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Don Gaetano

3 Agosto 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

 

                                                  

 

 

La farmacia De Santis poteva vantare la più antica data di nascita, fra le attività commerciali della zona era considerata un’istituzione. Si poteva affermare che fosse lì da sempre. Il suo fondatore fu un oriundo calabrese, un certo Gerolamo De Santis che era al seguito della spedizione dei Mille. Unificata l'Italia, decise stabilirsi a Napoli e, mettendo in pratica le sue conoscenze e le capacità, aprì una bottega di speziale. Quell’iniziativa incontrò il favore del pubblico e ben presto conquistò stima e rispetto della gente. Alla sua morte, il figlio Giovanni, laureatosi in farmacia, rimodernò i locali, perfezionò le ricette del padre e, con un’accorta conduzione, portò la farmacia al suo massimo splendore.

Davanti alle vetrine si soffermava la gente bene della città, venivano da tutte le parti, per vedere e farsi vedere. Era diventato un punto d’incontro, una tappa obbligata fra i luoghi mondani della città. Il bancone alto e tirato a lucido, di puro mogano, occupava quasi interamente la parete frontale. Dal soffitto pendeva un grosso lampadario di cristallo che rifletteva la sua luce sul pavimento di mattoni rossi passati a cera. Alle pareti laterali, graziose vetrinette a muro abbellivano il locale con il loro contenuto di vasi in porcellana, cristallo e deliziose boccette d'opaline di tutte le misure.

Giovanni, impeccabile nel suo camice bianco odoroso di lavanda, intratteneva i clienti con affabilità, alle signore e ai bambini offriva delle caramelline alla menta di sua produzione, per gli  uomini, invece, aveva dei morbidi e aromatici sigari che riusciva a procurarsi chissà dove. Giovanni fu una persona stupenda, capace anche d'atti di coraggio durante la guerra, si sposò ed ebbe un matrimonio felice, non lo fu invece con i figli, le prime due figlie, nonostante le sue amorose cure, rimasero gracili e delicate, non riuscirono a trovare marito e restarono due zitelle acide e bigotte. Il tanto desiderato figlio maschio, Gaetano, dimostrò fin da piccolo la sua avversione per quel mestiere, non aveva la capacità di proseguire il lavoro del padre. Era di carattere pigro e lascivo, non si curava della sua persona più di quanto non si occupasse del negozio. La sua occupazione preferita era andare a caccia di donne, cercava sempre di palpare le lavoranti del laboratorio della farmacia. Molte volte il padre lo aveva sorpreso nel retro, con il viso arrossato e gli occhi stravolti. Alla morte di Giovanni, suo malgrado, dovette assumersi la responsabilità di portare avanti la farmacia.

Quello fu l’inizio del declino della farmacia De Santis - i clienti, anche i più affezionati, cominciarono a diradare le visite. Provavano repulsione per quell’individuo dai modi sgradevoli e dall’aspetto ambiguo. Aveva un qualcosa di viscido che dava fastidio a tutti. Abbandonati a se stessi, i locali acquistarono una patina di polvere e di sporco, l’intonaco dei muri cominciò a sfaldarsi, i mattoni del pavimento, non più passati a cera, si sgretolarono.

Don Gaetano non aveva mai goduto buona fama nel quartiere, né da ragazzo e nemmeno adesso che era arrivato alle soglie dei cinquanta anni. In tutti questi anni, sul suo conto  erano nate molte dicerie, gli anziani raccontavano di strane storie di donne, episodi piccanti che avevano come protagonista sempre e solo lui, il farmacista. Anni prima era stato anche coinvolto in una brutta storia con una ragazzina di tredici anni, fu scagionato, ma i dubbi restarono sempre su di lui come un ombra.

Il commento più frequente fra la gente del posto era che era “malato”. Il suo aspetto contribuiva ad alimentare le voci su di lui. Indossava perennemente un camice nero dove le chiazze di sporco erano lucide in più punti, specie ai bordi delle tasche dove portava dei fazzoletti che gli servivano per asciugarsi il sudore, cosa che faceva di continuo in tutte le stagioni. Nelle stesse tasche portava caramelle alla menta di cui faceva uso frequente. Per coprire la sua calvizie indossava una specie di papalina nera che non riusciva ad evitare che due ciuffi di capelli grigiastri  uscissero dietro le orecchie dandogli un aspetto alquanto ridicolo. Alla presenza di una donna i suoi occhietti grigi e cisposi si animavano e si mettevano in movimento percorrendo da capo a piedi la malcapitata. Il suo viso grasso e flaccido cominciava a sudare e allora i fazzoletti entravano in azione, viceversa, se l’avventore era un uomo, non lo degnava di uno sguardo e se ne liberava il più presto possibile.

La scarsa clientela che ormai entrava nel suo negozio era limitata a quella più povera, qualche padre di famiglia in difficoltà, disoccupati e stranieri. Erano in pochi a credere ancora nei preparati artigianali, la maggior parte preferiva le farmacie moderne con vere medicine. Gaetano sembrava non dare importanza a queste cose, continuava la sua vita di sempre, fino a quando, proveniente dalla strada principale, una carrozza venne avanti lentamente. Giunta davanti alla farmacia, si fermò per far scendere due anziane signore, piccole e minute, vestite in maniera di altri tempi; sembravano uscite da una stampa di fine ottocento. Con passo deciso entrarono nel negozio e chiusero la porta. L’evento non mancò di suscitare curiosità nel quartiere, era raro vedere una carrozza e, ancora  più raro, vedere due signore anziane vestite in quel modo. La gente si poneva domande, chi erano quelle due anziane donne, cosa potevano volere da Gaetano il farmacista. A por fine alla curiosità pensarono le due vecchiette che, dopo più di un’ora, uscirono e se n'andarono come erano venute, in quella carrozza che le aveva aspettate. Dopo pochi minuti, uscì anche Gaetano in uno stato pietoso, rosso in viso, senza il suo abituale berretto, sudato oltre ogni limite, cercando di arginare il copioso sudore. Nonostante l’orario chiuse in fretta la farmacia e si avviò verso casa.

Da quel momento la farmacia fu transennata per lavori e restò chiusa per oltre un mese. Una mattina una squadra d'operai la circondò e tolse le tavole che la nascondevano agli occhi curiosi della gente. Al posto della vecchia insegna e del fatiscente negozio che era diventato, una nuovissima insegna bianca e verde annunciava l’apertura del  “COVO DELLE STREGHE “Erboristeria De Santis". Tutto era nuovo fiammante: pavimenti, vetrine, il banco, tutto nelle sfumature di colore verde e bianco, tutto molto chic e accogliente. A ricevere i clienti due simpatiche e ossute vecchiette, adorne di trine e merletti.

Di Gaetano nessuna traccia, non faceva più parte del locale. Si venne a sapere col tempo che le sorelle, stanche del suo operato, avevano deciso di toglierli la conduzione della farmacia, prima che andasse completamente in rovina, e lo avevano relegato in laboratorio a preparare le misture di erbe. Purtroppo anche lì dava fastidio, le ragazze si lamentavano della sua presenza, allora le due vecchiette decisero di rispedirlo al paese natale con una lettera d'accompagnamento per il parroco locale che si prendesse cura della salvezza dell’anima del loro congiunto “malato” .

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Flavio Bulgarelli, "Un'aquila nella notte"

2 Agosto 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

 

Un’aquila nella notte

Flavio Bulgarelli

Phasar Edizioni, 2018

pp 421

15,00

 

Un’aquila nella notte, di Flavio Bulgarelli, è un libro ben fatto. Struttura narrativa credibile e sostenuta, ottimo ritmo dei dialoghi, linguaggio scorrevole e corretto. Ed è anche un libro molto interessante, di, chiamiamola “azione storica”.

Tuttavia è un romanzo per addetti ai lavori, per appassionati non solo di vicende della prima guerra mondiale ma anche di aeroplani, idrovolanti e volo pionieristico in generale. Insomma, per esperti di aeronautica. Pochi lo sono e soprattutto non lo sono le donne. Confesso di aver iniziato la lettura con ottimismo, vista la buona qualità della scrittura, ma di aver proceduto con difficoltà e di essere arrivata alla fine con sollievo.

Le vicende narrate, seppur romanzate, sono realmente accadute. Protagonista è un coraggioso pilota italiano, Eugenio Casagrande, durante la Grande Guerra. Le sue azioni sono narrate con partecipazione e attenzione ai dettagli e ai particolari, ma le sue varie missioni con l’idrovolante  - per trasportare agenti da infiltrare nelle linee nemiche durante gli ultimi mesi di guerra – risultano, per un palato non avvezzo,  ripetitive e fin troppo tecnicistiche, più da saggio che da romanzo. Manca un vero e proprio coinvolgimento emotivo degli attori, manca la tensione etica della guerra, mancano emozioni come paura, dolore, tormento nel rischiare o dare la morte.

Romanzo storico a tutti gli effetti, dunque, dove agiscono e si muovono personaggi reali, come Casagrande e alcune figure di rilievo, insieme con altre totalmente di fantasia. Però il vero protagonista è l’idrovolante, con l’ebbrezza del volo notturno, la difficoltà e, insieme, delicatezza e precisione dell’ammaraggio, un dolce posarsi su specchi d’acqua alpini illuminati dalla luce della luna.

Figura di spicco, anche se non sviluppata né analizzata dall’interno, l’agente Anita, alias Giudy, cantante infiltrata fra gli ufficiali dell’impero austroungarico, bella e coraggiosa. Altrettanto si può dire di Casagrande, combattente impavido che non sbaglia mai un colpo, prototipo dell’eroe italiano cui tutti vorrebbero assomigliare.

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Il regista dimenticato

1 Agosto 2018 , Scritto da Pietro Pancamo Con tag #pietro pancamo, #racconto

 

 

 

Esitò, quando il meteo tacque. L’occasione era propizia – si rese conto, spegnendo la radio –, ma la forza per attuare il “piano” (peraltro già studiato e preparato da tempo) tardò a presentarsi, lì per lì. L’anima non s’atteggiava all’ardimento, per dirla col poeta. Oh nessun problema, ad ogni modo, perché eccolo il rimedio: scherzare fra di sé. «Lo schiocco secco del cuore che si spezza è proprio come quello di un ciac in campo», pensò, allora. E all’improvviso trovò il coraggio: un coraggio amaro, che l’accompagnò per mano alla rada solitaria.

Così adesso, in quell’esterno notte che si era scelto, il regista dimenticato non voleva tornare più alla vita che lo aveva diseredato, né gli riusciva di capire se a gonfiare il genoa e spingere il piccolo cutter malandato fossero le frequenti scosse d’aria o le immagini “ondose” che il vecchio proiettore a bobine – dall’alto del suo treppiede, assicurato con gomene e cime a proravia – drappeggiava sul bianco agitato della vela. Guardandola, continuava a ripetersi: «Senza il minimo dubbio, “Marosi alla deriva” è stato il mio film migliore!». E mentre una stilla di sorriso iniziava a formarsi sulle sue labbra, gli sembrò di scorgere i flash dei fotografi.

Ah, no… erano i lampi. Quelli, per ora lontani, della tempesta in arrivo. Il bollettino dei naviganti, beh non si sbagliava.

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Arte al bar: PICASSO Guernica

31 Luglio 2018 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #arte, #pittura, #arte al bar

Guernica di Picasso e l'omaggio di Walter FestGuernica di Picasso e l'omaggio di Walter Fest

Guernica di Picasso e l'omaggio di Walter Fest

 

 

Nuovamente benvenuti alla signoradeifiltri, amici lettori del blog più cultural fan che ci sia, e devo ammettere di essere un po' pazzo con questo caldo a parlarvi di arte. Eh già, state sognando le vacanze al mare, ai monti... uelà, mica vorreste scartare le città d'arte eh?! E quindi, per rimanere in tema, oggi eccomi qui seduto al mio solito tavolino al bar più artistico del mondo. 

Ho con me la foto di "Guernica" e parleremo di Picasso. Non sono solo, c'è con me Dalia la torinese, una signora semplice ma scrittrice, timida ma di cultura, una bella persona con un incredibile bagaglio culturale e dovrò stare attento a come mi esprimo, rischio che mi faccia pagare il conto al bar per tutta la comitiva; per fortuna oggi siamo solo io, lei, Gianni il barista e Giovanna la milanese che, come al solito, gioca al biliardo fumando il suo sigaro spento.
 

- Dalia, buongiorno.
 

- Buongiorno a te, giovane da strapazzo!
 

- Cominciamo bene, chi ti ha fatto arrabbiare?
 

- Siamo alle solite, la gente che vedi guidare la macchina con una mano sola mentre con l'altra parla al telefonino.
 

- Hai ragione, questa società sta diventando sempre più disconnessa.
 

- Più che altro.....
 

- Dai, non prendiamocela, siamo sicuri che la cultura può fare molto per migliorare la quotidianità, per esempio molti conoscono Picasso per le sue opere astratte ma non sanno che è stato un bambino prodigio. Aveva nel dna le caratteristiche del genio, superiore per talento anche al padre, anch'esso un bravo artista, poi, crescendo, ha sviluppato le sue doti artistiche parallelamente a una personalità, come dire, accesa. Ma sì, insomma, un bel caratterino, un grande artista, un infaticabile lavoratore dell'arte ma anche un personaggio facilmente infiammabile!
 

- Eh sì, quando ci vuole, ci vuole, questo mondo non è per galantuomini e a volte servono le maniere forti...


- Se Picasso non fosse stato un artista, penso sarebbe diventato un poliziotto, uno di quelli che fanno rispettare la legge con le buone o con le cattive, sempre pronto a difendere le giuste cause.
 

- Walter, questo mondo ha da sempre bisogno di cultura, di poesia, di arti che aprano la finestra su un bell'orizzonte di colori splendenti.
 

- Ma nel 1937, dopo il bombardamento della cittadina Spagnola di Guernica, Picasso mise da parte i suoi soliti colori, si sentì di essere una furia creativa molto incazzata,(amici lettori scusateci ma doveva essere la realtà), e, quando venne il momento di realizzare l'opera per l'Esposizione Mondiale di Parigi, in essa riversò tutta la sua rabbia per rappresentare un episodio tragico. Era il suo linguaggio per descrivere la crudeltà e l'inutilità della guerra, la tela è di grandi dimensioni 350x780 circa, non ci sono i celesti, i rossi, i verdi, gli arancioni, né viola o bluette, nessun colore a rappresentare la vita, tutto è nelle tonalità del bianco e nero, come in un film degli anni '30 e, come la pellicola di un film, passano i fotogrammi con le immagini drammatiche.

Sì, Picasso ha dipinto un film con i fermo immagine, non c'è profondità, le immagini passano davanti agli occhi lasciando orrore e disappunto nell'osservatore. Come la pellicola di un film che scorre sullo schermo della vita, tutti sono in primo piano, quasi a far entrare lo spettatore all'interno dell'opera e vivere il dramma insieme ai protagonisti del quadro. Il fondo è di uno spento nero, il resto in primo piano dai toni chiari, come a mettere in risalto la tragedia. Sulla base, sdraiato, il soldato dalla spada spezzata, contorto, aggrovigliato con le altre forme dilaniate, astratte ma, allo stesso tempo, realistiche. La scena di guerra in un capovolgimento di equilibri, mura abbattute e annerite dal fumo, il grigio offusca i colori, al centro il cavallo imbizzarrito sembra dare tristemente il ciak alla scena, i volti terrorizzati di gente sconvolta, una mamma con in braccio il figlio, il toro impaurito che sembra impossibile non vederlo pronto alla carica, oh sì, Pablo Picasso, lui sì doveva proprio essere molto infuriato, non c'è traccia di rosso sangue, non sono i particolari che vuole rappresentare, ma solo la sua furia creativa attraverso forme astratte, e poi la lampada in alto al centro sopravvissuta al bombardamento a illuminare la scena, tutti devono vedere il dramma, e la mancanza di colore mette la parola fine alla vita.
 

- Walter, è vero che una copia di quest'opera è stata esposta in un palazzo pubblico internazionale ma è rimasta coperta da un drappo blu in una determinata occasione perché in antitesi con una argomentazione a tema bellico che sarebbe andata breve in discussione?
 

- Sembra proprio di sì.
 

 - Allora l'arte può anche far paura?
 

- Dalia, era proprio quello che desiderava comunicare Picasso a quei sordi che non volevano udire, ma, nonostante tutto, all'interno dell'opera, ha inserito un segno di speranza: in basso, al centro, vicino a uno zoccolo del cavallo, dei fiori che, nella loro astrazione, possono simboleggiare la vita che dopo il dramma continuerà. L'arte ha il compito di essere una portavoce dell'ottimismo.
 

- Senti, che ne dici di andare a fare un giro in bicicletta?
 

- Ma, Dalia, ti sei impressionata?
 

- Mi sembra che da allora non è cambiato nulla, continuano guerre e drammi umani, eppure voglio vedere la cosa dal lato migliore, ecco perché ti chiedo di andarcene a fare una pedalata e, se arrivi ultimo, paghi la pizza.


- Ma Daliaaa!!!... Amici lettori della signoradeifiltri, è meglio che vada, qui si mette male, io e la mia amica torinese vi salutiamo e ci vediamo al prossimo artista, se volete venire pure voi a fare un giro in bicicletta, sbrigatevi, che Dalia non la batte nessuno.
 

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Il mito

30 Luglio 2018 , Scritto da Laura Nuti Con tag #laura nuti, #miti e leggende, #sezione primavera

 

 

 

 

I miti originari, anche greci e romani, non sono quelli conte­nuti nei testi poetici giunti fino a noi.

Il mito ha un argomento, una trama fissata a grandi linee, dei personaggi che ogni poeta può trasformare e rielaborare. Queste trasformazioni e rielaborazioni hanno un autore, il mito no: esso viene trasmesso oralmente da una generazione all'altra, senza che si sappia chi lo ha creato; la sua storia si perde nel tempo e nello spazio. Per questo il mito è un «racconto tradizionale».

Quindi anche le storie narrate da Omero, e da altri grandi poe­ti greci, provengono da un passato lontanissimo, di cui si è perduta ogni traccia. I miti originari sono racconti trasmessi oralmente, una forma particolare del «raccontar storie»; e queste storie sono così affascinanti e importanti per gli antichi da venir tramandate di generazione in generazione, fino a raggiungere la forma scritta.

Perché proprio alcuni racconti sopravvivono attraverso i seco­li mentre tanti altri vanno perduti? Molto probabilmente per la bellezza della storia in quanto tale e per l'importanza che essa ri­veste presso il popolo che ne è l'autore. I miti, infatti, vogliono esprimere delle leggi eterne, che spiegano la nascita del mondo e dell'uomo, degli animali e delle piante, della società e delle sue istituzioni; raccontano fatti accaduti in epoche primordiali, fuori dal tempo, in seguito ai quali l'uomo è diventato quello che è, cioè una creatura che deve nascere, crescere, invecchiare, morire; motivano l'esistenza di alcuni riti e definiscono i rapporti fra dèi e mortali.

Il mito è quindi una storia piacevole da ascoltare, cioè ben riuscita dal punto di vista della narrazione, che trasmette messaggi importanti riguardo alla vita in generale, e alla vita nell'ambito della società, in particolare.

In una civiltà che non usa la scrittu­ra, i racconti rappresentano la principale forma di comunicazione fra persone della stessa età e fra giovani e anziani, sono un modo per istruire, per tramandare conoscenze e valori, una specie di sa­pienza ereditata dai passato: la memoria è uno strumento impor­tantissimo per trasmettere la cultura di un popolo.

Una figura di grande rilievo in questo tipo di società è «ae­do», il poeta girovago, simile al cantastorie medievale, che cono­sce moltissimi racconti e va in giro a narrarli, accompagnandosi con la cetra. Queste storie, destinate soprattutto ad allietare le se­re dei ricchi signori del tempo e dei loro ospiti, possono durare per ore e vengono perciò ogni volta trasformate e ampliate.

Così, passando di bocca in bocca, di generazione in genera­zione, i miti si sviluppano e si arricchiscono, mutano nei partico­lari perché cambiano gli interessi e le caratteristiche di chi ascolta; i temi centrali invece, i messaggi universali che questi racconti vo­gliono trasmettere, rimangono costanti nel tempo.

Oltre ai miti, esistono altre storie tradizionali che hanno delle caratteristiche proprie e particolari: le saghe, le leggende, le favole e le fiabe.

In generale, per «saga» si intende il racconto o la storia ro­manzata di una famiglia o di un gruppo (ad esempio la saga dei Nibelunghi); la leggenda, invece, parla di un evento storico non troppo lontano nei tempo, che é stato rielaborato dalla fantasia popolare (ad esempio la leggenda della fondazione di Roma; le leggende riguardanti la vita di Carlo Magno); la favola è caratte­rizzata dalla presenza di animali o cose che pensano o agiscono come uomini e ha scopi moraleggianti (ad esempio le favole di Fedro, Esopo, La Fontaine); la fiaba, infine, è una storia di intri­ghi, nella quale sono presenti mostri, giganti, esseri fantastici co­me fate, streghe, gnomi… (ad esempio le fiabe dei fratelli Grimm).

 

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La bottega dell'arte di Walter Fest

29 Luglio 2018 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #pittura, #arte, #la bottega dell'arte

 

 

Image source: http://sagitta55.blogspot.it

 

 

 

Probabilmente i più giovani non conoscono a fondo il termine "bottega". Sapranno vagamente cosa sia un laboratorio ma la "bottega" è un altra cosa. Non ce ne stupiamo perché, con il passare del tempo, la tecnologia più moderna allontana la nostra società dal modus operandi delle passate generazioni.

La bottega era il regno degli artigiani, luogo dove uomini e donne lavoravano esclusivamente con le proprie mani, luogo dove si respirava un atmosfera di lavoro appassionato e svolto con amore. La professione non era solo un'espressività di talento, ma anche una vera missione e, al termine di ogni qualsiasi ciclo produttivo, il risultato era sempre un capolavoro prodotto da un essere umano senza l'ausilio di un computer o di uno strumento intelligente.

E sarete d'accordo con me, concedetemi la parafrasi, le fettuccine e gli gnocchi fatti a mano da nonna hanno un altro sapore rispetto a quelli fabbricati in serie.

Pertanto, oggi ho il piacere di aprire la serranda virtuale di questa bottega all'interno della signoradeifiltri, nella quale incontrerò costantemente degli artisti, dei bravi artigiani, per parlare delle loro opere a beneficio dei lettori di questo splendido blog, nella speranza di coinvolgervi fra i colori e le armonie dell'arte.

Per tutti gli artisti che vogliano entrare in questa oasi potete contattarmi.

Mail to: w.festuccia@libero.it

Inviatemi le foto delle vostre opere, che avreste piacere venissero mostrate e discusse, io e la redazione della signoradeifiltri vi aspettiamo.

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Beata panzanella

28 Luglio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #eventi, #ricette

 

 

 

Dal 28 al 30 luglio torna a Montalcino (SI) la Festa titolare del Beato Giovanni Colombini con la seconda edizione di 'Beata Panzanella, gara gastronomica, giocosa ma non troppo, dedicata al tipico piatto povero toscano e al suo inventore 

Chiunque potrà partecipare alla tre giorni di festa e al concorso – in programma domenica 29 luglio – con una propria ricetta, 

che verrà valutata alla cieca da una giuria di giornalisti ed esperti. Ma anche il pubblico potrà assaggiare e dire la sua.

 

Fattoria dei Barbi | Loc. Podernovi 170 | Strada Consorziale dei Barbi | Montalcino SI

 info@fattoriadeibarbi.it

www.fattoriadeibarbi.it

 

Montalcino (SI). I Colombini della Fattoria dei Barbi Montalcino |www.fattoriadeibarbi.it, celebri produttori di Brunello, sono la più antica famiglia documentata a Montalcino: nel 1352 Tommaso costruì il Castello di Poggio alle Mura e dopo pochi anni il Beato Giovanni predicò nella chiesa di S. Agostino.

Per ricordare sei secoli e mezzo di matrimonio con questa bella terra, i Colombini celebrano ogni anno a fine luglio la Festa Titolare del loro Beato: quest’anno in programma saranno tre i giorni di festa, sabato 28, domenica 29 e lunedì 30 luglio, in cui saranno aperte gratuitamente le parti storiche delle cantine di invecchiamento, i giardini privati e il Museo del Brunello a tutti i visitatori.

Da sabato a lunedì compreso ci saranno visite guidate gratuite - con orario 12:00, 15:30 e 17:30 - con racconti, aneddoti e curiosità e, domenica 29 luglio, per il secondo anno, la divertente “disfida della panzanella”, piatto che la leggenda vuole inventato proprio dal Beato Giovanni: un concorso gastronomico – Beata Panzanella - che invita tutti gli appassionati di cucina tradizionale toscana a mettersi in gioco e a presentare la propria interpretazione del piatto. 

Chi lo desidera potrà mangiare sia a pranzo che a cena alla Taverna dei Barbi che per l’occasione presenterà la rivisitazione della Panzanella del Beato a cura dello chef Duccio Lorenzini uno speciale piatto medievale ispirato ai tempi in cui visse il Beato, ma ci saranno anche tanti piccoli assaggi gratuiti per tutti di vini, salumi e formaggi della Fattoria. 

Per iscriversi al concorso, prenotarsi per pranzo o cena o per avere ulteriori informazioni sulla Festa titolare del Beato Giovanni Colombini e sulla gara Beata Panzanella

 info@fattoriadeibarbi.it 

 

CONCORSO GASTRONOMICO

'BEATA PANZANELLA 2018 | seconda edizione

GARA GASTRONOMICA, GIOCOSA MA NON TROPPO, DEDICATA AL TIPICO PIATTO POVERO TOSCANO E AL SUO INVENTORE, 

IL BEATO GIOVANNI COLOMBINI, NEL GIORNO DELLA SUA FESTA TITOLARE

Chiunque può partecipare alla disfida, purché non sia un professionista della ristorazione e abbia voglia di divertirsi.

Semplice la formula: basta iscriversi (è gratuito) scrivendo a info@fattoriadeibarbi.it o telefonando allo 0577 841111 [oppure sabato e domenica 0577 841205], preparare una panzanella per almeno 6 persone secondo la propria interpretazione, allegando la ricetta e indicando ingredienti, quantità, modi esecuzione e quant’altro ritenuto importante, e portarla entro le 11:30 del 29 luglio 2018 alla Fattoria dei Barbi in Località Podernovi 170 a Montalcino (SI). Una giuria di giornalisti enogastronomici e addetti ai lavori la assaggerà in modo anonimo, stabilendo quale sia la migliore. Ma anche il pubblico potrà assaggiare e dire sua. Una competizione giocosa che vede in palio, per chi salirà sul podio, bottiglie di vino della Fattoria dei Barbi tra cui Sua Maestà il Brunello.

 

Perché la panzanella

È uno dei piatti estivi più tipici della cucina toscana, semplice e gustosissimo, che la leggenda vuole creato dal Beato Colombini ma che nel tempo ha saputo evolversi in ogni casa secondo la personalità di chi la prepara e gli ingredienti a disposizione. Esistono i puristi della panzanella e chi invece non può concepirla se non arricchita di ogni ben di Dio. Vedremo chi vincerà.

 

Così nacque la panzanella

 

"Erano gli anni tremendi di metà Trecento, subito dopo la Peste Nera. Le campagne erano devastate, la gente era stremata. Il Beato Giovanni Colombini guidava una torma di miseri di città in città, affidandosi alla carità per sfamarli. Ma c’era troppo poco e nulla da donare, così Pienza gli chiuse le porte. Il Beato aveva solo due croste di pane per una moltitudine ormai priva di speranza. Con quel poco non poteva far nulla, così alzò gli occhi al cielo e pianse. Le lacrime salarono il pane e, miracolo, un olivo bruciato produsse nuovi frutti. Anche la terra improvvisamente verdeggiò di ortaggi. Il Beato ringraziò il Signore e con le mani spremette le olive traendone l’olio. Con quello condì il pane e gli ortaggi e per almeno una notte sfamò i bisognosi. Fu un miracolo di pietà e i nostri tempi disincantati non credono più a queste belle storie. Prendetelo allora come un gioco e godetevi la buona panzanella, creata dal mio avo Giovanni per amore di chi non aveva nulla”. Stefano Cinelli Colombini

 

La Festa titolare del Beato Colombini con la seconda edizione di Beata Panzanella prosegue la stagione degli eventi 2018 alla Fattoria dei Barbi programmati con cadenza annuale: qui il calendario completo >> https://goo.gl/rGdjQc

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Olivella sposa novella

27 Luglio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #televisione, #come eravamo

Sebbene forse meno famosa, c’era anche lei, Olivella sposa novella, della pubblicità Bertolli. La giovane sposa dal moderno caschetto aveva un’amica attempata, segaligna e acida, con una “cofana” di capelli cotonati in testa. Qualunque cosa Olivella cercasse di fare, lei, invidiosa, la imitava, ma con risultati disastrosi.

Qui si ritrova tutto lo schema della fiaba: giovane/figlio minore uguale bello, buono e degno di successo. Vecchio uguale antipatico e maligno. Solo la bontà e bellezza vengono premiate alla fine.

Non capisco perché “tutto vada bene solo a te” si lamentava l’amica acida usando addirittura un ormai defunto congiuntivo.

A pensarci bene, queste degli anni sessanta e settanta erano già tutte pubblicità di content marketing. Messe da parte negli anni ottanta, le pubblicità basate su contenuti seriali sono ora ricomparse di prepotenza. Insomma, non abbiamo inventato proprio niente di nuovo!

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Arte al bar: GIORGIO DE CHIRICO  le muse inquietanti

26 Luglio 2018 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #pittura, #le interviste pazze di walter fest, #arte al bar

Le muse inquietanti di De Chirico e l'omaggio di Walter Fest Le muse inquietanti di De Chirico e l'omaggio di Walter Fest

Le muse inquietanti di De Chirico e l'omaggio di Walter Fest


 

Sono qui seduto al bar. Intorno a me gente che entra e che esce, distratta nei propri pensieri. Mi piace trovarmi in un classico bar e parlare di arte, anche per pochi minuti, con gente comune, gente che sicuramente ha tanti di quei problemi quotidiani che l'arte, seppur possa piacergli, non ha tempo né occasione di apprezzarla in toto. Io mi sono preso l'impegno di aprire questo dialogo, convinto che l'arte debba essere disponibile e alla portata di tutti, non solo per chi ne studia, o per gli addetti ai lavori, oppure per una ristretta ed esclusiva parte di appassionati, l'arte è intorno a noi normalmente, solo che non ce ne accorgiamo, e magari si ritiene un museo, o una struttura simile, roba da vecchi. Il luogo comune fra la gente è che l'arte è bella ma non se ne capiscono a fondo i significati, e ora noi della signoradeifiltri vi daremo una mano ad aprire gli occhi su questo fantastico mondo, per fare questo sarò costantemente in compagnia di personaggi vari e variopinti, che vi presenterò di volta in volta e che mi accompagneranno in questa avventura

Oggi sono in compagnia di Paolo, un impiegato di un'agenzia di assicurazioni, parleremo delle "Muse inquietanti" un'opera realizzata da De Chirico fra il 1917 e il 1918, un olio su tela nel formato 97X67.
1888, 10 Luglio, nascita di Giorgio De Chirico, da allora sembra essere passata un'eternità, 1888 solo a pronunciarlo ha il sapore di antico, l'Italia si era riunificata solo pochi anni prima a colpi di palle di cannone, sciabola e moschetto, eppure, successivamente, dopo un periodo storico relativamente breve, il mondo si sarebbe trasformato modernizzandosi, la guerra, il primo conflitto moderno, avrebbe spinto l'industrializzazione e tutto non sarebbe più stato le stesso.

 

- Ciao, Paolo, buongiorno.
 

- Buongiorno a te e a tutti i lettori di signoradeifiltri.
 

- Paolo, prima che tu vada in ufficio, vorrei parlare con te di un artista e farti andare al lavoro con un po' di colore negli occhi.
 

- Walter, buona idea.
 

-L'atmosfera di quell'opera assomiglia un po' a queste prime ore del mattino non trovi?
 

- Però non dirmi che i due manichini siamo io e te, eh?! E la donna seduta in primo piano senza testa? Non può parlare, non può vedere, non ha le mani, e ha le braccia legate, quest'opera è un capolavoro ma non fa per noi, è veramente inquietanteeee! Walter, pensi che i giovani non conoscano bene Giorgio De Chirico?
 

- E' normale, i giovani sono troppo presi dalla tecnologia, se solo si entusiasmassero di più per l'arte, scoprirebbero che De Chirico era un artista troppo moderno, anche se nato nell'800, appunto, nato a cavallo fra il passato e il futuro. La vedi quella prospettiva, quel piano che sembra inclinato verso l'orizzonte?
 

- Sì.
 

- Bene, è il passaggio dall'era classicheggiante al moderno materialismo, ma sulla destra c'è una lunga ombra che oscura l'architettura e anche te, il manichino in secondo piano con le braccia alzate.
 

- Ma non voglio essere io!


- E, invece, sei proprio tu, e quello in primo piano sono io, non ho la bocca per parlare e gli occhi per vedere, sono senza braccia, fermo, inanimato, leggermente piegato sull'onda d'urto dell'ombra che sta per attanagliarci, inesorabile raggiungerà il rosso castello Estense di Ferrara, forse risparmierà le ciminiere delle fabbriche troppo lontane, che, però, presto saranno ricoperte dal cielo di un verde plumbeo.
 

Il manichino seduto in primo piano è una musa dai fianchi larghi, simboleggia una donna con un buco sotto il petto, troppa rabbia nello stomaco per vedere i propri figli andare alla guerra, i due manichini senza volto, senza parola, senza un movimento. Povera umanità, l'intelletto è prigioniero della nuova era moderna prevaricatrice sull'ideale e sull'animo classico, plasmato sull'essere umano che adesso è vittima del progresso e della barbarie.

Nel 1917 la guerra è mondiale, l'ombra di essa offusca le menti, puoi vederlo nel colore spento dell'opera, acceso solo dal grande talento dell'artista, non si può fermare il sogno, la fantasia, tutto quello che vorrebbe dire ma gli viene impedito, riesce a manifestarsi attraverso la tecnica e il simbolismo delle forme, non c'è negatività che possa impedire all'artista di dipingere una scatola in basso ai piedi del manichino, in spicchi bianco, verde, nero, rosso e giallo, tinte vive, forti, senza ombre, senza sfumature, tinte per indicare che non tutto è finito. L'artista spiega a modo suo che la speranza è ancora in piedi, l'ombra lambisce ma non può coprire l'animo di uomini e donne venuti al mondo per vivere in libertà e in armonia.

 

- Paolo, mi è venuta un idea.
 

- Quale?
 

- Togliti giacca e cravatta e saltiamo dentro l'opera, la piazza è in salita ma è grande, io mi rimetto la testa sulle spalle, tu infilati i pantaloncini, prendi un pallone e andiamo a giocare, qualcuno di voi lettori può anche andare in bicicletta, correre a piedi fino al castello, passeggiare portando a spasso il cane, leggere il giornale. Sotto i portici magari troverete un caffè dove chiacchierare, queste sono cose normali, la vita non è fatta per fare la guerra.

- Sono pronto.

 

- Bene, chi perde paga la pizza ai lettori
 

- Ma sei pazzo? Sono più di 1000!
 

- Scherzavo, a questo potrebbero pensarci i nostri sponsor.
 

- E, con la donna seduta in fondo alla sala che ci è stata a sentire finora facciamo? 
 

- Parla piano, non svegliarla, è Giovanna la Milanese, non vedi alla sua destra la stecca da biliardo?
Se sa che andiamo a giocare a pallone, ci dirà che siamo due stupidi sognatori, a te rimprovererà di fare tardi in ufficio, dai, andiamo sulla piazza di De Chirico, glielo diciamo dopo come è andata.

Forza lettori, che aspettate? Fate un salto, qua la mano, magari là in fondo troveremo pure Giorgio De Chirico per salutarlo... per la pizza scherzavo, eh!
Ci vediamo al prossimo artista, non vi faccio nomi per non guastarvi la sorpresa, noi, intanto, su questa piazza abbiamo altre cose da fare, amici lettori di signoradeifiltri, Walter Fest vi abbraccia con il ciaooo più grande del mondo!!!


 

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Io e Facebook

25 Luglio 2018 , Scritto da Luca Lapi Con tag #luca lapi, #le riflessioni di luca

 

 

 
 
 
Facebook (FB), troppo o poco, mi fa male?
     Me lo farebbe se mi diventasse sostitutivo ai rapporti interpersonali/intersessuali fisici, se questi fossero presenti nella mia vita, ma se non lo fossero?
     Mi farebbe bene se mi diventasse alternativo ai rapporti interpersonali ed intersessuali fisici: ci sarebbe tempo sia per FB che per questi altri rapporti.
     Mi fa bene quando ritrovo chi sia contento di essere stato cercato e di avermi ritrovato, quando mi si trova dopo avermi cercato e sono contento di chi mi abbia cercato e trovato.
     Mi fa meno bene, ma non è colpa di FB, quando cerco e trovo chi non voglia che li cerchi; quando cerco, trovo e chiedo l'amicizia ad alcuni di cui mi ricordo, ma questi me la negano, non ricordandosi di me.
     Mi fa bene perché parole volano e scritto rimane: amo conservare ciò che scrivo e che mi è stato scritto.
     FB (e la chat) mi fa meno bene perché mi aiuta meno o poco ad uscire da mutismo e monosillabismo.
     E-mail e lettere cartacee mi fanno bene: ho tempo per riflettere e decidere di rispondere, benché possano essere, negativamente, espedienti per mantenere, fisicamente, sentimentalmente, distanze dal sottoscritto.
 
          Luca Lapi 
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