Interrogativo, io e anima
INTERROGATIVO
Quando ho paura del domani, mi aggrappo
alle tante foto appese al muro nella mia stanza:
tengo stretto il mio cuscino,
come l’amore è quell’equilibrio che tutto
scompone e ricompone,
come una foto di famiglia che raggruppa
l’unica foto di un istante, di un’eternità infinita.
IO
Il riflesso del mio io nascosto è celato, come sottovuoto,
il suo sonno addormentato
e la mia voce di primavera che segna e risveglia
il mio luogo, molteplice tragitto,
mi riduce ad uno specchio
che brilla la sua matura ombra
che viene oppressa
per due soldi di letame,
la mia mano, che scrive sopra un foglio bianco
la sua firma di fanciullo,
nel riflesso del mio io
come un orsacchiotto screpolato lasciato
ad ammezzire in tardo autunno,
lungo un tragitto liquoroso all’intercalare delle luci,
il buio nel mio cuore, e una caverna soltanto.
ANIMA
La morte ha un odore di selvatico
più delle lacrime cadute a terra prematuramente,
seminate di speranza e di sorgenti
con accanto le mostrine incanutite di poveri soldati
caduti in guerra e mai risorti,
come
la morte, lei penetra porta scompiglio
e in novembre, solo un vago ricordo di quell’anima
vagante che ha vagato stanca per i campi spenti.
Mario Gerosa, "Anton Giulio Mayano - Il regista dei due mondi"
Mario Gerosa
Anton Giulio Mayano – Il regista dei due mondi
Falsopiano – Pag. 300 – Euro 20
Sono molti i personaggi del mondo cinematografico e televisivo che ancora attendono una rivisitazione storico - critica, ma uno davvero importante e dimenticato era Anton Giulio Majano, autore colto e brillante che tanto ha contribuito a diffondere l’uso della televisione nelle nostre case e che ha fatto conoscere - più di tanti polverosi accademici - la letteratura al nostro popolo. Bene ha fatto Mario Gerosa - che conosciamo per aver letto e apprezzato i forbiti saggi su Terence Young, Roger Vadim, James Bond, Ernest B. Schoedsack -, a riportare l’attenzione sul re degli sceneggiati, un uomo che dai contemporanei veniva disprezzato e definito in maniera irridente come autore delle solite majanate. Per fortuna certi critici dallo sguardo miope sono morti dimenticati, mentre l’autore delle majanate - che hanno contribuito ad alfabetizzare l’Italia - oggi viene celebrato come meritevole di essere studiato e analizzato con attenzione certosina. Ecco, il libro di Gerosa, se mai qualcuno pensasse di organizzare un seminario su Majano o un corso di specializzazione sullo sceneggiato in Italia all’interno di una scuola di cinema, sarebbe un testo perfetto. Perché c’è proprio tutto. Il cinema vede Majano regista di un pugno di pellicole, tra queste spicca la mia preferita Seddok (l’erede di Satana) del 1960, di cui ho parlato nella Storia del cinema horror italiano, volume uno. La televisione è il mezzo per eccellenza con cui si esprime Majano, dal 1954 al 1986, regalandoci opere indimenticabili come Piccole donne, Capitan Fracassa, L’isola del tesoro, Delitto e castigo, La cittadella, Il tenente Sheridan (riprendendo la serie ufficiale di Mario Landi - un altro grande! - per il primo spin-off a tema donne), Davide Copperfield, La fiera delle vanità, La freccia nera (il lancio di Loretta Goggi!), … E le stelle stanno a guardare, Marco Visconti, Castigo, fino al canto del cigno con l’onirico Strada senza uscita. Se la televisione ha fatto cultura lo dobbiamo anche a lui, in tempi cupi come i nostri che tanto fanno sentire la mancanza di simili intelligenze - forse ci è rimasto soltanto Pupi Avati - capaci di usare parole che sembrano antitetiche (ma non lo sono!) come genere e cultura, popolare e letterario. Majano ha lavorato con grandi attori come Alberto Lupo (il medico della Cittadella), Orso Maria Guerrini, Anna Maria Guarnieri, Eleonora Giorgi, Mario Maranzana, Lea Padovani, Grazia Maria Spina, Ubaldo Lay, Giuliana Loyodice, Mita Medici, Roberto Chevalier, Marcello Giannini, Ilaria Occhini, Giuseppe Pambieri … l’elenco sarebbe interminabile. Collaboratori fidati come Riz Ortolani e Sandro Tuminelli, sceneggiature rigorose e rispettose dell’apparato letterario, hanno contribuito a fare cultura nelle case di un’Italia da ricostruire. Non è azzardato affermare che molti italiani conoscono Dostoevskij, Dickens, Stevenson e Cronin (per tacer degli altri) soltanto grazie ai suoi sceneggiati. Non è mica poco. Il solo difetto del libro di Gerosa è il prezzo - ma non è colpa dell’autore - perché 20 euro per trecento pagine stampate su carta bianca uso mano e copertina flessibile senza risvolti è troppo. La colpa è di un’Italia che legge poco e gli editori commerciali devono pur difendersi con basse tirature e alti prezzi, se vogliono sopravvivere.
Gordiano Lupi - www.infol.it/lupi
Suoni, se fossi morto prima e lungo addio
SUONI
I suoni si spargono tra passato e presente, impiccati
nelle regioni nere e appartengono,
ai fili clandestini che come reclute tormentate
in questo smorto attimo d’impazienza
emulano empi, sgorgano nell’impazzimento
di un’apparizione usata,
irrisi suoni che svolazzano nell’aria.
SE FOSSI MORTO PRIMA
Se fossi morto prima...
la chiazza del mio essere uomo di miscugli e di fiori
appassiti, mi ha condotto a voi col capo chino e remissivo,
il volto stanco e pieno di rughe e il mio cuore in trappola
dei suoi stessi sentimenti di stampigliatura;
ora, cerco solo di accoppare il mio tempo già finito,
e di bermi un goccio forte, in un’osteria dell’angolo.
LUNGO ADDIO
Un lungo addio è
oltre le montagne figlie della vecchiaia e del tempo,
consumato dal suo stesso addio,
con gli occhi dell’anima,
dentro il cerchio immobile di un lago colorato di grigio,
disegnato dentro,
che già si dona esanime
alle troppe sofferenze che soffiano nel vento
tra le anime tremolanti, in un profondo
infinitamente finito!
Dentro, suono crudo e abbandonato
DENTRO
Dentro un vecchio muro crepato e tinto
che soffre, adolescenza intaccata
in vortici di rogne,
e in eterno, nel sonno le maschere avvolte
dove nascono le cimici uguali
e le cantilene, gli indefiniti aliti e sepolti
sotto occhiaie di pensieri e patimenti
e i timori pesti mai andati,
e in eterno, in graffi sospesi nell’aria
come suoni in una scomoda mente.
SUONO CRUDO
Suono crudo assennato dentro il suo dentro,
di fanghiglia, nel rettangolo
superstite precario,
è un suono graffiato in un istante rudimentale
che scivola turchino
nelle coincidenze di una trappola mortale,
anime ingombrate nell’intasamento
di un dovunque aggrappato,
e le innaturali fisime, le porte socchiuse
in quel loro dentro futile e meschino,
come un suono rinchiuso in una teca
dove matematica e spine
si sbracano ammiccando pose di catarsi!
ABBANDONATO
Non solo mi chino su questa terra di fango marrone
e mi piego scacciando le ferrose catene
in un nevrotico abbandono,
che la sorte ormai guastata
nella sua biada di morte camuffata, travestita
da una sagoma di vita slavata e lunatica,
mi rende uno specchio d’inverno opaco,
e steso nel vuoto nell’incertezza
siderale che tanto mi somiglia,
ecco che mi spengo
in uno stordimento contrariato.
Il coro di Ermengarda
Dopo gli Unni, dal mare giunsero i Vandali, che risalirono il Tevere e si gettarono su Roma con ferocia. È in ricordo di quel saccheggio che la parola vandalo si usa per definire chi distrugge solo per il gusto di farlo.
Fino a questo momento i barbari erano calati in Italia con l’intento di saccheggiare e tornarsene a casa ma ora la musica era cambiata: venivano per restare. È il caso degli Ostrogoti che imposero il loro dominio per sessanta anni. Dopo gli Ostrogoti fu la volta dei Longobardi, i quali rimasero due secoli, occupando l’Italia settentrionale. I Longobardi provenivano dalle regioni nordiche della Germania, un intero popolo in movimento formato da guerrieri, donne, bambini, vecchi sui carri. Non toccarono le regioni bagnate dal mare perché non sapevano costruire navi né usarle.
Così l’Italia rimase spezzata in due: da una parte il dominio dei Longobardi, dall’altra i Bizantini. Fu un lungo periodo di guerre e invasioni, Roma era diventata debole, le sue leggi non avevano più valore, le strade erano disselciate, tra le pietre cresceva l’erba, i grandi monumenti andavano in rovina, si spogliavano di marmi che venivano utilizzati per nuove costruzioni più moderne.
Nel 1822 Alessandro Manzoni pubblicò l’Adelchi, tragedia che narra le vicende del principe omonimo e di sua sorella Ermengarda, figli del re longobardo Desiderio. Vittima della ragion di stato, Ermengarda viene data in sposa a Carlo Magno che poi la ripudia. Ella si rifugia nel monastero di San Salvatore a Brescia, dove, apprendendo la notizia delle nuove nozze di Carlo, muore di dolore. Un esempio di tragica e fragile eroina romantica, figlia di oppressori ma collocata dalla sventura “infra gli oppressi”.
Il coro del quarto atto, con i più famosi accusativi di relazione della storia dei versi italiani, è nel cuore di tutti noi.
Sparsa le trecce morbide
Sull'affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.
Cessa il compianto: unanime
S'innalza una preghiera:
Calata in su la gelida
Fronte, una man leggiera
Sulla pupilla cerula
Stende l'estremo vel.
Ahi! nelle insonni tenebre,
Pei claustri solitari,
Tra il canto delle vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre al pensier tornavano
Gl'irrevocati dì;
Quando ancor cara, improvida
D'un avvenir mal fido,
Ebbra spirò le vivide
Aure del Franco lido,
E tra le nuore Saliche
Invidiata uscì:
Quando da un poggio aereo,
Il biondo crin gemmata,
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata,
E sulle sciolte redini
Chino il chiomato sir;
E dietro a lui la furia
De' corridor fumanti;
E lo sbandarsi, e il rapido
Redir dei veltri ansanti;
E dai tentati triboli
L'irto cinghiale uscir;
E la battuta polvere
Rigar di sangue, colto
Dal regio stral: la tenera
Alle donzelle il volto
Volgea repente, pallida
D'amabile terror.
Oh Mosa errante! oh tepidi
Lavacri d'Aquisgrano!
Ove, deposta l'orrida
Maglia, il guerrier sovrano
Scendea del campo a tergere
Il nobile sudor!
Come rugiada al cespite
Dell'erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;
Tale al pensier, cui l'empia
Virtù d'amor fatica,
Discende il refrigerio
D'una parola amica,
E il cor diverte ai placidi
Gaudii d'un altro amor.
Ma come il sol che reduce
L'erta infocata ascende,
E con la vampa assidua
L'immobil aura incende,
Risorti appena i gracili
Steli riarde al suol;
Ratto così dal tenue
Obblio torna immortale
L'amor sopito, e l'anima
Impaurita assale,
E le sviate immagini
Richiama al noto duol
Sgombra, o gentil, dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,
Altre infelici dormono,
Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.
Te dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,
Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.
Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com'era allor che improvida
D'un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così
Dalle squarciate nuvole
Si svolge il sol cadente,
E, dietro il monte, imporpora
Il trepido occidente:
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.
Preludio, vuoto e angosce
PRELUDIO
La voce arranca, arretra tardiva al tramonto
crepa e sospira,
consuma un tempo nell’ambiguo vuoto circostante,
mentre scompare il vento che lì finisce e straripa.
VUOTO
Ho in prestito illusori letarghi d’animale
come invisibili le tane patite e noi, frasche
abbandonate all’interno di un vuoto assonnato.
ANGOSCE
L’anima che invecchia tra gli alberi
dove un legno secco marcisce
è preda del suo spreco inciso
sulla pelle fustigata, estenua del presente,
scende sconosciuta fuliggine
che piano si nasconde.
Intervista a Fabio Strinati
Fabio Strinati è un giovane musicista e poeta (classe 1983), che vive a Esanatoglia, in provincia di Macerata. Abbiamo recensito su questo blog Pensieri nello scrigno e Dal proprio nido alla vita, entrambi pubblicati con Il Foglio Letterario. Fabio ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune domande.
Ciao, Fabio. Parlaci un po’ di te e della tua scrittura. Ti senti più musicista, più poeta o più contadino?
Attraverso la scrittura cerco di esprimermi per come sono. Ammetto di essere una persona molto complessa, una persona non proprio semplice. Quindi penso che anche la mia scrittura, in qualche modo, sia abbastanza complessa. Detto questo, sono una persona in continua evoluzione. Non amo fossilizzarmi, amo sperimentare, conoscere, vedere, sentire. Quindi, quando dico che la mia scrittura è complessa, non la identifico come difficile, ma come una scrittura in continuo movimento. Io, sinceramente, mi sento prima contadino e poi poeta e musicista. Sono cresciuto in campagna, con la vigna, gli alberi da frutto, e tutto questo mi ha aiutato a saper vedere la natura con gli occhi giusti.
In Pensieri nello scrigno si notava una specie di desiderio inconfessato di lasciarti andare a un eloquio poetico più piano, meno ermetico. Mi sembra che nell’ultimo poemetto, intitolato Dal proprio nido alla vita, tu abbia compiuto proprio questa operazione. È così?
Sono due libri completamente diversi. Il primo è una raccolta di poesie, mentre il secondo è un poemetto, anche se non mi piace identificarlo così. Il termine poemetto è pericoloso, molto poetico, molto ricco di linfa e di significato. Per questo sostengo che Dal proprio nido alla vita non sia un poemetto, ma un libro di semi-prosa poetica. Poi la differenza sta soprattutto nel fatto che Dal proprio nido alla vita è un libro influenzato da una lettura di un altro libro, che è Miracolo a Piombino di Gordiano Lupi. Mentre Pensieri nello scrigno viaggia su frequenze del tutto differenti. Si tratta del mio primo libro, a cui sono molto affezionato, anche se all’inizio non è stato così facile farmelo piacere. Rispondendo alla tua domanda, credo che Dal proprio nido alla vita sia un libro molto profondo che si esprime attraverso una scrittura gradevole. Pensieri nello scrigno è un libro molto profondo, particolare, che si esprime attraverso una scrittura nebulosa.
Il fatto di scrivere poesie, suonare e vivere una vita di natura artistica, oltre che pratica, ti ha mai creato sensi di colpa? Voglio dire, hai mai dovuto giustificarti, con la famiglia, con gli amici, con la società per queste tue passioni?
Io ho trentaquattro anni, ma scrivo da circa quattro anni. Ho lavorato in fabbrica per ben quindici anni, ho fatto il militare, lavoro la campagna, ho lavorato in una azienda agricola, quindi, sensi di colpa non ne ho mai avuti. Ma in maniera del tutto onesta ti dico che, anche se avessi sempre scritto fin dall’infanzia, non me ne sarei affatto vergognato. Tutto ciò che conta per me è essere una brava persona. Non voglio essere ricordato come un poeta, uno scrittore, o cose del genere, ma voglio essere ricordato come una brava persona.
Ti senti risolto come persona, quello che fai ti appaga o sei ancora alla ricerca della tua identità?
Tutto quello che faccio mi appaga moltissimo e sento un’energia fortissima ogni volta che scrivo una frase, un verso. Ogni volta che mi metto al pianoforte è sempre come se fosse la prima volta, e mi piace così tanto suonare che il mio corpo vibra ogni volta che suono. Realizzato come persona sicuramente sì, ma come persona a 360°. Tutto ciò che mi circonda mi fa stare bene. La mia famiglia, la mia fidanzata, i luoghi che tocco, che respiro. Mi sento bene con me stesso.
Nell’ultimo lavoro è descritto un momento di crisi e di depressione. Puoi raccontarci qualcosa?
Come ho detto in precedenza, sono una persona complessa. Nel poemetto è descritto un periodo ben preciso della vita di una persona, che è l’adolescenza. Si tratta di un periodo molto delicato della vita, un momento di passaggio, di trasformazione. Un periodo dove molto spesso non veniamo capiti, e non vogliamo neanche noi capire. Il mondo ci sembra molto piccolo, ma in realtà, poi, scopriamo che è molto grande. La crisi di cui parlo nel libro fa riferimento a una situazione di smarrimento. E quella situazione, quando si è sensibili e complessi, viene metabolizzata in maniera forte e disordinata.
Da agosto purtroppo sei alle prese con la devastante esperienza del terremoto, ha un senso la scrittura quando ci si scontra così duramente con la crudezza della vita?
Credo che la scrittura abbia ancora più senso durante questi momenti così duri. Io, attraverso la scrittura, mi sto tutelando la salute. Se non avessi scritto sarei impazzito già dal 25 di agosto. Ho vissuto e sto vivendo il terremoto in maniera drammatica, nonostante non abbia avuto grossi problemi. Dormo in camper per paura, non per inagibilità. Ma è proprio in questi momenti che l’uomo deve tirar fuori la sua parte solida e combattiva. Io ci sto provando, e la mia cura, la mia terapia, è scrivere.
Pensi che la poesia oggi abbia valore solo introspettivo e consolatorio?
La poesia ha un valore che va oltre la poesia stessa, oggi come in passato. Poi, che stiamo vivendo in un periodo storico molto molto complicato è sotto gli occhi di tutti, ma la poesia trova e troverà sempre lo spazio dove intrufolarsi. Non riesco proprio a vedere un mondo senza la poesia.
Cosa vorresti che un lettore provasse leggendoti?
Un libro deve farti compagnia, quindi penso che i miei lettori, leggendomi, provino questa sensazione di compagnia. Io quando scrivo ci metto l’anima, e spero che questa mia anima possa toccare il cuore dei miei lettori, che ringrazio moltissimo. E poi, se vuoi essere letto, devi leggere. È vero che scrivo molto, ma è anche vero che leggo moltissimo.
Fabio Strinati, "Dal proprio nido alla vita"
Dal proprio nido alla vita
Fabio Strinati
Edizioni Il Foglio, 2016
pp 54
8.00
Una montagna scura,
tenebrosa, fredda ed ostile, luoghi di fantasmi
e di leggende, che cantano le loro messe
tra gli alberi sudati dalla pioggia, e i funghi velenosi
cresciuti sulle rocce scorticate dai venti con le unghie. (pag 38)
Avendo letto Miracolo a Piombino di Gordiano Lupi e anche il precedente libro di poesie di Fabio Strinati, Pensieri nello scrigno, mi sono molto incuriosita che Strinati abbia scritto un poemetto, intitolato Dal proprio nido alla vita, interamente dedicato al romanzo dell’autore toscano.
In effetti, anche in questo componimento si parla di adolescenza, di spiccare il volo dal proprio nido, di memoria e nostalgia, di voglia di crescere e, insieme, di non farlo. Nel caso di Lupi la metafora è il gabbiano, qui la rondine.
Ciò che diversifica, secondo me, i due autori, è l’età. La nostalgia di Lupi è l’autentico strazio dell’uomo sulla via del tramonto, quella di Strinati sarebbe frutto solo di malinconia giovanile se non fosse che, negli ultimi tempi, egli ha dovuto fare i conti col terremoto e allora il rimpianto è divenuto perdita concreta.
Una Piombino dei ricordi da una parte, le Marche martoriate e aspre dall’altra, rese, però, negli elementi primigeni di boschi e montagne. Il monte Corsegno diventa “scoglio” di montagna, proprio per uniformarsi al testo marino di Lupi, e la rondine è anche gabbiano, ugualmente solitaria, ugualmente alla ricerca di un sé più compiuto, maturo e soddisfatto.
La maturità è ciò che ci permette di soffocare i nostri ricordi. Infatti, per non morire di nostalgia, per crescere, occorre lasciar andare il passato, anche quello recente, e guardare avanti. La maturità è il luogo dove tutto ha un nome, dove le cose sono definite, nette, e perciò hanno già perduto molto del loro fascino e molte delle possibilità. E, tuttavia, è così che deve essere.
Il poemetto è scandito dalle stagioni, narra una crisi esistenziale: non avevo nulla, non sentivo nulla, l’indecisione di un ragazzo che non ha ancora la forza di affrontare la vita, preda di un’inerzia che somiglia alla depressione.
Un vento di tramontana che ti entrava dentro le ossa,
che gelava, non soltanto quelle pochissime
parole che non avrei mai detto, ma persino i miei non pensieri (pag 39)
Un ragazzo che non riesce a non essere poeta, a integrarsi nel sistema.
Solo la natura, seppure matrigna e squassata da tremende forze telluriche, gli permette di esprimersi, ha un effetto consolatorio, offre speranza di diventare, forse, una di quelle rondini che sanno affrontare la vita.
Rispetto alla precedente silloge c’è il ritorno a un versificare meno ermetico. L’autore abbandona la ricerca lessicale e musicale che lo caratterizzava e ricomincia a chiamare le cose col loro nome. La lingua diventa più colloquiale, a volte troppo, con cadute di stile, (ficcante), altre di sapore ottocentesco (fu candido di sassi e di tovaglie). Le virgole spezzano le frasi, gli enjambement le allungano nel verso successivo. Della poesia resta poco, c’è solo prosa poetica ma forse non è un male.
Marie Albes, "Apostasia"
Apostasia
Marie Albes
Amazon, 2017
pp 433
14,00
Finalmente un libro da leggere come se fosse solo un libro ed io solo un lettore. Intendo dire un romanzo da tenere sul comodino ed essere felici di ritrovarlo la sera prima di dormire, semplicemente per sapere cosa accade nella pagina successiva, per farsi catturare dalla storia e dall’ambientazione. Ho sempre sostenuto che in Italia non ci sono romanzieri come piace a me, cioè narratori a tutti gli effetti, capaci di scrivere un romanzone accattivante, gradevole, non superficiale. Forse mi posso infine ricredere e questa (per me) sconosciuta Marie Albes è la narratrice che stavo cercando.
Non importa se la storia non è originale. Nessuna, a ben vedere, lo è. Le storie sono storie e alla gente piace sentirsele raccontare. Le storie sono spesso uguali, cambia il modo in cui sono scritte. E questa Apostasia è scritta davvero bene, a parte qualche minuscola imprecisione o ripetizione che, sono sicura, ad un successivo editing l’autrice ha saputo rilevare e correggere. La lingua è scorrevole, piana ma coinvolgente, ricca di spunti riflessivi, di pathos e persino di soffusa poesia.
La trama è ben congegnata, sebbene le due figure femminili, Chiara Innocenti ed Elena Gentile (c’è un eco Dickensiano nei loro cognomi) siano un po’ troppo intercambiabili. L’amore, perché di romanzo d’amore e di genere si tratta, è rappresentato, analizzato e vivisezionato in tutti i suoi aspetti. Si vede che l’autrice sa di cosa parla, conosce l’animo umano, l’ineluttabilità della passione, i tempi e i modi della stessa, il dolore dell’abbandono, e li riproduce con tanta finezza psicologica.
L’amore porta all’apostasia, si sostituisce alla fede, anzi, diventa esso stesso fede, fiducia nell’intuito del proprio cuore, nei sentimenti che sono sempre innocenti, nell’amato che non tradisce.
Chiara è una suora che s’innamora, ricambiata, di Josè, un giovane spagnolo di bell’aspetto, giunto nel suo convento per indagare un passato che qui non riveliamo ma che si lega a un vecchio delitto maturato in campo ecclesiastico. La vicenda di Chiara e Josè ricalca quella precedente di Elena e Miguel, in un parallelo troppo poco caratterizzato ma comunque ricco di suspense. Quindi abbiamo amore, thriller, intrigo, atmosfera, tinte forti di stampo ottocentesco, e mi sa che l’autrice ha confidenza con tutti i bei romanzi inglesi.
La narrazione si apre con il cliché del manoscritto ritrovato e prosegue nella campagna fiorentina e senese, fra oliveti, pievi e conventi, per concludersi nella città di Granada. Marie Albes mostra un forte interesse per la cultura e per la lingua castigliana, di cui fa un uso troppo abbondante nel testo, fino a compiere la scelta opinabile di nominare i capitoli in spagnolo.
Un talento, in ogni caso, questa Marie Albes - che pare abbia scritto anche romanzi fantasy- una scrittrice di genere elegante e garbata, un'autentica, piacevole, scoperta.
L'ologramma (parte 2)
Non puoi cronometrare un sogno, non puoi registrarlo su supporti, non dovresti morire dentro.
Perché se l’ologramma ha una valenza, una portata enorme, lo si deve alla sua interiore matematica. È un insieme senza tempo di millisecondi. Una narrazione dentro le zanne d’avorio.
Forse dovremmo insegnare ai neonati ad essere folli. Forse follia e felicità sono indivisibili.
Perché un’idea oggi normale una volta è stata folle, fuori da questo mondo.
Ma quando ho scritto di non essere soltanto un ologramma, l’ho fatto di getto. Senza se e senza ma.
Ho letto che l’anima è un fenomeno border e in parte secondo me ha senso.
Come l’inizio di Futura di Dalla. E poi senti: “Qui tutto il mondo sembra fatto di vetro e sta cadendo a pezzi come un vecchio presepio.”
Penso che ci sono persone che annullerebbero l’ologramma. Lo eliminerebbero.
Perché la storia ci spiega che lager e gulag fecero fuori milioni di persone.
L’ologramma è un manifesto blu forte su un muro opaco, è un progetto infinito. È una macchina da scrivere bianca. È l’Aida di Rino Gaetano. Come il mokele-mbembe.
Come le luci nella valle di Hesdalen, in Norvegia. È il satellite Black Knight sempre in orbita.
A Washington, da qualche parte, c’è un Museo dedicato al mondo dello spionaggio. Ed è anche questo il progetto.
Siamo il sogno. Siamo l’ologramma di questo puntino chiamato Terra. Esseri umani.
Siamo un trattato non rispettato. Gli eredi della rivoluzione digitale.
Siamo in cerca di un George Orwell anche se sappiamo che i tempi sono cambiati e che il controllo è massificato, diffuso.
Siamo le righe d’incipit di Cent’anni di solitudine.
Siamo il cervello positronico nato dalla mente di Asimov.
Ecco. L’ologramma è un noi di musica, poesia, letteratura, cinema, follia, arte, altri mondi.
Perché nell’ologramma c’è l’Alfa e l’Omega, come nel mare.
Perché è un panta rei senza padrone. È un geroglifico addormentato. È un pentagramma dove scriverai la tua musica. È urlo dentro. È La metamorfosi di Kafka. È un profeta accecato dal mondo. È Dottor Jekyll e Mr Hyde. È la sentenza di una clown.
Da anni sono affascinato dalle opere del pittore belga Magritte. Al quale accosterei certe idee di Jung. È un giacimento d’oro nel Klondike.
L’ologramma, nostro, ha la vista del Pamukkale in Turchia. Passa da Uluru alla cinese Valle del Jiuzhaigou. È tra i 45 messicani fondatori di Los Angeles.
Siamo, come dice Camus, un popolo di colpevoli che camminerà senza posa verso un’impossibile innocenza, sotto lo sguardo amaro dei grandi inquisitori.
L’ologramma è ubiquo senza materia. È un torrente in mezzo al deserto.
Ma deve generare felicità. Senza di essa non può esistere.
Un’altra condizione d’esistenza del progetto è la matrice della bellezza. Perché senza bellezza nemmeno l’universo può esistere.
L’ologramma è la nave di Comfortably Numb. L’ologramma è un’ombra rossa.
L’ologramma è un sogno che non muore, un vulcano pronto ad esplodere.