Eckhart Tolle, "Il potere di adesso"
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Il potere di adesso
Eckhart Tolle
2013
Eckart Tolle, in realtà Ulrich Leonard, ma si è ribattezzato così in onore di Meister Eckart, il mistico. Affetto da una grave forma di depressione giovanile, Tolle racconta che, a 29 anni, in preda all'ennesimo crollo psicologico accompagnato da svariati pensieri suicidi, una mattina si sveglia e sperimenta la beatitudine. Ovvero, pur essendo disoccupato, senza fissa dimora, soldi nemmeno a parlarne, per 6 mesi vive come un vagabondo provando una gioia pura nei confronti della Vita. Egli riconduce tale stato al crollo della cosiddetta mente egoica, quello strumento potente e affilatissimo che ci aiuta ad essere precisi ed efficienti ma che se non tenuto a bada ci procura innumerevoli sofferenze per rimuginio interiore, e nutrimento del cosiddetto "corpo di dolore". Quest'ultimo è semplicemente lo stato di sofferenza che viene alimentato di continuo dai nostri pensieri, dalla nostra immaginazione, dalle nostre supposizioni che nulla hanno a che vedere con la realtà, a noi celata dal velo di Maya. Il potere di adesso è il riconoscimento del qui e ora, dell'osservazione della nostra mente come testimoni esterni, constatando come ci rovina la vita e "abbassarne il volume", affinché il cuore e l'anima possano permetterci di agire nel mondo provando la pace interiore, che, a differenza della felicità, non dipende da fattori esterni. Tanti gli argomenti affrontati nel libro quali le relazioni di coppia, l'emotività femminile legata ai cicli ormonali, il lasciare andare e affidarsi alla vita, tanto che più che un libro da leggere, è un vero e proprio manuale da tenere sul comodino per consultazione. Molto divulgativo e esemplificativo, non lo suggerirei tuttavia come primissimo approccio alla spiritualità.
Antonio Crisci, "L'uomo di ghiaccio"
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Antonio Crisci
L’UOMO DI GHIACCIO
II° edizione
È un bel regalo che Antonio Crisci riproponga il racconto L’uomo di ghiaccio, seconda edizione, per i tipi di Guido Miano Editore. Nell’introduzione, Michele Miano giustamente richiama Centomila gavette di ghiaccio (1963) di Giulio Bedeschi (1915-1990); ma si possono fare anche altri accostamenti a cronache e racconti “di guerra”, più o meno noti al grande pubblico. In questo filone si colloca a pieno diritto il lungo racconto di Antonio Crisci, che è molto coinvolgente, anche se non ha (e non potrebbe avere, dato che l’Autore riferisce vicende vissute da altri, non da lui personalmente) l’immediatezza della vena contestatrice e corrosiva del romanzo/cronaca (però riferito alla I guerra mondiale) Un anno sull’altopiano (1937) di Emilio Lussu (1890-1975), né l’ampiezza descrittiva e la capacità di intravedere, pur nelle più tremende vicende belliche (della II guerra, in questo caso), la forza rinnovatrice della fede che troviamo nel racconto-cronaca di Eugenio Corti (1921-2014) I più non ritornano (1947 – uno dei primi resoconti diretti scritto da un reduce dalla campagna di Russia, di poco preceduto da Con l’armata italiana in Russia di Giusto Tolloy, del 1946, e contemporaneo all’uscita di Mai tardi di Nuto Revelli). Il Corti avrebbe ripreso l’argomento ne Il cavallo rosso (1983), e va ricordato anche il suo epistolario, uscito postumo, Io ritornerò (2015), impreziosito da fotografie scattate dall’autore stesso al tempo della ritirata dell’Armir tra la fine del 1942 ed il 1943.
Nel racconto del Crisci non vi sono invettive contro l’insensatezza della guerra, né si indugia sulle vicende della ritirata dell’Armir dalla Russia (circa 100 mila uomini, la stragrande maggioranza mai tornata), ma si segue il filo conduttore della ricerca dei circa 600 soldati e degli ufficiali italiani rimasti vivi pur dopo la loro deportazione nei famigerati gulag. Non pochi di loro decisero di restare in Russia, venendo in qualche modo dimenticati due volte. Se nel racconto c’è una nota polemica, è per stigmatizzare l’atteggiamento remissivo del PCI nei confronti dell’allora Unione sovietica: con meno pavidità, se il PCI avesse “spinto” tale ricerca, si sarebbero potuti certamente ritrovare molti dispersi, morti o ancora vivi, che invece rimasero quasi tutti tali.
Il racconto esordisce così: “Dopo troppi anni di oblio sarebbe doveroso dedicare un giorno alla memoria di questi innocenti e giovani martiri. Il tempo non ha cancellato l’ardimento e il sacrificio di giovani vite immolatesi per cause a loro non completamente note ma dettate dal senso del dovere e da ideali patriottici” (p.17). Si sviluppa in seguito con la narrazione di un intreccio di incontri più o meno casuali, come quello con la russa Natasha, e di personaggi che offrono spunti per allineare le vicende della ritirata di Russia, dei reduci e dei sopravvissuti fermatisi là. Infatti l’Autore riporta i racconti da lui uditi da parte di reduci della ritirata, come “zio Pasquale”, che nel salone del barbiere del paese racconta delle “marce del davai” (significa “va’ avanti”: i soldati russi lo ripetevano ai prigionieri italiani per farli camminare senza fermarsi – perché chi si fermava era perduto, o veniva giustiziato sul posto o veniva abbandonato e moriva di freddo); e racconta delle spie italiane che, in quanto comunisti convinti (o da se stessi o forse dai soldati sovietici), facevano da spalla ai “vincitori”.
Si inserisce qui la vicenda dei gemelli Aniello ed Alfonso, passati direttamente al fronte russo da quello albanese e greco, dove erano stati col fratello maggiore Vincenzo, tornato ferito in Italia. Aniello morì in Russia, mentre Alfonso (attorno al quale gira poi tutto il racconto) fu salvato da una famiglia russa nel gennaio 1943: un “miracolato”, perché - come nota l’autore - “La guerra con la sua ferocia rende duri anche gli animi inclini alla pietà” (p.65). Quasi incredibilmente, la storia di Alfonso si collega a Natasha, e ad altri ancora, come “zio Raffaele” e Ciro, in una linea temporale che giunge ai giorni nostri, attraversando vicende epocali come la caduta del muro di Berlino del novembre 1989.
Il tutto è reso con semplicità, il che rende avvincente la lettura di questa storia, vera ma anche romanzesca oltre che istruttiva.
Marco Zelioli
Antonio Crisci, L’uomo di ghiaccio, introduzione di Michele Miano, II° edizione, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 136, isbn 978-88-31497-91-6, mianoposta@gmail.com.
Luca Masala, "Dappertutto stando fermi"
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Dappertutto stando fermi di Luca Masala (L'Erudita, 2022 pp. 113 € 16.00) è un libro caratterizzato da una combattente espressività e da un'ampia intensità di significato. L'autore inscrive l'intuizione profonda dell'inquietudine attuale, attraversa l'abissale superficie del vuoto spirituale, comprende l'assenza di un principio solido di riferimento, sfida il conflitto ordinario contro l'estraneità emotiva, conosce il disorientamento esistenziale. La poesia di Luca Masala dichiara l'indefinibile disagio nei confronti della frammentata condizione vitale, lacera la crisi d'identità dell'uomo contemporaneo, rilegge la frenetica, contrastante, realistica spinta introspettiva. I testi evidenziano la crisi dei valori, aggiungono il suggestivo incedere dei sentimenti lungo il cammino imprevedibile della vita, confermano la propria autonomia stilistica, continuano a sostenere la spietatezza delle difficoltà e l'accusa dell'incomunicabilità. Il poeta accorda l'impulsiva necessità di orientare un senso poetico alle relazioni umane, alla concezione del mondo, ritrova nel passaggio elegiaco l'interpretazione della memoria e del tempo. Dappertutto stando fermi è un suggerimento felice che arriva a destinazione, oltrepassa l'accelerazione delle umane distrazioni istintive, promuove un percorso lungo il senso contemplativo del ritmo interiore, in viaggio intorno alla consapevolezza. Il libro ospita il luogo immutabile dei ricordi, racchiude la fragilità delle illusioni, scopre i frammenti della quiete. Luca Masala cerca la poesia in ogni ispirazione quotidiana, coglie l'essenza della qualità evocativa delle parole, ascolta la rivelazione del sentiero incontaminato dell'anima. Concentra la luce infinita della meraviglia scolpita nella sensazione dell'appartenenza, disegna la prospettiva indistinta della solitudine con immagini offerte al confronto con la realtà, nel precipizio di una distorsione temporale, nella metafora di una visione catartica. Rivolge lo sguardo all'entità romantica e dolorosa della misura etica della lontananza, tenta di ridurre la dilatazione della distanza e della vacuità. Dappertutto stando fermi raggiunge la sensibilità del cuore, il territorio stabilito della reciprocità affettiva, regola la frequenza viscerale, tocca il termine di una permanenza dentro la dimora significativa del sentire, nel riflesso contraddittorio tra la continuità e la dimenticanza. I versi circondano la cognizione invisibile del disincanto, l'impulso malinconico e amaro del sogno fatalmente perduto. La corrispondenza della natura umana, in ostinata lotta tra equilibrio e stabilità, orienta l'armonia della poesia, indirizza la simmetria costante della staticità sospesa verso una dinamica empatica delle esperienze, filtra il percorso della semplicità. La sostanza autentica di Luca Masala riflette l'autenticità e la purezza dell'arte poetica, compone l'estratto di ogni promessa di speranza, include la capacità profonda e coraggiosa dell'ascolto, l'efficacia confortante e sorprendente del pensiero. Luca Masala dichiara l'affabile sincerità, apre il solco tracciato della scrittura sulla strada della conoscenza, sulla complessità della dimensione percettiva, avvia la protezione della saggezza nelle tendenze innate dell’uomo.
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Arianima
Soffocare e guardare indietro
gli occhi negli occhi
a immaginare altezze
mai toccate
e scivolare
lungo la lama del vento
fiato di cristallo
un unico respiro
fino in fondo
nella parte visibile
dell'anima
Primavera
Alba di vita
piccolo sole che esplode negli occhi
ogni volta che vi guardo, figli miei,
un giorno di musica e luce
da vivere per sempre
mentre la bella giostra del mondo
compie ancora il suo giro
e solo per noi
Commiato
Passano, queste anime
rapide e terse
nello spazio di una vita
curvilinee e perse
illusorie di una meta
sulle immense strade del tempo.
Passano, senza fermarsi
amici e nemici
questi corpi convulsi
ignari del dolore
di non poter restare a lungo
nel miracolo della storia,
a guardarne il bagliore
a viverne il sogno.
Nel breve istante,
io con loro
andrò via
a fianco del rimpianto
solerte come un faro
che, indolente,
illumina da lontano
la metà sconosciuta
del niente
Frammento IV
“...E poi corro.
Per sentire il ritmo dei sogni
per abbracciare la mia solitudine
e tornare a respirare
con l'illusione fugace
che si può vivere per sempre.”
Frammento VIII
“...E nell'ombra
che odora di fresco
il tuo ricordo ritorna
per mescolarsi furtivo
con la notte”.
Frammento LXX
“...Toglierò dai tuoi occhi
i veli spietati del tempo
e tutto ti sarà chiaro.
…
Quel giorno scorgerai
immobile
il mio volto tra le stelle.”
La porta rosa
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La logora ma intrigante porta di un rosa antico attira la mia attenzione ogniqualvolta passo da questa abitazione. Immancabilmente, per circa un minuto, rimango a fissarla e a sfiorarla.
Nelle grigie e piovose giornate d'inverno, durante il mio passaggio, mi sembra di essere dentro un film surreale in bianco e nero nel quale viene dato "colore" a un oggetto chiave.
Dietro la rosea soglia immagino poi che ci abiti una bella fata con un bastoncino di zucchero filato capace di donare un po' di letizia ad anime tristi.
Proprio adesso sento una dolcissima musica provenire dall'interno della casa le cui note fluttuano nell'aria lasciando all'esterno un profumo che sa di carezze di menta piperita e baci di fragole.
Antonio Crisci, "L'uomo di ghiaccio"
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Confesso di non essere all’altezza nel delineare alcuni aspetti delle vicende narrate in questo volume, l’immane tragedia del corpo di spedizione italiano dell’Armir in Russia durante il secondo conflitto mondiale.
Ma ci riesce molto bene e in modo convincente Antonio Crisci, con piglio narrativo e stile asciutto a raccontare alcuni episodi accaduti e tramandati da parenti, amici e conoscenti reduci dalla Campagna di Russia.
Com’è noto l’8a Armata Italiana (nome in codice Armir: Armata italiana in Russia) alla fine del 1942 fu investita da una potenza di fuoco soverchiante ad opera dei sovietici e dovette quindi cedere terreno. Iniziò la tragedia della ritirata dei nostri soldati in larga parte truppe alpine scarsamente equipaggiate, una sorta di “Anabasi” dei nostri giorni, un’odissea in cui centinaia di migliaia di uomini congelati morirono di fame e stenti percorrendo a piedi mezza Europa o furono fatti prigionieri senza avere più notizie di loro.
Crisci ripercorre alcune tappe di questa avventura sciagurata, filtra e rielabora con la sua sensibilità da uomo di cultura alcuni episodi caratteristici. La sua scrittura ha il pregio della semplicità e della concretezza grazie a un linguaggio comunicativo.
Si legga, ad esempio il racconto L’antefatto - Il miracolato dove un soldato italiano viene miracolosamente salvato da una famiglia russa. Cambia identità e dopo mille peripezie si trasferisce definitivamente in quella terra. Al riguardo, come non ricordare la pellicola capolavoro del 1970 di Vittorio De Sica I girasoli: un soldato ferito e quasi morente (interpretato da Marcello Mastroianni) viene salvato amorevolmente da una ragazza russa con la quale poi si sposa e forma una famiglia trasferendosi definitivamente in Russia. Sotto i campi coltivati a girasoli sono seppelliti i militari italiani nelle fosse comuni dove ogni campo sterminato che ondeggia al vento rappresenta le vittime di una guerra terribile e assurda.
Antonio Crisci pone l’accento anche su alcune questioni forse troppo trascurate o appositamente “dimenticate” dei dispersi in Russia: dai dispersi ai prigionieri nei campi di lavoro fino a casi estremi di soldati che salvatisi, si stabilirono definitivamente in quella terra.
Altri racconti invece descrivono gli stenti, la fame, il freddo, le atrocità, la ferocia della guerra patita dai nostri soldati, le cosiddette “marce del davaj” dal termine russo, ‘davaj’ che significa “avanti”, che provocarono un altissimo numero di morti tra i prigionieri. Queste marce durarono fino a venti giorni con fermate di pochissime ore per la notte, con tappe fino a 20 km al giorno in condizioni disumane. I soldati catturati furono costretti a camminare senza soste e senza cibo, a dormire all’addiaccio con temperature polari e molti di loro non riuscirono a resistere e morirono o furono uccisi e lasciati lungo il percorso senza sepoltura. E poi il ritorno in Italia dei reduci con mezzi di fortuna e in condizioni psico-fisiche indescrivibili, la loro difficoltà a inserirsi in una società ormai in stravolgimento in un clima da guerra civile dopo l’armistizio e i fatti dell’8 settembre 1943.
E quell’amara consapevolezza di dimenticare, di insabbiare in patria il disastro italiano in Russia di non dare giusto merito a quei poveri ragazzi dimenticati da tutti in un clima di tensione, caos, sbandamento delle forze armate e per dirla alla Luigi Comencini: Tutti a casa (film del 1960 ambientato durante la seconda guerra mondiale).
Racconti che racchiudono esperienze di vita, accompagnate da una vibrante partecipazione emotiva dell’autore e creano una rispondenza nell’animo del lettore, grazie anche a un linguaggio diretto, efficace proprio perché immediato e alieno da sovrastrutture e da ricerche formali.
E ancora altri racconti descrivono le vicissitudini dei nostri soldati sul fonte greco albanese e in generale sui Balcani con dovizia di particolari. Ma il vero messaggio subliminale che intende suggerirci Antonio Crisci è lo stimolo alla creazione di una nuova coscienza, una vera coscienza nelle nuove generazioni al ripudio della guerra e ad evitare tragedie come quella racconta in questo volume. Una vera tragedia ancora d’attualità e che ci fa riflettere anche alla luce dei nuovi e recenti conflitti in Europa.
Piace al prefatore di questo volume, il cui nonno materno era aggregato proprio al corpo di spedizione dell’Armir, terminare questa breve introduzione citando un brano tratto dal celebre romanzo Centomila gavette di ghiaccio del 1963 di Giulio Bedeschi che descrive come non mai la grande ritirata italiana dalla Russia: «La visibilità divenne nulla, come ciechi i marciatori continuarono a camminare affondando fino al ginocchio, piangendo, bestemmiando, con estrema fatica avanzando di trecento metri in mezz'ora. Come ad ogni notte ciascuno credeva di morire di sfinimento sulla neve, qualcuno veramente s'abbatteva e veniva ingoiato dalla mostruosa nemica, ma la colonna proseguì nel nero cuore della notte».
Michele Miano
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L’AUTORE
Antonio Crisci è nato in un piccolo borgo della Valle Suessola (in Campania), area di origine osca prima ed etrusca poi. Trasferitosi successivamente a Santa Maria Capua Vetere (CE), antica Capua, si dedica con successo a percorrere le attività caratteristiche della città: i Beni culturali e il diritto. Notevole è l’impegno profuso a promuovere e valorizzare le bellezze storiche e artistiche del territorio della città sia professionalmente (a lungo impiegato nei siti principali della città, quali l’anfiteatro, il mitreo ed il museo archeologico dell’Antica Capua) sia per passione (presidente della sede locale dell’Archeoclub d’Italia e promotore di importanti manifestazioni quale “Ager Campanus”, rassegna annuale che da oltre un decennio promuove e rappresenta l’arte e la cultura in Terra di Lavoro).
Antonio Crisci, L’uomo di ghiaccio, introduzione di Michele Miano, II° edizione, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 136, isbn 978-88-31497-91-6, mianoposta@gmail.com.
Pasquale Ciboddo, "Era segno sicuro"
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ERA SEGNO SICURO di PASQUALE CIBODDO
con prefazione di Enzo Concardi
Preponderante in quest’ultima, singolare opera poetica di Pasquale Ciboddo è la realtà tragica della pandemia che ha colpito l’umanità intera, causando morti, lutti, sofferenze, crisi sociali e personali. Il poeta, diversamente da molti altri nella nostra società, non vuole chiudere disinvoltamente tale capitolo, anzi ne rimarca in continuazione le conseguenze, dimostrando la sua pietas per i devastanti avvenimenti. Egli attribuisce le cause del fenomeno pandemico a una nemesi divina e naturalistica per gli errori umani. Spiega le perdite di vite che ancora non cessano, all’interno di una visione mistico-provvidenziale, affidandosi a un sogno iniziale premonitore delle disgrazie successive: Era segno sicuro - il titolo della raccolta - nasce da un evento onirico in cui egli, vedendo la Madonna sofferente, presagisce ciò che ci avrebbe colpiti.
A fianco di tale grande accadimento storico, che paragona alle pestilenze del passato, l’autore, attraverso motivi reiterati, costruisce liriche che toccano i temi a lui più cari: il tramonto e la rovina degli stazzi della Gallura, sua terra amatissima; la nostalgia accorata di quella civiltà in cui si viveva duramente ma serenamente; la condanna della società industriale, tecnologica, metropolitana, non a misura d’uomo; il contrasto campagna-città, dove il primo termine rappresenta la salute della vita e la simbiosi benefica con la natura, mentre il secondo racchiude solo vite tristi e alienate; l’indugiare attraverso la memoria sui ricordi del passato non più revocabile. L’autore registra la drammaticità della realtà, mentre egli conserva la speranza fiduciosa nel futuro: l’insistenza sulla presenza della morte tra di noi e sul destino morituro degli umani, costituiscono senz’altro un retaggio vetero-testamentario di biblica discendenza.
Nel libro il pensiero della pandemia assume ritmi ossessivi, coinvolgenti anche per il lettore più distaccato: alcune esemplificazioni sono necessarie per rendere comprensibile più da vicino il pathos dell’uomo Ciboddo, oltre che dell’aedo epicedico. L’incipit è costituito da una lirica che dà il titolo alla silloge, Era segno sicuro, la quale nell’epilogo ci introduce al canto funebre: «… L’umanità trema / e in silenzio muore». Si succedono altre liriche - Squarcia il cielo, E non c’è medicina, A volte pregare, E se vuole - dove i due temi fondamentali sono la punizione divina e l’invocazione a Dio e alla Madonna sotto forma di preghiera per la salvezza dell’umanità: «… I nostri nemici / profanano le Tue leggi / e Tu ci condanni con pestilenze…» (Squarcia il cielo); «…E non c’è medicina a combattere il male. / Non rimane che pregare / e in bene sperare» (E non c’è medicina); «La storia è pietrificata / nel silenzio. / Si muore di peste. /…/ Solo la Madonna, / nostra madre divina, / se invoca / il Signore suo Figlio / può salvare l’umanità…» (A volte pregare). Personalmente il poeta si sente «intimorito e solo» (Ma la gente) ed essendo disorientato sul da farsi, si dedica alla poesia, mentre la malattia imperversa: «… ci frusta ai fianchi / e ci punge con spine / conficcate negli occhi / nel cuore e nei polmoni /…/ e ci nega l’esistenza» (A mitigare il male). Le forze della natura sono scatenate contro di noi: «…Ed è pena / che tormenta anima e cuore» (Ed è pena). Il poeta teme quindi che nemmeno la scienza medica sia in grado di combattere la pandemia.
Tuttavia, oltre l’evento contingente - anche se straordinario - della pandemia, la visione esistenziale di Ciboddo non si discosta da quella emergente dai testi finora analizzati. Prendiamo la leopardiana Questa la nostra sorte, dove è possibile ipotizzare un accostamento ad alcuni versi del grande recanatese: «C’è sofferenza / nel nascere e nel morire. / L’esistenza umana / vive solo una primavera / dolce di giorno e di sera. / Segue la decadenza / col mite autunno / e poi il gelido inverno / che conduce alla morte. / Questa la nostra sorte». Il futuro dell’umanità è insidiato anche dal continuo incremento demografico, un altro rischio mortale per il nostro genere: «…L’Umanità, / come un’anima in pena, / se non rallenta / la corsa alle nascite / vedrà la fine di tutti / e di tutto il creato» (L’Umanità). La condizione umana, se ancora sopportabile nella giovinezza (simboleggiata dalla primavera), diviene un macigno enormemente pesante nella vecchiaia ed allora stanchezza, isolamento, mancanza di relazioni, di gioia, di entusiasmo e quindi di vita, trasformano le giornate in amara noia (Ed è tristezza).
La quasimodiana E si sta soli è anafora di tutti questi concetti, che il poeta siciliano aveva espresso nelle immagini sintetiche ed ermetiche di Ed è subito sera; l’autore replica con la sua denuncia dell’aridità della vita moderna: «Oggi / ognuno è isolato / in mezzo a tanta gente / che è indifferente / verso tutto e tutti. / E si sta soli sulla terra / alquanto spaesati...». In altri componimenti Ciboddo è ancora più drastico e radicale, poiché afferma che la morte è già in noi lo stesso giorno in cui si nasce e che nessuno conosce la verità sull’al di là, mistero, enigma mai svelato (Questa l’amara sorte).
Una possibile via d’uscita a tale situazione scoraggiante e deprimente, viene individuata dal poeta nell’incontro con la Natura, in modo che l’ungarettiano «…La morte / si sconta / vivendo», possa essere superato. Egli - in La vera salvezza - pone un domanda in merito: «…È forse il ritorno / alla natura abbandonata / dove sono le nostre radici / la vera ricchezza / che ci salva pure / da tale pestilenza?». Domanda chiaramente retorica, dal momento che la sua visione è sicuramente indirizzata verso un pensiero fisiocratico, e ciò è dimostrato dal suo anti-industrialismo e dall’avversione verso le metropoli moderne: per Ciboddo, come per Quesnay, la base dell’economia era, è, e dovrà restare sempre l’agricoltura. Ecco i versi testimonianze inequivocabili di ciò: «La natura reclama / i suoi diritti. / Guai a trasgredire / le proprie leggi. / L’uomo di oggi / attratto dalla vita di città / abbandona la terra di nascita / e di crescita nella natura / e si perde così / in un mondo senza valori, / pensando solo alla corsa / di ricchi tesori. / Ma la terra offesa / si vendica» (Ma la terra…). Inoltre - scrive ancora nella poesia È vita limitata - la città è una prigione di catrame e cemento, dove non si respira l’aria salubre della campagna e dove la vita è monca per mancanza del rapporto con la Natura. La sua filosofia di vita centrata sull’attaccamento alla terra lo porta a vedere raggi di sole nel buio del presente solo e proprio nel mondo naturale, il cui simbolo più dolce e benefico risiede negli avventi primaverili. Tuttavia anche la terra corre rischi mortali – se non si pone rimedio – ancora una volta per responsabilità dell’uomo inquinatore.
Ed eccoci ora a quella che possiamo considerare una vera e propria civiltà contadina a se stante, sviluppatasi sulle alture e nelle campagne della Gallura, mondo del quale Pasquale Ciboddo è rimasto innamorato. Qui troviamo solo alcune liriche - come Erano il tempio, Tempi così cari, È stata una grave sventura, Ed è danno ed è pena, Oggi il mondo, In un baleno, Ricordi di tempi e luoghi, Era una civiltà - ma in altre pubblicazioni egli tratta a lungo di ogni aspetto di quel microcosmo particolare: gli stazzi. Nel suo ricordo essi erano il tempio della natura, ora è rimasto un deserto. Evoca le stagioni della vendemmia, delle feste, dei balli, che ora può solo sognare. Sono stati abbandonati per i miraggi consumistici del Continente e così è morta una lunga tradizione. Alla ricchezza d’un tempo s’è sostituito il vuoto del presente. C’era solidarietà tra proprietari, contadini e forestieri: poi il mondo ha preso altre strade. La gente degli stazzi, con famiglie patriarcali, è scomparsa in un baleno. La conclusione sconsolata del poeta è commossa ed accorata: una civiltà ricca di vita, benessere, relazioni, affetti, lavoro, emozioni… s’è dissolta ed oggi v’è una solitudine da far paura.
Nei suoi versi sciolti Pasquale Ciboddo inserisce spesso rime varie per imprimere maggior melodia alla metrica: solo l’ultima lirica - Una vera visione - è un sonetto (14 versi, due quartine e due terzine in sequenza con rime alternate).
Enzo Concardi
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L’AUTORE
Pasquale Ciboddo è nato a Tempio Pausania (SS), in Gallura, nel 1936; già docente delle scuole elementari, è uno dei poeti sardi più noti, e ha al suo attivo numerose pubblicazioni poetiche e di narrativa con prefazioni e introduzioni di prestigiosi critici.
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Pasquale Ciboddo, Era segno sicuro, prefazione di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 122, isbn 978-88-31497-92-3, mianoposta@gmail.com.
Venti anni di attività e di successi!
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Ricercatissima e richiestissima, per i suoi meravigliosi abiti, da personaggi televisivi, alta nobiltà e registi, Cinzia Diddi si riconferma una delle stiliste più raffinate. È di prossima uscita il suo catalogo gold che è una sintesi della sua carriera lavorativa.
CELEBRIAmo DONNA è uno shooting che raccoglie gli abiti “simbolo” dei 20 anni di lavoro della stilista delle star.
La stilista coglie l’occasione per celebrare i 20 anni di attività e la Donna, con abiti celebri che hanno calcato red carpet e sono stati indossati da personaggi famosi, in film e trasmissioni televisive. Ma soprattutto rimarca il concetto che ogni Donna è CELEBRE e unica, un fulcro importante.
Scrive Daisaku Ikeda, scrittore, educatore e filosofo orientale: "La forza delle donne è la forza della terra. […] Quando una donna si mette all’opera, tutto cambia." Questa per me è stata una frase di grande ispirazione, che rimarca il ruolo che la donna ha nella società e nella famiglia. Credo si debba procedere a educare la mente al VALORE.
Le foto sono ad opera del fotografo Mariano Marcetti, la Modella è la splendida Claudia Licheri.
Gli abiti sono “vere e proprie opere d’arte”, tessuti preziosi, applicazioni di pietre e cristalli, interamente applicati a mano. Tessuti come tele di un pittore.
Come si fa ad essere sempre al top?
Il grande segreto per indovinare un prodotto che sia di successo, una volta commercializzato, è la qualità. Poi occorre amore per il proprio lavoro, un ingrediente necessario che non ti fa mai perdere di vista l’importanza per i dettagli.
A cosa o chi si ispira?
Grace Kelly, lo stile che amo è quello, abiti preziosi, mai esasperati, io non voglio stupire nessuno, voglio essere ricordata per la mia “normalità”. La “normalità” è “straordinarietà”. Scusate, non è presunzione o arroganza, vorrei solo dare importanza a un concetto che amo molto e che spesso non viene valorizzato: il grande valore della “normalità".
Foto Mariano Marcetti Modella Claudia Licheri
ANALISI RAGIONATA DEI SAGGI CRITICI RIGUARDO WANDA LOMBARDI A cura di Enzo Concardi
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ANALISI RAGIONATA DEI SAGGI CRITICI
RIGUARDO WANDA LOMBARDI
A cura di Enzo Concardi
Recensione di Maria Rizzi
L’analisi ragionata dei testi critici riguardo la Poetessa Wanda Lombardi, di Morcone, in provincia di Benevento, condotta dall’ottimo Enzo Concardi, seguendo i commenti di autorevoli colleghi come Giuseppe Manitta, Monica Rubino, Carlo Onorato, Rossella Cerniglia, Marcella Mellea, Fabio Amato, Nazario Pardini ed altri, equivale a una navigazione attraverso il lirismo dell’artista, nella quale è messa in rilievo la sua tendenza a evocare il neoclassicismo nella forma e nei contenuti. Quasi tutti i critici citati riscontrano tratti in comune con Leopardi, Pascoli, non solo per il ricorso al metro classico, ma per l’ossimorica visione dell’esistenza, spesso tendente al nichilismo. Altro tratto evidenziato dagli esegeti è il rapporto con il divino, la tensione alla verticalità presente nei versi della Nostra e l’empatia con madre natura.
Tra tutti solo il professor Nazario Pardini accosta la poetica della Lombardi a quelle di Umberto Saba e Vittorio Sereni. E leggendo le liriche della Nostra lo stesso Concardi conviene circa le corrispondenze con Saba «per lo stile spezzato, frammentato» e con Sereni per il «malum vitae, il tormento, la percezione della labilità dell’esistere». Molte altre disamine vengono prese in esame dal relatore, ma la mia scelta, dopo aver navigato tra tanti illustri esperti di ermeneutica, cade sulla lettura dell’antologia essenziale delle poesie di Wanda Lombardi.
Il saggio critico, a mio umile avviso, è di per sé esaustivo; in appendice al libro è riportata una antologia essenziale di poesie scelte da varie raccolte e che coprono un periodo di vent’anni, dal 2001 al 2021. Le prime, tratte dalla silloge Sensazioni del 2001, ci consentono di annegare nel mare intimistico della Poetessa, che dimostra, una volta di più, che il mondo esterno non è che un riflesso del nostro universo interiore. I ricordi degli amori sono il tessuto della nostra identità. La Lombardi dedica al padre versi di velluto, che echeggiano i grandi della letteratura. «… Ma tra i molti visi, / come in un dipinto incastonati, / emerge il tuo, padre, / a sbiadire e sovrastare gli altri...» (Ricordi). La fede, elemento cardine del lirismo della Poetessa, è presente in questi primi versi come fonte di gioia di vivere e come unico presupposto per la pace. Nel leggere Ritrovare la pace, ho pensato alla meravigliosa asserzione di Khalil Gibran: «Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola». Dalla silloge Nel silenzio (del 2002) sono tratte liriche sul mondo dell’adolescenza, così simile a una malattia esantematica per i giovani e per i loro genitori. L’autrice affresca con versi meno classici, incisivi, colloquiali e infinitamente teneri l’universo dell’epoca in cui si conquista a morsi l’esperienza. «…I tuoi problemi, / che problemi non sono, / crisi profonde ti creano, / irritabilità, depressione…» (Cuore di adolescente). Il rapporto con i miracoli poetici del creato è evidente in alcuni testi dal tono selvaggio come carezza… mi si perdoni l’ossimoro, che stanno a dimostrare come la natura può divenire il medium nella relazione tra il conduttore e la persona, agevolando i momenti di relazione empatica che consentono la crescita nell’intersoggettività. In effetti la Lombardi allude a tale connessione, mette in risalto che quando lo stato climatico risuona in noi è proprio perché si è sferzati dallo stesso vento, guidati dalla stessa «invisibile mano».
Nella poesia Soffio divino, tratta dalla raccolta Luce nella sera del 2011, natura, esistenza e fede divengono un tutt’uno, dimostrando che l’essenza divina che si manifesta nella natura non è altro che la natura stessa che si palesa, si mostra e si impone all’uomo come un ente divino. Nell’antologia essenziale troviamo anche liriche di impegno civile, che spingono a pensare alle assonanze riscontrate dal professor Pardini tra la Nostra e Umberto Saba. A livello stilistico si notano la riduzione del lessico, la semplificazione della sintassi, la frammentazione del ritmo. «Corpi innocenti pestati, vinti / da chi fa della violenza / ideale di vita, / degli abusi mezzo per emergere…» (Tempi assurdi, da Gocce di rugiada, 2017).
Il timbro, caratteristica pregnante della poetica di Wanda Lombardi, diviene il colore vividissimo delle liriche più recenti. Spesso sottovalutiamo il valore di questa antica categoria poetica, rimasta ignota all’estetica classica, ma è proprio grazie a essa che il ritmo può mutare di continuo, anche all’interno della stessa lirica. Con il trascorrere del tempo l’Autrice esprime in modo sempre più incisivo la sua sete di interiorità e la capacità di possedere un linguaggio che è specchio dello spirito. Lei ha l’attitudine a parlare di Dio e a persuadere che la fede è molto umana e molto umanizzante, crea un clima nel quale ci si sente sollecitati a dare il meglio di se stessi. E illumina ancora sul concetto che l’incanto della natura, il mistero affascinante che la avvolge sono forse l’unica chiave di cui disponiamo per cercare di aprire la porta che ci separa dalla verità. «Commuoversi / dinanzi a una distesa marina / che brilla come diamante / o a vette maestose / che parlano col cielo / è dolce momento per il cuore. / Svegliarsi / tra concerti d’uccelli, / sorridere al sorriso di un bimbo / o dinanzi a un foglio bianco / inseguendo un nuovo sogno, / è sollievo per l’anima / che si inchina / alla Tua grandezza, Signore» (Piccole, grandi cose, da Gocce di rugiada, 2017).
Gli affetti, la malinconica nostalgia dei giorni trascorsi con loro, ricorrono nella poetica di quest’Arista e la sottoscritta non può che ammirarla e condividere i suoi slanci. Mantenersi, ovvero tenersi per mano, da napoletana, è il mio verbo preferito. Può bastare per la vita intera sapere di aver provato quell’amore senza tempo. Rinunciarvi rappresenta una follia. La mitologia dell’infanzia è radice di ogni nostro comportamento, e i genitori, i fratelli, quando sembrano morti sono solo svenuti. Possono riprendere a vivere nel miracolo della memoria e, come insegna la Lombardi, in quella “poesia che sa salvare il mondo”. «…Ma ancora oggi, nel tuo cinquantesimo, / piango pensando a te, alla tua storia / e intatta rivedo la tua eleganza, / il corpo tuo perfetto che invidiavo quasi. / Quante cose vorrei dirti, / quanto rivederti / per respirare con te aria d’amore!...» (Mamma, da Volo nell’arte, 2021). In famiglia si impara la grammatica dell’amore, il linguaggio attraverso il quale Dio comunica con noi. Se è vero che nel mare dell’esistenza siamo tutti naufraghi di una carezza, sento di poter affermare che le liriche di questa Poetessa dalle origini non lontane dalle mie, sono state l’isola, il ponte nel silenzio, il porto di sicurezza. Le anime si sono mescolate, la carezza l’ho avvertita e desidero restituirla.
Maria Rizzi
Enzo Concardi (a cura di), Analisi ragionata dei saggi critici riguardo Wanda Lombardi, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 84, isbn 978-88-31497-48-0, mianoposta@gmail.com.
Il fantasma di Alessandro Appiani, un film che non ti aspetti...
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Il regista sipontino Stefano Simone ritorna con un nuovo film e questa volta lo fa, più che mai, in maniera inconsueta e sorprendente. Il titolo del film - Il fantasma di Alessandro Appiani - potrebbe trarre in inganno gli spettatori, inducendoli a pensare a una pellicola horror o velata di mistero, come spesso il regista ci ha abituati in questi anni. E invece ecco la sorpresa: il lungometraggio, di circa un’ora e mezza, è una bella commedia, leggera e con un paio di gag spiritose.
Un film che scorre senza pause e che rende la visione godibile per lo spettatore. Non mancano i riferimenti ad altri film del camaleontico regista, in particolare a L’uomo col cilindro. Infatti, in una scena viene mostrato alla protagonista un libro intitolato Luoghi arcani e misteriosi con l’immagine di Villa Rosa che campeggia sulla copertina (Villa Rosa è la location dove è ambientata la narrazione de L’uomo col cilindro). Altro riferimento al medesimo film è la camminata dei protagonisti sui binari morti.
Pur essendo una commedia, un filo di mistero percorre tutta la pellicola e annoda le morti di alcuni personaggi alla presenza di un fantasma, quello di Alessandro Appiani. Il finale è un piacevole colpo di scena. Come le location risultano appropriate al contesto, anche la musica si mostra funzionale, coinvolgendo lo spettatore e creando suspense. Ben curati i dialoghi. Ma a fare alzare l’asticella del livello qualitativo del lungometraggio è senza dubbio la bravura di tutti gli attori, specialmente dei giovani protagonisti Rosa Vairo e Matteo Mangiacotti, veri talenti naturali.
Giacomo Telera
AA.VV A cura di Alberto Figliolia, "Tifosi interisti per sempre"
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AA.VV – a cura di Alberto Figliolia
Tifosi interisti per sempre
Il grande racconto della passione nerazzurra
Edizioni della Sera, 2022 - Euro 14- pag. 160
www.edizionidellasera.com
Alberto Figliolia raduna attorno a sé un gruppo di scrittori innamorati della grande Inter, praticamente due squadre al completo, ben 22 autori, oltre lui stesso nelle vesti di allenatore - giocatore. Tra gli autori dei racconti citiamo Claudio Agostini, Federico Zanda, Giovanni Marrucci, Nicola Colombo, Lorenzo Meyer, Francesco Rota, Giulio Ervino, Albert Borsalino e un grande prefatore come il centravanti Renato Cappellini. Luigi Garlando scrive: “È dallo stile, dall’eleganza del cuore che si riconoscono gli interisti. Noi interisti siamo artisti pazzi, nati sotto la luna piena di marzo, ma il nostro cuore è una spugna immersa nel coraggio”. Come posso non dargli ragione? Sono interista da un lontano giorno del 1966 quando mio padre era in poltrona e bestemmiava per colpa d’un dentista che eliminava l’Italia dai mondiali d’Inghilterra. Sono interista dai tempi del mago Helenio Herrera che vinceva campionati e coppe, al cinema gli facevano la parodia sia Franco Franchi che Alberto Sordi, ma in campo non ce n’era per nessuno, altro che Mouriño! Sono interista da quando scalpitavo sin dal venerdì sera per andare la domenica con mio padre, pronto prima dell’alba in attesa del treno, a Firenze o a Roma per veder giocare Mazzola, Suarez, Jair e Vieri. Sono interista da sempre, anche se perdiamo con il Bologna per colpa d’un portiere che non raccoglie un passaggio, anche se non vinciamo campionati per anni, insomma, non sono juventino, il nerazzurro è una fede. Pure la squadra della mia città (Atletico Piombino) indossa identica maglia e fa parte - proprio come l’Internazionale di Milano - dei miei amori inossidabili. Il libro è una raccolta di racconti, l’impostazione è sentimentale, si viaggia sulle ali del ricordo, con un pensiero unico espresso a più voci, guidate da un direttore d’orchestra come Alberto Figliolia, che lega i ricordi con il filo sottile della nostalgia. Renato Cappellini firma l’introduzione, la sua figurina Panini è una mia personale madeleine, me lo ricordo con la maglia della Roma, del Varese, persino del Como e della Fiorentina, ero un bimbo quando segnò un gol al Real Madrid, vestito di nerazzurro, in Coppa dei Campioni. Alberto Figliolia lo conosco come esperto di calcio e di basket, critico letterario, giornalista sportivo, persino poeta (ottime le sue liriche nel mondo dello sport), ma in questo lavoro è anche ottimo selezionatore di talenti. I racconti ci portano a spasso nel tempo, fanno conoscere stagioni diverse della nostra Inter, ci ricordano che ha vestito la gloriosa maglia anche Vastola, non solo Meazza, Skoglund, Facchetti, Sarti, Burgnich, Lorenzi … Tifosi interisti per sempre è un libro che non può mancare nella biblioteca del tifoso nerazzurro, bello sin dalla copertina a colori che raffigura Spillo Altobelli, palla al piede, pubblico in dissolvenza, il centravanti che mi porta indietro nel tempo alla riscoperta della giovinezza.