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Intervista a Marco De Franchi

18 Aprile 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #marco de franchi, #interviste

Intervista a Marco De Franchi

Marco de Franchi è nato a Roma ma vive a Livorno, molti lo conoscono per i suoi libri più recenti, i noir, come La Carne e il Sangue, dove racconta una vicenda che si riconduce alle indagini sulle nuove BR, ma gli appassionati di letteratura fantastica, i vecchi frequentatori della casa editrice Solfanelli e del premio Tolkien, gli abbonati di Dimensione Cosmica, lo ricordano soprattutto - al pari dell’altro scrittore di livornese, Gianluigi Zuddas - per la sua produzione fantastica.
Marco ha accettato di parlarci di
sé.

“Allora, cerco di mettere un po’ d’ordine, rappresentando, preliminarmente, che mi trovo sempre un po’ in imbarazzo a parlare di me e della mia vita. Uno dei motivi per cui scrivo storie è proprio per evitare di stare al centro dell’attenzione. Insomma spero che i miei personaggi parlino abbastanza per evitare che debba farlo io.
Nasco nel 1962 a Roma e come tutti i veri “scrittori” nell’animo desidero da subito solo scrivere, scrivere, scrivere… e pubblicare. Scrivere senza avere dei lettori è un’assurdità. Chi scrive VUOLE pubblicare. Non è questione di notorietà o altro. È l’esigenza di narrare e sapere che ci sono persone che ascoltano la tua narrazione. A dieci anni sognavo i miei libri dietro le vetrine delle librerie. Non ho avuto il successo sperato, ma va bene così.
M’innamoro della lettura di genere e in particolare della fantascienza, che eredito da mio padre (professore di Liceo, amante dei classici, ma avido lettore di Urania), e della narrativa gialla (che eredito da mia madre, donna dalla cultura più umile ma grandissima, onnivora lettrice).
I miei riferimenti sono, all’inizio, Simak, Dick, Heinlein, Bradbury. Poi scopro l’horror e la narrativa fantastica in senso lato. E allora amo e divoro Lovecraft, Machen, Poe, e poi Herbert, King, Straub, Blish, Barker, e tanti altri. Però non disdegno la narrativa italiana e i grandi noir.”


E così cominci…

“Sì, inizio a tentare di scrivere qualcosa di “professionale”. Il mio “esordio” è nel 1983 quando scopro il Premio di Narrativa Fantastica “Tolkien”, che Solfanelli edita con la cura di due nomi del calibro di Gianfranco de Turris e Giuseppe Lippi. Invio il racconto “La Porta Magica”, che non entra in finale, ma stuzzica l’interesse di de Turris. La Porta Magica è, infatti, un mix di horror ed esoterismo, con un aggancio alla realtà (m’ispiro, infatti, alla Porta Magica che sorge al centro di Piazza Vittorio a Roma, un bell’esempio di enigma esoterico-alchemico) e un interesse per i personaggi “borderline”. Il protagonista è un omosessuale e scrivere di questo nel 1983 non era proprio scontato (almeno per me). Comunque de Turris mi telefona (immaginate il mio stupore e la mia felicità) e m’invita a collaborare con altri racconti, sempre sulla stessa scia: uno sfondo storico, reale e soprattutto italiano e uno sviluppo magico/esoterico. La Porta Magica esce poi in Francia (non è mai stato pubblicato in Italia!) per una rivista specializzata molto nota allora, Antares, curata da Jean Pierre Moumon. Nel 1984 arrivo terzo al Premio Tolkien con il racconto “La Città Scarlatta” (in cui ci sono horror, magia sessuale, l’abisso e la redenzione) e nel 1985 sempre terzo con il romanzo breve “Gli Occhi nel Bosco”. Sono molto affezionato a questo romanzo (poco più di cento pagine, un taglio che in Italia non va molto, non è, infatti, racconto e neanche romanzo) perché esce nell’antologia “Immaginaria” di Solfanelli insieme a un romanzo di Grazia Lipos (una scrittrice triestina molto legata al Fantasy tradizionale) e al vincitore di quell’edizione “Viaggio per Lisa” di Luigi de Pascalis. Considero de Pascalis uno dei migliori scrittori italiani di narrativa fantastica. Già allora era un mito e per me fu un onore pazzesco uscire in un libro insieme a lui. Con Luigi poi, negli anni, siamo diventati amici e adesso collaboriamo stabilmente. Per me è un faro, una guida, un grande aiuto. Ha curato l’uscita del mio ultimo romanzo ed è semplicemente un uomo e uno scrittore fantastico (a settanta anni suonati si muove, scrive, inventa, progetta come un ventenne).
Comunque, da quel momento, inizio a scrivere e a pubblicare racconti qui e lì, con alterne fortune.”


Le strade che intraprendi, sappiamo, sono molte, fra le quali il mondo dei fumetti.

“Poiché mi interessa la narrativa a tutto campo, quindi anche quella cinematografica e fumettistica, mi cimento in entrambe le direzioni. Nel cinema non vado oltre qualche soggetto e un trattamento che avrebbe dovuto diventare una sceneggiatura e poi un film, ma che poi non ha trovato produttori. Nel fumetto invece la svolta è venuta con le testate popolari Lanciostory e Skorpio con cui per più di quattro anni ho collaborato stabilmente. Ho scritto qualche centinaio di sceneggiature per fumetti e ne sono fiero. Quello del fumetto è un campo molto stimolante. Mi hanno “disegnato” autori di razza e anche di questo sono contento. In quegli anni vivevo di sceneggiature per fumetti (e ho scritto anche qualche fotoromanzo per le dedizioni Lancio, lo ammetto. Non era un granché ma pagavano bene. Scrivere fotoromanzi, inoltre, insegna molto dal punto di vista delle tecniche narrative).”

È a questo punto che comincia la tua carriera di “sbirro”. Da un’intervista rilasciata a thriller Magazine sappiamo che non ami definirti un poliziotto scrittore, bensì il contrario, cioè una persona che, prima di tutto, scrive.

“Sì, poi sono entrato in polizia. Studiavo Legge, dovevo ancora fare il militare ma soprattutto mi affascinava il mestiere dell’investigatore. È il lato noir che albergava in me. Poiché inoltre non avevo il coraggio di provare la strada della sola scrittura (che raramente dà da mangiare) ho tentato questa strada professionale e devo dire che non me ne sono pentito. Il mio lavoro è sempre stato la polizia giudiziaria ed è un mestiere che ancora oggi, a venticinque anni di distanza, mi sorprende e mi affascina.
Il lavoro in polizia – e il fatto che fui trasferito in Toscana, allora a Massa Carrara - rallentò però e di molto la mia attività “di scrittore”. Per circa dieci anni non ho scritto (né naturalmente pubblicato) una sola riga. Non è che non lo potessi fare (ci sono decine di esempi di poliziotti-scrittori), è che ero troppo concentrato su questo lato del mestiere. E poi hai ragione, non sono mai stato uno sbirro-scrittore. Se mai sono uno scrittore che fa di mestiere il poliziotto.
Nel 1999 torno a Roma e come dire, mi “risveglio” ed inizio di nuovo a scrivere e a collaborare con de Turris e quello che amo chiamare il “gruppo romano” (forse qualcuno lo conosci: a parte de Pascalis, Nicola Verde, Roberto Genovesi, Errico Passaro, Gabriele Marconi, ma anche Giulio Leoni, Massimo Pietroselli, Alda Teodorani, Massimo Mongai, e altri). Anche se all’inizio è stato davvero difficile oliare i vecchi arrugginiti ingranaggi. Era come se la mia vena “fantastica” si fosse esaurita e in qualche modo il tempo mi avesse superato. Io insomma ero rimasto ai miei primi tentativi che per quanto fortunati erano ancora embrioni delle cose che volevo scrivere. Insomma mi sembrava di aver perso il famoso treno.”

Poi c’è stata l’esperienza forte del gruppo Biagi, quella che, forse, umanamente hai vissuto con maggiore partecipazione, quella che ha stimolato la tua vena di scrittore e dalla quale è scaturito il romanzo La carne e il sangue, ispirato alla figura di Cinzia Banelli.


“Nel 2003 entro a fare parte del “Gruppo Biagi”, il gruppo investigativo che raccolse forze un po’ da tutta Italia per individuare gli assassini di Marco Biagi e, prima, di Massimo D’Antona. Ero sempre stato affascinato dal fenomeno del terrorismo, ma fino ad allora mi ero occupato “professionalmente” di narcotraffico e di antimafia. Investigare un fenomeno così complesso e pieno di contraddizioni come il crimine politico mi ha stimolato molto. Al di là dei risultati (alla fine gli assassini di Biagi, D’Antona e del collega Petri, le cosiddette nuove Brigate Rosse, furono presi) e dell’arricchimento professionale che ho avuto da questa avventura (spesa tra Roma, Bologna, Firenze e Pisa), dal punto di vista “letterario” mi si è aperto un mondo. Per la prima volta ho iniziato a “usare” il mio mestiere di sbirro per alimentare il mestiere di scrittore. Così nel 2008 è uscito “La Carne e il Sangue”, per Barbera, e una serie di racconti ispirati agli anni di piombo o semplicemente “noir” (di quel periodo è l’intervista a Thriller Magazine). Il noir è ancora una dimensione letteraria che amo, ma ultimamente ho rallentato questo tipo di narrativa (miei racconti noir o semplicemente thriller sono usciti su antologie per Meridiano Zero, Flaccovio, Laurum, Robin, ecc.). Mi pare ci sia un sovraffollamento nel genere e in fondo la cosa importante è scrivere una storia a cui si tiene, il genere conta meno. Il noir ti permette di indagare i lati più oscuri dell’animo umano e soprattutto di trattare il mistero nella vita quotidiana.

Viene per tutti, però, il momento del ritorno a casa, alle origini.

“È vero. Sono tornato da poco alla narrativa fantastica, e ne sono felice. Non solo perché ho ritrovato la dimensione che preferisco ma perché qualcuno mi definì tanto tempo fa “una promessa del fantastico italiano” e ho sempre pensato di aver deluso questa aspettativa. Chissà se a cinquant’anni posso ancora provarci?
Comunque dal 2010 ho ripreso a collaborare con de Turris (in quell’anno è uscita per il Giallo Mondadori l’antologia da lui coordinata “Il Filo del Rasoio”) e i miei racconti hanno ripreso a circolare. A maggio come hai visto uscirà per La Lepre Editore il romanzo “Il Giorno Rubato”, una sorta di thriller paranormale a cui tengo molto. È un editore piccolo ma molto serio e ha un bellissimo catalogo, a mio parere. Da questo romanzo spero di ripartire, riannodare qualche filo e, se ho fortuna, portare a termine altri progetti.
Nel fantastico mi sento più a mio agio. Penso che sia uno strumento con cui si può aprire molte porte. È anche una luce al cui filtro si può leggere l’intera realtà. Ed io sono ancora fedele alla massima di Roger Callois che definiva la letteratura fantastica (cito a memoria e sicuramente senza precisione) “l’irruzione improvvisa e inaspettata dell’irrazionale nel razionale”.

E ora, visto che siamo su Livorno Magazine, che cosa puoi dirci del tuo soggiorno in questa città dove , troppo spesso, nessuno è profeta?

“Dal 2005 vivo a Livorno. Sono “tornato” (come dite pazzescamente voi livornesi quando vi riferite al trasferimento in una nuova casa) perché mia moglie, Debora, è di Livorno e qui ha il suo lavoro, e perché due figli piccoli reclamano la presenza del padre. All’inizio questa città non mi piaceva proprio. Non mi ci riconoscevo e Roma mi mancava (mi manca ancora!). Devo dire però che adesso comincio ad apprezzare alcuni aspetti della vostra città. E certe strade, certi scorci cominciano a entusiasmarmi. I livornesi non è che li capisca molto, ma ne apprezzo la genuinità e il senso dell’esagerazione. La vostra rivista on line mi ha aiutato molto nello scoprire alcuni aspetti nascosti di Livorno. Così come venire a sapere che ci sono altri scrittori che vivono qui e che fanno i conti tutti i giorni con editori, agenti, rifiuti, contatti, speranze, ecc. Grazie anche per questo.”

Grazie a te, Marco, di cuore.

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