Invasion of the Body Snatchers [1978]: cavolfiori dall'iperspazio
Trama.
Dei cavolfiori dallo spazio profondo sviluppano cloni di umani, allo scopo di rimpiazzare questi ultimi, mentre Donald Sutherland cerca di incastrare un ristorante sostenendo che un cappero trovato in cucina sia in realtà popò di topo.
L'invasione si diffonde molto velocemente.
Leonard Nimoy, a.k.a. Dr Spock , cerca di contenerla organizzando sessioni di terapia di coppia. Jeff Goldblum e sua moglie la combattono con bagni di fango. Mentre Brooke Adams opta per il preoccuparsi moltissimo e muovere le pupille in maniera inquietante.
Riuscirà il nostro manipolo di eroi a sconfiggere gli alieni?
Significato
Le relazioni umane sono diventate così alienate che noi stessi siamo alieni l'uno all'altro. Questo concetto è rappresentato letteralmente: gli alieni sostituiscono gli umani. Questi alieni sono freddi ed indifferenti. Sono l'oggettificazione fantascientifica dei concetti espressi dal Dr Spock ("entriamo ed usciamo dalle relazioni come se non significassero nulla"). All'invasione del distacco alieno è giustapposto e opposto il calore umano della coppia protagonista, formata da Sutherland e Adams, che verso la fine, in particolare, dichiara effusivamente le proprie inclinazioni sentimentali.
Ma la freddezza aliena incombe su di loro
Titolo italiano | Terrore dallo spazio profondo |
Anno | 1978 |
Genere | Fantascienza |
Regista | Philip Kaufman |
Voto in asterischi o stellette | Bellino! |
Che fine ha fatto?

«Gli occhi a volte vedono cose che non ci sono o non riconoscono
quelle che ci stanno proprio di fronte. Sono illusioni dovute alla stanchezza
». Proprio questa frase che aveva sentito dal suo analista, senza
comprenderne realmente il significato, adesso gli girava nella testa.
Giacomo provò a rimanere immobile. Sollevò la schiena e si mise con
le gambe lungo la sponda del letto. Ora che si era seduto, la stoffa del
pigiama si era gonfiata sul davanti e dalla patta semiaperta gli pareva
di intravedere finalmente qualcosa.
Giacomo volle verificare subito: aprì la mano e provò immediatamente
a premere su quel gonfiore, ma di rimando ci fu solo una sensazione
d’inutile e vuota pressione. Ci provò ancora due volte. La
prima, senza guardare, strofinando la mano sulla stoffa del pigiama e,
poi, scostandosi di dosso il pantalone per tastarsi direttamente in
mezzo alle cosce. La seconda con gli occhi aperti, seduto sul letto e
rivolto allo specchio. Ma nulla: non c’era più! Era scomparso e lui
adesso era certo che non stesse affatto sognando. Perciò, l’unica cosa
da fare era quella di correre al più presto in ospedale, lì qualcuno
sarebbe riuscito ad aiutarlo. No, quella non era una buona idea. Cosa
avrebbero potuto dirgli in ospedale? E poi, come glielo avrebbe spiegato
agli infermieri? Magari in ospedale avrebbe avuto di fronte una
donna a cui dover riferire il suo problema, e come gliel’avrebbe
detto? Sicuramente, chiunque avesse avuto di fronte, uomo o donna,
non avrebbe capito… l’avrebbe preso certamente per un folle. Eh sì
– continuava Giacomo nel suo ragionamento angosciato – c’era il
rischio che i dottori, temendo d’avere di fronte uno squilibrato, potessero
addirittura rifiutarsi di prenderlo in esame. O no… forse valeva
la pena di tentare. Sì, era meglio andare subito al Pronto Soccorso,
senza perdere altro tempo prezioso. Doveva vestirsi. Doveva vestirsi
in fretta, prendere l’auto, fare benzina e correre cercando d’evitare di
farsi vedere in quello stato di angoscia. Doveva schivare il portiere, i
condomini del palazzo, chiunque al di fuori dei medici, perché lui,
Giacomo Salemi, aveva adesso, certamente, impressa sul viso un’espressione
troppo sconvolta per essere decifrata da persone che non
potevano prestargli aiuto. Occorreva, invece, un medico. Un medico
prima di tutto.
Giacomo prese dunque a vestirsi rapidamente, afferrò i pantaloni
e la camicia, che aveva indossato il giorno prima, dalla sedia in camera
da letto. Infilò i mocassini sbattendo più volte i talloni sulla
moquette per far risalire i colletti e si diresse in gran fretta all’ingresso.
Lì rimase un attimo immobile, guardò dallo spioncino, girò la
chiave nella serratura cercando di non far rumore e aprì, infine, la
porta di casa. Rimase di nuovo immobile sul pianerottolo per qualche
secondo, stringendo il mazzo di chiavi nella mano, e solo quando fu
certo che le scale fossero sgombre, iniziò a scenderle rapidamente.
Superò l’atrio del palazzo al pianterreno, svoltò a destra verso la porta
del garage e in meno d’un minuto era già seduto in auto, pronto a
uscire in strada in tutta fretta.
«Trenta euro, Mario, per favore» disse Giacomo a bordo dell’automobile
arrivando dal benzinaio.
«Certo dottor Salemi. Che le è successo, dormito male?» lo interrogò
con un sorriso l’uomo. Giacomo non rispose, guardò i numeri
sul distributore sovrapporsi veloci e pensò di essere stato uno stupido:
se voleva allontanarsi con discrezione e senza esser visto in quello
stato d’agitazione, avrebbe dovuto evitare di fare rifornimento proprio
sotto casa.
«Arrivederci» lo salutò l’uomo prendendo i soldi che Giacomo gli
stava porgendo. «Arrivederci, Mario» rispose Giacomo. Ingranò la
marcia e raggiunse l’incrocio.
Lì, al semaforo, in attesa del verde, Giacomo guardò nello specchietto
retrovisore e vide una donna al volante intenta a ripassarsi il
rossetto con movimenti circolari dell’indice. Quando lei smise di
compiere quell’operazione e parve guardarlo direttamente negli
occhi, Giacomo distolse immediatamente lo sguardo e tornò a controllare
il semaforo. Davanti a sé vide il gran cartellone pubblicitario
con l’immagine in bianco e nero di un giovane uomo, più o meno
della sua età, trascinato per la cravatta da una donna di cui si vedeva
solo il braccio che manteneva la presa. Sopra la foto campeggiava la
scritta: «Se oggi hai perso la rotta, non lasciarti prendere per la
gola!». Giacomo pensò che sarebbe stato meglio non farsi prendere
dal panico e, forse, conveniva calmarsi e rivolgersi a chi lo conoscesse
davvero bene. Sì, forse era meglio desistere dal proposito di andare
in ospedale, ci voleva piuttosto qualcuno di fiducia a cui poter parlare
con franchezza. Giacomo pensò dapprima al medico di famiglia.
Il dottor Spadacenta, lo conosceva bene, lo aveva curato sin dall’infanzia,
ma forse per una cosa simile era meglio non coinvolgere
immediatamente qualcuno vicino alla sua famiglia. Forse, la cosa
migliore da fare in una condizione come la sua sarebbe stata quella di
rivolgersi al suo analista. Certamente lui, il dottor Di Vittorio, avrebbe
saputo indicargli un modo razionale per affrontare quel problema.
O, forse, poteva chiamare proprio suo padre… No, non era una buona
idea, certamente anche lui gli avrebbe detto di andare in ospedale.
Che fare dunque? Giacomo non sapeva più a cosa appigliarsi, sentiva
improvvisamente la propria testa scoppiargli come per effetto di
un’enorme bolla d’acqua che gli stava diluendo ogni pensiero,
lasciandolo privo d’ogni determinazione logica. Gli occorreva un po’
di calma. Doveva recuperare la concentrazione. Doveva prima di tutto
capire esattamente cosa fosse accaduto. Dopo avrebbe preso una
decisione. Non doveva farsi sopraffare dallo spavento e dalla fretta di
eliminare il disagio. Era necessario avere calma. Come gli aveva insegnato
il suo analista, «non esiste una soluzione giusta, un percorso
obbligato da fare, ognuno ha la possibilità di individuare quella che è
la rotta a lui più congeniale alla soluzione dei problemi». E per fare
ciò le due condizioni essenziali sono la calma e l’assenza della paura,
perché «l’assenza di calma e la paura non hanno rispetto del tempo
che ogni opportuna soluzione richiede».
Sì. Ora aveva capito: la cosa da fare era proprio recuperare la tranquillità,
magari attraverso un po’ d’isolamento, una mezza giornata in
cui doveva provare a restare «da solo in contatto con il proprio problema
», così da poter trovare da solo la strada migliore… Ecco, sì, gli
occorreva un luogo tranquillo! Doveva allontanarsi dalla città, anche
solo per poche ore, per riflettere con meno paura. La soluzione?
Adesso ce l’aveva. Avrebbe imboccato il raccordo, da lì l’autostrada
per Firenze e in meno di un’ora sarebbe arrivato a Narni: il casale di
famiglia era il posto migliore per prendere la decisione. Lì, in solitudine,
lui avrebbe valutato cosa fare e una volta individuato il modo
più adatto di risolvere il problema, avrebbe fatto ritorno in città e
affrontato razionalmente la situazione.
Forse proprio quale conseguenza di quella rinnovata determinazione,
Giacomo sentì pian piano d’esser in grado di formulare nuovamente
pensieri logici. Accese lo stereo, accostò a destra, attese che
il semaforo di inversione di direzione fosse verde e iniziò a ripercorrere
la strada nel senso opposto. Salì sul cavalcavia della tangenziale
e si diresse verso il raccordo.
Una volta sull’autostrada, Giacomo poté fare un primo tratto di
strada abbastanza velocemente. Tutto il traffico era diretto nel senso
opposto, verso la città. In direzione nord, invece, le auto sembravano
viaggiare spedite e le corsie erano quasi deserte. Fu così fino a
Magliano Sabino, poi l’asfalto iniziò a riempirsi d’autocarri e di altre
autovetture. Giacomo decelerò, cercando di rimanere sempre sulla
corsia di sorpasso. Guardò l’orologio e calcolò che in quaranta
minuti al massimo sarebbe arrivato alla meta. Inspirò profondamente
e, ricacciando sonoramente l’aria dalla bocca, guardò il cielo sfilargli
davanti.
Preannunciate appena dalla luce improvvisa di un lampo e da un
tuono, pesanti gocce di pioggia cominciarono a cadere violente sul
vetro dell’auto, quasi fossero state scagliate proprio contro Giacomo,
a volerlo colpire in faccia. Grandi, tonde, gonfie, le gocce una volta
arrivate sul cristallo vi rimanevano attaccate senza sparire. Giacomo
guardò le prime atterrare grosse e restare immobili per qualche secondo
sul parabrezza, per espandersi frementi in tutte le direzioni. Toccò
la leva del tergicristallo per far partire le spazzole poi, con la visuale
nuovamente sgombra, schiacciò un po’ l’acceleratore per superare
una lunga fila di camion, fino a quando non si trovò proprio davanti
un’auto blu che solo qualche minuto prima gli aveva insistentemente
chiesto strada. Adesso, però, era Giacomo che gli si era fatto dietro
ma l’autista non pareva avere alcuna volontà di restituirgli la cortesia
spostandosi a destra. Innervosito per quell’ostinazione, Giacomo
decise di tentare il sorpasso da destra ma pure quella manovra si
rivelò inutile: l’altra vettura si spostò solo di poco, continuando a
viaggiare a cavallo delle due corsie. Giacomo premette allora il clacson,
diede un nuovo affondo e gli si fece ancora più sotto mantenendosi
a pochissima distanza dall’altra vettura. Per evitare d’essere tamponata,
l’auto si spostò alla fine sulla corsia di destra e Giacomo
cominciò il sorpasso.
Una volta superata l’auto blu, Giacomo lanciò lo sguardo nello
specchietto retrovisore per guardare l’altro guidatore. Vide allora la
testa dell’uomo oscillare in avanti, indietro e ancora in avanti, come
se stesse ridendo. Sì, era proprio così, stava proprio ridendo quel
figlio di puttana. Giacomo staccò il piede dall’acceleratore, si rimise
sulla corsia di destra e lasciò che l’altro gli si affiancasse nuovamente.
Ora le due auto avanzavano parallele come trainate da un
unico vettore. Quando fu certo di essere davvero in linea con l’altra
auto, Giacomo volse la testa verso sinistra così da fissare direttamente
in faccia quel tipo. Non lo comprese immediatamente, forse
per via degli occhiali da sole che l’uomo aveva sul naso, ma dopo
una prima incertezza, Giacomo riconobbe quel profilo e soprattutto
quel neo, proprio al centro della guancia destra. Scorse il sorriso
largo, appena schiumato agli angoli, gli occhiali spessi e soprattutto
l’anello al mignolo con lo stemma di famiglia… Non poteva trattarsi
che di lui…
Giacomo non ebbe neanche il tempo di domandarsi perché proprio
il dottor Di Vittorio, perché proprio il suo analista, si trovasse lì, alla
guida di un macchinone, spinto in un’assurda gara di velocità con lui.
Giacomo sentì la voce del suo medico parlargli attraverso lo stereo
dell’auto, coprendo la musica.
«Giacomo, mi sente? Giacomo, sono il dottor Di Vittorio, mi
ascolta?»
«Ma dov’è?» chiese Giacomo incredulo.
«Sono qui nell’auto accanto. Non mi ha visto?»
«Certo che l’ho vista. Ma come fa a parlarmi? Che ci fa qui?»
domandò Giacomo guardando ancora in direzione dell’auto.
«La smetta di farmi domande, Giacomo, e mi stia a sentire! Credo
che lei abbia perso qualcosa, o mi sbaglio?» lo interrogò il dottore.
«E lei come fa a saperlo, dottore?» rispose Giacomo.
«Ancora domande. La pianti, Giacomo, con le domande e mi
ascolti bene: io sono qui per aiutarla, anche se il tempo a sua disposizione
è quasi scaduto perché alle tredici ho un altro appuntamento
e devo rientrare allo studio. Però Giacomo, io sono qui per dirle che
sua madre ha quello che lei sta cercando.»
«Che cosa? Che cosa?» urlò Giacomo.
«È stato lei, Giacomo, a darglielo» rispose il dottore e continuò
«Sì, Giacomo! Gliel’ha dato lei ieri, prima di andare a cena con gli
amici. Non ricorda?».
«Ma dottore, che sta dicendo? Non la capisco. E che ne sa lei che
mi manca qualcosa?» ripeté Giacomo.
«Giacomo, ancora un’altra domanda ed io la lascio in balia dei
suoi dilemmi!» sentenziò serio il dottore.
«Ma come fa a saperlo dottore?» provò ancora Giacomo «Dottore,
io a mia madre non ho dato un bel nulla. Sì, è vero, ieri… ieri io sono
passato da lei nel pomeriggio, ma abbiamo preso un tè e io non le ho
dato nulla… almeno, non quello che pensa lei. Mi sente?… Dottor Di
Vittorio mi ha sentito?» urlò Giacomo.
«Certo la sento. Ma le ripeto Giacomo, sua madre ha quello che lei
adesso sta cercando. Se le interessa davvero, torni da sua madre e
vedrà che non mi sbaglio!» confermò il dottore. Poi dopo una breve
pausa: «Adesso la saluto Giacomo, devo rientrare a Roma. Ne riparleremo nel nostro incontro settimanale. Ci vediamo mercoledì alle
diciotto in punto… Arrivederci, Giacomo, e vada piano: non metta a
repentaglio la sua vita!» concluse il medico.
Giacomo ebbe appena il tempo di pronunciare un remissivo «Va
bene dottore». Vide poi l’auto dell’analista schizzare via davanti a sé.
Provò ad accelerare di nuovo, ma la sua auto adesso non era più capace
di riavvicinarsi all’altra vettura che si stava allontanando veloce.
Giacomo tentò di parlare ancora con il dottore, provando a rievocare
la voce toccando tutti i tasti del suo stereo, ma non riuscì a sentire
altro se non le note del CD che aveva messo prima.
Decise allora di rallentare, accostò nella corsia d’emergenza, mise
le quattro frecce e prese il cellulare che aveva sul sedile accanto. Tre
squilli e poi l’inizio del messaggio: «Questa è la segreteria telefonica
di casa Salemi, non siamo in casa…» chiuse. Sua madre era uscita,
forse per andare dal dietologo, come gli aveva detto il giorno prima.
Che fare allora? Giacomo doveva parlare con lei, posò il cellulare
rimise le mani al volante pronto ad andare da lei.
«Buongiorno dottor Salemi» lo accolse sorridendo il portiere…
«Ero salito per portare la posta a sua madre, credo però che sia
uscita. Non mi ha risposto nessuno. Lei ha le chiavi vero?» continuò
l’uomo.
«Sì, sì, certo Antonio. Devo solo prendere una cosa che ho dimenticato
ieri» rispose Giacomo quasi giustificandosi mentre richiudeva
le porte dell’ascensore.
«Arrivederci» lo salutò il portiere.
«Arrivederci» rispose frettolosamente Giacomo premendo il pulsante
del quinto piano.
Una volta in casa, benché avesse trovato la porta chiusa a doppia
mandata, Giacomo non rinunciò a chiamare la madre ad alta voce.
Attraversò il corridoio sporgendosi prima in cucina, poi in camera da
letto, ispezionò rapidamente lo studio e poi entrò nel salone.
«Mamma… mamma, ci sei?» provò a chiamarla aggirandosi tra i
divani e la biblioteca, dirigendosi verso il terrazzo, ma non udì alcuna risposta. Si voltò dal lato della stanza dove il pomeriggio del giorno
precedente avevano preso il tè. Il carrello era stato rimesso al suo
posto dietro le poltrone e tutto sembrava come al solito in ordine, le
poltrone dove s’erano seduti erano state riaccostate alla parete, anche
se i cuscini non erano stati ancora battuti e rigonfiati come faceva la
madre. Le sagome di Giacomo e di sua madre erano ancora impresse
sul velluto verde, come se i loro corpi se ne fossero appena allontanati.
Giacomo ripercorse con la mente quanto accaduto, ma l’unico
evento notabile di quel pomeriggio in cui era passato per il solito
saluto era stato il fatto che lui avesse rovesciato il tè sul tappeto. Ma
a parte tale episodio, tutto gli pareva essere accaduto secondo il
copione consueto. Eppure l’analista era stato chiaro: «Sua madre ha
ciò che lei sta cercando. È stato lei a darglielo, ieri!» gli aveva detto.
Giacomo tornò in corridoio lanciando sguardi veloci nelle varie
stanze, verso il bagno e, infine, al ripostiglio. Pronto ad andare via,
riattraversò l’ingresso: fu allora che la sua mente gli restituì l’immagine
di qualcosa di singolare che aveva appena visto. Si voltò indietro,
entrò nel bagno, avanzò in direzione della finestra, guardò prima fuori
gli alberi nel parco, poi verso l’uscita. Ma ora che si trovava di fianco
al lavandino, fu attratto dai riflessi del sole che, dalla superficie
dell’acqua immobile nella vasca, si proiettavano sulle piastrelle e
rimbalzavano dalla ceramica azzurra allo specchio sul lavandino. Lì,
al centro di quella vasca, immobile e galleggiante, eppure come ancora
dotato di una vita, Giacomo poté finalmente vedere ciò che stava
cercando. S’avvicinò al bordo con l’impulso d’afferrarlo subito.
Provò ad allungare la mano, ma una sensazione di immediata repulsione
lo bloccò. Trattenne allora il respiro, s’inginocchiò sul pavimento
e immerse la mano nell’acqua. Proprio per effetto dello spostamento
d’acqua, il suo membro, fino a quel momento immobile con
il prepuzio rivolto all’insù, si immerse appena nell’acqua per riemergere
ondeggiante verso il bordo opposto della vasca. Giacomo tirò
fuori la mano dall’acqua, se la passò in fretta sulla coscia, quindi la
riavvicinò nuovamente con l’indice teso.
Il primo contatto non gli produsse nessuna sensazione tattile, nulla
di decifrabile. Giacomo si fece coraggio, immerse di nuovo la mano
nell’acqua, ruotò con lentezza il palmo sotto, proprio in corrispondenza
dell’organo e, quasi stesse manovrando un retino, sollevò il suo
membro fuori dell’acqua. Rimase così qualche momento con la mano
semiaperta e il braccio poggiato sul bordo della vasca, poi s’alzò,
muovendosi con attenzione afferrò con l’altra mano l’asciugamano,
lo stese sulla tavoletta del water e vi adagiò delicatamente il proprio
pene. Prese il cellulare e con le dita ancora umide iniziò a comporre
il numero dello studio del dottor Di Vittorio.
«Buongiorno, studio del dottor…» gli rispose una voce di donna.
«Buongiorno signorina, sono Giacomo Salemi… avrei bisogno di
parlare urgentemente col dottore» disse con ansia.
«Mi spiace dottor Salemi, ma il dottor Di Vittorio è arrivato da
poco e ha iniziato subito la seduta, in questo momento è già impegnato
con un paziente» spiegò cortesemente la donna.
«La faccio richiamare, dottor Salemi, non appena il dottore termina,
va bene? Oppure, può provare a richiamare lei dopo le diciannove:
a quell’ora il dottor Di Vittorio dovrebbe aver finito» spiegò la
segretaria.
«La prego signorina, so che il dottore è molto impegnato, ma io ho
bisogno… ho bisogno…» s’interruppe deglutendo e poi riprese «ho
bisogno di parlargli subito. Non posso aspettare. È veramente molto
importante; non mi permetterei di disturbare, ma le ripeto è vitale che
io gli parli subito. Subito!» concluse Giacomo.
«Attenda, provo a vedere se mi risponde…» disse la donna.
Giacomo aspettò qualche secondo, poi finalmente sentì il dottore
chiedergli con voce chiara: «Ha visto, Giacomo, che avevo ragione?
Lo ha trovato da sua madre, non è vero? Ne ero certo!».
«Sì, dottore… ma lei…» provò Giacomo, ma fu immediatamente
interrotto dal medico.
«Allora tutto risolto, Giacomo. Bene, sono contento. Lo conservi
bene, per adesso, poi mercoledì prossimo, quando ci incontriamo,
vedremo come affrontare il problema. Per adesso provi a distrarsi e
mi raccomodo, Giacomo, non drammatizzi, faccia piuttosto gli esercizi
come le ho insegnato, adesso sa come si fanno, no? È un esperto
oramai! Vedrà che tutto si risolverà!» disse con tono fiducioso
l’analista.
«Ma dottore?…» cercò d’insistere Giacomo e poi supplichevolmente
«Io, io… come faccio? Devo sposarmi tra pochi giorni».
Ma il dottore l’interruppe immediatamente: «Lo so, lo so, Giacomo,
ma prima di mercoledì per me è impossibile incontrarla, sono pieno di
appuntamenti, poi da domani fino a martedì sarò fuori. Non si preoccupi,
Giacomo, mercoledì mettiamo tutto a posto: si tratta di pazientare
un pochino. La saluto, a presto, Giacomo» concluse il medico.
«Dottore… dottore» provò ancora a trattenerlo, ma la conversazione
era già terminata. Giacomo guardò ancora interdetto lo schermo
del cellulare, poi selezionò il numero di Alessandra.
«Buongiorno, mi passa il 379, la dottoressa Rinaldi, per piacere?»
disse tutto d’un fiato al centralinista.
«Attenda, prego» rispose la voce all’altro capo del telefono.
«Pronto?» chiese Alessandra.
«Pronto Ale, sono Giacomo» disse lui.
«Ciao Giacomo, ma che è successo? Ero in riunione» domandò la
ragazza.
«Ale, devo parlarti subito, puoi raggiungermi a casa di mamma?»
«Certo, certo. Ma cosa è successo?» chiese lei preoccupata.
«Non posso dirtelo al telefono, e non c’è bisogno che anche tu ti
agiti. Però sbrigati, vieni qua a casa di mia madre, ti devo dire una
cosa molto importante» replicò Giacomo.
«Giacomo, ma stai bene? È successo qualcosa a tua madre?» disse
Alessandra in cerca di rassicurazione.
«No, mamma sta bene. Adesso lei non c’è. È dal dietologo,
credo…» spiegò Giacomo.
«E tu che ci fai lì?» lo interruppe Alessandra.
«Te lo dico appena vieni. Ti aspetto qui, vieni subito?» chiese lui.
«Va bene, va bene, ma io posso essere da te non prima di una mezzora
amore. Aspettami, arrivo. Tu stai calmo, aspettami. Arrivo» lo
rassicurò Alessandra prima di riagganciare.
Giacomo spense il cellulare, scrutò per alcuni secondi la sua
immagine immobile nello specchio, si avvicinò alla tazza e lo vide lì,
adagiato sull’asciugamano. Lo osservò nuovamente qualche istante,
infine, lo prese di nuovo in mano, sollevò il coperchio della tazza e lo
fece rotolare dentro. L’acqua del fondo emise soltanto un rumore
sordo. Schiacciò lo scarico e rimase lì ad attendere che lo scroscio
dell’acqua terminasse.
Un paio di gocce gli erano rimbalzate sui mocassini. Giacomo
strappò un pezzo di carta, s’asciugò con un movimento lento le scarpe,
si voltò, ritornò in salone e si sedette sulla poltrona.
Rimase fermo, sprofondato sul cuscino con pochi e stanchi pensieri,
gli occhi assenti, rivolti alla parete sul fondo. Quando il suono
ripetuto del citofono lo svegliò dal torpore, s’alzò stordito per dirigersi
all’ingresso.
«Pronto?» disse portandosi la cornetta all’orecchio.
«Sono io, amore» annunciò Alessandra.
Schiacciò il pulsante della porta aprì la porta e si diresse come per
tornare in salone ma, come sorpreso dallo stimolo di fare la pipì,
entrò il bagno. Fu in quel momento, appena il tempo di tirare giù la
cerniera e scostare l’elastico delle mutande che Giacomo se lo ritrovò
tra le mani.
Lo guardò appena qualche istante. Provò a girarlo quasi per vedere
che fosse tornato realmente a posto e s’ispezionò sotto i testicoli.
Il rumore dei passi affrettati di Alessandra che lo stava chiamando
dall’ingresso, lo costrinsero ad abbandonare quelle operazioni, risollevò
le mutande mentre lei stava ancora chiedendo: «Amore, amore…
Giacomo dove sei?».
«Che è successo, Giacomo, dimmi?» domandò la ragazza raggiungendolo
sulla soglia del bagno.
«Nulla amore!» rispose impacciato lui.
«Come nulla? Mi hai detto che mi volevi parlare, amore… Mi
sono scapicollata per arrivare qua e mi dici che non è successo nulla!»
protestò Alessandra.
«Amore non ti arrabbiare… Oggi non sono andato in ufficio, perché
volevo pensare a noi e… ho capito che ti amo tanto e volevo dirtelo!
» le sospirò Giacomo. Lei gli si avvicinò. «Ma dici sul serio,
amore?» gli chiese ancora. «Certo tesoro mio!» annuì Giacomo, le si
avvicinò di più, l’abbracciò e iniziò a baciarla appassionatamente.
Anch'io sono una finestra?
Anch'io sono una FINESTRA?
Sono una FINESTRA STRAna.
Inizio con "FINE", ma sono la FINE o il FINE?
Inizio con "FINE", ma senza "conFINE".
Finisco con "ESTRA", che sta per "extra" uguale "fuori", come chi, diversamente da me, è considerato ESTRAneo e fatto finire fuori, gettato dalla FINESTRA.
La FINE (o l'inizio) è fuori, per chi si butta dalla FINESTRA (per suicidarsi o per salvarsi con l'aiuto dei vigili del fuoco), ma non per me, che resto dentro, a guardare dalla FINESTRA, a guardare da me, dentro di me.
Finisco con "TRA", ma non sto in mezzo e non sono il mezzo (migliore per finire).
L'inizio è fuori, per chi decide di aprire la porta-FINESTRA ed uscire.
Sono opaco o trasparente, aperto o chiuso?
Chiedo aiuto, per aprirmi o mi arrangio, da solo, per imparare?
Sono con le sbarre, solo per fare entrare da una porta, per non uscirne più?
Tanti punti interrogativi stanno alla FINESTRA, per entrare o per uscire, per bussare alla porta-FINESTRA o per sfondarla, per conoscere la risposta, fino in fondo, nel profondo.
Luca Lapi
Sull’educazione dei bambini: il meccanismo dell’imitazione
Avete dei bambini? Quale tattica usate per farvi ascoltare?
Io non ho figli, ma ho una sorella più piccola alla quale ho sempre urlato molto, moltissimo. Nemmeno so contare le volte che mi sono ritirata in stanza con un gran mal di gola, senza nemmeno aver raggiunto quello che era il mio scopo originario.
Ora lei è una bellissima piccola donna che si prepara – fra pochi mesi, ahimè, prenderà il volo – alla prima superiore, ma quando era piccola si comportava, appunto, da piccola. E come biasimarla? Io però, nel frattempo, entravo in quel periodo della vita dove le energie sono a mille ma la pazienza scarseggia. Più lei ballava e cantava mentre io studiavo, più cercavo – con quelle che erano urla spacca timpani – di convincerla ad andare in un’altra stanza, eventualmente, per provare quelle coreografie degne di Amici e quegli acuti che sembravano quelli di Adele. Non ho mai capito – ora miriadi di studi chiariscono la questione – che urlare non serviva. Nemmeno un po’.
È bene che mi segni questa regola fondamentale, nel caso di eventuali figli: i bambini sono spugne, fanno tutto ciò che ci vedono fare. Ecco perché quelle urla erano sbagliate, dannose. Le hanno insegnato, probabilmente, ad urlare a sua volta.
La frase da usare?
“Fai come me.”
Possiamo usare questa frase ogni volta che vogliamo che il bambino in questione imiti il nostro comportamento.
Prendi come me la forchetta; leggi come sto facendo io; disegna come me.
È proprio tramite l’imitazione degli adulti che stanno loro accanto – dicono gli psicologi – che il bambino inizia quello che è il suo personale processo di crescita.
Per prima cosa, impariamo a modulare il tono. Deve essere deciso, sì, ma non troppo severo. Non si deve essere duri, occorre solo cercare di esortare il bambino a seguire con attenzione ciò che abbiamo da dirgli.
Poi, seconda cosa, i gesti: no a nervosismo o chiusura; sì a gioco, amorevolezza, dolcezza.
Serve tatto, affetto. Dobbiamo apparire disponibili.
Per i bambini, il processo di imitazione inizia presto: già intorno ai due mesi di vita – tramite il meccanismo pianto/riso – sembrano interessarsi alle nostre reazioni, poi affinano la tecnica. Si sentono grandi, quando cercano di emulare i comportamenti degli adulti.
Per far raccontare la loro giornata, quale modo migliore del raccontare noi la nostra?
Rosalba Perrotta, "L'uroboro di corallo"
L'uroboro di corallo
Rosalba Perrotta
Salani, 2017
pp 324
Questo libro si legge alla svelta, scivola come acqua frizzante, no, anzi, come prosecco, e quindi alla fine uno si aspetterebbe qualcosa di più. Va bene l’uroboro, va bene la rinascita delle dame, ma qualcosa di più significativo dovrebbe pur arrivare.
Allora bisogna capire che la parte rilevante de L’uroboro di corallo, di Rosalba Perrotta, forse non è la trama, quanto, piuttosto, il modo in cui sono caratterizzati i personaggi, alcuni molto veri, altri quasi macchiette. La scrittura femminile rende avvincente anche una semplice concatenazione di gesti, come scegliere un abito, fare la valigia, preparare la tavola, cucinare. E di cose in questa storia ce ne sono tante, dai tarocchi all’antiquariato, dalla cucina, al canto.
Anastasia è una signora di settantuno anni che somiglia a Ingrid Bergman. Timida, repressa, “ammodo” e insicura, soffre per l’abbandono del marito archeologo, che l’ha lasciata con due figlie grandi, rifacendosi una vita con una donna più giovane. Le figlie sono adulte, ormai - Doriana pratica e Nuvola sognante - entrambe con problemi personali, hanno nei suoi confronti l’atteggiamento infastidito e protettivo che spesso si riscontra nei rapporti fra ragazze e madri avanti con gli anni. Grazie ad un’eredità, entra in possesso di Anastasia un palazzotto in un quartiere malfamato di Catania, appartenuto all’amante lituana (e sensitiva) del nonno, con annesse cianfrusaglie, fra le quali una spilla a forma di uroboro, simbolo di rinascita, molto ambita dal capo di una confraternita esoterica, tale cavalier Santospirito. Ognuno dei personaggi, Anastasia, Doriana, Nuvola, Igor Pastorello, Matteo etc, a suo modo è solo con i propri problemi, come siamo in fondo un po’ tutti. Doriana ha un marito depresso e un amante invadente, Nuvola non ha mai raccontato a nessuno perché si sia vista costretta a lasciare il fidanzato quasi sull’altare e, inoltre, soffre la lontananza dal padre. Tutto è raccontato con estrema leggerezza, con molta ironia. L’autrice sembra non prendere niente troppo sul serio ma, comunque, sa analizzare molto bene la psicologia dei vari caratteri.
La risurrezione di Anastasia sarà tale da portarla a contatto con persone che mai avrebbe pensato di poter frequentare, prime fra tutte le tre cugine continentali che sua madre le aveva sempre proibito di incontrare perché sconvenienti e bizzarre. Saranno proprio loro a introdurla a una nuova vita fatta di scoperte, di colloqui, di cultura e di viaggi. Dal momento in cui entra in possesso della spilla, ad Anastasia accadono solo cose piacevoli e uno stimolo interiore la induce a rinnovarsi, ritrovando persino un amore infantile, un bambino che l’aveva chiesta in moglie durante una recita scolastica. Non sappiamo se il progresso interiore e il ringiovanimento esteriore, se i nuovi corteggiatori e il ritrovato elan vital, dipendano davvero dai poteri magici dell’uroboro o se si tratti di un “effetto placebo”. Può darsi che la convinzione di avere un aiuto sovrannaturale spinga Anastasia ad agire in modo da attirare effettivamente eventi positivi. Dentro di lei le premesse c’erano, occorreva solo un impulso per tirarle fuori.
Se un significato c’è in questa storia, è il senso che può avere la vita nella terza età. Figlie distratte possono capire che una donna di settanta anni è ancora una persona, esattamente come loro? Che non può vivere solo stando attenta “a non rompersi un femore”? Che ha desideri, rimpianti e persino sogni? Che, alla fine, è sempre quella che era quando aveva la loro età? Forse invecchiare non è solo sbiadire, forse ci vorrebbero più opportunità e più considerazione per tutti. Una donna di settantuno anni ha ancora il diritto di disobbedire, quello che Anastasia non ha mai fatto nella vita. Intere generazioni di femmine sono cresciute obbedendo ai genitori prima, al marito e ai figli poi. Il loro momento non è mai giunto. La spilla con l’uroboro simboleggia la venuta di quel momento.
Sparsi nel testo ci sono anche altri temi non trascurabili, lasciati emergere tramite l’umorismo delicato che caratterizza la cifra dell’autrice, ad esempio il razzismo.
L’ambientazione è una Sicilia moderna, non legata ai soliti stereotipi ma molto caratterizzata e ancora preda di vecchi retaggi perbenistici, e persino di reminiscenze esoteriche. Fondamentale l’uso di termini dialettali.
Lo stile è vivace e ironico, si basa su dettagli molto concreti, come la tazza di Orzoro o gli arcani dei tarocchi, mescolati a suggestioni colte; la narrazione corale si fonda su un punto di vista rigorosamente circoscritto che ci fa conoscere i pensieri di tutti i protagonisti. Molto peculiari e realistici i dialoghi, dove a parlare è una persona sola. Abbiamo poi lettere, mail, canzoni.
Tutto vivace, “appetitoso”, spumeggiante… però, come dicevo, alla fine i fili della trama vengono tirati, anzi strattonati, troppo in fretta e la tanta carne al fuoco lascia a bocca asciutta.
Insomma, molto (spassoso) rumore per nulla.
C'era una volta la Romagna: "la primavera"
L’arrivo della primavera è sempre stato un momento importante nell’attività contadina. Quando ero piccola, la notte del 28 febbraio era il giorno del Lòm a Merz (il lume a Marzo) in cui la fine dell’inverno portava danze e balli. Per l’uomo, e soprattutto per l'agricoltore, la primavera è da sempre vista come un momento propiziatorio, in questo contesto il fuoco costituiva il dialogo con le forze vitali e creative della natura, forze che, dopo i rigori dell'inverno, tornavano prorompenti riportando alla vita le piante. All'imbrunire le campagne si riempivano di fuochi scoppiettanti che sembravano occhieggiarsi l'un l'altro a distanza, duravano ore ed ore, anche l’intera notte, mentre uomini, donne e bambini si radunavano attorno per scaldarsi, per propiziare l'arrivo di una buona stagione di raccolti e, mentre la malasorte ardeva tra le fiamme, cantavano e ballavano. Noi bambini spesso accendevamo un fuoco più piccolo, alla nostra portata, che consentisse di saltarlo in lungo e in largo, in una sorta di prova di coraggio, mentre recitavamo poesie dialettali “lom lom a Merz ogni spiga faga un berch...” Un canto augurale, così come ci aveva insegnato la nonna, nell’auspicio che da ogni spiga di grano si potesse alzare una bica intera.
La tradizione dei fuochi si fa risalire al tempo degli antichi romani, quando l’anno iniziava il primo di marzo e con il fuoco si festeggiava la fine dell’anno vecchio e l’avvento di quello nuovo, bruciando il tempo passato e purificando l’arrivo di quello imminente. L'origine di questa tradizione si perde dunque al tempo dei riti pagani, le funzioni che i nostri avi praticavano per onorare e invocare la protezione di Cerere e di Bacco, per noi sfociavano in feste di coinvolgente allegria al ritmo dell'organetto o dell'armonica a bocca.
I primi fiori a spuntare dopo l'inverno erano le violette, le primule, le giunchiglie che facevano l'occhiolino lungo i fossi o all'ombra degli alberi, e per noi bambini di campagna era un vanto poterne raccogliere un mazzolino da portare alla maestra che gradiva sempre il pensiero e, quando gliele porgevamo timidamente orgogliosi, vi affondava le narici e si inebriava di freschezza, sorridendo.
La natura era uno scoppio di colori, le temperature più miti, le giornate più lunghe, gli animali facevano capolino dalle tane e le farfalle ricominciavano a volare di fiore in fiore. Abbracciando con gli occhi l'aia e i terreni intorno era facile vedere piccoli pulcini uscire all'aperto, campi traboccanti di erba e uccellini volare. Il verde dei prati diventava improvvisamente brillante e in noi bambini cresceva la voglia di correre, saltare, ridere, sentivamo sulla pelle il brivido della vita che ricominciava. La maggiore attività fisica aumentava a dismisura il nostro appetito, così spesso mia cugina ed io andavamo alla ricerca di una merenda in più, un uovo raccolto dal nido, liscio, ancora tiepido fra le mani. Ci infilavamo di nascosto nel fienile, una gallina spaventata schizzava via dal suo nascondiglio, lasciando le uova appena deposte occhieggiare tra la paglia. Succhiavamo ingorde il nostro tuorlo, direttamente facendo un piccolo foro sul guscio e, guardandoci negli occhi ridenti, complici, alzavamo il braccio in un brindisi. Le case di città, come cubi di cemento, le auto che ci portano ovunque, ci hanno chiuso in trappola e succede che la primavera passi senza che ne accorgiamo.
Quello di cui ho maggiore nostalgia, pensando alle mie primavere in campagna, è quando vedevo tornare le rondini. Le code a punta, il petto bianco, laboriose, riparavano i nidi fatti di paglia e mota, abbandonati l'autunno precedente, volavano basse garrendo e formavano splendidi cerchi nell'aria, mettendo allegria.
Per i romani le rondini erano una manifestazioni dei Lari, le divinità protettrici della case degli uomini: infatti costruiscono il nido proprio sotto i nostri tetti e vivono vicino a noi. Per il nonno significava l'inizio dei lavori nei campi, dopo l'ozio invernale, la stagione buona stava cominciando. Le rondini fanno parte della nostra vita, “sono sante e benedette” diceva la nonna. Delicate, pazienti e così come loro ci insegnava ad essere nella vita .
Ero così affascinata da questo piccolo e speciale uccello che quando a scuola la maestra ci diede da studiare a memoria la poesia X Agosto di Giovanni Pascoli, mi veniva il groppo in gola e non riuscivo a recitarla
”Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini...”
mi fermavo a questo punto con le lacrime agli occhi.
I mesi trascorrevano allo scandire dei raccolti, dell'intenso lavoro dei campi che si snodavano perenni al ritmo delle stagioni. Nascevano nuovi animali a popolare non solo le stalle ma anche il cortile, le verdure da piantare nell'orto, i campi di trifoglio e la fienagione, molto importante per chi allevava bestiame e per la nonna anche le rose del giardino erano colture altrettanto importanti e andavano curate, perché, quando arrivava maggio, il mese della Madonna, lei voleva averne grossi mazzi da offrire in processione.
Noi bambini invece tenevamo sempre sotto controllo l'albero delle ciliege, era quello che ci premeva di più, appena vedevamo rosseggiare i dolci frutti fra le foglie facevamo a gara ad arrampicarci sull'albero per raccoglierli, per appenderli alle orecchie come orecchini di rubino e per farne grosse scorpacciate. Agili, scattanti, la gara era aperta fra noi e i fringuelli: una guerra all'ultima ciliegia. Poi, col tempo, arrivavano i fichi e le albicocche, tutte delizie preziose e ricche di importanti vitamine per la nostra crescita.
Giunta l'estate, la sera i campi di grano si popolavano di luci intermittenti, piccole lucciole che erano la gioia dei bambini. Spesso prima di andare a dormire correvamo fuori per riempirne un vasetto e usarle come luce di compagnia sul comodino. Le lucine si accendevano e si spegnevano a intermittenza e gli occhi stanchi si chiudevano guardando dentro il vetro incantati dal ritmo, sempre più debole, di piccole stelle che si spegnevano. La prima volta che ho visto una stella cadente è stato un'estate quando ancora non attribuivo significati di reconditi desideri a tale spettacolo. La notte era calata e si stava rientrando con l'ultimo carro di fieno. Il cielo si era acceso, puntellato di stelle, era terso, luminoso, io e mia cugina sul carro, sdraiate sulla montagna di erba odorante, guardavamo in alto assorte in pensieri più grandi di noi, perse in sensazioni che soltanto la meraviglia della natura può ispirare. Pancia all'aria, solleticata dai gambi e dalle foglie dell'erba medica, dondolata dal ballonzolio del carro traballante, ascoltavo, assonnata, il cri cri dei grilli che saliva dai campi e pareva musica assordante nel silenzio della campagna. All'improvviso una lunga scia luminosa, brillante nuvola di fuoco, si distese nel cielo, una luce incandescente nel buio. Una briciola di polvere e roccia staccatasi da un meteorite, a scuola lo aveva spiegato la maestra, ma vederla davvero lasciava senza fiato, una stella cadente e gli occhi si illuminarono, mentre stringevo la mano di mia cugina che guardava a bocca aperta. Fu un breve momento, trattenni il respiro provai ad ascoltare, ma non faceva rumore, provai a odorare e non sentii nessun profumo, eppure è tuttora uno spettacolo indimenticabile che mi riempie occhi, naso e gola ogni volta che ci penso, mentre il brivido di un attimo mi percorre la pelle.
LA STRELA CADAINTA
Am son svulté l’eltra not in un pré.....
Dio cum a sira cuntainta
A un semil spetacual a n’ira mega preparé:
a i ò vest una strèla cadainta!
Ad totti ca li èter l’ira la piò bela
Comm una cumatta, con la co iluminé
La sluseva, la fruleva, l’ira la mì strèla
E a l’impruvis l’è vgnù vers ed mé……
La m'à illuminé
La m’à abrazé.....
Mama t’i tè?
Finalmaint t’è dezis ed turner que da me!
LA STELLA CADENTE (traduzione)
Mi sono sdraiata l’altra notte in un prato
Dio come ero contenta
A un simile spettacolo non ero preparata:
ho visto una stella cadente!
Di tutte le altre era la più bella
Come una cometa, con la coda illuminata
Luccicava, si muoveva, era la mia stella
E all’improvviso è venuta verso di me….
Mi ha illuminato
mi ha abbracciato
Mamma sei tu?
Finalmente hai deciso di tornare quaggiù.
La minuscola carolina e la Chanson de Roland
La parola guerra deriva dal termine franco wërra. I Franchi furono i più famosi fra i popoli barbari. Solo i Franchi furono capaci di fermare gli Arabi, grazie a Carlo Martello, e formare un regno grande quasi quanto l’impero romano. Abitavano i territori dell’attuale Francia, erano di origine germanica e si erano mescolati ai primi abitanti di quella zona, cioè i Galli (sì, proprio quelli di Asterix e Obelix) e i romani. I Franchi erano stati fra i primi popoli barbari ad accettare il Cristianesimo e a parlare la lingua di Roma. I papi chiesero il loro aiuto contro i Longobardi che furono sconfitti dal nipote di Carlo Martello, il futuro Carlo Magno, così soprannominato perché fu un grande re che compì imprese memorabili. Era padrone della Francia e aveva tolto l’Italia ai Longobardi. I suoi eserciti, comandati da possenti guerrieri detti Paladini, si erano spinti molto lontano, rendendolo padrone delle terre che oggi si chiamano Belgio, Olanda, Danimarca, Germania, Svizzera, Austria. Dalla caduta dell’impero romano non si era più visto in Europa un dominio tanto vasto.
Carlo Magno (742- 814) era figlio di Pipino il breve e di Berta dal grande piede, la quale fu responsabile del matrimonio fra questi e la sfortunata Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio. Quando Carlo ripudiò la sposa in favore di Ildegarda, pare che la madre non l’abbia presa bene
Carlo era altissimo, robusto, forte, con naso lungo e ventre prominente a causa del gran bere e mangiare. Aveva occhi grandi e vivaci, voce chiara, amava le donne e la famiglia. La notte di Natale dell’anno 800, papa Leone III lo incoronò, a Roma, imperatore dei Romani. Il nuovo impero si chiamò Sacro Romano Impero, Romano perché prendeva il posto dell’impero di Roma, Sacro perché cristiano.
Il Sacro Romano Impero era diviso in tanti feudi. Le grandi strade erano poco frequentate e infestate di briganti, si coniavano poche monete, il commercio languiva. Molto si era dimenticato dell’arte di coltivare la terra, costruire canali per irrigarla e drenare l’acqua nelle paludi. I campi inaridivano e s’inselvatichivano. Le città venivano abbandonate e ne sorgevano di nuove dove la terra era più sfruttabile. L’Europa era un mare di foreste e steppe.
Come sviluppo del castrum, cioè dell’accampamento romano fortificato, in posizione strategica ed elevata ben difendibile, sorsero castelli, atti a ospitare una guarnigione con il castellano e la sua famiglia. Attorno al castello crebbero interi borghi, abitati da coloro che servivano il signore e ne ottenevano in cambio protezione. Durante gli assedi ci si poteva ritirare dentro le mura e resistere a lungo.
I signori del feudo si chiamavano feudatari, cioè uomini liberi che davano aiuto militare in cambio di una ricompensa ed erano vassalli dell’imperatore. Se il feudo era grande, veniva suddiviso fra altri castellani, detti valvassori, che rispondevano al feudatario maggiore. Al di sotto dei valvassori potevano esserci i valvassini. Vassalli, valvassori e valvassini erano i nobili, detti cavalieri perché avevano il permesso di combattere a cavallo.
Sebbene personalmente illetterato, Carlo dette impulso ad una riforma culturale in architettura, in filosofia, in letteratura, in poesia e nella religione. Si assistette a una vera e propria Rinascita carolingia. La riforma della Chiesa, in particolare, si proponeva di elevare il livello morale e la preparazione culturale del personale ecclesiastico. Carlo era ossessionato dall'idea che un insegnamento sbagliato dei testi sacri, non solo dal punto di vista teologico, ma anche da quello "grammaticale", avrebbe portato alla perdizione dell'anima. Carlo pretese di fissare i testi sacri e standardizzare la liturgia, imponendo gli usi romani, nonché di perseguire uno stile di scrittura che riprendesse il latino classico. Si prescrisse a preti e monaci di dedicarsi allo studio del latino e all’istruzione dei giovani. In ogni angolo dell’impero sorsero delle scuole vicino alle chiese e alle abbazie. Neanche la grafia venne risparmiata, e fu unificata, entrando in uso corrente la “minuscola carolina”. Le lettere divennero regolari, legature e abbreviazioni vennero eliminate, furono introdotti la punteggiatura, a segnare le pause, e il punto interrogativo. Da quei caratteri derivarono quelli utilizzati dagli stampatori rinascimentali, che sono alla base degli odierni.
L'Impero resistette fin quando fu in vita il figlio di Carlo, Ludovico il Pio; fu poi diviso fra i suoi tre eredi, ma la portata delle riforme e la valenza sacrale influenzarono radicalmente tutta la vita e la politica del continente europeo nei secoli successivi.
La Chanson de Roland, scritta intorno alla seconda metà dell’anno mille, appartiene al ciclo carolingio ed è considerata una delle opere più significative della letteratura medievale francese. Di natura epica, il poemetto anonimo trae spunto da un evento storico, la battaglia di Roncisvalle, del 778, quando la retroguardia di Carlo Magno, comandata dal prode paladino Rolando/Orlando, fu attaccata dai Baschi, nella riscrittura epica trasformati in saraceni, aiutati dal traditore Gano di Maganza. Fino alla fine Orlando rifiuta di suonare il corno per richiamare i rinforzi dei Franchi, facendolo solo quando si accascia morente.
Il conte Orlando giace sotto un pino,
verso la Spagna tiene volto il viso.
Di molte cose gli ritorna alla mente,
di tante terre quante ne prese il prode,
la dolce Francia, quelli del suo lignaggio,
Carlomagno che l’allevò, suo signore;
non può impedirsi di sospirare e piangere.
Ma non si vuole dimenticare di sé,
confessa le sue colpe, chiede a Dio pietà:
«Vero Padre, che non hai mai mentito,
san Lazzaro da morte risuscitasti,
e Daniele dai leoni salvasti
a me l’anima salva da tutti i pericoli
dei miei peccati quanti ne ho fatti in vita!».
Il guanto destro porge in pegno a Dio:
San Gabriele dalla sua mano l’ha preso.
Sopra il braccio si tiene il capo chino,
le mani giunte è arrivato alla fine.
Dio gli manda il suo angelo Cherubino
e San Michele del mare del Pericolo;
insieme a loro viene lì san Gabriele,
portan del conte l’anima in paradiso.
Paola Tavella e Agostino Toscana, "Deadflowers"
DEADFLOWERS
Paola Tavella – Agostino Toscana
(140 pagine, bookabook. E-book a 5€; Cartaceo a 12€)
Una storia cruda e crudele che ruota attorno a un vecchio colpo degli anni di piombo. Un colpo andato a finire male.
Sono passati trent’anni. Chris è tornato e ha il grilletto più facile di prima. Rimette insieme la vecchia banda. Indio, che è quasi come un fratello, ma soprattutto Dori, la sadica ragazzina che amava i coltelli e che ora è divenuta una donna che si guadagna da vivere in un modo spietato e disumano. Peccato che sulle loro tracce ci sia una banda di fascisti e un vecchio sbirro incattivito.
Deadflowers non è un romanzo, è un film d’azione giocato in modo straordinario tra flashback che si rincorrono fino alla fine sprigionando un senso drammatico che picchia duro nel cuore.
I due autori tracciano personaggi veri, descritti per dettagli, personaggi di cui si sentono gli odori. La narrazione è scarna ma fortemente empatica, di quelle che ti entrano dentro subito e ti scavano con le unghie laccate di rosso e le punte metalliche dei pugnali. I capitoli sono brevi, i titoli grandi, in grassetto, che sembrano martellate. Ci raccontano una città, una grande città, e come tutte le grandi città è piena zeppa di gente spenta che insegue la sopravvivenza e, sebbene in mezzo a milioni di persone, è sola. Ci raccontano di gente che vive aggrappata a un passato che gli è rimasto cucito addosso come una pelle strappata, gente che ha smesso di vivere molto tempo fa quando ha iniziato a ricordare. Di gente che aveva un sogno e la vita è andata al contrario, di gente che dà la colpa a chiunque perché non si rende conto, o forse sì, che la colpa è solo sua, perché la vita che si ritrova se l'è voluta, se l'è cercata e costruita, passo dopo passo, e lo stesso vale fino all’ultimo gesto dell’ultima scena. Un susseguirsi di azioni stupide di barche ancorate in un porto che non c’è più.
Deadflowers è carne e sangue, schegge d’ossa, coltelli e pallottole, rabbia e disillusione. Un romanzo pulp che potrebbe essere un film. È già pronto, già sceneggiato. Un romanzo pulp che ci racconta tutto ciò che non si deve fare se si vuol vivere una vita vera.
«No. Ero morto prima. Quando tu eri via. Ero morto in quel bilocale di merda sulla Tiburtina, ero morto mentre cenavo con quella stronza di mia moglie e quel coglione di mio figlio, ero morto quando al lavoro non mi cagava più nessuno, ero morto quando dovevo ricattare i tossici e gli spacciatori per arrotondare la pensione. Ora sono vivo, Chris, vivo!»
Deadflowers è l’autostrada per l’Inferno, è saltare le uscite e schiacciare fino in fondo sull’acceleratore.
Jeans e antidepressivi
Non so voi ma io mi sento più a mio agio in pantaloni, a meno che non faccia troppo caldo, allora preferisco gonne ed abiti. E, fra i pantaloni, i jeans restano i prediletti. Quelli che vanno adesso, poi, skinny ma elasticizzati, sono anche molto comodi. In questi giorni se ne trovano davvero di stilosi. Io suggerisco di comprarne un paio a stagione, ma anche di più, non sono mai troppi nell’armadio e in valigia, l’importante è che si differenzino gli uni dagli altri almeno di un particolare.
La versione che ho acquistato va tantissimo questa primavera; sono decorati con strass e perline, strappati ma chiusi da intarsi di pizzo bianco, come se sotto portassimo una calza, non sia mai che debba vedersi la ciccia brutta e vizza. Troppa pelle scoperta è volgare a ogni età, alla mia, poi, è anche stomachevole. Ci abbino la nuova maglia celeste ed ecco pronta una nuova mise che sa di primavera.
Cosa abbiamo poi?
La maglia/camicia grigia, larga, soluzione facile in ogni occasione.
La camicia nera, idem come sopra.
La camicia bordò, scollata sul retro, in una specie di crêpe. Ravvivarla con una collana (un vezzo diceva mia nonna) e portarla con un tacco, la rende adatta persino per una cerimonia.
La primavera è arrivata e mi sta rinascendo una nuova voglia di fare, di uscire, di viaggiare che credevo perduta. Forse è la cura per l’emicrania che contiene antidepressivi. L’emicrania non se ne va ma l’umore è migliorato.
I do not know about you, but I feel more comfortable in pants, unless it gets too hot, then I prefer skirts and dresses. And, among the pants, jeans remain the favorites.
Those which are up to date now, skinny but stretch, are also very comfortable. These days, you may find some very stylish. I suggest you buy a pair each season, but even more, there are never too many in the closet and in your suitcase, the important thing is that they differ from each other at least in one thing.
The version I bought is a lot fashionable this spring; it is decorated with beads, torn but closed by white lace inlays, as if, under, you were wearing a stocking. One should never see the ugly and withered flesh underneath. Too much exposed skin is vulgar at all ages, at mine is sickening.
We can match the jeans with the new light blue jersey and there you have a new outfit that smells of spring.
What we have then?
The gray shirt, an easy solution for every occasion.
The black shirt, ditto.
The burgundy shirt, low-cut at the back, in a kind of crêpe. Enlivened by a necklace (a “vezzo” my grandmother used to say), and worn with high heels, makes it a suitable outfit even for a ceremony.
Spring is here and I feel a new life inside, a desire to do things, to go out, to travel. Maybe it's the cure for migraine containing antidepressants. The headache does not go away, but the mood is improved.
Sesso e amore e controllo maschile in libri da due milioni di copie: il caso di Meredith Wild
Anni e anni di lotte, di manifestazioni, di movimenti, di scioperi affinché la donna potesse giungere all’emancipazione. Affinché potesse avere il diritto di esistere senza che l’uomo avesse ruolo chiave in quella sua esistenza. Affinché potesse smettere di essere considerata inferiore, stupida, incapace.
Anni e anni di lotte affinché potesse cessare di essere considerata una lavastoviglie e un’incubatrice. Affinché potesse diventare un anello della catena lavorativa. Affinché potesse dimostrare il suo valore, competere con l’uomo, scalare vette mai raggiunte.
Anni e anni di lotte, ma non siamo ancora andati troppo lontano… la prova è in ciò che ci circonda.
In un mondo che la maltratta, che la umilia, che la uccide e che la stupra, la donna cerca a tentoni di dimostrare il suo valore, la sua forza. Anche quando viene accusata di aver cercato una violenza perché poco vestita; anche quando in un Parlamento Europeo viene tacciata di scarsa intelligenza; anche quando non viene assunta a lavoro perché, si sa, la donna non vale quanto l’uomo e a un certo punto le verrà voglia di mettere su famiglia; anche quando la sua morte non fa rumore.
Facciamo finta di essere diversi, di esserci emancipati, ma non è cambiato il succo.
L’uomo la vuole lì, in una cucina immacolata, a sfornare torte margherite per lui e a partorire i suoi figli – meglio maschi, eh –. Perché è questo il suo compito, no? Preparare spuntini per il suo uomo, accoglierlo in casa quando torna da lavoro e, remissivamente, porgergli tutto l’amore che prova in quel suo cuore dolce. Stamparsi su una faccia da “farei di tutto per te”, vestire una gonna con i quadrati al ginocchio, essere felice per ciò che la vita le ha concesso: un marito. E quando non lo fa, in certi casi muore; viene sfigurata; viene picchiata.
Be’, in questo mondo, signori, i libri che vendono, quelli che fanno soldi grossi, sono quelli dove l’uomo è ricco, bello, potente e ha bisogno del controllo. Quelli dove la donna rinuncia alla sua indipendenza – parzialmente o totalmente – dovendo riferire al suo boss ogni spostamento, ogni respiro, ogni conversazione.
Questi libri hanno qualcosa di insano, di perverso, di marcio e non certo per l’argomento amoroso o per le parti erotiche – che poi, di grazia, cento scene tutte uguali danno la nausea dopo un po’, o no?
Si parla sempre di Cinquanta Sfumature, ma anche Meredith Wild con la sua Saga non scherza.
Il secondo volume della saga è peggio del primo – che certo non mi aveva entusiasmata comunque – sotto più punti di vista.
Erica è follemente innamorata di Blake. Lui hackera il suo account, pretende che lei non faccia nulla senza il suo consenso, la segue. La domina. Lei un po’ si stranisce, ma quando lo vede tutto passa in secondo piano.
“Blake aveva le sue belle contraddizioni. Un attimo era dolce di una tenerezza struggente, l’attimo dopo riusciva a mandarmi su tutte le furie con la sua mania di controllo compulsivo.”
Lui è stato un colpo di fulmine, una manna dal cielo, un meteorite. Ha bisogno di comandare ed Erica glielo concede. Come farebbe senza di lui? Le dà sicurezza nella vita quotidiana e le dona, fisicamente parlando, qualcosa che non sa nemmeno spiegare.
Soprattutto a letto, ha bisogno di sapere che lei farà tutto ciò che lui desidera. Dipende da lui. Da ogni sua parola. Da ogni suo gesto. La ribellione non è ammessa. Lei è una marionetta, una bambola. Lui è il capo.
“«Stenditi e non farmelo ripetere un’altra volta.»
Ripresi il respiro che avevo trattenuto, improvvisamente intimorita dal tono autoritario della sua voce. Il pensiero di protestare per quella semplice ma potente richiesta era lontano e fu subito travolto dal desiderio che lui prendesse il controllo del mio corpo per tutto il tempo che ritenesse opportuno. Obbedii e mi stesi sulla schiena. (…) Di nuovo il rumore di una busta e poi mi legò i polsi con una stoffa setosa e strinse il nodo, non lasciandomi alcuna possibilità di liberarmi.”
Si fa trattare come un oggetto sessuale per compiacerlo, si fa punire con la convinzione di aver meritato quel male. Soffoca il pianto e i sussulti. La sua anima intera, squarciata per l’umiliazione, trema. Poi, inaspettatamente, le piace. Il dolore la acceca, però nel frattempo freme di piacere. Ma che si è fumata, questa Wild?
“«Non ti sei comportata tanto bene mentre sono stato via, vero?» Scossi il capo più che potei. Il suo palmo si stampò duramente sul mio sedere. Sussultai per lo shock del dolore. (…) Era così severo che giurai fosse una vera punizione. Volevo che fosse così, e mi concessi di crederlo. Mi convinsi che Blake mi stesse punendo e glielo lasciai fare. Per aver scatenato la sua gelosia, per aver premesso a James di avvicinarsi tanto. (…) Tutto il mio corpo si irrigidiva a ogni colpo. Perché lo stai facendo? Le lacrime bruciavano gli occhi, la gola era chiusa dall’emozione repressa. Te lo meriti. L’hai voluto tu. Prenditele. Prenditele tutte.”
Fa tutto quello che lui vuole che faccia, persino convincersi che quello sia un amore giusto, equo. Che sia un amore speciale, diverso, bello e puro. Quello dove lui dà ordini e lei si sottomette, insomma, è un miracolo.
“«No, aspetta, ti prego» Sospirai e mi premetti le tempie, infastidita da quello che stavo per ammettere. «C’è una parte di me… Anche quando mi sforzo di bloccare ogni passo che fai, c’è una parte di me che vorrebbe darti il controllo di ogni cosa. Sottomettersi per la vita.»”
Va avanti così, con scene di sesso miste a problemi; sono molti gli ostacoli che la coppia modello dimostra di saper affrontare, sempre mano nella mano e con un frustino per animali a tracolla.
Il padre di Erica – che conosce da una manciata di giorni, ricordiamolo – cerca di comandare la ragazza offrendole un accordo – probabilmente l’uomo è destinato a comandare, per l’autrice –; non si capiscono le motivazioni di questo sbattimento di testa da parte del politico rampante, né si comprende perché scelga proprio lei visto che è un pericolo farla entrare nella sua vita proprio in quel momento.
L’impressione è che serva un diversivo, un motivo perché Erica possa dimostrare appieno l’amore per il suo lui. Quale modo migliore, se non quello che rinunciare a lui per un ordine che arriva da un uomo senza scrupoli?
Ed ecco di nuovo, a ruota e senza che al lettore venga concesso un attimo di pietà, un vortice di bugie, gelosia, desiderio e colpa. E pianto e mezzi tradimenti e mezze comprensioni.
Come poteva mancare l’altro uomo?
James, bello da paura e dolce come un cannolo ripieno, le fa la corte. Lei quasi cede, poi però si ricorda di ciò che è Blake per lei. Non sia mai.
Alla fine Erica dimostra un po’ di spina dorsale. Però non con Blake, da lui continua a dipendere come una pianta dalla terra.
Contenta lei.