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Sergio Camellini, "Opera Omnia"

4 Febbraio 2023 , Scritto da Michele Miano Con tag #michele miano, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

 

OPERA OMNIA,  2° edizione di SERGIO CAMELLINI

con prefazione di Michele Miano

 

 

 

 

Non è facile affrontare il discorso poetico e umano di Sergio Camellini, autore prolifico e che ha scoperto la vocazione letteraria in età matura. La sua ricerca poetica originale e personalissima si radica in un fondamento antico ma sempre nuovo: il rapporto profondo che lega il proprio io nella più intima coscienza percettiva individuale alla coscienza di un universo tutto inteso come il topos assoluto e naturale della poesia.

Il suo percorso letterario e umano è una sorta di un lungo  “viaggio tra gli uomini”,  e così può essere parafrasato il messaggio di Sergio Camellini, che con Opera Omnia in seconda edizione ampliata nella collana il Pendolo d’Oro intende suggellare un florilegio della sua migliore produzione letteraria e affidare a futura memoria le pagine più significative del suo messaggio. La sua poesia porta in sé il raro dono dell’immediatezza, che si spinge oltre il dato reale e oltre l’attitudine figurativa, per farsi voce delle cose più semplici. Sergio Camellini vive la sua odissea, scruta la caducità dell’uomo contemporaneo spesso condizionato dai falsi miti della civiltà tecnologica, alla quale il poeta antepone le cose più semplici e genuine della vita.  Lo fa con passo certo e convinto di uomo che umilmente sa indagare in profondità negli abissi della coscienza, nei suoi misteri e contraddizioni.

Il suo universo poetico si affaccia su realtà minori, narrato con voci e colori quasi fanciulleschi, fondendo nei versi uno stupore e un’atavica saggezza in un’atmosfera che sa di perduto e rarefatto. Ma fare poesia per Sergio Camellini non consiste solo in questo. Il messaggio deve contenere i valori più intimi della vita e dell’esperienza umana con tutte le sue contraddizioni. Nella meditazione, nella densità dei concetti egli vive la propria odissea di uomo, di sensibile  cronista della propria storia. La poesia di Sergio Camellini rivela anche la preoccupazione per quanto dell’uomo rimane, di ciò che egli ha vissuto e sofferto nell’iter terreno e comprende che solo l’opera letteraria in chiave di creazione spirituale può continuare a vivere dopo l’annientamento fisico. Una poesia intesa come meta-realtà che trascende il dato reale per approdare a una visione più ampia. La realtà di una civiltà agreste, contadina, calata in una dimensione a sé, che resiste in un tempo circolare in cui c’è ancora spazio per un “altro vivere”, in simbiosi con la natura, con la logica del cuore e della famiglia. Un mondo dimesso e dipinto quasi con tocchi naïf, popolato da figure come sospese, prende forma nella semplicità del tessuto compositivo: versi brevi, ritmati, con una sintassi piana, rinvigorita dall’immediatezza del lessico e degli aggettivi, resa scattante dal rapido susseguirsi dei verbi che offrono consistenza visiva alla narrazione. Il mondo contadino, degli antichi mestieri, con le sue dure leggi, l’innocenza e la memoria del tempo perduto, il mito del falso progresso, la disumanizzazione e l’alienazione della società ipertecnologica diventano alcuni delle coordinate letterarie più significative della sua ispirazione.

Tale poesia trova la migliore espressione nella ricchezza e varietà dei temi che la ispirano: il sentimento della natura, l’umana solidarietà, il tempo che fugge, la condizione umana, la memoria, l’amore, gli affetti familiari, il significato stesso della vita. Ma il mondo tanto cantato da Camellini non è chiuso in un orizzonte di melanconia, né rifiuta il tempo della storia e del presente: anzi li lascia penetrare con dolcezza, temperandone certi aspetti con filtri quasi da fiaba e con immagini tratte dall’ambito familiare o naturale, che decodificano la storia in un linguaggio quotidiano, capace di aderire al vissuto di questo mondo. Come dire, reinterpreta con la sua sensibilità gli eventi e i fatti del vissuto quotidiano. Così gli interrogativi sul mistero e sul senso della vita s’incarnano nella lirica Uomo, dove sei? (da Nel corpo, un soffio dell’anima, 2013): «Eri presente: / abitudini e gusti, / costumi e strutture, / cultura, / idee creative, / modi di essere / di pensare / di amare, / conoscenze e sentimenti. // Ora latiti: / ove il gravoso / retaggio infruttifero / del passato, / divenuto / bagaglio archeologico, / t’adombra. // Uomo, / dove sei?» o nella figura angelicata della donna, spesso dimenticata dalla letteratura contemporanea per cui: «…La sola ricompensa / diretta / che tu possa ricevere / è l’emozione / d’essere mamma, / è l’amore per i figli / è la gioia di donare» (L’essenza di quel sentimento, da Il pianeta delle nuvole rosa, 2014).

La famiglia e la natura, dunque come estremo raccordo fra una realtà sempre più sfuocata, che continua ad essere proposta nel suo incanto, e la nuova realtà della cronaca con i suoi tempi accelerati fino alla disgregazione totale. Sergio Camellini rimane sempre fedele a se stesso, fin dai suoi primi volumi. E lo fa con passo umile, schietto, senza particolari pretese, psicologo clinico di professione che ha affrontato per decenni il dolore e le vicissitudini dei propri pazienti, approdato alla poesia in età matura e non casualmente, portavoce di un mondo e di valori in cui tutti ci specchiamo: una poesia della coscienza per la quale l’uomo acquisisce una rigenerazione interiore di ciò che siamo stati, da salvaguardare per non sprofondare nell’oblio di una civiltà consumistica e superficiale. Il punto di forza della scrittura di Camellini è nella purezza della sua ispirazione artistica che la rende sempre attuale e sincera.

Molte sono le liriche dedicate a madre natura; impossibile elencarle tutte; a titolo esemplificativo: «Che bella la natura / con canti e linguaggi, / nel pentagramma musicale / degli uccelli…» (I cantori dell’universo, da Lasciami di te un’emozione, 2021). Significativa una poesia  dedicata alla luna: «… Dipingi l’aria / di soavi colori / e trasformi / in un battito d’ali / il broncio del dì…» (Il mio canto alla luna, da I colori della fantasia, 2021). «Ecco la primavera / dei sentimenti, / tempo di mistero / di rinascita e splendore; / il sogno che / riconquista i suoi colori, / i suoi profumi, i suoi sapori, / la sua energia vitale…» (Ecco la primavera, da Ascolto i silenzi, 2021).

Ancora da La valle, estate e autunno: «La valle, / dai campi / fertili e fioriti / ove le farfalle / danzano col vento, / si fa ubertosa / di messi dorate / trapunte / dallo scarlatto / dei papaveri…» (lirica edita in Madre natura è vita, 2019). Una natura viva e palpitante, in perenne bilico tra uomo e natura e in questo felice compenetrarsi si rivela il senso ma anche il mistero  delle cose. Poesia intimista animata da istanze memoriali e affetti, pregna di emotività, carica di colori e sentimenti.

Camellini canta la pagina della vita di noi tutti: una cronistoria di eventi in un turbinio di pagine da cui trarre il vero significato e il modus vivendi. Si legga la lirica Il tema della vita (da Ponte dei sogni, 2017): «Anche il meno dotto / insegna, / anche il più umile / compone il tema / della vita. // Non esistono lavori / nobili o ignobili, / esisti tu / con le ricchezze / che ti porti dentro…». Il dono dell’umiltà, un valore sempre più raro in una realtà sempre più costellata da egocentrismi. Il lavoro come strumento di emancipazione dell’uomo, ma in una prospettiva di benessere sociale per la collettività e non di affermazioni egocentriche che schiacciano e umiliano i più deboli. Il lavoro che offre una dignità per tutti. E dalla raccolta Bagliori (2015) si legga la poesia È vivere, sei tu: «La felicità / cercala in un sorriso, / nel prolungamento / dell’ombra / d’un fiore, // nella semplicità / della natura, / nella mancanza / di dolore, // è solo quella / che sei in grado / di comprendere…».

Ecco l’amore e la passione di Camellini per gli antichi mestieri: per quei mestieri difficili, logoranti, in via di estinzione ma ricchi di umanità perché espressione di un mondo contadino. Da bambino si soffermava a osservare i lavoratori dei campi e delle botteghe, calzolai, fabbri, ceramisti, fornai, dimostrando anche una sensibilità di uomo e poeta, esplorando le vicende umane.

Il poeta non disdegna le accuse sulle lacerazioni sociali che affliggono il nostro mondo: l’egoismo, l’egocentrismo, l’arrivismo, l’indifferenza ai problemi altrui.  Si legga a titolo esemplificato la lirica Quel puntino dell’uomo: «Quel puntino dell’uomo / scritto a matita / che vive / nell’immenso, / dalla cruda realtà / dei diseredati / all’ostentata opulenza / degli abbienti, / due mondi a confronto / mentre le tragedie / s’incrociano, / l’odio che scalfisce / l’animo / dia strada / all’oblio, / non si cancelli / quel puntino / fu vergato solo / per amore» (da Tra le righe del pensiero, 2018).

Un uomo come Sergio Camellini non può rimanere insensibile e turbato dai soprusi, dalle guerre, dalle violenze e dagli accadimenti tragici dell’ultimo periodo storico, e la sua voce si innalza dal magma vulcanico dei crudi interessi umani, una voce che trova nel verso il proprio testamento spirituale ma anche un messaggio di speranza per le nuove generazioni.

Con la raccolta Il pianeta delle nuvole rosa (2014) l’autore pone l’accento sulla condizione del presente e del passato della donna. L’opera infatti si apre con un testo estratto dalla lettera di papa Giovanni Paolo II alle donne: nessuno infatti più di lui ha compreso l’importanza dell’universo femminile che si incarna in madre, moglie, sorella, nonna. La donna focolare della famiglia, il centro dell’amore che genera il mondo. Camellini è consapevole di trovarsi davanti alla angelicata creatura e ne esalta le virtù. Si legga la significativa La melodia della donna: «La raffinata melodia / della donna / non conosce / intemperanze, / né toni sbracati, / ma la grazia / dei sentimenti / e il fare gentile, / che caratterizzano / la femminilità, / non per soggiacere, / ma per mostrare / l’orgoglio d’essere / donna». Un percorso difficile, una dignità conquistata a fatica nei millenni e ancora in equilibrio precario e vacillante. In questa fase l’autore avverte un certo disagio esistenziale, una protesta e rabbia non sempre decifrabili per l’ineluttabilità del dolore delle vicende umane.

Ma è l’accorato grido di speranza che fa di Camellini il “poeta della fiducia nel prossimo”, come sottolinea nella lirica Abbiamo bisogno di voi, bimbi (del nostro domani) nella raccolta Ponte dei sogni (2017): «In questo mondo / intriso / di tristezza, / abbiamo bisogno / di voi, / della vostra allegrezza. / È carezza. / In questo mondo / permeato di dolore, / abbiamo bisogno / di voi, / del vostro calore. / È amore…». Ed è cosa rara nel panorama di sfiducia e pessimismo che spesso attanaglia la nostra vita, trovare una voce così fiduciosa, proiettata verso gli ideali del bello e della positività.  

Suggestiva la lirica I colori della fantasia tratta dall’omonimo volume 2021: «I colori danzano / tra sfumature / cromatiche d’un sogno / inni alla beltà, / sono spettacolari / catalizzatori / della fantasia / per l’umanità, / la loro percezione / tattile / si sente, si vede, si vive... / A qualsivoglia età».

Camellini ama la vita, soprattutto il suo significato profondo. La poesia diventa amore: «… respirare insieme / il profumo del sentimento / in un abbraccio / e i battiti del cuore, / è il magnetismo / degli esseri / quando la poesia / diviene amore» (Quando l’amore, da Lasciami di te un’emozione, 2021).

Al sentimento dell’amore il poeta ha dedicato il volume Tenero è l’amore (2017), un breve florilegio di poesie, edito da questa Casa Editrice. E per dirla come S. Agostino «l’amore è tutto», quel mistero meraviglioso per cui «…Sia sempre in voi la radice dell’amore, / perché solo da questa radice può scaturire l’amore» (S. Agostino). Il messaggio letterario di Sergio Camellini assume così un valore di amore universale, nella serena convinzione che siamo di passaggio in questo mondo perché «Non esiste povertà peggiore che non avere amore da dare» (Madre Teresa di Calcutta).

Michele Miano

 

 

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L’AUTORE

Sergio Camellini è nato a Sassuolo (Mo), vive a Modena; è psicologo clinico. Studioso di arte povera della civiltà contadina e dei mestieri, fin da piccolo si è soffermato a rimirare i lavoratori dei campi e gli artigiani nelle botteghe: calzolai, fabbri, ceramisti, sarti, fornai, mostrando interesse per tutti coloro che erano dotati di autentica creatività. Ha fondato sull’Appennino modenese un “Museo d’Arte Povera della Civiltà Contadina”, mondo da cui ha tratto l’ispirazione poetica. Ha pubblicato varie raccolte di poesie conseguendo molti premi e riconoscimenti.

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Sergio Camellini, Opera Omnia, II edizione, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 188, isbn 978-88-31497-97-8, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

 

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Dalla finestra

3 Febbraio 2023 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

 

 

 

In una fredda e ventosa mattina, un uomo, sospirando malinconicamente, si mise a scrutare fuori dalla finestra.

Quando il vento si placò, apparve un sole potente quanto fulgido che irradiò il giardino, rendendo l'esterno suggestivo e incantevole. Caterina era lì che passeggiava in quella paradisiaca area verde a godersi la piacevolissima giornata.

«Diego!» lo chiamò lei con dolcezza, allungando la mano per invitarlo a uscire e a raggiungerla.

La sfolgorante mattinata durò poco poiché iniziò a piovere copiosamente. Caterina, incurante, si mise a ballare leggiadra come una farfalla. 

«Dai, vieni. Cosa stai aspettando?» lo esortò ancora con un maggiore coinvolgimento. 

Diego sorrise, ma una dolorosa fitta al cuore e il gomito dolorante incatenato a un anello di metallo attaccato al muro, lo ripiombarono nell'amara realtà. 

In un rapido flashback rivisse nuovamente gli eventi di quella tragica domenica: il rifiuto di Caterina, la cocente delusione, un grosso sasso con il quale le aveva fracassato la testa, il cui sangue colava lungo la camicetta viola, e il cadavere adagiato tra i fiori del parchetto della sfarzosa hacienda.

In una gelida e ventosa mattina, un uomo, sospirando malinconicamente, si mise a scrutare fuori dalla finestra sbarrata di una squallida cella sudamericana.

 

 

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The Legionary

2 Febbraio 2023 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

 

 

 

Verso la fine di marzo del 2021, dopo sei mesi in lista di attesa, mi chiamarono dall'ospedale Papardo di Messina per operarmi di settoturbinoplastica, un'operazione finalizzata al riallineamento del setto nasale, alla correzione dei turbinati e l’asporto dei polipi, un trattamento chirurgico necessario per una corretta respirazione. L'intervento venne gestito da un chirurgo dall'indubbia professionalità e da un'equipe preparata; tuttavia, l’anestesia totale praticamente mi sfibrò.

Dormii moltissimo, malgrado qualche difficoltà, poiché le cavità nasali risultavano ostruite dalle medicazioni, per non parlare dei frequenti mal di testa. Gli infermieri e gli O.S.S. si presero cura di me in maniera attenta mostrando cortesia ed empatia, peraltro mi si offrii l'occasione per comprendere cosa si prova a essere un assistito, visto che da anni a livello professionale esercito in qualità di Operatore Socio Sanitario.

In quella settimana di degenza, a causa delle restrizioni legate alla pandemia causata dal Covid-19, l'accesso ai visitatori era stato sospeso, pertanto mi dovetti accontentare di utilizzare il cellulare, sia per le chiamate che per la messaggistica. Ricevetti l'affetto, la solidarietà e il sostegno da parte della mia fidanzata, della mia famiglia, dei parenti, dei colleghi e di Enrico, il mio migliore amico.

A Enrico, oltre le dovute risposte e le considerazioni riguardanti l'intervento, in forma esclusiva inviai un selfie in cui giacevo sul letto tenendo il pollice rivolto verso l'alto. Avevo l’espressione stravolta, il naso gonfio come quello di un orco e gli occhi comatosi. Nell'autoscatto allegai la seguente frase: --- Non sono allettante, tutt'al più allettato. ---

Il mio carissimo amico, tramite WhatsApp, riempì il display del mio dispositivo di faccine sghignazzanti, per poi scrivermi che in realtà si dispiaceva di sapermi in quello stato, tra l'altro esternando ammirazione, dal momento che ero riuscito ad affrontare l'operazione con uno spirito battagliero, conservando al contempo il proverbiale humour. 

L'indomani, Enrico mi comunicò che mi aveva dedicato un brevissimo racconto, intitolato The Legionary, e che desiderava inviarmelo in formato DOCX sul mio Android nel primo pomeriggio. Appena mi fece pervenire il file, lo aprii e lo lessi con estrema attenzione, trovandomi impossibilitato a descrivere le sensazioni ricavate.

Ad Enrico mostrai stupore, gratitudine e stima. Mi rispose che mi considerava un legionario di quelli tosti, oltretutto traendone uno spunto per ricollegarsi ad altre mie schiaccianti vittorie, inerenti difficili vicissitudini e svariate tribolazioni.

Successivamente gli mandai un messaggio audio con voce roca, in quanto mi sentivo debilitato.

--- E pensare che mi sono sempre identificato in un Cavaliere.

Aspé, non intendo dire un Cavaliere della Tavola Rotonda, ma bensì un Cavaliere della Tavola da Pranzo. ---

Cari lettori, ho deciso di includere The Legionary in questa pubblicazione avendo avuto il permesso di Enrico, grande autore e grande amico.

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The Legionary

 

Stava disteso a terra, logorato nel corpo a causa della pesante armatura e il volto ricoperto di fango. Lo scontro era stato duro, l'alluvione aveva sconvolto i piani operativi causando tantissime perdite tra gli assedianti e gli assediati. Nonostante le estenuanti difficoltà, Flavio Giuseppe partecipò all'assedio di Varanga con fierezza e determinazione. Fu proprio grazie a lui che l'ariete riuscì ad abbattere le robuste porte della fortezza. Col cammino spianato, penetrò ed espugnò la piazzaforte nemica, fino a issare alto nel cielo lo stendardo raffigurante un'aquila d'argento.

«È fatta!» pensò, chiudendo gli occhi con un sorriso soddisfatto.

In futuro, molte altre battaglie lo avrebbero atteso. Ma per il legionario, era il momento di riposare.

 

 

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Lo specchio della bisnonna

1 Febbraio 2023 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

 

 

 

Da bambino, ogniqualvolta andavo a trovare mia bisnonna materna, provavo un senso di angoscia, in quanto ritenevo che nella sua abitazione dimorassero gli spettri. Alcune stanze in particolare avevano il potere di esercitarmi una suggestione brividosa.

Ricordo perfettamente ancora oggi la sua ombrosa camera da letto dall'arredamento in vecchio stile, tra cui un’antica toletta in mogano dal grande e terrificante specchio. Malgrado ciò, qualche volta mi prodigavo a specchiarmi e a fare le linguacce oppure a imitare le mosse dei Power Rangers, i quali rappresentavano i miei idoli d'infanzia.

Nel tardo pomeriggio di un giorno d'estate accadde un episodio degno di nota.

«Se fissi a lungo lo specchio, potrai vedere un fantasma» mi disse la bisnonna, entrando di soppiatto nella camera da letto tanto da farmi trasalire.

«Come c'è finito?» le chiesi intimorito.

«Sai, siccome l'altra notte non mi lasciava dormire, dopo averlo sgridato, si è rifugiato dentro.»

Uscii, correndo fuori da quella stanza e, con un'espressione spaventata, lo raccontai ai miei famigliari che in quel momento erano in soggiorno seduti su un logoro divano in pelle. I miei genitori ridacchiarono mentre Concettina, mia sorella minore, rabbrividì strabuzzando gli occhi. 

In serata, appena rincasati, provai a chiamare il 555-2368, il numero dei Ghostbusters. Ci rimasi male, poiché i vari "tu-tu-tu” suggerivano che non mi avrebbe mai risposto nessuno.

 

 

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Natsume Soseki, "Kokoro, il cuore delle cose."

30 Gennaio 2023 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni

 

 

Kokoro, il cuore delle cose

Natsume Soseki

1914

 

 

Kokoro (titolo originale del romanzo) in giapponese come ideogramma o kanji rappresenta sia la mente sia il cuore, significa perciò un ideale equilibrio tra parte razionale e parte emotiva. Questo stato di serenità è ciò che manca al Maestro, uno dei co-protagonisti di questa storia, tutti senza nome, in quanto più figure archetipiche che veri esseri umani. Il Maestro, adulto ma certamente non anziano, fa amicizia con il Ragazzo. È un uomo taciturno, riservato, enigmatico nelle poche risposte che dà. Ha una moglie con cui ha un rapporto affettuoso ma certamente non passionale, ogni mese va solitario a visitare la tomba di un misterioso K, non lavora e non si espone al mondo. Citando lui, e probabilmente lo stesso Soseki, uomo dilaniato interiormente, "La solitudine è il prezzo che dobbiamo pagare per essere nati in questa epoca moderna, così piena di libertà, indipendenza, ed egoistica affermazione individuale". Quando il Ragazzo deve lasciare Tokyo per assistere il padre morente, il Maestro gli chiede di tornare a visitarlo perché deve parlargli. Ricevendo un rifiuto data la gravità della situazione, il Maestro gli confiderà a mo' di testamento quel passato per lui tanto doloroso che lo ha reso l'uomo schivo e appartato che il giovane ha conosciuto. La spiegazione del titolo e della vicenda è tutta nella lunga lettera finale: senza svelare dettagli, il Maestro era rimasto deluso dagli esseri umani in gioventù per un tradimento subìto, proponendosi di non fidarsi più di nessuno e, a suo modo, ergendosi a modello esclusivo di perfezione rispetto al resto del mondo. Rendersi conto pochi anni dopo che la fragilità appartiene a tutti quando entrano in campo le emozioni, e che lui stesso si macchia del medesimo peccato di tradimento, stavolta però assai più grave perché ne consegue una tragedia, determina il suo appartarsi dalla società. Lo squilibrio di quest'uomo deriva da una predominanza della parte razionale, arrogante come ogni ego, che non solo pensa di restare esclusa dalla debolezza umana, ma in un delirio di onnipotenza si convince di essere responsabile di un gesto terribile commesso dal suo amico, amico che probabilmente sarebbe comunque andato incontro al suo destino. Il suo cuore, che non accetta la sua parte oscura, e quindi non la integra, non gli permette di entrare in contatto col mondo esterno, di riflettersi, di osservarsi, lasciandolo in uno stato di sterile permanenza contro natura, tanto che, nonostante sia sposato da anni, mai è riuscito a concepire un figlio con la moglie. Nel ragazzo egli vede una versione più giovane, fresca e pura di sé stesso e quella lettera finale funge quasi da autoanalisi liberatoria in cui egli finalmente confida a qualcuno di fiducia il suo dramma, per aiutarlo a capire, almeno in minima parte, ciò che siamo come esseri umani. Il concetto di kokoro, a lui negato per sua indole tutta la vita, che possa appartenere al giovane affinché egli sia più prono a perdonarsi e quindi perdonare se stesso.

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Maurizio Zanon, "Fralezze"

29 Gennaio 2023 , Scritto da Raffaele Piazza Con tag #raffaele piazza, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

 

Fralezze

Maurizio Zanon

 

Maurizio Zanon è nato nel 1954 a Venezia dove attualmente risiede.

La breve silloge del Nostro, che prendiamo in considerazione in questa sede, contiene altrettante brevi liriche che assemblandosi tra loro come tessere di un mosaico o fili di un tessuto potrebbero costituire, anche per il fatto di non essere scandite un poemetto anche per l’unitarietà formale e contenutistica.

Come scrive Enzo Concardi nella prefazione, con Fralezze Maurizio esprime la sua visione della vita, ovvero l’effimero esistenziale della condizione umana. L’osservatorio da cui scruta il mondo è ora quello della vecchiaia e il richiamo autobiografico d’una corsa che va verso il capolinea è costante, pur alternando negli esiti lirici, stati d’animo fatalistici e crepuscolari ed altri speranzosi e valoriali.

In Memorie, primo componimento della raccolta, leggiamo nell’incipit:  «Ricordo il caldo del focolare / sciogliersi nel profumo di polenta / la neve sgocciolare nelle notti / cariche di stelle, oppure l’estate al mare / dove mettevano le ali i miei sogni. / E ancora i giorni dell’infanzia / quando si rincorrevano le farfalle…». Nei suddetti versi si respira l’aria di una sinfonia domestica, per usare una metafora musicale, e non si avverte il dolore di un rimpianto che sarebbe uno gemersi addosso ma invece emerge dalla chiarezza e dalla luminosità, nonché dalla bellezza e dalla precisione del dettato, una riattualizzazione di un tempo passato eticamente di segno positivo perché oltretutto è salutare discendere con la memoria nei meandri dell’infanzia, dell’adolescenza e della vaghezza di un tempo passato, salutare per l’anima e per il corpo e del resto praticare o anche leggere la poesia fa bene anche tramite la fusione di conscio e inconscio che porta all’equilibrio mentale e spirituale all’armonia e all’equilibrio in tutto anche nel tran tran della vita quotidiana.

Bello il verso «mettevano le ali i miei sogni» e oltretutto i sogni stessi sono generatori non solo di poesie ma anche di musiche e dipinti, quadri con i loro misteri. Il poeta maturo rivive i giorni in cui si rincorrevano farfalle e queste ultime divengono espressioni di pensieri volanti di voli della mente nel librarsi verso spazi siderei da paragonarsi con la dovuta cautela agli spazi infiniti leopardiani.

Zanon scrive nella lirica Poeta? «non dirmi poeta / io non so lavorare bene la seta» dichiarando la sua identità con una dichiarazione di modestia. La suddetta dichiarazione fa venire in mente i versi del crepuscolare Corazzini che dichiarava: «non sono un poeta, sono un bambino che piange».

In La terapia  - e qui si torna ad uno dei discorsi precedenti - il poeta scrive che la poesia stessa l’ha salvato da cose futili e questo dimostra ulteriormente la forza catartica della poesia stessa che è pensiero divergente contro la liquidità e l’alienazione del nostro tempo: «Ciò nonostante / in ogni bisognoso istante / la poesia mi ha aiutato / da cose futili mi ha salvato».

Diviene tout-court un esercizio di conoscenza questa scrittura che ha forse un’impronta vagamente minimalistica e che è sicuramente neolirica e originale nel dono di una pace che produce nel lettore emozionandolo.

Raffaele Piazza

 

 

 

Maurizio Zanon, Fralezze, prefazione di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 68, isbn 978-88-31497-96-1, mianoposta@gmail.com.

     

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ALCYONE 2000 Quaderni di poesia e di studi letterari, vol. 16, 2022

24 Gennaio 2023 , Scritto da Enzo Concardi Con tag #enzo concardi, #recensioni, #poesia, #riviste, #riviste letterarie, #saggi

 

 

 

ALCYONE 2000

Quaderni di poesia e di studi letterari, vol. 16, 2022

 

 

Mi si consenta di iniziare questo lavoro con la citazione di un professore incontrato nella Scuola Media Superiore, il quale ripeteva spesso questo avvertimento: «Un libro s’inizia a leggere dall’indice». Col trascorrere degli anni capii sempre di più la verità di tale sua affermazione, che da giovane mi era apparsa banale. Se la applichiamo alla Rivista pubblicata dalla Casa Editrice Miano, Alcyone 2000, veniamo a scoprire immediatamente gli argomenti trattati: essa ha sì la denominazione di rivista o di quaderni ma, date le sue dimensioni (135 pagine), può essere benissimo paragonata ad un libro. Non è certo la quantità a stabilire il suo valore culturale, ma se si scorre il ricco indice posto non casualmente come incipit, si ha la cognizione esatta dei contenuti qualitativi: Guido Miano. L’uomo, lo scrittore, il poeta, l’editore (è la parte speciale dedicata al fondatore della Casa Editrice, recentemente scomparso); Contributi letterari (poesia religiosa-esistenziale e poesia di impegno etico e civile); Testimonianze (giornalismo e David Maria Turoldo, del quale si parlerà più avanti); Pittura e scultura (il parallelismo delle arti, con esemplificazioni in questa recensione sugli scrittori-pittori Filippo Pirro e Fabio Recchia); Sillogi poetiche (delle quali commenteremo Gabriele Centorame e Maria Luisa Mazzarini); Itinerari di letteratura comparata: saggi critici (confronti tra autori contemporanei e autori italiani e/o stranieri vissuti fra Otto-Novecento); Itinerari di letteratura contemporanea (alcuni autori della Casa Editrice).

 

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Dal suddetto quadro generale si evince che i volumi di Alcyone 2000 sono caratterizzati principalmente dall’ospitare contributi di critica letteraria a largo raggio, divenuti quindi la specializzazione di quello che può considerarsi un vero e proprio progetto editoriale-culturale. L’utilità di tale orientamento è innegabile, in quanto la critica letteraria permette al lettore di avvicinarsi ad ogni autore con chiavi di lettura che svelano il suo mondo interiore, i significati delle opere e di entrare in possesso di dati informativi preziosi per la comprensione approfondita del contesto storico-sociale in cui è avvenuta la genesi creativa. In particolare richiamerei l’attenzione sui saggi di letteratura comparata, una branca della critica letteraria poco sviluppata nella cultura italiana, ma assai interessante e valida, poiché si basa su confronti, accostamenti, similitudini, assonanze estetiche e contenutistiche fra autori e scuole di pensiero appartenenti ad epoche e correnti per taluni aspetti affini e per altri distanti. Invita anche alla visitazione di voci straniere che hanno influito sullo sviluppo della letteratura nazionale: esemplificando, in questo numero della rivista, vi sono, tra gli altri, rimandi a Paul Claudel per la poesia di ispirazione mariana; a Emily Dickinson (teorie creazionistiche); a Jacques Prévert (poesia amorosa); a Edgar Lee Masters per le tematiche della marginalità sociale ed esistenziale… Inoltre tali quaderni sono arricchiti da inserti a colori di notevole pregio editoriale dedicati a pittori e scultori, realizzando così quel parallelismo delle arti da più parti auspicato, che produce una comunicazione e uno scambio fra artisti delle varie discipline e fruitori delle loro opere: si viene così a scoprire l’eclettismo di un personaggio come Filippo Pirro – poeta, scrittore, pittore, scultore, grafico – o la sensibilità pittorica e poetica di Fabio Recchia, tra paesaggi delicati ritratti sulla tela e rime di alta spiritualità.

La figura di Guido Miano è ricordata in primo luogo dal figlio Michele: Lettera a mio padre Guido. È un testo di carattere autobiografico che ripercorre le tappe fondamentali non solo dello sviluppo della Casa Editrice, ma che esprime anche alcuni momenti salienti del rapporto padre-figlio, talora con toni di gratitudine, talaltra con accenti affettuosi e commossi per le cose non dette e i silenzi degli ultimi tempi. Michele rammenta la fondazione della Casa Editrice in Sicilia nel 1955, poi traferitasi a Milano. Nella metropoli lombarda il giovane Michele segue il padre Guido nel suo lavoro: conosce redattori e giornalisti; collabora nel rileggere i testi degli autori; s’immerge nel mondo delle tipografie che lo affascinano per gli odori acri e il rumore delle rotative; talvolta lo accompagna nelle visite a scrittori ed artisti per mantenere vivo il rapporto umano tra persone innamorate dell’arte, concependo il lavoro come una missione, citando Marc Chagall (“Il mio lavoro è preghiera”); ed ancora le frequentazioni degli ambienti universitari, delle biblioteche, dei centri culturali, per finire con il Centro Sperimentale di Giornalismo, diretto per 40 anni dal padre nei locali milanesi della Casa Editrice. È stato lui, Guido, a fargli scoprire la lettura, iniziata con i libri d’avventure di Salgari e Verne. Il fascino esercitato su di lui dal padre e dalla sua professione è stato così determinante che a 7 anni scrisse una letterina in cui sognava di fare, da grande, lo stesso mestiere: questo scritto è stato ritrovato dal fratello Carmelo in un vecchio baule, come succede nelle più belle favole: il testo si chiude con la promessa di continuare l’opera paterna, con la speranza di esserne all’altezza.

Il successivo contributo è firmato dalla Famiglia Miano e riguarda La storia della Casa Editrice. Un’avventura iniziata nel 1951 in Sicilia col periodico “Davide, rivista sociale di lettere e arti” ad opera di Alessandro e Guido Miano. Una pubblicazione interdisciplinare di ispirazione cristiana in dialogo con la cultura laica. Nel 1955 nasce la Casa Editrice Guido Miano con sede provvisoria a Catania e poi definitiva a Milano. L’attività è subito intensa e cresce con gli anni: oltre ai testi poetici dei singoli autori, nascono collane antologiche, come Scrittori italiani del Secondo Dopoguerra, in più edizioni. Vedono poi la luce opere dedicate alla pittura e alla scultura tra cui: Lexicon dell’Arte italiana; Documenti di Architettura e Arte; Arte nella Svizzera Romanda. Già nel 1957 prende l’avvio il Corso Biennale di Orientamento Professionale di Giornalismo, unico nel suo genere a Milano, che ha visto la frequentazione di centinaia e centinaia di studenti seguiti da docenti specializzati. Testi fondamentali stampati in tale ambito sono stati tre libri di Giorgio Mottana: Il giornalismo e la sua tecnica, Il mestiere del giornalista, Professione giornalista. In seguito appaiono anche libri di narrativa, musica e saggistica. A partire dagli anni  ‘90 ecco il Dizionario Autori Italiani Contemporanei e la Storia della Letteratura Italiana. Dal Secondo Novecento ai giorni d’oggi. Gli anni Duemila si caratterizzano per le collane poetiche dedicate alla letteratura comparata, tra cui Analisi poetica sovranazionale del terzo millennio e Poesia Elegiaca dei Maestri Italiani dal ‘900 ad oggi. L’avventura continua – recita il testo - “con il passaggio di consegne alla  moglie Elena e i figli Michele, Carmelo e Laura da sempre presenti nella Direzione della Casa Editrice”. Riguardo a Guido Miano scrittore sono da segnalare le prefazioni e i saggi redatti per i suoi autori e – in tarda età – un libro di narrativa: Sulle tracce di Nausicaa. Lettere di consenso estetico rivolte a poeti italiani contemporanei (1999) e una silloge poetica: Lamento dell’emigrante (2017), la cui prefazione a cura di Franco Lanza è pubblicata su questo numero di Alcyone 2000. Fra le tantissime conoscenze, amicizie e collaborazioni citate a ricordo dei rapporti professionali ed umani intessuti da Guido Miano nella sua lunga mission per la divulgazione della cultura, ricorderei la reciproca stima con Mario Luzi (sulla rivista si può leggere la lirica Cosmografia improvvisa dedicatagli dal poeta toscano) e con Padre David Maria Turoldo, del quale la redazione di Alcyone 2000  ha scelto di pubblicare, come testimonianza della sua antica vicinanza, il brano Mia madre, già apparso sulla rivista Davide, n° 1-2 del lontano aprile-maggio 1957. 

 

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Per concludere questa recensione del n°16 di Alcyone 2000, mi pare interessante soffermarmi, seppur brevemente, su un paio di autori le cui liriche sono pubblicate nella sezione dedicata alle Sillogi poetiche, esemplificando così attraverso tali lacerti alcune espressioni di poesia contemporanea. Gabriele Centorame (Il sentimento della natura) filtra le voci del cosmo attraverso mediazioni metafisiche, surreali, memoriali nonché paesaggi metaforici rimandanti al destino umano, all’amore, alle dimensioni dell’infinito. Se nel nostro vivere i fiori appassiscono e muoiono, l’aridità e il dolore s’insinuano nelle anime, il male di vivere e la solitudine ci colgono nella consunzione del tempo… le forti rimembranze affettive, le suggestioni dei sogni, le radici identitarie, il calore dell’eterno e la cognizione dell’amore ci indicano vie d’uscita alle chiusure del presente. Maria Luisa Mazzarini (Di luce le mie parole d’acqua) pone alla base del suo canto la luce della Trascendenza, a cui apre il suo essere nel profondo desiderio di conoscere se stessa: una ricerca spirituale tesa agli ideali più elevati dell’anima, dell’amore, dell’abbraccio con la Terra e il Cielo. E si scopre peccatrice che ha dubitato, che non ha amato abbastanza, serva indegna ed inutile, ma pronta a superare ogni rimpianto per “ricostruire ogni volta, con più Amore”. 

Ognuno può trovare dunque, scorrendo le pagine della rivista, numerosi spunti, stimoli, approfondimenti, suggestioni, analisi di tipo culturale: ovvero quel cibo per la mente oggi quanto mai necessario in una società che tende sempre di più a preferire l’uomo consumatore invece che l’uomo libero pensatore.

Enzo Concardi

 

 

Alcyone 2000 – Quaderni di Poesia e di Studi Letterari, n°16; Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 136, isbn 978-88-31497-94-7, mianoposta@gmail.com.

 

   

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Michel Bussi, "Ninfee Nere"

21 Gennaio 2023 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni

 

 

 

 

Ninfee Nere

Michel Bussi

Edizioni E/O, 2022

 

Una cosa che non si può perdonare ad un giallo è che l'autore bari. Perché noi lettori, sotto sotto, vogliamo dare sfogo al nostro lato narcisistico e cimentarci nell'investigazione insieme al protagonista, per sfidarlo e, possibilmente, arrivare alla soluzione prima di lui. Quella è la vera goduria. Occorre quindi procedere ad armi pari: ciò che sa lo sbirro, devo saperlo anche io. E nello stesso modo. Poi starà a noi mettere insieme tutte le informazioni, setacciarle, capire quali sono importanti, quali buttate lì per sviarci (in questo per esempio la Christie era banale, qualunque cosa detta dal buon Hastings era una boiata volta a distrarci dalla retta via) ma soprattutto quali non collimano. Perché dalle discrepanze si può capire chi mente. E chi mente, si sa, ha qualcosa di terribile da nascondere. Nel caso di Ninfee nere, chi ha qualcosa da celare è Bussi, probabilmente la capacità di intrecciare una trama onesta con il lettore, visto che per tutto il romanzo ci propina una versione artefatta della storia, ovviamente senza dircelo. Per cui cambia i nomi, sta bene attento a non rivelarci dettagli che risulterebbero anacronistici alla lettura che lui ha infiocchettato per noi, ma soprattutto quando rivela il trucco lo spiega con un "eeeehhh ma si cambiavano il nome per gioco". Tra questo e il protagonista, l'ispettore Serenac, un Agente di Pubblica Frivolezza come lo chiamo io, uno che va ad indagare su un omicidio con giubbotto di pelle e moto e senza pudore si provola alla grandissima la moglie dell'unico sospettato, la quale mentre gli fa gli occhi dolci, gli cambia ogni tre per due la deposizione sull'alibi del marito e gli improvvisa un mezzo spettacolo di burlesque in commissariato, prima di dargliela con una sveltina in piedi sulla cattedra della scuola elementare dove lei insegna, così, tanto per non venir meno né al ridicolo né al buongusto, non si sa cosa sia più irritante nel romanzo. Serenac si rivela poi un precursore del ghosting in tempi pre-social e anche noi lettori veniamo mollati senza una spiegazione plausibile su questo fatto. Il finale iperglicemico corona un romanzo di cui si salvano solo le prime tre righe del geniale incipit. E l'assassino? Tranquilli che con un poliziotto così ha fatto a tempo a morire di morte naturale. Bocciato.

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Gabriella Veschi, "Imprevisti battiti"

20 Gennaio 2023 , Scritto da Enzo Concardi Con tag #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

 

Imprevisti battiti

Gabriella Veschi

 

 

Siamo di fronte ad una silloge poetica ad ampio raggio, i cui motivi spaziano da incantate contemplazioni paesaggistiche, a riflessioni esistenziali caratterizzate da chiaroscuri, specchio di un io inquieto in cerca di pacificazione e di un’attualità impregnata d’echi di ritornanti guerre frutto di scoppi d’irrazionalità folle; da incursioni in vissuti memoriali variegati da luci ed ombre, a visitazioni di tipo pittorico del tempo e della storia della sua città; da denunce di diritti violati, agli abissi dell’anima contemporanea. Da tutto questo magma ora incandescente, ora indifferente, emerge il messaggio della poesia come canto libero e sete di umanità rinnovata, giustizia ritrovata, innocenza desiderata. Si dipanano nelle quattro parti del libro – Vorrei, In agguato, La mia città, Follie di guerre – richiami al nostro destino mondano e ultraterreno, allarmi sulla perdita di radici e identità, contrasti tra bellezza del creato ed aggressività umana etero ed autodistruttiva. Ecco allora – dice la poetessa – che abbiamo bisogno di uscire dalla monotonia delle nostre esistenze, per ascoltare e seguire nuove emozioni che ci fanno sentire vivi, ovvero quegli imprevisti battiti posti come titolo alla presente raccolta: «Ripetersi ogni giorno / fino alla noia / nei quotidiani gesti / uguali a se stessi. // Desideri repressi / nel magma / di una vita sfiorita / ma palpitante ancora // di imprevisti battiti» (Noia). Dunque dal taedium vitae al sursum corda.

È soprattutto nella prima parte che brillano le perle del suo lirismo naturalistico. Infatti la poesia che fa da incipit ai testi esprime una chiara immedesimazione con simboli che rappresentano la libertà senza confini, la metamorfosi dell’essere verso il volo onirico (il cervo ‘agile’ e ‘leggero’) e la pacificazione interiore che sconfigge la malinconia (il mare estivo ‘calmo e accogliente’): Vorrei è il titolo, praticamente sinonimo dei suoi sogni. Tra le altre composizioni in tema si segnalano: Nella notte, A Prévert, Tra la nebbia. Qui c’è una stella che con la sua luce abbagliante dirada le nebbie autunnali; poi subentrano le atmosfere ispirate alla nota poesia di Prévert (1900-1977) Le foglie morte, che la poetessa rivive tuttavia solo per l’aspetto simboleggiante la fralezza umana, tralasciando la memoria di un amore vissuto e perso, come nel poeta francese;  poi ancora ritorna la poetica della nebbia che ammanta le colline, resa con  immagini paesistiche invernali. Versi e strofe brevi, pennellate rapide ma colorite, sintesi talvolta metafisiche di una natura signoreggiante. Tutta tale bellezza potrebbe essere persa per colpa della mano distruttrice dell’uomo (Cosa rimarrà): nasce un grido di dolore per una probabile “apocalisse ecologica” futura. Talvolta l’autrice affianca agli incanti naturalistici meditazioni esistenziali di segno opposto, come «…una solitaria solitudine / tacita urla / il suo grido / in ogni angolo della vita» (Incanto) o come «…gialli girasoli illuminano / per un attimo / le vie della speranza» (Speranza): è l’altalena del vivere umano quotidiano.

Questo canone prosegue nella seconda parte e la occupa quasi interamente. S’affastellano gli aspetti negativi del disagio della civiltà (Freud) e del male di vivere (Montale): non senso e quotidiano grigiore; soffocamento e infelicità; menti confuse e insana follia; paura, smarrimento, angoscia del limite; essere nel nulla senza vie d’uscita; il mistero dei volti e delle maschere che ci fanno pirandellianamente uno, nessuno e centomila… Discesa agli Inferi è l’apice di tale alienazione, disumanizzazione, desertificazione della vita e dell’individuo contemporanei: lì si annidano ‘oscuri abissi’, ‘strade senza sbocco’, ‘perenne distrazione’. Allora il pensiero va Nell’Aldilà, dove «…forse dolci melodie / di suoni misteriosi / mi accoglieranno». Ma l’inferno dei vivi esiste già su questa Terra con l’insensatezza delle guerre, le distruzioni, il dolore e i lutti, il terribile rumore dei bombardamenti: homo, homini lupus follemente ritorna sulla scena nella guerra in Ucraina, a cui la poetessa dedica la quarta parte, che chiude con «… Pace e perdono, / nuove armi / contro / le bombe» (Unico tesoro).

Particolarmente legata ad Ancona – come Saba con Trieste – Veschi la ricorda come una città antica dai secoli dimenticati di storia (l’eroina Stamira), oggi trasformatasi in una città indolente, triste nel vuoto del presente. Ma la sua bellezza risiede nell’arte e nella natura: nei mosaici romani, nei rosoni barocchi, nei rosei alabastri, nell’Arco di Traiano … nel mare bluastro, nelle falesie del Conero e nella spiaggia delle Due Sorelle, nei frutti e nei fiori delle colline ubertose: poesie che sono un atto d’amore per la sua città.

Enzo Concardi

 

Gabriella Veschi, Imprevisti battiti, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 90, isbn 978-88-31497-95-4, mianoposta@gmail.com.

 

   

 

 

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Maurizio Zanon, "Fralezze"

19 Gennaio 2023 , Scritto da Enzo Concardi Con tag #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Con questa breve silloge, contenente altrettante brevi liriche, il poeta sembra coerentemente simboleggiare la sua visione della vita, sintetizzata nel titolo: Fralezze, ovvero l’effimero esistenziale della condizione umana. L’osservatorio da cui scruta il mondo è ora quello della vecchiaia e il richiamo autobiografico d’una corsa che va verso il capolinea è costante, pur alternando, negli esiti lirici, stati d’animo fatalistici e crepuscolari ad altri speranzosi e valoriali. In un contesto spirituale del genere e con tali premesse di tipo cronologico ed esperienziale, l’ispirazione ha bisogno di poche pennellate, immagini, scansioni per edificare una scrittura essenziale, diretta, ricapitolatrice di vissuti, idee e pensieri appartenenti a tutto il bagaglio della sua traiettoria terrena.

Il dato della senilità influisce nella misura in cui l’uomo Zanon è costretto a confrontarsi con i cosiddetti acciacchi dell’età, che vengono accettati anche con un certo umorismo di tipo pirandelliano, come nella poesia Colazione: «Un’alba grigia s’alza quest’oggi. / Corrono i miei pensieri, sempre vivi / ubriachi del profumo di caffè: / prima però debbo misurare la glicemia». Oltre simili momenti che sfiorano la leggerezza dell’essere, il poeta ci pone di fronte al fondamentale dato di fatto della scrittura come ragione di vita, quindi compagna inseparabile nella parabola umana, valore gerarchico al di sopra di ogni altro, paragonabile alla deificazione che ne fece, tra gli altri, il Foscolo: eterna, imperitura, immortale.

In alcune composizioni i nomi attribuiti da Zanon alla Poesia sono diversi, ma tutti convergono nello stesso significato: musa medicatrice, taumaturgica, demiurgica. Egli non esita ad utilizzare termini non letterari per definirla, soprattutto in relazione alle sue funzioni, ai suoi effetti sulla vita dell’autore. Allora dapprima utilizza l’efficace denominazione medica de La terapia, cioè cura per la guarigione: «Ciò nonostante / in ogni bisognoso istante / la poesia mi ha aiutato / da cose futili mi ha salvato». Poi si affida alla sfera spirituale-religiosa per una definizione tautologica rispetto a quella precedente, poiché la poesia diventa Salvezza da una realtà monotona e piatta: «Sfugge la vita / giorno dopo giorno / il futuro s’accorcia / tutto è così veloce: / fra tanta sciatteria / ci salva la Poesia». Altrove l’accento dalla terminologia simbolica si sposta quasi verso un determinismo professionale, nel senso di ‘mestiere’ del poeta: «Se scrivo / è perché non so far altro: / per questo vivo / e per null’altro» (Scrivere).

Ma non finiscono qui le sue riflessioni sul mito operativo della poesia in talune circostanze della vita letteraria, meditazioni nelle quali, tuttavia, appaiono delle contraddizioni con le affermazioni precedenti. Infatti Zanon ci mostra anche l’altra faccia della medaglia riguardo l’identità del suo io poetico e il destino di certuni poeti. Basta leggere questi versi per rendersene conto: «La mia scrittura è istintiva, desueta / un po’ fragile, dalla metrica inconsueta / dunque, non dirmi poeta / io non so lavorare bene la seta» (Poeta?). Ed ancora: «I poeti piacciono a poca gente / per molti non servono a niente. / I poeti creano l’emozione / troppi si atteggiano, c’è confusione. / I poeti, quelli veri, hanno la penna pura / alcuni finiscono soli in una casa di cura» (I poeti).

Come il lettore avrà notato, nelle poesie citate v’è talvolta la presenza della rima, segno di un’attenzione all’estetica, al significante e non solo al significato, al contenuto. Questa sottolineatura mi pare importante in un poeta come Zanon che ha compiuto un lungo cammino letterario alla ricerca non della perfezione – che non appartiene alle cose umane – ma di un continuo miglioramento di sé e delle proprie opere. Le rime sono inserite in genere in quartine e sestine uniche in una singola lirica e variano dalla forma continua (tutti i versi sono in rima tra di loro), allo schema ab-cd, o ancora alla impostazione binaria. Si tratta di rime dal ritmo musicale, armonioso, dalla fonetica naturale e non ricercata in modo forzato.

Una poesia emblematica dei motivi sviluppati in Fralezze è senz’altro Memorie, che costituisce l’incipit di tutta la raccolta. Qui il poeta ha voluto quasi riassumere alcune tematiche a lui più care che il lettore poi incontrerà strada facendo nelle pagine successive, e quindi il testo potrebbe essere letto come un indice lirico propedeutico al restante impianto scritturale, poi con sconfinamenti in diverse ed altre partiture. In sostanza memoria, focolare, infanzia, sogni, natura e destino sono evocati tramite feedback simili a rapide sequenze cinematografiche, che ci trasmettono serenità di lontane rimembranze e amarezza che tutto finirà, nel mistero della vita. Sono memorie di un’esistenza che ha riempito il cuore; ricordi del focolare, centro di affetti familiari i cui particolari conferiscono calore umano, come il profumo della polenta; immagini di un’infanzia spensierata qui dipinta e fissata nelle corse dietro alle farfalle; nostalgie di vacanze marine, luogo di sogni e speranze; paesaggi di una natura che assume le vesti d’una notte stellata o della neve sgocciolante. «… Un’esistenza … / bella da morire…» - dice il poeta - «…ma che un giorno / sparirà all’improvviso, come lo scoiattolo / scompare, su tra i fitti alberi del bosco».

Una semplicità lirica che è poesia e una levità di spirito che giunge fino a rappresentare l’immagine della morte con la fantasia del ‘fanciullino’. Ma ora il tempo che resta da vivere è breve, il pensiero dominante si sposta verso il destino di tutti gli esseri umani, ovvero diventa sempre più reale e vicina la certezza della propria fine personale, ed il poeta s’interroga su ciò ormai in piena dimensione escatologica, tuttavia ancora con metafore per nulla crude, legate a percorsi terrestri: «…Sono come un viaggiatore senza biglietto / che non sa da che parte deve andare» (Poco resta). Ora le tonalità trascolorano dagli azzurri felici della giovinezza ai grigi malinconici della senilità: siamo avvolti in un alone di mistero, siamo esseri oscillanti sul filo della solitudine (Il cielo); siamo in preda ad un sottile tedio, poiché anche la primavera ci lascia indifferenti (Malavoglia).

Ora anche la sua tanto amata Venezia assume contorni e fisionomie decadenti e da fine di un’epoca: «Venezia malinconica / con tanti negozi chiusi e pochi turisti / vivi la solitudine riflessa / negli occhi degli ultimi tuoi abitanti. / Sei avvolta / da un velo triste di fitta nebbia. / Nel silenzio delle tue strade lungo i canali / spiccano sparsi giù a terra i coriandoli di Carnevale» (Venezia malinconica). E se lo sguardo si rivolge al mondo e scruta gli avvenimenti dell’attualità non può che sorprendersi di fronte alle ritornanti guerre nella patria europea, di fronte a nuovi scoppi di irrazionalismo e follia, tant’è vero che il poeta scrive: Mai avrei pensato.

E così anche la vita, più viene vissuta e meno è comprensibile: si rivela piena di contraddizioni, i comportamenti umani registrano alti e bassi inconcepibili, contrasti indecifrabili. In tutta questa incertezza rimane l’idea-realtà sicura, della fine. Nessuno è immune dalle dicotomie esistenziali - come già sosteneva Pascal riguardo alla natura umana - ed è per questo che Zanon da un lato ci racconta del materialismo esistente nella società consumistica, sfrenato verso il godimento di un benessere puramente edonistico e dall’altro lato del valore dei gesti solidali che possono rendere felici; del bene prezioso dell’interiorità pensosa («Il silenzio tace / il silenzio ci dà la pace / il silenzio è la poesia: / nel silenzio l’interiore melodia», Sul silenzio); dell’amore che può catturarci a qualsiasi età e dobbiamo accoglierlo come una benedizione divina; del suo intenso desiderio di un po’ di luce e di pace in questo travagliato ed offuscato vivere odierno.

Ma quale è l’ultima parola del poeta sulla questione fondamentale che attraversa il suo messaggio in questa raccolta poetica? Si chiama La grande speranza: «Credo che Dio ci farà ritornare al mondo / magari sotto altre spoglie. / Sarà un altro miracolo di fiori, anime, foglie / una vita nuova sorgerà dal profondo».

Enzo Concardi

 

 

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L’AUTORE

Maurizio Zanon è nato nel 1954 a Venezia dove attualmente vive. Laureato in Lettere Moderne, ha insegnato nella Formazione Professionale. Scoperto dal poeta Mario Stefani, la sua attività letteraria ha inizio a venticinque anni con la pubblicazione del libro Prime poesie (1979), cui sono seguite molte altre raccolte. Ha conosciuto vari poeti famosi: Diego Valeri, quando risiedeva a Venezia, Giovanni Giudici con Ignazio Buttitta e Andrea Zanzotto, presso lo Studio Museo “Augusto Murer” di Falcade, Luciano Luisi, alla presentazione di un suo libro a Mestre, Maria Luisa Spaziani, in occasione della sua partecipazione al “Premio Eugenio Montale” a Roma, Patrizia Valduga, negli anni dell’università a Venezia, Paolo Ruffilli ed il poeta vernacolare Attilio Carminati.

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Maurizio Zanon, Fralezze, prefazione di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 68, isbn 978-88-31497-96-1, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

 

 

 

 

 

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