posizioni critiche . Ho accettato di recitare l’autocritica per ottenere la libertà e per poter lasciare Cuba, che ormai era diventata una prigione.”

Molte personalità, fra le quali Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Susan Sontag, Mario Vargas Llosa, Federico Fellini, Alberto Moravia – con alcune eccezioni illustri come Gabriel Garcia Marquez - firmarono una petizione per chiederne la liberazione. L’affare Padilla segnò la fine del sostegno degli intellettuali di sinistra alla Rivoluzione Cubana, che aveva perso i suoi connotati libertari per trasformarsi in un regime autoritario, castrista e castrante.

I versi di Padilla sono semplici, discorsivi ma solo in apparenza. Parlano di cose concrete, di vita di tutti i giorni, dell’irruzione della storia e della politica nel privato del cittadino che vorrebbe prescinderne ma non può.

Sono sempre stato fuori dal gioco, forse è la condizione di poeta che non permette di stare dentro, per noi non è possibile, siamo destinati a raccontare una spiacevole verità in faccia al tiranno. Un poeta è bene non averlo intorno, è un triste personaggio che trova sempre da ridire, che non è mai contento, soprattutto non serve al potere.”

Come dice il traduttore (ed editore) Gordiano Lupi, “Padilla non è un dissidente ma un rivoluzionario che vuole continuare a pensare con la propria testa.”

“Fuera del juego” “è un canto di libertà”, “il simbolo della disillusione rivoluzionaria” (sempre Lupi).

Padilla è stato parte sogno, vi ha creduto ma ha visto naufragare le aspettative di un mondo migliore, ha capito che quella che vedeva in atto non era più la “sua” rivoluzione, ha scritto versi “che fanno male al sogno”, che denunciano la violenza dietro la speranza diffusa dagli eroi.

 

Intorno agli eroi

Gli eroi

Sempre vengono attesi

Perché sono clandestini

E sconvolgono l’ordine delle cose.

Appaiono un giorno

Affaticati e rauchi

Nei carri da guerra, coperti dalla polvere del cammino,

facendo rumore con gli stivali.

Gli eroi non dialogano,

ma progettano con emozione

la vita affascinante del domani.

Gli eroi ci dirigono

E ci pongono davanti allo stupore del mondo.

Ci concedono perfino

La loro parte di Immortali.

Lottano

Con la nostra solitudine

E i nostri vituperi.

Modificano a loro modo il terrore.

E alla fine ci impongono

La violenta speranza.

 

La sua “colpa” è

Non dare ascolto a chi diceva che esistono libri da non scrivere e soprattutto da non pubblicare, perché fanno male al sogno e soltanto dentro la rivoluzione può esserci libertà, ma per chi si chiama fuori non esistono diritti.”

 

I poeti cubani non sognano più

I poeti cubani non sognano più

(neppure di notte)

Vanno a chiudere la porta per scrivere in solitudine

Quando scricchiola, all'improvviso, il legno:

il vento li spinge alla deriva;

alcune mani li prendono per le spalle,

li rovesciano

li mettono di fronte ad altre facce

(affondate nei pantani, bruciando nel napalm)

e il mondo sopra le loro bocche scorre

e l’occhio è obbligato a vedere, a vedere, a vedere

 

“Fuera del juego” è anche un inno d’amore alla patria, a Cuba, sempre portata nel cuore. “Cuba è la mia terra, la mia isola calda e selvaggia.” “Ho sempre vissuto a Cuba anche quando partivo.”

 

Sempre ho vissuto a Cuba

Io vivo a Cuba. Sempre

Ho vissuto a Cuba. Codesti anni di vagare

Per il mondo dei quali tanto hanno parlato ,

sono mie menzogne, mie falsificazioni.

Perché io sempre sono stato a Cuba.

Ed è certo

che ci furono giorni della Rivoluzione

nei quali l’Isola sarebbe potuta esplodere tra le onde;

però negli aeroporti

e nei luoghi dove sono stato

sentii che mi chiamavano

con il mio nome

e quando rispondevo

io mi trovavo in questa sponda

sudando

camminando,

in maniche di camicia,

ebbro di vento e di fogliame,

quando il sole e il mare si arrampicano sulle terrazze

e cantano la loro alleluia

 

Sopra a tutto, aleggia un potente senso di nostalgia, più di ogni altra considerazione umana, sociale e politica. Nostalgia che abbraccia ogni cosa: l’amore, il sesso, la patria, il sogno rivoluzionario, il ricordo di quartieri fatiscenti, di cartelloni slabbrati, di case diroccate eppure amate.

 

Il ritorno

Ti sei risvegliato almeno mille volte

cercando la casa dove i tuoi genitori ti proteggevano dal mal

tempo, cercando

il pozzo nero dove ascoltavi la ressa

delle rane, le falene che il vento faceva volare

a ogni istante.

E adesso che è impossibile

ti metti a gridare nella stanza vuota

quando persino l’albero del campo

canta meglio di te l’aria degli anni perduti.

Eri già il personaggio che osserva, il rancoroso,

preso, irrimediabile, per quel che vedi

e domani ti sarà tanto estraneo come oggi lo sei

a tutto quello che è accaduto senza che fossi capace

di comprenderlo,

e il pozzo continuerà cantando pieno di rane

e non potrai sentirle

anche se spiccano salti davanti ai tuoi orecchi;

e non solo le falene, ma il tuo stesso figlio

ha già cominciato a divorarti

e adesso lo stai guardando vestito con il tuo abito,

pisciando dietro il cimitero, con la tua bocca,

i tuoi occhi e tu come se niente fosse.

"The knock at our door came around seven in the morning." This is how Cuza Malè recounts the moment of the arrest of her husband, the Cuban, Castilian-speaking poet, Herberto Padilla.

After Padilla's "Fuera del juego" collection of poems won the UNEAC award in 1968, the book was considered counter-revolutionary and published with an appendix that stigmatized its content as an anti-Castro artist. Padilla was arrested in 1971 and, to regain his freedom, was forced to appear before the college of writers and make public abjuration of himself, of his writings, "confessing" supposed crimes of his and his wife against the Revolution. So Padilla expressed himself about his "self-criticism":

“The procedure was devised by Lenin to recover the revolutionaries in the ranks of the communist party and perfected by Stalin as a tool to morally destroy those who expressed critical positions. I agreed to recite self-criticism to get freedom and to leave Cuba, which had now become a prison. "

Many personalities, including Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Susan Sontag, Mario Vargas Llosa, Federico Fellini, Alberto Moravia - with some illustrious exceptions such as Gabriel Garcia Marquez - signed a petition to ask for his release. The Padilla affair marked the end of the support of leftist intellectuals for the Cuban Revolution, which had lost its libertarian connotations to become an authoritarian, castrist and castrating regime.

Padilla's verses are simple, discursive but only in appearance. They talk about concrete things, about everyday life, about the irruption of history and politics into the private life of the citizen who would like to do without it but cannot.

“I have always been out of the game, perhaps it is the condition of poet that does not allow us to stay inside, for us it is not possible, we are destined to tell an unpleasant truth in the face of the tyrant. A poet is good not to have him around, he is a sad character who always finds fault, who is never happy, above all he does not need power. "

As the translator (and editor) Gordiano Lupi says, "Padilla is not a dissident but a revolutionary who wants to keep thinking for himself."

"Fuera del juego" "is a song of freedom", "the symbol of revolutionary disillusionment" (always Lupi).

Padilla was part of a dream, he believed it but saw the expectations of a better world sinking, he understood that what he saw was no longer "his" revolution, he wrote verses "that are bad for the dream", which denounce the violence behind the hope spread by the heroes.
 

Fuera del juego is also a hymn of love for the homeland, in Cuba, always in the heart. "Cuba is my land, my hot and wild island." "I have always lived in Cuba even when I was leaving."

Above all, there is a powerful sense of nostalgia, more than any other human, social and political consideration. Nostalgia that embraces everything: love, sex, the homeland, the revolutionary dream, the memory of dilapidated neighbourhoods, of torn posters, of decaying yet loved houses.

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La Dignità dell'Essere

25 Settembre 2013 , Scritto da Lorenzo Campanella Con tag #lorenzo campanella, #filosofia

 

Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano, ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere " 

Queste parole, presenti nell’Enciclica Evangelium vitae di Papa Giovanni Paolo II, rimangono di grande attualità, costituendo per certi versi una fertile base sull’elemento Dignità. Le atrocità, le sofferenze, i vuoti esistenziali creati dal maligno, come effettivamente è accaduto in via del tutto paradossale in realtà disastrate come la Siria o l’Egitto, vanno a comporre un quadro, soprattutto una via maestra, che potrebbe e dovrebbe servire da lezione per la dignità umana.
La Dignità è una situazione, una condizione, un atto di coscienza, un evento di salvezza interiore e sociale. È per questo che l'uomo, l'uomo vivente che è Spirito e Materia, costituisce la prima e fondamentale via di questo immenso atto di coscienza.

Vi è poi un momento culminante in cui la comunicazione delle coscienze si fa eterna comunione con il Bene, con quella intensa condizione di tranquillità, di fresca serenità.

Una deviazione, nella quale si incorre spesso, sta nel fatto che si ritiene di poter regolare i rapporti di convivenza tra gli esseri umani e le rispettive comunità politiche con le stesse leggi che sono proprie delle forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l’universo stesso pieno come un magazzino; quando invece le leggi con cui vanno regolati i rapporti sono di natura differente, e vanno cercate dentro di noi, cioè nella natura umana.

La Dignità in quanto tale, non è un bene che si vende o che si acquista, ma è quell’universale condizione in cui l’Uomo deve essere considerato tale, legittimato, Essere Umano. Nessun Potere e nessuna Autorità può distruggere questa condizione naturale, attraverso violenza e sopraffazione.

Dire che la Dignità è, al tempo stesso, una situazione, una condizione, un atto di coscienza, un evento di salvezza interiore e sociale, significa attivare una Rivoluzione. Una Rivoluzione del Bene.
Soltanto una Rivoluzione delle Coscienze può salvare la Società. Senza Coscienza non c’è alcuna Storia, non c’è Linguaggio, non c’è sfera d’interiorità, non c’è Pace.

Quando si perde la concezione dell’identità dell’essere umano, non vi è più un criterio per valutare il bene e il male, e si crea un enorme vuoto.

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