IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: CERCEMAGGIORE
Oggi le fotografie di Flaviano Testa ci portano a Cercemaggiore, comunemente Cerce, e non ci parleranno solo di un paesino del Molise che sorge in provincia di Campobasso, ma racconteranno anche di un luogo che vive ancora dei prodotti della terra, avendo un elevato numero di contrade rurali dove si pratica l'agricoltura.
l nome del paese deriva proprio dal latino volgare cercea o quercia, con l'aggiunta dell'aggettivo maggiore per distinguerlo da Cercepiccola, altro centro che sorge poco lontano. L'abitato di Cerce si eleva a circa 950 metri di altitudine e la sua felice posizione gli ha meritato l'appellativo di “sentinella dei Sanniti”, ampio è il panorama che si può godere: Cercemaggiore domina la vallata del Tammaro, volgendo lo sguardo si vedono tutte le alture del Molise fino alle montagne d'Abruzzo e nei giorni di sole, quando nelle pianure sottostanti non è presente foschia, si arriva a scorgere l'azzurro del mare Adriatico.
Un paesaggio tutto da godere e respirare perchè a Cerce si vive bene e a lungo. I dati Istat del censimento 2011 registrarono nel Molise la più elevata percentuale di ultra centenari. I rilievi del territorio comunale garantiscono la presenza di numerose falde acquifere che sgorgano in superficie in varie zone, consentendone un buon utilizzo ai fini agricoli, nelle colline che degradano fino ai 4-500 metri si possono ancora notare i frazionamenti effettuati durante il periodo fascista per l'intensificazione delle colture, allora si trattava maggiormente di grano, oggi si coltivano principalmente foraggi destinati al consumo regionale interno dei bovini allevati per la produzione di mozzarella.
Il Molise è terra antichissima e anche qui sul territorio sono venuti alla luce reperti archeologici che risalgono al Neolitico. Interessanti resti di fortificazioni sannitiche rimangono sul monte Saraceno dove, all'interno della suggestive Grotte delle Fate, sono stati rinvenuti materiali litici, punteruoli, frecce...
Nei dintorni di Cercemaggiore si ergono: la chiesa di S.Maria a Monte, di cui il primo impianto può essere datato tra l'XI e il XII secolo, mentre il bel portale è trecentesco e ancora il santuario di Santa Maria della Libera sorto, secondo la tradizione, sul luogo dove nel 1412 un contadino rinvenne un vaso di terracotta contenente una statua lignea della Madonna, notevolissima scultura del XV secolo. All'interno della chiesa e dell'attiguo convento sono conservate importanti opere di artisti locali, come un affresco e una tela di Nicola Fenico e una scultura di Paolo di Zinno, famoso per la costruzione dei “Misteri” di Campobasso.Giordano Pierro, frate domenicano priore del Convento nella prima metà del '900, ha pubblicato studi storici sul paese e sul santuario.
Ogni anno i paesani per la ricorrenza della festa, accorrono numerosissimi ad assistere e seguire la processione dei devoti che recano fiaccole con l'Effige della Madonna, portata a spalla dalle volontarie che indossano, per l'occasione, abiti tradizionali della cultura popolare. Al termine dei riti religiosi le persone si spostano in località Pianello, dove si trovano giostre, bancarelle, stands gastronomici e dove, per allietare la serata, vengono allestiti palchi per l'esibizione di complessi o cantanti in attesa del gran finale con un suggestivo spettacolo pirotecnico.
Tra sacro e profano le feste continuano a essere celebrate per conservare usi popolari e tenere unito il popolo nelle proprie radici, che vede, spesso, scomparire piano piano le antiche tradizioni in favore di ricorrenze dal sapore esotico che importiamo e che sempre più e tendono a soppiantare le nostre usanze.
Una tematica seguita ancora oggi e tornata alla ribalta in occasione dei festeggiamenti per il 150° dell'Unità d'Italia, è il Brigantaggio del Sud su cui vorrei aprire una piccola parentesi. Fu un fenomeno diffuso anche se in gran parte ignorato dalla storiografia ufficiale, perchè non sempre si trattò di delinquenza comune, anzi, nella maggior parte dei casi fu espressione di una sottaciuta rivolta popolare. La povera gente, dopo l'unificazione si trovò ad affrontare una realtà molto triste:le terre demaniali non erano state espropriate e divise fra i braccianti come nelle promesse della vigilia, ma vendute all'asta e i nuovi compratori scesi dal nord sfruttavano i contadini come e più di prima, erano state vietate le pratiche di uso civico, cioè poter raccogliere in modesta quantità prodotti dai fondi demaniali (legnatico, erbatico). Lo stato sabaudo, tra abbandono, incuria e corruzione morale crescenti, triplicava le tasse, imponeva la leva obbligatoria, togliendo alle famiglie anche il sostentamento delle giovani braccia dei figli che, per non adempiere al dovere militare, diventavano disertori e poi briganti.
La storia è lunga e meriterebbe un ampio capitolo, ma qui mi fermo per raccontare fatti che coinvolsero, nel bene e nel male, personaggi vissuti anche nel piccolo paese di Cerce. Nello specifico, mi riferisco a una donna rimasta quasi sconosciuta per oltre un secolo, Maria Luisa Ruscitti.
Nata a Cercemaggiore il 5 maggio del 1844, giovanetta, fu catturata, durante una delle sue incursioni in paese, da Michele Caruso, brigante. La ragazza era di povera famiglia, versava in umili condizioni, ma era dotata di fascino e bellezza; forse costretta, in un primo tempo a subire i capricci di Caruso, in seguito si donò anima e corpo alla sua causa e, in breve tempo, da lui addestrata all'uso delle armi, divenne un soldato della banda molto più in gamba di altri di sesso maschile. Aveva intuito che la violenta lotta condotta dal suo aguzzino, che forse era divenuto il suo uomo, agognava il riscatto dei contadini molisani dalla schiavitù, una vita civile e più umana per i poveri. Così Maria Luisa divenne una “capitana”, partecipava e guidava le azioni, durante uno scontro a fuoco uccise un ufficiale. Catturata nel 1863, fu condannata dalla Corte di Assise di Trani a 25 anni di reclusione. Uscì dal carcere nel 1888 e, tornata in paese, a Cerce, evitata da tutti, trovò lavoro come domestica soltanto presso la famiglia Salvatore. Condusse da allora vita ritirata e di moralità impeccabile, ma qui nasce la leggenda che la vuole ancora protagonista. Nei si dice delle comari si sussurrò che fu proprio la domestica a portare ricchezza nella famiglia che l'aveva accolta, svelando i nascondigli dei tesori dei briganti. In realtà il Salerno capostipite fu uomo laborioso e ingegnoso che aveva impiantato un negozio di generi vari in paese e serviva tutto il circondario, essendosi impegnato in un commercio di scambio con Napoli. Portava in città con fatica e sacrifici i prodotti della campagna e riportava in paese tessuti e manufatti da rivendere. Così si costituì per la famiglia, dopo quarant'anni di attività, il gruzzolo che consentì loro l'acquisto di parte di un vasto podere, Feudo della Rocca, “invidia” di molti, che alimentò chiacchiere e leggende.
(Alcune notizie inerenti questa storia sono state attinte dal sito di Stefano Vannozzi)
Marino Magliani, "Il canale bracco"
Marino Magliani
Il canale bracco
Euro 12 – Pag. 130 – Fusta Editore
Il vento qui ha le sue pause, nulla del rumore di un torrente gonfio in Val Prino. Non si espande, non rotola, di fatto agonizza, e non è neanche il vento della Patagonia di Chatwin, che assomiglia all’avvicinarsi di un camion che non arriva mai. Qui il vento si ferma e riprende, arranca, frena e stride come se trovasse dei semafori.
Solo un breve assaggio estrapolato dalla quarta di copertina dell’ultimo lavoro di Marino Magliani, 54 anni, ligure come Orengo e Sbarbaro, Biamonti e Novaro, trapiantato in Olanda, dove svolge i lavori più impensati sul Mar del Nord. Traduce ispanici, scrive racconti, di tanto in tanto - soprattutto in primavera - torna nella sua Liguria che non dimentica. Ottimo romanziere, abile nel trasmettere emozioni e capace di raccontare sia la terra natale che il luogo d’adozione grazie a una prosa forbita, raffinata e molto letteraria.
Il canale bracco, segue la sceneggiatura del romanzo per immagini Sostiene Pereira, soggetto di Tabucchi, disegni di Marco D’Aponte. Magliani racconta la storia sentimentale di un canale che da tempo segna la sua vita, come aveva fatto in opere precedenti, si sofferma su istanti e solitudini che scorrono nei lunghi inverni del Noordzeekanaal, tra il Mar del Nord e Amsterdam. L’Olanda è per l’autore la terra dove scrivere, ricordando il tempo perduto della sua Liguria, ma anche narrando il quotidiano olandese, come un lungo viaggio in bicicletta per raggiungere Amsterdam. La biografia di un canale diventa materiale da romanzo, il lettore si appassiona alle vicissitudini di acque silenziose e sognanti - né dolci né salate ma brak, come dicono gli olandesi - dove vivono pesci ignoti ad altre latitudini. Un nuovo esperimento letterario riuscito, non molto commerciale, visto il vento che tira in Italia, ma il prezzo (12 euro) e la veste editoriale sono invitanti. Non perdetelo.
Gordiano Lupi - www.infol.it/lupi
Reincarnazione: seconda parte
Casi tratti dal libro di Ian Stevenson
IMAD
E' l'anno 1962, quando il professore viene a conoscenza di questo fatto.
Riguardava un ragazzo di nome Imad, appunto, che non faceva che rievocare avvenimenti e persone di una sua esistenza precedente.
Ecco i fatti.
Imad Elavar era un ragazzo libanese. Era nato nel 1958. Aveva solo due anni quando prese a narrare di aver vissuto una vita precedente a quella attuale. Descrivendo fin nei minimi particolari fatti e persone di quella vita.Tutto nacque così: faceva spesso due nomi che in famiglia nessuno conosceva: Jamile e Mahmoud. Gli veniva chiesto allora chi fossero, che cosa significassero. Un giorno disse che c'era stato un incidente di macchina, un ragazzo era finito sotto le ruote di una vettura e avevano dovuto amputargli tutt'e due le gambe. Aveva sofferto molto, e da quelle gravi ferite non si era più ripreso. Dopo un certo tempo la conseguenza fatale fu la morte.
Poi aggiunse che "doveva andare a Khriby", una località a circa trenta chilometri dal suo paese.
Perché vuoi andare a Khriby?
Portatemi a Khriby. E' il mio paese.
Che dici, che vuol dire che è il tuo paese.
Io sono vissuto là.
E quando?
Nella mia vita prima di questa. Là è la mia famiglia.
E come si chiama la tua famiglia
Disse un nome: Bouhamzy.
Ma la storia di Imad non finisce qui; perché un giorno, passeggiando per il suo villaggio con la zia, si staccò da questa e corse verso una persona che stava camminando al di là della strada. La salutò con calore e lo abbracciò. Lo sconosciuto, sorpreso e stupito da quel ragazzino, gli chiese se lo conoscesse.
Ma certo che ti conosco? e tu no? ma se eravamo vicini di casa a Khriby.
Ma… come…
Quel signore in effetti era di Khriby. Era il signor Salim el Aschkar, che aveva sposato una ragazza del paese di Imad, Kornayel; e là di tanto si recava a volte solo a volte con la moglie.
La zia di Imad, tornati a casa, raccontò il fatto ai genitori, i quali ebbero modo di pensare, collegando questo fatto a tutto ciò che il figlio andava narrando di tanto in tanto. Però non fecero niente per appurare che cosa ci fosse sotto.
Questo ripeto, avveniva nel 1960.
Nel 1962, il prof Stevenson, venuto a conoscenza del caso, si recò di persona a Kornayel, dove Imad e la sua famiglia abitavano, e si fece raccontare tutto, ciò che i genitori per l'ennesima volta fecero. Chiese il permesso di recarsi con ragazzo a Khriby; lo ottenne, e andarono. Qui cominciò a fare controlli su controlli, e tutto combaciava coi ricordi del ragazzo. Per farvi capire ci vogliono alcuni numeri.
Il prof. Stevenson ottenne e registrò 47 dichiarazioni di Imad.
44 di queste dichiarazione corrispondevano a verità, senza ombre o dubbi.
Una volta giunti a Khirby, Imad dette altre specificazioni su alcuni avvenimenti e personaggi di quella sua precedente esistenza.
Stevenson ne registrò 16.
14 risultarono esatte.
Vediamo adesso alcune delle dichiarazioni fatte dal ragazzo, che nella vita precedente diceva di essere stato un certo Ibrahim della famiglia dei Bouhmdazy, che, messe a confronto con la realtà anche attraverso la testimonianza di testimoni, si rivelarono vere.
Partiamo dal nome di Khriby. Imad dichiarava che era il suo paese, ricordate?
Bene, va detto, e lo appurò Ian Stevenson, che c'era più di una località con quel nome; dei quali uno vicinissimo al paese dell'attuale Imad. Durante gli interrogatori del professore al ragazzo questi disse che no, non era quello, il suo paese; il suo stava molto più lontano. Si trovò - andando sul posto - il paese esatto, che Imad riconobbe come il suo, e guidò tutti a quella che era stata la sua abitazione.
Queste prime cose furono testimoniate dai genitori di Imad, la madre Lafeite e il padre Mohammad.
Un'altra cosa che disse mentre con la macchina andavano a Khriby:
- per andare a Khriby bisogna attraversare il villaggio di Hammana (esatto)
Il prof. Stevenson a questa affermazione guardò i genitori di Imad, che assentirono, e gli dissero che il loro figlio non era mai stato su quella strada. ( Che abbia forse, per caso, sentito qualche volta parlare di questo dal padre nelle varie discussioni con parenti e amici?)
Adesso veniamo a quei due nomi che aveva pronunciato quasi a casaccio, così, e che là per là nessuno capì, né sapeva a cosa si riferissero.
Partiamo dalla seconda:
- Mahmoud.
Mahmoud era in effetti uno zio di Ibrahim, per l'esattezza il signor Ibrahim Bouhamdzy (testimone un cugino di Ibrahim)
- Jamile.
Sul nome Jamile dobbiamo dilungarci un poco perché tanti sono i riscontri con la realtà vera; vediamoli.
Ibrahhim aveva un'amante che rispondeva al nome di Jamile.
Su questo punto ci sono diverse testimonianze, ma una di esse, da parte di un parente alla lontana di Ibrahim, si rivelò non esatta, testimonianza che poi ritrattò, e ritrattò ancora,
Jan Stevenson capì che era un testimone non credibile, era un tale che voleva mettersi in mostra ed avere una certa importanza nella faccenda. Insieme a lui anche altri due persone vennero scartate dal professore, non attendibili.
Alcune delle dichiarazioni del ragazzo a suo padre.
- Jamile era bella.
In effetti, nella località dove viveva, la ragazza era ritenuta di una bellezza eclatante. (In Libano le donne sono tutte belle, e il dettaglio poteva essere senza alcuna efficacia; ma una donna del posto molto anziana, che l'aveva conosciuta di persona, confermò la cosa.)
Dove abitava, Jamile, lo sai?
Indicò con la mano tesa verso il villaggio di Masser dove la ragazza abitava.
- Jamile portava tacchi alti.
La cosa fu confermata da Haffez Bouhamzy, e pareva poter essere presa come coincidenza, considerato il fatto che in Libano le ragazze non portavano i tacchi alti.
- Jamile vestiva di rosso.
Lui gli comprava vestiti di questo colore sgargiante. Haffez confermò che la ragazza era usa portare una sciarpa rosso fuoco intorno ai capelli.
- Said.
Said era un cugino di Ibrahim Mahmoud, che aveva subito anche lui un incidente sulla strada, nel quale nell'anno 1943 subì l'amputazione delle due gambe. I medici fecero del tutto per salvarlo dalla morte ma non ci riuscirono.
- La persona che Imad incontrò nel suo paese e che salutò calorosamente. Questa persona era un vicino di casa di Ibrahim.
- Imad riferì quasi alla lettera le ultime parole di Ibrahim prima di morire.
Imad nominò un altro nome: Mehibe
- Mehibe
Non sapeva dire chi fosse. I suoi genitori avevano pensato intanto che fosse una femmina, e poi congetturato che potesse essere la figlia, o una delle figlie, di Ibrahim/ Imad. Invece Stevenson appurò, in base a ricerche e testimonianze, che era un uomo ed era uno dei tanti cugini di Ibrahim.
Aveva dei figli:
- Adil
- Talil o Talal
Va detto che parlando col prof. Ian Stevenson circa tutti questi nomi che pronunciava Imad, i genitori pensavano sempre che si trattasse di figli avuti nella precedente esistenza.
Invece si appurò che il primo, Adil, era un altro cugino di Ibrahim; così come l'altro nome; era esistito un altro cugino di nome Khalil, che nella pronuncia imperfetta del bambino era stato capito come Talil o Talal, appunto.
Ha dei fratelli, uno si chiamava
- Said
Ibrahim in realtà non aveva un fratello con questo nome. Said è il nome di due persone che il ragazzo nella vita precedente aveva conosciuto.
Uno era un suo cugino morto per un incidente di macchina nel 1943; l'altro un amico morto nel 1963.
Il cugino come abbiamo narrato più sopra Said Bouhamzy, subì l'amputazione delle gambe e, poiché il mezzo pesante gli era passato sopra il petto, gli aveva schiacciato il torace, fu operato anche qui; successivamente morì proprio per le conseguenze di ciò (vedi più sopra).
A proposito di questo incidente, che colpì molto Ibrahim, che si recò spesso all'ospedale per avere notizie del cugino, Imad dichiaro anche che:
- avvenne dopo che l'autista del camion e Said avevano litigato. Quindi egli affermò che l'uccisione fu volontaria. La notizia però si rivelò infondata. Forse Imad confondeva due episodi, il secondo del quale andiamo a riferire qua sotto. Va detto che l'autista fu processato e condannato per guida negligente, ma non per omicidio.
- Un altro, fratello, Fuad.
Quando il prof. Stevenson gli mostrò una piccola foto di Fuad in divisa da militare Imad non lo riconobbe, negò; ma riconobbe benissimo un grande ritratto ad olio appeso a una parete, quello è mio fratello Fuad.
- Una sorella, Huda
Dichiarò di avere una sorella con questo nome. Il professore verificò anche questo elemento. Appurò che era vero, aveva avuto una sorella alla quale al momento della nascita egli volle che i genitori la chiamassero così appunto: Huda.
Il prof. Stevenson si incontrò con questa persona che avvalorò con la sua testimonianza quanto dichiarato dal imad.
La incontrò alla presenza di Imad, al quale chiese: riconosci questa persona?
Certo, che la conosco, è Huda.
(da notare che prima gli avevano mostrato una anziana signora che era la madre di Ibrahim, ma Imad non la riconobbe; disse infatti di no, ma aggiunse che gli piaceva molto.
Tralasciamo di parlare delle molte persone tra amici e parenti che Imad nominò nelle sue varie confessioni di ricordi, e veniamo ad altro.
Gli fu mostrata una tela abbastanza grande che ritraeva Ibrahim.
Chi è questo, lo conosci? (da notare che qualcuno gli aveva suggerito che era uno zio, e che era un suo fratello).
Certo, sono io.
- Le parole prima di morire.
Avevano chiesto alla sorella che cosa le avesse detto prima di morire, dato che lei era presente; ella rispose: mi chiese di cercare Fuad e farlo venire, ché voleva salutarlo.
Ricordi cosa hai detto prima di morire, cioè le tue ultime parole?
Huda, per favore, chiama Fuad.
Di professione Imad faceva l'autista. Aveva avuto moltissimi incidenti stradali.
Tra le altre dichiarazioni fatte una recitava così:
il mio autobus è andato fuori strada. Ma non c'ero io alla guida quando ciò è avvenuto. Morirono delle persone.
Il prof. Stevenson fece ricerche e fece domande. Al padre alla madre ad alcuni conoscenti. Si accertò che:
Un giorno il ragazzo alla guida dell'autobus che aveva persone a bordo scese. Il suo aiutante restò sopra. Il freno, che probabilmente funzionava male, perse la sua efficacia e l'autobus scivolò a marcia indietro in una scarpata; rimasero feriti alcuni passeggeri.
Si fece un capannello di persone, quasi tutto il villaggio, e fu chiamata la polizia che accorse sul luogo per fare i rilievi. Un testimone, che seguì la cosa anche appresso, dichiarò che Ibrahim, da allora, non era più lui; e non volle più guidare. E aggiunse, ma questo non poté essere appurato, che questo fatto gli causò la forma di tubercolosi che lo portò alla tomba all'età di 25 anni. Aggiunse anche che aveva litigato con il suo collega autista, perché aveva insultato sua sorella.
Non è stato accertato.
Però c'è qualche elemento in comune con quello che Imad aveva dichiarato circa l'incidente di Said. (vedi sopra)
- Ero amico di Kamel Joumblatt. (esatto)
Costui era un filosofo e politico, e sia Ibrahim che il cugino Said erano suoi amici. Il filosofo è vivente e risiede in una piccola località poco lontana dal paese di Ibrahim/ Imad.
- Mi piaceva molto la caccia.
Avevo un fucile a due canne e anche una carabina. Però la carabina la tenevo ben nascosta.
E dove tenevi il fucile?
Imad indicò il ripostiglio ricavato da un angolo tra due pareti (solo lui e la madre sapevano di questo ripostiglio).
- Avevo un cane da caccia di colore scuro.
Imad, quando nel cortile della casa gli fu chiesto dove tenesse il cane, quale era cioè la sua cuccia, e come lo teneva, indicò l'angolo esatto, e che lo teneva legato con una corda. (dichiarazione particolare, perché in quel villaggio i cani erano tenuti da una catena).
Si rivelò esatta l'informazione.
Anche il fatto della carabina nascosta; spiegarono al professore che laggiù è vietato per uno che non sia un militare detenere una carabina.
Il cane: aveva un cane, ma non era da caccia.
Le testimonianze furono raccolte dalle dichiarazioni di due parenti di Imad, i signori Nabih e Haffez Bouhamzy.
- E quando disse che aveva picchiato un cane, forse si riferiva al fatto che il suo cane pastore s'era azzuffato con un altro cane, e lo aveva ferito a morsi.
.- La casa.
Imad descrisse la casa dove viveva Ibrahim con precisione estrema. Era situata in un quartiere di Khriby (o Chriby). Egli la descrisse perfettamente e indicò esattamente la direzione da prendere a chi lo accompagnava da una distanza di più di trecento yarde. Era al centro del piccolo villaggio. Quando il prof: Stevenson condusse il ragazzo là, lo indirizzò verso la periferia, come aveva precedentemente dichiarato Imad, il quale però, strada facendo, si accorse che il verso della strada che doveva portare alla casa era sbagliato, e li fece deviare tornare indietro, e così trovò l'abitazione. E come aveva dichiarato prima, essa era proprio al fondo di una ripida discesa (proprio davanti a casa mia c'è una scarpata).
- la camera di Ibrahim.
Nella camera indicata da Imad come quella dove viveva lui, c'erano due letti, gli fu chiesto quale fosse il suo, indicò quello nell'angolo esatto.
C'è ancora un particolare che fu rilevato dai suoi genitori.
Il prof. Stevenson seppe che una volta Ibrahim s'ammalò di una malattia infettiva, per cui i suoi amici in visita non venivano ammessi nella cameretta di lui; e gli parlavano e lui parlava con loro attraverso una finestrina.
Fu chiesto a Imad come parlava agli amici; indicò la finestra e dichiarò:attraverso quella, indicandola.
Ma non potevi vederli dal tuo letto.
Il mio letto, quello, non stava là, ma stava in questa posizione, e la indicò. E da essa si vedeva benissimo all'esterno.
- la casa ha un attico
(vero, il professore verificò di persona).
- vi erano due pozzi.
Stevenson ebbe modo di constatare che vicino all'abitazione c'erano due cisterne, una profonda e una bassa. Quella grande serviva per l'acqua piovana e l'altra no, perché appunto troppo poco fonda. E per questo il primo era sempre pieno e l'altro (che poi alla morte di Ibrahim fu chiuso), quasi sempre vuoto.
- si stava rifacendo il giardino
(vero)
- e nel giardino piantarono alberi di ciliegie e di mele.
Stevenson poté vedere di persona questi alberi.
- affermò di possedere denaro e terreni
(in effetti corrispondeva a verità, erano dei genitori)
- e aveva una macchina gialla
(vero, confermarono Haffez e Nabir Bouhamzy)
e un autobus
(vero, c.s.)
e un camion per il trasporto di terra e pietre
(vero, c.s.)
di questi due ultimi mezz, uno serviva per il suo lavoro come autista, e l'altro per i lavori della famiglia per i terreni.
- a casa mia ci sono due garages.
L'affermazione non è del tutto esatta, perché i mezzi di trasporto stavano all'aria aperta quando erano parcheggiati, ma c'erano due capannoni, che Ian Stevenson vide di persona; Imad/ Ibrahim poteva alludere a questi.
- avevo cinque figli
(e mostrava le cinque dita della mano alzata)
Non è esatto. Non ebbe figli, il ragazzo, ma forse ricordava i figli di suo cugino Said, cui era molto affezionato, e del quale era amico intimo, che ne aveva appunto cinque.
Ecco, questo è uno dei casi più importanti che Ian Stevenson ha studiato e catalogato nel suo ampio schedario.
In seguito ne illustrerò altri perché mostrano tutti un certo fascino e vi potranno interessare. Però al momento non so ancora quanti. Certo che sarebbe bello presentarveli tutti e venti, quelli del suo libro, ma forse sarebbe troppo noioso, alla fine.
Per ora un caro saluto, e alla prossima puntata.
Se a voi o a vostri amici o conoscenti è capitato qualche fatto strano, anche
se non ha agganci con il fenomeno della reincarnazione, ma che in qualche maniera possa rientrare, secondo voi, in quello della parapsicologia, se volete, potete comunicarmelo e io lo esaminerò e vedrò se sarà possibile pubblicarlo, grazie della vostra attenzione.
Scrivete a mdsantis@email.it
marcello de santis
I PIRANDELLO E LA GRANDE GUERRA
Iniziamo parlando della Grande Guerra in casa Pirandello. Nel 1915 Stefano Pirandello si arruola volontario, parte per il fronte e viene fatto prigioniero nel 1917 durante l'offensiva di Caporetto, come scrive a un amico il famoso padre:
"Sappi che la mattina del 2 novembre, alle 7 1/2, dopo una notte di fuoco, egli è stato fatto prigioniero, nella battaglia d'Oslavia, ferito al petto, per fortuna leggermente. Un'altra ferita aveva ricevuto il giorno avanti; gli avevano dato alcuni giorni di licenza per farsi medicare; rifiutò la licenza sapendo che la notte si sarebbe rinnovato l'attacco, e fu fatto prigioniero. Sono ormai circa due mesi! Fra tutte le sciagure che potevano toccargli (è vivo per miracolo!), questa è certo la minore … Coraggio, Stefanuccio mio: non abbandonarti troppo alla meditazione e lavora, lavora quanto più puoi: non c'è rimedio migliore a questo male della vita. Nessuno meglio di me lo sa per prova.".
Il giovane passerà mesi durissimi a Mauthausen e poi a Plan, in Boemia: il grande scrittore cercherà di aiutarlo inviandogli cibo e anche sigarette. Si scriveranno spesso, di solito lettere brevi per evitare la censura che altrimenti le avrebbe bloccate. Anche lo stesso figlio conforterà il padre, alle prese con la pazzia della moglie e con le difficoltà nel proseguire l'attività letteraria. Ci si potrebbe chiedere se in fondo non fossero ambedue prigionieri. Il rapporto tra loro sarà sempre difficile, faticando Stefano a trovare una sua strada artistica nell’ambito del teatro, lontano dall'ombra del grande Luigi. Ricorrerà anche a uno pseudonimo. Chi vuole approfondire questi temi, può leggere il libro Il Figlio prigioniero che riporta parte dell'intenso carteggio tra i due.
Tutto ciò fa da sfondo al lungo racconto Berecche e la guerra. Siamo agli inizi della Prima Guerra Mondiale. Un padre, Federico Berecche, innamorato della Germania come principio etico sinonimo di disciplina, metodo, rigore, autocontrollo, ha il figlio Faustino che vorrebbe l’intervento dell’Italia contro l’Austria e la Germania. Nessuno a parte lui ama il mondo tedesco; si scatenano liti molto aspre. Berecche è solo nelle sue posizioni, in casa come tra i parenti e i conoscenti. La famiglia si sta sfasciando mentre l'Italia resta neutrale; ci sono isterie, individualismi, personalismi. Il padre, buffo e teatrale, è l'unico che nonostante tutto ha una certa flessibilità; in un precario equilibrio rivede le proprie amate convinzioni filotedesche, cercando una difficile ricomposizione con Faustino che è partito per combattere in Francia. Berecche ripete spesso all'amico medico "Io ragiono ...", ma il dottore, sonnolento e laconico, non risponde al suo straparlare, come se la scienza fosse muta davanti alla sua quasi follia. Vuole andare a combattere anche lui nonostante i cinquantatré anni e la pancia. Qui tutto diventa assurdo e spassoso come nel miglior Pirandello; pensa di comprare di nascosto un cavallo, studia in una notte i principi dell'equitazione e si reca in un maneggio per apprendere, spera in poche ore, come cavalcare. Si vede già vicino a Faustino, in battaglia sul fronte francese, contro i tedeschi. Ma una brutta caduta lo rende temporaneamente privo della vista; medicato, abbandona i progetti avventurosi e passa bendato il suo tempo con la figlioletta cieca, condividendo con lei il non poter vedere le brutture della realtà cui la ragione e la volontà non pongono rimedio.
Diversi interrogativi sorgono da questa novella. Può essere meglio non vedere quello che non si può cambiare? La generazione vecchia deve restare a casa facendo spazio ai giovani, lasciandoli liberi anche di sbagliare? Berecche è a suo modo un piccolo eroe che crede nella famiglia, oppure va compatito per aver rivisto le convinzioni di una vita, senza ricavarci nulla se non solitudine e infortuni?
Il racconto è anche una piccola risposta della passionalità mediterranea al rigore e al razionalismo teutonico, tanto osannati all'inizio dal protagonista (lo stesso Pirandello visse alcuni anni in Germania). La vicenda individuale del padre riporta anche il dramma di tanti caduti e delle loro famiglie, frammenti di una storia più grande così spietata con le piccole vicende personali che rischiano di cadere nell’oblio:
"Così tra mille anni, pensa Berecche, questa atrocissima guerra che ora riempie d’orrore il mondo intero, sarà in poche righe ristretta nella grande storia degli uomini; e nessun cenno di tutte le piccole storie di queste migliaia e migliaia di esseri oscuri, che ora scompaiono travolti in essa, ciascuno dei quali avrà pure accolto il mondo, tutto il mondo in sé e sarà stato almeno per un attimo della sua vita eterno, con questa terra e con questo cielo sfavillante di stelle nell’anima e la propria casetta lontana lontana, e i proprii cari, il padre, la madre, la sposa, le sorelle, in lagrime e, forse, ignari ancora e intenti ai loro giuochi, i piccoli figli, lontani lontani".
PENSIERI SPARSI
Oh luce terapeutica per l’animo mio stanco, ti aspetto con trepidazione quando nel prematuro risveglio sono impaurito dalle ombre che mi circondano, massacrato da fantasmi tenaci che hanno fatto delle mie pareti la proiezione concreta delle loro ombre. Brevi lassi di tempo vi rendono padroni senza cuore, non mi avrete mai: stupide interiorità che s’illudono di poter detenere appieno il mio pensiero, vi ripongo con brutale soddisfazione nelle buie tenebre dalle quali emergete. M’è compagna fedele, in tale conflitto quotidiano la salvifica alba, naturale fustigatrice delle angosciose paure. Come in ogni fatale e stolta verità che s’accompagna al meschino vivere dell’uomo, Tu luce prodigiosa però, rechi il fastidioso rombare dei motori, l’acuto fischio di compagni di lavoro, lo stridere delle persiane, le rumorose saracinesche del bar. Ed è così che mi ritrovo nel perenne dissidio dell’uomo, a rifugiarmi nelle ombre che mi sono più favorevoli. Vita, sgualdrina ingioiellata sapientemente mascherata, non ti lasci mai penetrare, mantieni SEMPRE immutata, la tua enigmatica VERGINITA’!
G.Campagna.
PRIGIONE DI TRINCEE di Giuseppe Cuzzoni (1896 – 2001)
Cuzzoni racconta la sua esperienza nella Grande Guerra, da quando venne chiamato a prestare servizio partendo dalla sua Novara, fino al congedo ricevuto solo a 1920 inoltrato. La scrittura è sobria e controllata, la prosa piana, le emozioni sono espresse in modo sentito ma in forma pacata. Opera come ufficiale di fanteria dopo il corso a Modena, conoscendo vari tratti di fronte; Cadore, Monte Cimone, Carso, Piave. Nel suo memoriale si assapora più la dura vita di trincea che non il lato crudo della lotta, anche se l'autore viene ferito abbastanza seriamente da una fucilata in Cadore. Quello che si racconta è il grande lavoro di un ufficiale inferiore, teso a organizzare i compiti dei subordinati e impegnato soprattutto in continue perlustrazioni notturne lungo la linea. A contatto con i rudi e pazienti fanti, l'ex impiegato di banca impara ad apprezzarli, vedendo i ricoveri malsicuri, la posizione dominante del nemico, le zone martoriate dove
" ... il terreno all'aperto, tutto arso, sconvolto da buche e da fosse, aveva un odore nauseabondo di cose putrefatte ed un colore sanguigno che metteva orrore".
Lo stillicidio di perdite nelle prime linee rattrista, ma non dà luogo a spunti polemici. Chi cade è un eroe che a volte riesce ad avere una tomba grazie alla pietà dei compagni, ma non se ne parla mai come di una vittima. L'autore, infatti, pur non avendo partecipato alle manifestazioni degli interventisti e ostentando un temperamento tiepido e ben diverso da altri coetanei che si presentarono come volontari, considera comunque un dovere etico e civico il prendere parte al conflitto. Questa è la posizione che mantiene e mostra in tutto il memoriale. Tristezza e turbamento sfociano principalmente in una vivissima nostalgia di casa.
Grande è l'amore per i luoghi straziati in cui il suo reparto deve sostare; nel 1916 visita Gorizia finalmente presa elogiando i soldati che la difendono morendo ancora nelle sue vie. Identico è l'affetto per luoghi più desolati sulla Vertoibizza o presso il Piave, durante la ritirata dopo lo sfondamento di Caporetto. Sono luoghi dove si resta per settimane o appostati alla meglio solo per un pugno di ore, ma sono posti bagnati dal sangue e allora divenuti sacri. La descrizione della ritirata è la parte più drammatica e dettagliata del testo; gli uomini del reparto a tratti si sbandano nei vari paesi spopolati, si teme l'accerchiamento, poi si torna a sperare di resistere vicino al Tagliamento per poi proseguire l'arretramento fino al Piave. Poche le notazioni sui civili che ingrossano il numero dei fuggitivi; l'occhio resta puntato sui soldati. Nella descrizione di quelle settimane tragiche prevalgono l'angoscia per il Paese minacciato e il dolore per le conquiste perse, rispetto al senso di sbandamento generale che si trova in altri diari o memoriali. La durezza di quel periodo accresce la voglia di tornare a casa, già raggiunta alcune volte durante brevissime licenze che gli avevano permesso di restare a Novara appena poche ore. Solo nel gennaio 1918 può rivedere la famiglia.
Indimenticabile, tra i passi più tragici del libro, la descrizione di una fucilazione; in mezzo a molti soldati che non se la sentono di guardare, un condannato per diserzione muore in seguito a ben tre scariche di colpi, dopo essere caduto dalla sedia cui era stato legato ed essere finito in un fosso. Cuzzoni conclude così il resoconto dell’episodio:
“La truppa venne quindi allontanata lasciando solo pochi soldati che provvidero alla sepoltura di una vita perduta anch’essa, se non a beneficio, a causa della guerra”.
Nel novembre dello stesso anno è nelle retrovie quando apprende la notizia dell'armistizio, ma attenderà fino al 15 maggio 1920 prima di avere il sospirato congedo. La felicità si mescola allora alla mestizia per il terminare di una stagione vissuta intensamente con i compagni; cinquantaquattro mesi indimenticabili e tali da, come scrive, confezionare il
" ... ricordo nostalgico dell'esercito d'Italia che per me ha sempre avuto il volto che gli vidi nella dura e ardua prova".
Buffalo Bill a Livorno
Il 17 marzo del 1906, alle sette del mattino, una strana carovana si ferma alla stazione San Marco di Livorno.
Comprende carri, cavalli, diligenze. Il circo, perché di circo si tratta, è il grandioso, celeberrimo, “Wilde West Show” di William Frederick Cody (1846 - 1917), meglio conosciuto come Buffalo Bill. Dopo la sua vita avventurosa, infatti, Buffalo Bill ha fondato un circo di successo nel 1883, che ha intrapreso una grande tournèe in Europa.
Lo spettacolo si ferma a Livorno fino al 20 marzo, con due rappresentazioni il giorno, una alle quattordici e una alle venti e attira grandi folle che fanno la fila per prenotare i biglietti. I livornesi rimangono affascinati dall’imponente spiegamento di mezzi: 700 uomini, di cui 100 pellerossa, 500 cavalli. È tutto un vorticare di costumi, di penne, di frecce, di lance, viene riproposta la battaglia di Little Big Horn, con la mitica resistenza del generale Custer, e persino un attacco alla diligenza con sparatorie e inseguimenti in puro stile western.
Pare anche che, durante il soggiorno livornese, il rude avventuriero sia entrato in un bar, abbia ordinato un ponce e, spavaldamente, abbia cercato di buttarlo giù tutto di un fiato, ma si sia dovuto immediatamente ricredere e sorseggiarlo con calma, pena i lucciconi agli occhi.
Mario Borgiotti
Il creatore del Premio Rotonda, che dal 52 allieta l’estate labronica, è Mario Borgiotti (1906 – 1977)
A tredici anni è messo a bottega da un liutaio, dove impara a conoscere il violino. Suo padre è un portuale artista, che declama Dante. Passa poi a lavorare dal barbiere Filocrate Falli, dove si ritrova l’intellighenzia livornese. Qui conosce i post macchiaioli (Liegi, Nomellini, Ghiglia) che lo introducono all’amore per la macchia. Diventa pittore ma, soprattutto, appassionato fin nel midollo dei macchiaioli prima maniera - in particolare del grande Fattori - che amerà, collezionerà, divulgherà e sprovincializzerà, facendoli conoscere in tutto il mondo.
Imbevuto di pittura, sviluppa il suo stile senza frequentare alcuna scuola. Autodidatta, riceve solo una lezione da Giovanni March, che lo porta a dipingere alla Torre del Marzocco.
Si specializza in ritratti, dove riproduce fedelmente i lineamenti ma dà anche uno spessore psicologico al soggetto. Oltre a dipingere i pittori suoi contemporanei e da lui conosciuti, come Liegi, ritrae anche personaggi famosi e artisti, fra i quali Mascagni, De Chirico, Papini, Annigoni, Carrà e Ardengo Soffici.
Reportage: Yucatan, seconda parte
CELESTUN: RISERVA DELLA BIOSFERA
Il Messico non offre solo siti archeologici e mare. Sicuramente è meno conosciuta per essere una delle nazioni che possiede una vastissima area denominata “Reserva de la Biosfera del Ria”.
Un paradiso per i naturalisti che si estende per circa 590 chilometri e si trova non molto lontana dal Golfo del Messico.
In questo estuario si incontrano le acque dolci dei fiumi con quelle salate del Golfo e questo ne fa un habitat ideale per quelli che sono la maggiore attrazione di questo eden: i fenicotteri rosa che raggiungono anche il considerevole numero di mille uccelli acquatici. A bordo di una barca ci si inoltra nelle sue acque poco profonde e si esplorano le meraviglie che si presentano agli occhi di chi ama la natura.
Non è facile incontrare tutti gli animali che vivono nella riserva, ma ci sono ben 300 specie di uccelli, fra i quali troviamo gli aironi, i pellicani, le garzette e i fenicotteri, oltre ai coccodrilli, iguane e tartarughe acquatiche. Inoltre, in questo estuario, vi sono lagune, saline, grotte e cenotes.
E’ una parte molto selvaggia e, qualche volta, si vedono i pescatori che, in un modo poco consueto, tentano di prendere i grossi gamberi, detti camarones, che in questa località vengono cucinati in maniera superba.
Si “naviga” fra spazi molto ampi e tunnel di mangrovie che formano una specie di “foresta” tanto fitta da far sembrare l’acqua “prigioniera” delle radici e dei rami che spuntano dai fondali azzurri.
Uccelli di ogni colore cinguettano stando fermi o svolazzando sull’intricato gioco di rami, come se fossero braccia pronte ad accogliere le piccole creature. A Celestùn c’è un mondo tutto da scoprire.
Qui si trova il Messico naturalistico, quello che fa estasiare davanti ad ogni cosa bella che la natura ci ha regalato, comprese le aquile e i gabbiani che volano tranquillamente nel ceruleo cielo.
CHICHEN ITZA’, SIMBOLO DEL MESSICO MAYA
Ma non si può visitare il Messico senza aver visto Chichen Itzà, il sito archeologico più noto del paese e visitato ogni anno da circa un milione ottocentomila turisti. Il nome significa “Sul bordo del pozzo degli Itzà” e all’inizio della sua storia su un centro molto florido Puuc e lo testimoniano i numerosi monumenti risalenti proprio a quell’epoca.
La città raggiunse l’apice nel 950 d.C., quando venne trasformata in uno dei principali luoghi di culto di Kukulcan, che è poi Quetzalcòatl, il Serpente Piumato, che è raffigurato sulla maggior parte dei monumenti. Il sito si estende per oltre 30 chilometri quadrati ed è suddiviso in differenti complessi architettonici e i più antichi risalgono al periodo Puuc.
Questi ultimi sono “Le Monache, formato dagli edifici Monache, Chiesa e Annesso, poi l’Akab Dzib, il Gruppo della Casa Rossa e la terrazza sulla quale sorge il Caracol. Ma il monumento più importante si trova proprio nella Piazza Centrale, che è circondata da una muraglia alta circa 6 metri. Si tratta della notissima piramide chiamata dagli spagnoli “El Castillo”, ma in origine il nome era Kukulcan.
E’ stata inserita fra le nuove 7 meraviglie del mondo e nel 1988 è stata dichiarata dall’Unesco “Patrimonio dell’Umanità”. La grande piramide a nove gradoni è composta da 91 gradini per lato (sono 4) più 1 che serve a salire nel tempio che si trova in cima.
Il numero non è casuale perché corrisponde a 365 e sono i giorni dell’anno. La piramide è sormontata da un tempio ed è ricorrente la figura del Serpente Piumato. Nei giorni degli equinozi di primavera e autunno, un gioco di luci e ombre, dà l’impressione che i grandi serpenti scendano dalla piramide. Sotto il Castello è stata trovata un’altra Piramide con all’interno due sculture.
Una rappresenta un trono a forma di giaguaro rosso con incrostazioni di pietre verdi e sul dorso un disco a mosaico. L’altra è un “chac Mool”, nota scultura che rappresenta un uomo reclinato che sorregge sul ventre un piatto destinato alla raccolta delle offerte.
Ma anche qui ci sarebbero da menzionare tutti i monumenti ritrovati, dalla scalinata del “Tempio dei Guerrieri” al Patio delle mille Colonne”; dal Tempio delle Tavole al complesso noto come “il Mercato. All’interno c’è anche un cenote e, come sempre tutto ciò che riguarda il mondo Maya, c’è sempre l’aspetto del sacrificio umano (ma quanto sia vero non sia sa) e si racconta che vi venissero gettate vergini e bambini.
Uno dei punti forti del sito è senza dubbio il Campo da Gioco della pelota, il più grande che si conosca. Ai lati sono visibili due anelli scultorei che erano le nostre “porte” dove far passare la palla e sono decorati con due serpenti piumati intrecciati.
Ai lati del campo ci sono molti bassorilievi che rappresentano il gioco e le regole che si dice siano state piuttosto cruente, mentre alcuni dicono che, se il giocatore riusciva ad infilare la palla nello strettissimo foro dell’anello, la squadra vinceva subito la partita. A Merida, nel corso di una Festività, proprio davanti alla Cattedrale è stata giocata una partita di pelota con sette giocatori.
Tutto è stato preparato come ai tempi dei Maya e la partita è difficilissima perché non si tira con i piedi ma con le ginocchia, stando stesi per terra. Capita anche che si tiri con il corpo, ma il cerchio è in alto e non è affatto facile fare “goal”. E lo sforzo dei giocatori è enorme.
Nel complesso, il sito di Chichen Itzà è il migliore esempio della commistione stilistica del periodo postclassico Maya con influenze del Messico centrale.
Ecco, fin qui quello che si può vedere in una settimana di soggiorno ma, come ho già scritto, c’è ancora da visitare la regione del Chiapas, Città del Messico, la parte nord, Playa del Carmen ecc…Il Messico è vasto ed è abitato da 112 milioni di abitanti. Un viaggio non basta, ma sono sicura che se ci si va una volta, ci si ritorna.
C’è ancora troppo da scoprire su questo popolo costituito dagli indios, dai meticci e dai discendenti degli spagnoli. Un popolo che è passato dal sentimento religioso legato ai fenomeni della natura al cattolicesimo con l’invasione degli spagnoli.
Il sole, la pioggia e il vento furono sicuramente i primi dei di questo popolo di agricoltori, che furono i signori indiscussi della juta, ricavata dalla pianta di agave così come dall’agave azzurra è ricavata la tequila, bevanda tipica nazionale, e del tipico cappello denominato panama.
Il Messico, oggi, ha un collegamento in più, quello della Compagnia Blue Panorama che fa scalo a Merida. Un motivo in più, questo, per scoprire le bellezze e conoscere la storia di questo misterioso popolo.
LA GASTRONOMIA
La cucina è molto varia e saporita ed è diversa a seconda della regione. Piatto principale è la Tortillas, una specie di pane basso di mais o granoturco.
Poi i Tacos, una specie di crepes di mais, che possono essere riempite con carne, cipolle e verdure. Molto buono il Guacamole, ripieno di avogados, peperoni, cipolle e peperoncino.
Ottimi i piatti a base di carne e pesce e, soprattutto, i “camarones” gamberoni fritti con una specie di farina al cocco, servita dentro una metà di quest’ultimo nel quale si trova una deliziosa salsa di mango e cocco.
La frutta è tropicale e si trova di tutto: dalla papaia al mango, dall’ananas al melone e all’anguria. Fra le bevande, ottima la cerveza (birra) e la tequila.
STRUTTURE ALBERGHIERE
Chiaramente le strutture a Cancun sono molto grandi, ma c’è da scegliere secondo le proprie esigenze,
Noi siamo stati alloggiati all’Oasis Resort All Inclusive, un 4 stelle di 959 camere standard con vista mare e vista giardino. La struttura è sulla larga spiaggia ed è dotata di belle e scenografiche piscine. La posizione è ottimale perché si trova vicino alle principali attrazioni e allo shopping center.
Le camere sono spaziose con televisore via cavo e cassetta di sicurezza. Il bagno ha l’asciugacapelli e il set di cortesia. Attività sportive e intrattenimento, 10 ristoranti con cucina di varie nazionalità. Unico neo: WiFi a pagamento e neppure tanto economico. I bambini sono gratuiti in camera con i genitori fino a 12 anni.
A Cancun, il Westin Hotel & Resort ci ha fatto omaggio di una sauna in stile Maya. Una sauna particolare, che si trova in giardino ed è una specie di costruzione bassa in mattoni. Il prima e il durante la sauna, è accompagnato da un rituale in lingua Maya da una specie di “sacerdote” Maya. Il problema è per chi soffre di claustrofobia o il caldo eccessico provocato dall’acqua versata sulle pietre infuocate. Comunque è un’esperienza da provare. Dell’hotel abbiamo visto solo l’ottima Spa e constatato la gentilezza del personale.
A Merida, l’hotel è un vecchio convento francescano: il “Fray Diego”, un 3 stelle superior piccolo e raccolto. Si trova in zona centrale ed ha 26 camere molto tranquille, dotate di aria condizionata (un po’ rumorosa) e il ventilatore a soffitto.
Gli arredi sono semplici e alla parete, sopra il letto, c’è un grande crocefisso. C’è una piccola piscina e un piccolo giardino con una fontana e qualche statua che ricorda cosa era prima.
Ristorante, bar e centro business. Nell’armadio c’è la cassetta di sicurezza. Il bagno non è molto grande ma la doccia è ampia e c’è il set di cortesia. L’WiFi è gratuito.
A 15 minuti dal centro di Merida c’è la bellissima Hacienda Misnè, classificabile quasi come un 5 stelle, immersa in un parco curatissimo pieno di fiori e alberi che fanno da contorno a 43 camere e 8 suite molto ampie e ben arredate. Anche i bagni sono grandi e, chiaramente, tutti ben attrezzati. All’interno dell’Hacienda c’è una Spa e una piscina, vasche nel giardino e un ristorante completano un piccolo gioiello dove trascorrere una luna di miele o regalarsi un soggiorno in una struttura dove comfort e lusso vanno a braccetto.
Infine, per chi cerca un ambiente molto ricercato, il boutique hotel “Casa Lecanda”, è l’ideale. Solo sette camere suddivise fra il piano terra e il secondo piano. Queste ultime sono dotate di balcone con vista sui giardini. Entrambe le camere sono dotate di balcone un ponte di legno con zona relax Ogni camera dispone di un letto a baldacchino king size, angolo soggiorno, armadio TV a schermo piatto, mini-bar e cassaforte in camera. I bagni dispongono di una grande cabina doccia a pioggia. Questi i servizi : Minibar, Cassaforte in stanza, Ponte di legno, Tv a schermo piatto, Box doccia con Sky luce, Aria Condizionata, Ventilatori, Wifi, iHome docking station per iPod e sveglia , Accappatoi e pantofole, prodotti da bagno biologici. Le garden suite sono ad un livello ancora più elevato. Piscina e ristorante completano i servizi di questo piccolo albergo.
Comunque, in ogni località del Messico esistono hotel appartenenti alle più grandi catene alberghiere.
IL VOLO CON BLUE PANORAMA
La partenza da Roma su Cancun è avvenuta con un Boeing 767-300 della compagnia italiana Blue Panorama con scalo a Cuba.
Il ritorno è stato diretto ed è durato 11 ore. Ora Milano Malpensa è collegata a Merida ogni lunedì e dal 20 luglio al 7 settembre anche il venerdì. Una buona occasione per approfittare delle tariffe convenienti della compagnia e del volo senza scalo.
Reportage: Yucatan, un viaggio nel mondo dei Maya e a Cancun che non è solo uno splendido mare
di Liliana Comandè. Un viaggio in Messico non merita solo nuotate nel mare cristallino, ma un'immersione in una cultura e una ricchezza riscontrabile nei suoi siti archeologici, nelle città ...
Il teatro Goldoni
Il teatro Goldoni di Livorno nasce nella prima metà dell'ottocento, durante il governo dei Lorena. L'architetto che lo idea, Giuseppe Cappellini, è improntato allo stile neoclassico. Occorrono quattro anni di lavori e il primo nome che viene imposto è "Imperiale e Regio Teatro Leopoldo" in onore del granduca Pietro Leopoldo II°. Ha una cupola luminosa in cristallo che permette anche spettacoli diurni e persino circensi, cupola che si colloca nella storia dell'architettura in vetro e ferro. L'opera viene inaugurata il 24 luglio 1847.
Gli inizi non sono facili perché la concorrenza è troppa da parte del teatro Avvalorati, del San Marco, del Rossini e poi del Politeama. Nel corso degli anni la struttura conosce alti e bassi, degradi e rinascite, nonché alcuni passaggi di proprietà. Solo nel 1860 assume il nome definitivo di "Regio Teatro Goldoni". Nel 1890 tocca il suo apice con la rappresentazione di Cavalleria Rusticana di Mascagni che attira molte personalità dell'epoca.
Durante la seconda guerra mondiale è requisito dagli alleati per organizzarvi rappresentazioni, fra le quali la più famosa è quella che vede protagonista Frank Sinatra.
Sopravvissuto ai bombardamenti, è poi dichiarato inagibile a metà degli anni ottanta e infine espropriato nel 90. Ora è patrimonio del Comune e custodisce al suo interno anche alcuni cimeli di Mascagni.
Il Goldoni ha ospitato, e continua a ospitare, grandi cantanti, compositori e attori delle migliori compagnie: Galliano Masini, Pietro Mascagni, Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Mario del Monaco, Eleonora Duse, Ermete Zacconi, Paolo Stoppa, Enrico Maria Salerno, Giulio Bosetti. Vi sono state rappresentate opere di Verdi e di Puccini: Macbeth, la Boheme, Manon Lescaut, Tosca, Madame Butterfly. Ha accolto anche le prime proiezioni cinematografiche.
Nel 1920/21 è stato sede del congresso socialista da cui si è staccata la minoranza che, abbandonando il Goldoni per il teatro San Marco, ha poi dato vita al partito comunista.