A GRANDE VOCE DELLE SIGLE ITALIANE PIU’ AMATE DEI CARTONI ANIMATI CRISTINA D’AVENA SPECIAL GUEST DELLA XXIII EDIZIONE DI ROMICS

La XXIII edizione di Romics vedrà tra i suoi protagonisti Cristina D'Avena, l’amatissima interprete delle sigle di cartoni animati che sono state colonna sonora per generazioni di bambini e ragazzi. La cantante si esibirà a Romics ripercorrendo i suoi successi più famosi. L’evento assume un valore speciale in occasione della presenza a Romics di Tsukasa Hojo, l’autore della celebre serie Occhi di gatto di cui Cristina ha interpretato la sigla italiana.
Nata a Bologna, Cristina esordisce all'età di 3 anni cantando Il valzer del moscerino che si aggiudica il terzo posto alla decima edizione dello Zecchino d'Oro. La sua carriera di cantante inizia quando, ancora adolescente, viene segnalata ad Alessandra Valeri Manera, responsabile della tv dei ragazzi della neonata Canale 5. Dopo essere stata sottoposta ad un provino discografico, Cristina firma un contratto di esclusiva e diviene così l'interprete della canzone Bambino Pinocchio. Da allora non ha mai smesso di incidere e, grazie alla quantità di sigle da lei registrate, è l'unico personaggio dello spettacolo la cui voce è presente sulla tv italiana ininterrottamente dai primi anni '80 almeno una volta al giorno, 7 giorni su 7, 365 giorni l'anno. Nel 1986 raggiunge una nuova popolarità interpretando il ruolo di Licia nella serie di telefilm per ragazzi "Love me Licia”, basata sul cartone animato giapponese Kiss me Licia. È così che quella che fino a quel momento era una voce amatissima dal pubblico diventa un volto famoso della tv.
Nel corso della sua lunga carriera Cristina D’Avena ha tenuto numerosi concerti, che hanno sempre ottenuto un enorme successo di pubblico. A seguirla non sono solo i bambini, amanti dei cartoni animati, ma anche gli adulti affollano da sempre le sue esibizioni live. Nel nuovo millennio la cantante ha continuato e continua a tenere concerti in tutta Italia, sia da sola che accompagnata dal gruppo dei Gem Boy.
All'attività musicale e discografica si aggiunge l'attività di conduttrice e co-conduttrice televisiva (nonché radiofonica) e nel 1998 debutta anche al cinema interpretando se stessa in una scena del film Cucciolo di Neri Parenti accanto a Massimo Boldi.
Nel 2012 D’Avena festeggia 30 anni di carriera. Le celebrazioni di questo importante traguardo si materializzano anche a livello discografico con la nascita di un grande intitolato 30 e poi..., composto da CD che raccolgono sigle originali dei cartoni animati più famosi degli anni '80, '90 e 2000; sigle inedite, una reinterpretazione del classico natalizio O Holy Night, un megamix dei suoi storici successi anni '80, una cover del brano L'anno che verrà di Lucio Dalla, un DVD, e un Libro Fotografico. Nell'estate 2014 nasce la sua personale etichetta discografica, la Crioma Music.
Nel 2016 partecipa in qualità di super ospite al 66° Festival di Sanremo; nel 2017 esce Duets, una raccolta di alcune delle più celebri sigle di cartoni animati reinterpretate da Cristina D’Avena insieme ad alcuni dei più importanti cantanti italiani tra cui Ermal Meta, Noemi, Giusy Ferreri e Loredana Bertè insieme alla quale interpreta il singolo di lancio e ormai sigla cult Occhi di gatto.
Cristina D’Avena sarà presente domenica 8 aprile alle ore 16.00 sul palco del Pala Romics Sala Grandi Eventi e Proiezioni.
Francesco Biamonti, "Vento largo"

Vento Largo
Francesco Biamonti
Einaudi, 1991
Vento largo è un libro dello scrittore ligure Francesco Biamonti, edito da Einaudi. È un romanzo delicato, a tratti aspro, con un fondo di malinconia irriducibile. I personaggi sono prigionieri di un mondo duro, stretto da una geografia spietata tra mare e rocce dove l'agricoltura rende sempre meno e i paesini tra Liguria e Francia si spopolano. L'attività che porta qualche reddito è quella del passeur che aiuta i clandestini a raggiungere la Francia passando per i sentieri più impervi. Il protagonista Varì compie questo lavoro, iniziato per amore di una donna, Sabèl, misteriosamente scomparsa senza che ne siano note le cause. Varì la cerca come un innamorato adolescente e intanto la sua vita, come quella degli altri della zona, perde senso e forza; le borgate emanano tristi silenzi, la sera si vaga alla ricerca di svaghi passeggeri che non guariscono le ferite del vivere, mentre il vento schiaffeggia le vecchie case con gli orti abbandonati. Non ci sono luci a riscaldare le giornate; qualcuno parte per il mare cercando una fuga da una vita modesta. Tentativi sfortunati, spesso.
Anche Varì pensa a una evasione o a una fuga. Ma alla fine resta, girando inconcludentemente durante il giorno e di notte facendo il passeur in situazioni sempre più pericolose. Non sempre è facile interpretare i dialoghi minimi tra i laconici personaggi, affamati di vita vera, ma troppo deboli per riuscire a cambiare la loro esistenza. Su tutto domina il paesaggio, inospitale e cupo; forse un tempo c’era una consonanza tra uomini e terra, ma la modernità l’ha indebolita. Varì non ama il suo lavoro. Non ama nemmeno la sua terra, ora che è solo. Eppure non cambia nulla del suo vivere. È uno sconfitto, come la terra improduttiva che la gente non ha più voglia di coltivare. L'unica ragione per restare sta forse nel fascino del paesaggio ligure, selvatico, disarmonico, fonte di sfide, mai domato dall'uomo che con le terrazze ha cercato di sottometterlo.
Si percepisce in particolare che un tempo le cose erano diverse; c'era una moralità anche nell'attività illegale; ora si è rotto qualcosa per sempre, prevale il lucro puro e semplice, le persone sono avide e la violenza può esplodere. Una volta i passeur aiutavano alcune persone in difficoltà a fuggire; ora l'attività è cambiata, è nato un grosso traffico di uomini, c’è più pericolo. Rimane l’eco di questa moralità perduta ad ancorare le persone a luoghi che offrono sempre meno presente.
La scrittura esprime una poesia indimenticabile in cui ogni strada, ogni sentiero, ogni roccia davanti al mare si colora di toni lirici delicati. Il paesaggio parla più degli uomini. È un mondo al tramonto, triste e splendido allo stesso tempo.
La spada nella roccia

La vera spada nella roccia non è in Bretagna ma in Toscana, presso la Rotonda di Montesiepi, vicina a una fantastica basilica cistercense di cui rimangono le rovine a cielo aperto. Spettacolo suggestivo sia la chiesa, col suo tetto di stelle e il suo pavimento di prato, sia la spada conficcata nella roccia, a mo’ di croce da adorare, presso Chiusdino.
Galgano Guidotti da Chiusdino (1148-1181), dopo una vita scapestrata, si fece prima cavaliere, a seguito di una visione di San Michele, e poi eremita. Fu lui a conficcare la spada nel terreno in segno di rinuncia. Del suo mito si appropriarono i cistercensi che eressero la basilica adiacente al luogo in cui riposa la spada. La figura di Galgano è collegata a quella di un altro eremita, Guglielmo, padre, fra l’altro, di Eleonora d’Aquitania, che pare fosse un trovatore esperto di materia arturiana. Accanto alla spada è stata rinvenuta agli inizi del secolo una scatola contenente ossa, con sopra scritto “ossa di San Galgano”.
Galgano viveva nei boschi, usava il mantello come saio, si nutriva di erbe selvatiche. La sua figura ha molti punti di contatto sia con San Francesco sia con re Artù. Il nome Galgano ricorda sir Gawain e la sua mitica e mistica cerca del Graal.
La spada, almeno fino al 1924, era semplicemente conficcata nella roccia. Poteva dunque essere facilmente estratta. Don Ciompi, il parroco dell’epoca, decise tuttavia di bloccarne la lama versando nel piombo fuso nella fessura. Negli anni settanta e novanta alcuni balordi danneggiarono la preziosa arma credendosi novelli re Artù, per cui adesso è protetta da una teca di plexiglass.
Gli atti del processo di beatificazione di Galgano risalgono al 1185, cinque anni prima che Chrétien de Troyes scrivesse il suo Perceval, dando origine ai miti della cosiddetta "materia di Bretagna". In ogni caso, la spada di San Galgano non è l’unica arma medioevale conficcata nella roccia in Europa. Ne esiste una molto simile anche a Rocamadour, nel Perigord, altro posto da fiaba, meraviglioso paesino arroccato, dove si sale tramite ascensore nella roccia.
Le analisi chimiche dicono che la spada di Montesiepi è tutta di ferro purissimo e risale effettivamente al dodicesimo secolo. Il resto rimane sospeso fra storia e leggenda.
Eh, che maniere
Calimero pulcino nero. No, per carità… scuro… no, anzi, di colore… cioè, diversamente bianco.
Calimero, strano come il brutto anatroccolo, tenerissimo con quel suo guscio frastagliato a mo di cappellino, compare per la prima volta nella pubblicità della Mira Lanza nel 1963. In realtà si scoprirà che non è nero né diverso ma solo sporco.
Eh, che maniere! Qui tutti ce l'hanno con me perché io sono piccolo e nero... è un'ingiustizia però.
Bei tempi in cui si poteva ancora dire pane al pane e non si era buonisti bensì buoni. Ci sono già in nuce tanti temi nello spot, come il pregiudizio, l’apparenza in contrasto con la sostanza. Il nome del pulcino deriva dalla basilica di San Calimero.
Quanta solitudine nel primo episodio, dove il pulcino caduto nella fuliggine cerca la sua mamma e viene rifiutato perché nero. Resterà sempre sfortunato, piccolo, coraggioso e solo.
Ava come lava, e come profuma!
Fabio Zuffanti, "Storie notturne"

Storie notturne
Fabio Zuffanti
Ensemble, 2017
L’esordio narrativo di Fabio Zuffanti (già celeberrimo musicista progressive, nonché autore della silloge poetica Il giorno sottile, pubblicata da Mora Edizioni) si presenta come un libretto agile ma concettoso.
Si tratta di una raccolta di racconti brevi (quasi mai superano un paio di pagine) intitolata Storie notturne, edita da Ensemble.
L’aggettivo del titolo sta presumibilmente a indicare la suggestione che ci proviene da quegli stati di alterazione propri delle ore notturne, del dormiveglia, dell’esperienza onirica o delle crisi di insonnia, quando la realtà data tende a scolorire e a perdere di consistenza, sostituita nei nostri pensieri da entità più fluide e intangibili, da impressioni incerte e fantasiose.
I racconti non hanno titolo. Si susseguono contrassegnati dalla medesima dicitura: Storia notturna. Secondo una numerazione crescente, che parte però direttamente dalla seconda. La Storia notturna numero 1 manca, come se si fosse persa. Come a insinuare sin dalla partenza che gli episodi non consequenziali che costituiscono la raccolta siano come la prosecuzione di un sogno (o di una lunga e divagante meditazione) che parte altrove, in un’analessi inconoscibile, e che forse sarà destinato a continuare al di là del terminus ad quem dell’ultima pagina.
Ogni racconto è come il progressivo rintocco di un’incalzante incertezza esistenziale: chi siamo davvero? Di cosa siamo fatti noi e ciò che ci circonda? Forse proprio della stessa shakespeariana materia di cui sono fatti i sogni?
È in quel passaggio crepuscolare tra le certezze diurne e gli abbagli o i ripensamenti ontologici che spesso accompagnano la progressiva perdita di punti di riferimento che ci conduce sino al sonno che i contorni di cose, persone, rapporti interpersonali sembrano farsi improvvisamente più rarefatti.
Nel libro di Zuffanti si trovano alcuni argomenti ridondanti: un epistolario notturno più volte ripreso, lungo la successione dei racconti, e destinato a recapiti mai del tutto individuabili, una guerra ancor prima introiettata che realmente combattuta all’esterno («In realtà ero io a essere costantemente in guerra con me stesso» inizia il terzultimo raccontino), l’incomunicabilità e il suo rovescio, rintracciabile in una comunicazione non verbale, eppure neanche per forza fisica (metafisica forse, quasi telepatica) e, per finire, il tema del doppio. È come un bandolo di fil rouge che si snodano lungo l’intero dispiegarsi del libro, riapparendo di tanto in tanto, come cuciture a vista che tengono insieme il tutto.
A sorreggere l’impianto narrativo una precisione e un nitore linguistici davvero rimarchevoli. Metafore calibrate, senza sbavature, quasi impercettibili per la loro eleganza. Accenti di puro lirismo che però presto si mitigano verso toni più meditativi. Accanto a ciò, un efficace dispiego della figura retorica che passa sotto il nome di ipotiposi, la quale sta a indicare la capacità di descrivere in maniera tanto concreta le azioni da riuscire a suscitare nel lettore una vivida immagine mentale: «la lanugine della nebbia comincia a danzare. Si compatta davanti al prigioniero fino a formare un enorme volto i cui contorni si perdono nella foschia.»
Alcuni racconti sembrano mimare contenuti sapienziali, come la #19: «Non opporre resistenza. Sciogli i legami e lasciati semplicemente andare. Accetta l'abisso. Accetta di non essere.» Racconto in cui in realtà si tenta, come in un testo sacro, l’impossibile descrizione dell’ineffabile: «dovrei definire qualcosa che non possiede definizione.»
O come nell’attacco apodittico e destabilizzante della #29: «Al di sotto di quel portaombrelli si trova il centro della terra. Lo puoi vedere se levi tutti gli ombrelli e metti la testa all'interno del cilindro metallico. Scorgerai dapprima solo buio ma poi qualcosa attirerà la tua attenzione, una nebbiolina e un debole chiarore che via via si farà meno indistinto.»
L’intera raccolta è attraversata da un’irriducibile dialettica tra istanze esistenzialistiche e introspettive da una parte e quell’entropia generale dall’altra che tutto tende a disperdere e disordinare, privando il soggetto di “un centro di gravità permanente” (come ebbe modo di definirlo un collega di Zuffanti, sul quale quest’ultimo ha appena finito di scrivere una monografia). Una realtà caotica in cui diviene anche difficile distinguere senno da dissennatezza: «Ecco quindi una nuova riflessione. Hai mai pensato alla sublime arte della pazzia? Hai mai immaginato di perdere il senno? Di vagare in completa libertà in questo mondo così chiuso entro anguste stanze? Hai mai sognato di rompere queste catene malandate e di andare fuori da ogni binario di normalità? (…) Ecco quindi il paradosso, viviamo da internati per non finire internati. A volte a notte fonda sento che sto per varcare quella soglia.»
La maggiore forza del libro sta però in una piena accettazione degli aspetti più inconciliabili e ingestibili del nostro vivere: «Tutto è esistenza, e siamo fortunati a potere dire “sto male, sto bene”, perché nel nostro stare bene e male c’è il senso esatto di quello che siamo.» E si conclude proprio con un’apertura al flusso vitale e ai suoi infiniti contenuti, rafforzata dalla citazione di un altro famoso collega del nostro autore: «E tutta questa marea di movimenti verso qualcosa sarà la vita, che, come diceva qualcuno, accadrà mentre siamo impegnati a far piani sulla vita stessa. (…) Farai un largo respiro, chiuderai gli occhi e lascerai che il flusso delle cose continui a farti navigare, nei giorni e nelle notti del tuo essere.»
Le voci di Signora dei filtri: Adriana Pedicini, Nadia Banaudi, Valentino Appoloni
Oggi su Radioblog scopriremo 3 voci di Signora dei Filtri: Adriana Pedicini, Nadia Banaudi e Valentino Appoloni.
IL FUMETTISTA CULT SIMON HANSELMANN SPECIAL GUEST DELLA XXIII EDIZIONE DI ROMICS

Il fumettista cult Simon Hanselmann sarà ospite della XXIIIesima edizione di Romics (5-8 aprile 2018). Reduce dal Premio per la migliore serie all’ultimo Festival di Angoulême con Happy Fucking Birthday, l’autore australiano ha scelto Romics per incontrare il pubblico italiano.
Nato in Tasmania, Hanselmann oggi vive a Seattle negli Stati Uniti. Ha raccontato e disegnato storie a fumetti fin da bambino. Gli esordi da fumettista sono stati sulla sua pagina Tumblr “Girl Mountain”, dove ha cominciato a postare le avventure a strisce della strega Megg e dei suoi amici ottenendo un successo sempre crescente di pubblico e venendo scoperto da Fantagraphics, il re degli editori indipendenti Usa, che ha raccolto le sue storie web in diversi volumi antologici. In Italia ne sono usciti due, Megahex e Special K, pubblicati da Coconino Press-Fandango e best seller del New York Times, cui sono seguiti negli Stati Uniti Worst Behaviour e One More Year.
Protagonisti delle sue storie sono Megg la strega, Mogg il gatto parlante, il loro amico Gufo e Lupo Mannaro Jones, un gruppo di personaggi perdenti, confusi, sconsiderati che lottano senza successo con la depressione, l'uso di droga, una vita sessuale complicata, la povertà, la mancanza di ambizione e le loro complesse relazioni reciproche.
Tradotto in 13 lingue e amato da critica e pubblico, l’autore è stato nominato tre volte ai Premi Ignatz e due volte agli Eisner (2017), il prestigioso riconoscimento dedicato all’americano Will Eisner, uno dei più importanti fumettisti di tutti i tempi. Il suo lavoro ha ricevuto il consenso di veri maestri della controcultura underground come Robert Crumb e Daniel Clowes. Personaggio pop dalla forte personalità, Hanselmann ama travestirsi da donna e si dice “felice nonostante qualche attacco di panico, e da sempre confuso riguardo all'identità sessuale”.
Simon Hanselmann sarà protagonista a Romics di un incontro-intervista, di un appuntamento con i lettori per le dediche sui libri e di un live painting sul wall dedicato agli artisti ospiti di Romics nelle giornate di sabato 7 e domenica 8 aprile.
A volte ritornano

A volte ritornano… sì, ritornano in mente le vecchie poesie che, bambina, m’inorgoglivo di sapere tanto bene a memoria. La leggenda di Teodorico, di Giosuè Carducci, è una di queste.
Teodorico, re degli Ostrogoti ai tempi dell’Impero Romano d’Oriente, fu mandato in Italia dall’Imperatore, dopo avere sconfitti gli Eruli ed il loro re, Odoacre. Viveva nel castello di Verona.
Teodorico mise in carcere e fece uccidere il suo consigliere Severino Boezio, dopo una lunga disputa religiosa. Ma, a sentire Carducci, la giustizia divina non si fece attendere.
Su 'l castello di Verona
Batte il sole a mezzogiorno,
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno,
Mormorando per l'aprico
Verde il grande Adige va;
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.
Pensa il dí che a Tulna ei venne
Di Crimilde nel conspetto
E il cozzar di mille antenne
Ne la sala del banchetto,
Quando il ferro d'Ildebrando
Su la donna si calò
E dal funere nefando
Egli solo ritornò.
Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,
Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre;
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventú,
Ed il bel verde paese
Che da lui conquiso fu.
Il gridar d'un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
— Sire, un cervo mai sí bello
Non si vide a l'età nostra.
Egli ha i pié d'acciaro a smalto,
Ha le corna tutte d'òr.
— Fuor de l'acque diede un salto
Il vegliardo cacciator.
— I miei cani, il mio morello,
Il mio spiedo — egli chiedea;
E il lenzuol quasi un mantello
A le membra si avvolgea.
I donzelli ivano. In tanto
Il bel cervo disparí,
E d'un tratto al re da canto
Un corsier nero nitrí.
Nero come un corbo vecchio,
E ne gli occhi avea carboni.
Era pronto l'apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
E si misero a guair,
E guardarono il signore
E no 'l vollero seguir.
In quel mezzo il caval nero
Spiccò via come uno strale
E lontan d'ogni sentiero
Ora scende e ora sale:
Via e via e via e via,
Valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorría,
Ma staccar non se ne può.
Il più vecchio ed il più fido
Lo seguía de' suoi scudieri,
E mettea d'angoscia un grido
Per gl'incogniti sentieri:
— O gentil re de gli Amali,
Ti seguii ne' tuoi be' dí,
Ti seguii tra lance e strali,
Ma non corsi mai cosí.
Teodorico di Verona,
Dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
A la casa che ci aspetta? —
— Mala bestia è questa mia,
Mal cavallo mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand'io ritornerò. —
Altre cure su nel cielo
Ha la Vergine Maria:
Sotto il grande azzurro velo
Ella i martiri covría,
Ella i martiri accoglieva
De la patria e de la fé;
E terribile scendeva
Dio su 'l capo al goto re.
Via e via su balzi e grotte
Va il cavallo al fren ribelle:
Ei s'immerge ne la notte,
Ei s'aderge in vèr' le stelle.
Ecco, il dorso d'Appennino
Fra le tenebre scompar,
E nel pallido mattino
Mugghia a basso il tosco mar.
Ecco Lipari, la reggia
Di Vulcano ardua che fuma
E tra i bòmbiti lampeggia
De l'ardor che la consuma:
Quivi giunto il caval nero
Contro il ciel forte springò
Annitrendo; e il cavaliero
Nel cratere inabissò.
Ma dal calabro confine
Che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
Non è il sole, è un'ampia fronte
Sanguinosa, in un sorriso
Di martirio e di splendor:
Di Boezio è il santo viso,
Del romano senator.
G. Carducci, da Rime Nuove
Una storia milanese (1962) di Eriprando Visconti

Regia: Eriprando Visconti. Soggetto e Sceneggiatura: Renzo Rosso, Vittorio Sermonti, Eriprando Visconti. Fotografia: Lamberto Caimi. Montaggio: Mario Serandrei. Musiche: John Lewis. Paesi di Produzione: Italia / Francia. Casa di Produzione: 22 Dicembre di Ermanno Olmi. Durata: 80’. Genere: Sentimentale. Formato: 1.33 – Bianco e Nero – 35 mm. Interpreti: Daniéle Gaubert (Valeria), Enrico Thibault (Giampiero), Romolo Valli (padre di Giampiero), Lucilla Morlacchi (Francesca, sorella di Giampiero), Regina Bianchi (madre di Valeria), Rosanna Armani (Vicky), Anna Gael (amica di Valeria), Giancarlo Dettori (Dario), Ermanno Olmi (sig. Turchi).
Un libro interessante e utile come Prandino – L’altro Visconti, scritto da Corrado Colombo (aiuto regista del Visconti meno noto) e da Mario Gerosa (esperto di cinema a tutto tondo), edito in questi giorni da Edizioni Il Foglio, mi ha convinto a riscoprire la scarna filmografia del talentuoso regista milanese. Nove lungometraggi, in fondo, quasi tutti accomunati da un unico tema: dimostrare l’incomunicabilità tra uomo e donna (sulla scia di Antonioni) e la fragilità del rapporto sentimentale (seguendo Bergman). Eriprando Visconti (1932 - 1995) viene avvicinato dalla critica più attenta a registi come Alberto Cavallone e Cesare Canevari, per tematiche affrontate e modo di sperimentarle da un punto di vista cinematografico, esibendo anche il non mostrabile, per scelta professionale e onestà intellettuale. Eriprando Visconti, detto Prandino, sin dal primo film, pur rispettando le convenzioni cinematografiche dei primi anni Sessanta, cerca di andare oltre, mettendo in primo piano il personaggio di una donna libera, indipendente, insoddisfatta, che non si accontenta del matrimonio e di un figlio, ma che vuole essere interprete della sua vita. Valeria - che ha il volto della giovanissima quanto brava Gaubert - è una donna che lascia gli uomini, che decide la fine di un rapporto, che perde la verginità, aspetta un figlio e va ad abortire in Svizzera per non essere costretta a sposarsi, è una donna che non cerca il matrimonio come scopo di vita ma vuole essere libera da condizionamenti. Bravo anche Enrico Thibault nel ruolo maschile da borghese innamorato, uomo del suo tempo che non comprende una donna così diversa da come dovrebbe essere secondo un ruolo assegnato dalla tradizione. I due attori principali sono giovani e alle prime esperienze ma vengono guidati con mano ferma da un regista che pretende molto da loro, soprattutto una recitazione teatrale ricca di dialoghi e di primi piani, molto impostata ma naturale, secondo regole che provengono dalla lezione neorealista. Una storia milanese è un film originale, girato in maniera perfetta, fotografato in un nebbioso e languido bianco e nero dal bravo Caimi, impaginato da Serandrei tra piani sequenze e primissimi piani, intensi campi e controcampi, ricco di dialoghi verbosi e complessi, sempre ben impostati. Visconti espone la sua idea di cinema e dimostra di avere le idee chiare sin dalla prima opera, anche se la gigantesca ombra dello zio peserà non poco sulla produzione futura, relegandolo ai margini del sogno. Ermanno Olmi produce e interpreta un piccolo ruolo che prevede tre lunghe sequenze insieme all’attrice principale, quasi un viatico di un grande regista a un giovane autore che descrive con sapienza la Milano del boom, le contraddizioni di una famiglia borghese, il rapporto tra padre e figlio, l’affetto complice per la sorella e la frequentazione di amici della stessa classe sociale con i quali trascorre serate sempre uguali e va a caccia in palude. Colonna sonora straordinaria di John Lewis, che comprende brani di Enzo Jannacci e di musica popolare, per una pellicola che passa dal mito americano all’esaltazione della tecnica, polemizza con la cultura classica imperante, mostra il traffico di una Milano attiva e moderna, i navigli, la campagna fredda e nebbiosa. Alcune sequenze d’amore si spingono oltre il lecito per la rigida censura del periodo storico, cosa che costa un divieto ai minori per una pellicola in ogni caso adatta a un pubblico adulto e preparato. Una storia milanese è un film coraggioso, per niente convenzionale, una piccola storia d’amore descritta con rapide pennellate, iniziata e finita per volontà di una donna che vuole essere libera e indipendente. Un film risolto, teatrale, intenso, a tratti persino poetico, sceneggiato con cura e senza sbavature, che analizza in maniera approfondita la psicologia dei personaggi. Visconti mette sul piatto della bilancia i temi futuri della contestazione giovanile e dell’emancipazione femminile, anticipando la lotta femminista che condurrà l’Italia ad accettare la modernità, divorzio e aborto compresi. Da rivedere, consapevoli che per essere apprezzati certi film devono essere storicizzati e lo spettatore deve calarsi nella temperie culturale che li ha prodotti.
Brava Mariarosa
Se le pubblicità degli anni sessanta e settanta andassero in onda oggi:
Calimero sarebbe un pulcino di colore
Caballero sarebbe troppo maschilista.
Gringo farebbe capo alla lobby delle armi.
Cimabue andrebbe contro la laicità dello stato.
Mira creerebbe un incidente diplomatico con l’Olanda.
Dolce cara mammina farebbe infuriare le femministe, per non parlare di Olivella sposa novella.
Il gigante sarebbe un diversamente alto e Jo Coondor una specie protetta insieme agli amici di Gioele.
E chissà le proteste dal pianeta Papalla…
Ad analizzarle, queste pubblicità, si vede che erano basate sulla dicotomia saper fare (dolce mammina, Gringo, Mariarosa, Lancillotto) non saper fare (Cimabue).
L’intento è didascalico, chi sa fare è bravo, s’impegna, merita un premio, chi non sa fare ha per fortuna qualcuno che lo salva in extremis e riporta l’ordine.
Impegno, bontà, sacrificio, dedizione, dovere, merito, fatica… parole scomparse dalla nostra cultura, valori sostituiti da altri come integrazione, inclusione, condono, recupero, multiculturalità etc…
E allora viva Mariarosa che sapeva far tutto beata lei.
Brava brava Mariarosa
Ogni cosa sai far tu
Qui la vita è sempre rosa
Solo quando ci sei tu
Mariarosa, facciamo una torta?