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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Radio Blog: Magic Blue Ray

24 Dicembre 2018 , Scritto da Chiara Pugliese Con tag #chiara pugliese, #radioblog, #dario amadei, #elena sbaraglia

 

 

Condividendo la passione per la lettura si fanno delle conoscenze belle e inaspettate, come mi è accaduto incontrando Dario Amadei ed Elena Sbaraglia, animatori dell'iniziativa culturale Magic Blue Ray.
Si tratta di un'associazione che si occupa dei grandi e dei piccoli lettori, aiutando a metterli in contatto tra di loro, a condividere le loro storie e i libri della loro vita con grande fantasia e apertura mentale.
Questo e molto altro è Magic Blue Ray, che vi invitiamo a conoscere meglio sia attraverso la loro pagina Facebook che il loro sito internet.
Oggi Dario ed Elena ci raccontano, con ironia, passione ed entusiasmo, tre libri ai quali sono particolarmente affezionati:

 

- Follie di Brooklin di Paul Auster - Einaudi editore
- Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman - Garzanti Libri
- Mio amato Frank di Nancy Horan - Einaudi editore

 

Buon ascolto!

 

A cura di Chiara Pugliese

Per saperne di più dell'attività di Dario ed Elena: www.magicblueray.it
Per contattarci : radioblog2017@gmail.com

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Natale e Naquale

24 Dicembre 2018 , Scritto da Luca Lapi Con tag #luca lapi, #le riflessioni di luca, #una settimana magica

 

 

 
 
 
E' Natale.
Naquale è il suo gemello.
E' Naquale che qualifica Natale.
Natale senza Naquale si sentirebbe squalificato, divorato dagli squali.
Natale senza Naquale è come una giornata senz'asole, indispensabili affinché Naquale s'insinui, affettuosamente, nella vita di Natale, qualificandola, rendendola degna di essere vissuta e condivisa.
Natale e Naquale sono nati, entrambi, con la camicia, ma, ripeto, Natale ne indossa una senz'asole e senza Naquale non saprebbe con chi altri attaccare bottone, sbottonarsi a 360 gradi.
Natale e Naquale sono inseparabili.
Sono insuperabili in quanto ad affetto reciproco.
Natale si sentirebbe solo, isolato, asolato, direi, senza Naquale.
Ogni giorno di Natale con Naquale è, invece, come un giorno assolato.
Ogni giorno di Natale con Naquale è di un godimento assoluto, reciproco.
E' per questo motivo che vogliono condividerne la gioia con tutte e con tutti.
Buon Natale, per oggi e per sempre!
 
Luca Lapi 
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Radio Blog: #caseeditrici Graphe.it Edizioni e i regali last minute

23 Dicembre 2018 , Scritto da Chiara Pugliese Con tag #chiara pugliese, #radioblog, #caseeditrici, #unasettimanamagica

 

 

«La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere. Sfogliarli a caso è sognare».
 

Questa frase di Arthur Schopenhauer è stata scelta dalla Graphe.it Edizioni come proprio motto.

Guardando ed ascoltando questo video potrete saperne di più di questa casa editrice indipendente e delle sue pubblicazioni e, chissà, magari potrete trovarvi ispirazioni per qualche regalo di Natale dell'ultimo momento!
 

Buon ascolto!

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Radio Blog: Danil, "L'orologio e l'Incantesimo del tempo"

23 Dicembre 2018 , Scritto da Chiara Pugliese Con tag #chiara pugliese, #radioblog, #audioletture, #danil

 

 

Doroty è l'orologio della torre Civica, uno dei simboli di Amatrice, che nella fantasia viene chiamata Pendula dall'autrice. Parliamo della fiaba L'Orologio e l'Incantesimo del Tempo di Daniela Lotti, in arte Danil. E poi ci sono Don Tirchiotto, la bambina folletto, Speranza e tanti altri fantasiosi personaggi, che animano questa delicata fiaba di Danil.
Libro ispirato e dedicato al terremoto di Amatrice, che, due anni fa, ha sconvolto il centro Italia. 
Di questa fiaba è stato poi realizzato l'audiolibro, narrato da Flavio Insinna.
Il ricavato del libro, dell'audiolibro e di tutti gli eventi connessi, sarà devoluto in beneficenza all'Istituto Omnicomprensivo di Amatrice.
A Radio Blog vi regaliamo l'ascolto di un piccolo estratto dell'audiolibro e, se la storia vi piacerà, cliccate su bit.ly/LibroDanil per acquistare il libro e su bit.ly/audiolibroDanil per "ascoltare" tutta la fiaba!

 

A cura di Chiara Pugliese

Per contattarci : radioblog2017@gmail.com

   

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Ritorno a casa

23 Dicembre 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto, #unasettimanamagica

 

 

 

 

Stavo tornando a casa. Dopo quattro anni di lontananza rivedevo le vette innevate dei monti sulla valle. Il tempo che ho trascorso lontano da casa è servito per tornare. Non mi ero allontanato molto, solo due montagne più avanti, ma sembrava che fossimo chissà dove. Per attraversare due montagne  abbiamo impiegato quattro anni. Quando sono partito c’era la neve, così come c’è adesso, non ne posso più del freddo. Ritorno a casa giusto in tempo per trascorrere il Natale a casa con i miei. Mancano ancora due gironi e ormai sono arrivato. Sto percorrendo antichi sentieri, siamo in pochi a conoscerli, io li ho appresi da mio nonno quando ero piccolo e lui mi portava in giro su per i monti attraverso questi sentieri. Percorsi scavati nella roccia nei secoli, dalla gente del mio paese, con  il salire e scendere dagli alpeggi con gli scarponi pesanti, che rendevano più faticoso il cammino. La neve copre tutto e il mio passo è reso pesante dalla fatica, il piede affonda ed è una tortura tirarlo fuori per poi farlo affondare di nuovo. Ci sono parole che non dovrebbero essere pronunciate, parole che il tempo ha reso prive di significato come quella che ci ripetevano ogni giorno: “vinceremo”. Chi dovevamo battere per vincere e, come dovevamo vincere?!  Semplicemente camminando nella neve e nasconderci nelle buche? Ci sono cose che non possono essere dette. Abbiamo combattuto contro il nemico, abbiamo lottato contro il freddo, contro la fame, tutti noi abbiamo perso qualcosa, qualcuno che era al nostro fianco, un amico, un compagno, una voce che parlava di cose che confortavano il cuore.

Ancora lunga è la strada che conduce alla mia valle, cammino sull’orlo di un crepaccio lungo la dorsale del monte, qui venivo da ragazzo a sfidare il vento. Anche allora camminavamo su un sentiero così piccolo da dover mettere i piedi uno dietro l’altro per camminare, non c’era lo spazio per metterli appaiati. Con o senza la neve era un’abitudine. Sto facendo lo stesso cammino, ma ora non lo riconosco più, qualcosa è cambiato, non ho più l’incoscienza  giovanile, perché adesso ho paura di mettere un piede in fallo, non ho la stessa temerarietà di una volta. Il passo è lento. Il cappotto militare che indosso non agevola i movimenti, vorrei liberarmene, ma il gelo me lo impedisce. Eccola laggiù la valle, le case coperte dalla neve. Ci sono ricordi che non si possono dimenticare, la fisionomia e la forma del proprio paese. La via principale che lo attraversa da un capo all’altro, i pochi vicoli che s’intrecciano lungo la via per rompere la furia del vento. La mia casa si trova all’estremo lato sud, là dove ora vedo un recinto di animali, ma senza bestie al suo interno. Il costone è finito e ora, finalmente, ho ritrovato il sentiero che comincia a scendere per arrivare al piano, la neve diventa più sottile, più leggera, il vento che entra da nord e percorre la valle la spazza via in turbini sempre più fitti. Non sento più i piedi, devono essersi congelati dentro il cartone degli scarponi, ma non importa, la vista di casa rafforza la volontà di arrivare e riabbracciare chi un giorno disse “ti aspetterò, ti amerò per sempre”.  Ci sono promesse che non andrebbero fatte. Quattro anni non sono “per sempre”, ma sono sufficienti a conservare intatte le promesse?

La neve è quasi svanita, c’è solo freddo e il vento che sbatte sulle imposte, sulle tavole sconnesse delle stalle. Mi guardo intorno e non vedo nessun riferimento al Natale che sta per arrivare. Ancora pochi passi e potrò bussare alla porta di casa mia. La strada è deserta, non passa nessuno. Il giorno sta volgendo al termine e nella penombra della sera si accende qualche luce. Candele e lumi a petrolio, sento il puzzo che esce dalle case e che si mescola con il fumo dei camini.  Sento l’odore del fumo ma non porta nessun odore particolare solo fumo di legna e aria fredda.

Ci sono cose che nessuno immagina possano accadere eppure accadono; succede quanto non te lo aspetti. Arrivo alla porta di casa mia, mi fermo per riprendere fiato, fisso la porta di legno di quercia che aveva fatto mio padre, la vedo ma non la  ricordo così corrosa e quasi marcita, un legno vecchio e pieno di schegge. In quattro anni possibile che si sia rovinata in questo modo?  Busso due colpi, poi uno poi due. Il segnale che usavo da giovane,  questo era il mio modo di bussare, mia madre capiva che ero io. Ora non apre nessuno. Riprovo ancora con la bussata particolare, ancora nessuno. Busso normalmente, insisto con rabbia, tempesto la porta con pugni violenti. Finalmente qualcuno apre, appena uno spiraglio, un viso sconosciuto che mi guarda con sospetto da dietro la fessura della porta.

Chi è quell’uomo? Non lo conosco, cerco di avvicinarmi per vederlo meglio in viso, ma lui si ritrae impaurito. Ha visto la mia divisa da militare. Teme qualche azione da parte mia. Cerco di rassicurarlo:

- Scusa, chi sei tu – gli dico con voce calma e tranquilla, non voglio allarmarlo, - cosa ci fai in casa mia!

Lui mi guarda con stupore, ha sentito bene la mia domanda, ma non capisce.

- Questa non è casa tua soldato, ci abito io già da due anni, piuttosto, tu come fai a dire che è casa tua? 

Adesso tocca a me essere stupito. Ha detto che abita qui da due anni, allora i miei parenti che fine hanno fatto? I genitori, la ragazza che aveva promesso fedeltà imperitura, i fratelli, dove sono? Non posso credere che siano tutti morti, chiedo:

-  E' la verità, prima di partire io abitavo qui con i miei genitori e i miei fratelli, sono tornato dopo quattro anni di lontananza, e non trovo più la mia famiglia: dov'è?

Il tizio comincia a capire, fa la faccia cupa, sa qualcosa, ma ha timore a parlare, mi guarda e m’invita ad entrare,

- Vieni dentro, fa freddo qua fuori e, vedo che non sei messo bene.

Entro e il caldo del camino mi avvolge in un abbraccio caloroso, esplode dentro di me tutta la fatica, la stanchezza, la fame accumulata durante il viaggio di ritorno. Crollo su una sedia e già sento nelle ossa un brivido spiacevole, quanto dovrà dirmi il tizio che mi ha aperto la porta, di certo non sarà una buona notizia.

Ci sono storie che non andrebbero mai raccontate. Quella della mia famiglia era una di queste, quando l’uomo che sta al mio fianco comincia a parlare, una strana pace si  impossessa di me. Lui parla, racconta le vicende degli ex abitanti della casa che, adesso, è sua.

Dovrei prestare più attenzione, indignarmi, commiserarmi o anche piangere, invece me ne sto lì impassibile con lo sguardo nel vuoto vicino al fuoco di un camino a lungo desiderato. Il sonno si fa strada e s’impossessa di quanto è rimasto di un giovane corpo partito quattro anni prima per andare due montagne più avanti a difendere altre valli da uomini, un tempo amici, trascurando di occuparsi della propria montagna. Voglio credere che sia stato il vento e, non qualcuno, a spazzare via le speranze dall’animo degli abitanti la casa in fondo al viale, di un paese, nascosto in fondo alla valle. L’uomo non dice più nulla ha visto che mi sono addormentato e mi copre con una coperta. Dormo per un tempo indefinito, senza sogni, senza problemi, un sonno che nasconde la delusione, la rassegnazione di non poter passare il Natale con la famiglia. Quando mi sveglio la prima cosa che sento è un odore di zuppa, la fame repressa esplode in tutta la sua virulenza, mi alzo dalla sedia vicino al camino, sento dopo tanto tempo il calore nelle mie mani rimaste gelide per troppo tempo. L’uomo mi guarda, abbozza un sorriso, al suo fianco una donna avanti con gli anni e al fianco due bambini dalla faccia smunta. Mi fissano come un oggetto misterioso, il mio lungo cappotto militare mi dà un’aria di uomo più grande di quello che sono, ho la barba lunga e gli occhi arrossati, uno spettacolo insolito per un soldato del regio esercito. Cerco di prepararmi e andare via da quella casa che non è più la mia, sono un ospite non desiderato, devo andare, non so dove ma devo uscire da quella casa, prima che perda il calore che ho recuperato e la fame non mi faccia svenire. Sto pensando come fare quando una voce mi raggiunge:

- Come ti chiami soldato?

La voce è del capofamiglia, che, dopo avermi chiesto il nome, mi fa cenno di avvicinarmi alla tavola. La donna si era alzata e sta apparecchiando, mentre penso a come rispondere all’uomo vedo con la coda dell’occhio che sta mettendo cinque coperti, loro sono in quattro, un pensiero mi corre veloce nella testa.

- Mi chiamo Giuseppe, quando abitavo qua, i miei mi chiamavano Pino, se volete potete chiamarmi così anche voi, siete delle brave persone e non è colpa vostra se adesso io non ho più una casa né una famiglia.

Tranquillo Pino, tutti noi abbiamo sofferto questo periodo  oscuro, ora sembra che ne siamo fuori e per questo dobbiamo ringraziare il Signore, domani è Natale, dobbiamo celebrare la nascita, sperando che ci porti un po’ di serenità. Resta con noi, ci fa piacere avere un giovane in casa dopo aver perso mio figlio, aveva più o meno la tua età, è caduto sui monti da dove sei arrivato tu, chissà forse era un tuo compagno d’armi. Resta, ci sembrerà di averlo ancora tra noi. Dovrai accontentarti di quello che abbiamo, siamo poveri ma tiriamo avanti, aspettiamo la fine dell’inverno per riprendere i lavori nei campi, forse potresti darci anche una mano, se ti va di restare in casa tua.

L’uomo parlava e io dovetti sedermi per l’emozione, non pensavo a nulla del genere, ma dovevo immaginarlo, la gente della valle è rustica, parla poco, ma ha un cuore enorme, capace di gesti e parole che rincuorano. Non avevo voce per rispondere, mi limitai a fare un cenno affermativo con la testa.

Mi decisi a togliere il cappotto e, da sotto quella palandrana, uscì fuori il corpo provato di un giovane di ventisei anni, ma che ne dimostrava quaranta. Senza parlare mi avviai verso la cucina, sapevo bene com’era fatta la mia casa, per darmi una  lavata di mani, l’indomani dovevo rimettermi in ordine, non potevo presentarmi al Natale così com’ero combinato adesso.

La cena con i nuovi amici fu breve e molto parca. Una zuppa d’ortica e pane e delle fette di salame uscito chissà da dove. Per il giorno dopo,  Natale, non so cosa avesse  in mente quella famiglia, io da parte mia per contribuire pensai di tornare indietro fino al punto in cui avevo nascosto il fucile in dotazione e con quello cercare di andare a caccia di qualcosa di più sostanzioso. Non dissi niente all’uomo che mi aveva ospitato, che seppi dopo si chiamava Pietro, dissi solo che volevo fare un giro di giorno per vedere il cammino fatto. Presi il fucile e m’incamminai verso la salita che portava al bosco dietro la collina, prima di arrivare alla montagna vera e propria. Ero nato in quella valle e conoscevo tutti i suoi segreti, con la neve poteva capitare anche d’incontrare un cervo o un daino scesi per cercare del cibo dove la neve era più bassa, anche qualche lepre rientrava fra la selvaggina possibile, camminai a lungo cercando le orme di animali, ma non trovai niente, ero arrivato in cima alla collina e mi accinsi a scendere, nel farlo dall’alto vidi più a valle poco distante dal sentiero che dovevo percorrere, un movimento! Cercai di vedere meglio e finalmente li vidi, erano caprioli riuniti intorno a una rientranza del terreno che non era coperto di neve, c’era dell’erba e stavano mangiando tranquilli non si aspettavano pericoli in quella zona e in quel periodo. Scesi con cautela fino a raggiungere un posto molto vicino a loro, erano in tre due giovani femmine e un maschio adulto. Decisi subito per una delle due femmine, l’altra coppia avrebbe potuto procreare. Controllai il fucile, le pallottole, avevo una sola occasione e non potevo fallire. Il colpo risuonò in un’eco senza fine rimbalzando da monte a monte, ma dovetti  spararne un altro, anche se ferita, la femmina stava cercando di nascondersi nel bosco. Quando rientrai a casa di Pietro con l’animale sulle spalle ci  furono scene di gioia specie da parte dei bambini, la moglie aveva le lacrime agli occhi. Pietro mi guardò con uno sguardo scrutatore, ma non trovò traccia di nulla. Mi strinse la mano. Fu il primo Natale dopo quattro anni per tutti noi seduti a quella tavola che mangiammo carne fino a scoppiare. La polenta nel paiolo sul camino borbottava e il viso dei bambini si fece rosso dal caldo e dal cibo. Il primo Natale passato in casa fra gente di cuore e senza il rombo opprimente dei cannoni.

 

 

 

 

 

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Radio Blog: I libri sotto l'albero di Elena Brilly

22 Dicembre 2018 , Scritto da Chiara Pugliese Con tag #chiara pugliese, #radioblog, #eva pratesi, #vignette e illustrazioni, #blog, #elena brilly

 

 

 

Un nome: Elena Brilly, un blog: Crazy Alice in Wonderland e una rivista: Writers.
Come promesso proseguono i consigli per gli acquisti di Natale e sarà la voce di Elena Brilly a dispensarceli.
Le sue scelte sono eterogenee ed interessanti con un finale dedicato alla conoscenza di due autori emergenti : Massimo Baldi con il suo libro Passeggiando con Esopo nella mitica terra di Zoolandia e Paolo Mormile con Dizionario dell'alcol. Ricordi oziosi di un padre separato edito da Arduino Sacco.

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Due fratelli e le renne

22 Dicembre 2018 , Scritto da Luca Lapi Con tag #luca lapi, #le riflessioni di luca, #una settimana magica

 

 

 
 
 
Due fratelli nascono a distanza di qualche anno l'uno dall'altro.
Il primo è inatteso: i genitori avevano pensato ad una femmina.
Nasce il 1° Maggio: pensavano che, se fosse stata femmina, sarebbe diventata maggiorata.
Lo chiamano... Maggio: potrebbe essere il maggiore di altri fratelli e devoto alla Madonna.
Potrebbe essere lavoratore o fare carriera militare, diventando sergente maggiore.
Nasce, qualche anno dopo, il fratello minore ed i genitori dicono: "Non è minorato, grazie a Dio Padre!"
Lo chiamano, più cristianamente, Mino: cresce con Maggio.
Maggio diventa maggiorenne: Mino è, ancora, minorenne.
I genitori, educati col mito di Babbo Natale con slitta e renne, pensano: "Maggio è maggiorenne, Mino è minorenne: ci sarebbe dono migliore di un paio di renne per ognuno?"
Così fanno.
Maggio e Mino ne sono lieti, ma Mino si ammala: necessita di trapianto di un rene.
Maggio ed i genitori si sottopongono agli esami: Maggio ha un rene compatibile e può essere donatore.
Maggio e Mino vengono internati per procedere all'intervento.
L'esito è positivo: Maggio e Mino tornano a casa dove trovano le loro renne a festeggiarli.
Maggio dice: "Ho un rene in meno..." e Mino dice, a sua volta: "Ho un rene nuovo..."
Entrambi finiscono: "...ma più importanti sono le renne a festeggiare il nostro ritorno! Buon Natale perenne a tutti!"
 
Luca Lapi 
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Radio Blog: I libri sotto l'albero di Serena Rossi

21 Dicembre 2018 , Scritto da Chiara Pugliese Con tag #chiara pugliese, #radioblog, #eva pratesi, #vignette e illustrazioni, #blog, #serena rossi

 

 

 

Ma quanti bei consigli di lettura che ci offre la nostra Serena Rossi, curatrice del blog Quando la Sere legge e già altre volte ospite di Radio Blog! Si spazia dalla narrativa, ai classici, al graphic novel.
 

I titoli sono :

 

- Rughe di Paco Roca edito da Tunué
- Neve, cane, piede di Claudio Morandini edito da Exòrma Edizioni
-Frida di Vanna Vinci edito da 24 ORE Cultura
- Amy e Isabelle di Elizbeth Strout edito da Fazi Editore
- L'Agnese va a morire di Renata Viganò edito da Einaudi editore
- Il regalo più bello - storie di Natale edito da Einaudi editore

 

Ascoltate questo interessante audio dove Serena ci racconta questi libri e ci spiega perché, secondo lei, dovremmo metterli sotto l'albero di Natale.

A seguire, nel prossimo audio, un'altra blogger, Elena Brilly del blog Crazy Alice in Wonderland, ci darà molti altri consigli di lettura quindi... più che mai....RESTATE SINTONIZZATI SU RADIO BLOG!!!!

 

A cura di Chiara Pugliese
Illustrazione: Eva Pratesi - Geographic Novel

Musica: bensound
Per contattarci:radioblog2017@gmail.com

 

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La cicogna

21 Dicembre 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto, #unasettimanamagica, #postaunpresepe

 

 

 

 

- Vieni Maria ancora un piccolo sforzo.

- Oh! Giuseppe non ce la faccio più, credo che sia arrivato il momento di fermarsi, capisci, dobbiamo fermarci non importa dove.

- Va bene, ho capito, ancora due passi, vedo una costruzione più avanti, vedremo di ripararci là dentro.

Giuseppe, tirando le redini dell’asino sul quale c’era la sofferente Maria, aprì la porta di quella che sembrava una stalla. In effetti lo era, un unico locale pieno di paglia nelle mangiatoie e un grosso bue che riposava disteso in un angolo. Vide entrare l’intruso ma non mosse un muscolo, rimase a sonnecchiare sdraiato nella paglia. Maria, con notevole sofferenza, scese dall’asino e andò a sdraiarsi anche lei sulla paglia, con le spalle appoggiate a una mangiatoia piena di fieno. Il calore cominciò a farsi sentire e lei ne trasse beneficio. Giuseppe, intanto, liberava il povero asinello dal giogo lasciandolo vicino al bue, che sollevò un occhio ma lo richiuse subito dopo.

Da bravo falegname Giuseppe pensò subito di preparare una specie di culla per il prossimo nascituro. Prese le misure di due pezzi di mangiatoia e, con gli arnesi che portava sempre con sé, allestì alla meglio una sorta di culla. La riempì di paglia, possibilmente quella più fine, spezzettata, per evitare spuntoni che potevano esser pericolosi per il bambino. Mentre lavorava non perdeva di vista Maria, che aveva cominciato a lamentarsi di nuovo per i forti dolori. Capì che il momento era vicino, non avendo altro da fare uscì fuori all’aperto in attesa di sentire il primo vagito. Maria, come tutte le donne sapeva cosa fare, avrebbe portato a termine il suo compito.

Passavano i minuti e l’aria diventava sempre più fredda, Giuseppe fuori la porta sentiva il freddo entrare dentro di lui come una tenaglia che tentava di strappargli pezzi di carne. In cuor suo voleva entrare e aiutare la sua sposa ma sapeva che non era permesso, doveva solo aspettare. Era intento a guardare il cielo che piano piano stava schiarendosi. Stava facendo notte ma, stranamente, il cielo diventava sempre più pulito. Le stelle uscirono a migliaia e anche l’aria gelida sembrò calare d’intensità. Vide molto lontano una luce splendente che lasciava una scia d’argento, la direzione era verso il punto dove si trovava lui. Distratto dalla meraviglia del cielo ancora non si era accorto che si stavano avvicinando alla porta della stalla diversi animali, quando se ne accorse per poco non fece un salto dalla sorpresa. Vicino a lui e tutto intorno c’era un assortimento di animali piccoli e grandi, erano arrivati in silenzio e se ne stavano lì tranquilli. Notò, fra gli altri, molti uccelli di diverse razze e dimensioni. C’erano molti passerotti, una coppia di colombe, un falco solitario, due gufi dagli occhi sporgenti che giravano di continuo la testa come dei vecchi professori. A terra cani gatti, volpi, topolini, mucche e pecore, anche un lupo e un orso arrivati chissà da dove. Erano tutti insieme prede e predatori, erano fermi insieme a Giuseppe in attesa. Volevano essere i primi a rendere omaggio al redentore.

Nel silenzio della notte improvviso si udì un vagito. Un soffio d’aria avvolse chi era fuori ad aspettare. Un vento tiepido che avrebbe portato il suo soffio d’amore in tutto il pianeta. Giuseppe si decise ad entrare andò subito vicino Maria che con aria stanca ma felice gli porse un fagottino formato con un pezzo delle sue vesti. Dopo averlo baciato, Giuseppe lo mise nella improvvisata culla e gli animali cominciarono a passare davanti alla culla. Passando chinavano la testa come un segno di omaggio, in Lui riconoscevano il Signore di tutti loro.

Quando arrivò il turno della cicogna, lei sulle esili zampe fece una specie di inchino, ma non poté evitare di rattristarsi per le condizioni precarie in cui si trovava quel piccolo. Per essere il Signore di tutti gli esseri viventi giaceva in un posto molto scomodo. Sapeva che la paglia può essere traditrice, alcuni fili sono davvero duri e il neonato ne poteva soffrire. Non si mosse da dove era e, con dolore infinito, cominciò a strapparsi tutte le piume che aveva. Soffriva in silenzio, una alla volta si strappò le piume, quelle più soffici e morbide che aveva sotto le penne, quelle che nello strappo portavano via anche lembi di pelle. Quando ebbe raccolto un bel mucchio, con il lungo becco lavoro con abilità ricoprendo il panno deve era steso il bambino. Soddisfatta e piangente per il dolore si apprestava a uscire quando il sacro bambino la guardò e il suo sguardo fu una benedizione per lei. Da quel giorno la cicogna è diventata un uccello protetto e accettato da tutte le latitudini. È il simbolo della nascita e dell’amore per i neonati.

Quando tutti gli animali furono andati via cominciarono ad arrivare persone del villaggio, pastori dal circondario, viaggiatori che avevano seguito la scia della stella cometa e in breve davanti a quella stalla ci fu il mondo in attesa di omaggiare la nascita del Messia. Arrivarono giorni dopo anche alcuni maghi dal lontano oriente portando doni a chi doveva regnare così in terra, come in cielo.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il Natale di Luca

20 Dicembre 2018 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto, #una settimana magica, #posta un presepe

 

 

 

 

“Un Natale speciale, questo sarà davvero un Natale speciale” si ripeteva Lucia guardando fuori dal finestrino.

Da piccola le avevano trasmesso il valore, l'importanza di quel santo giorno: nasceva Gesù in una calda atmosfera familiare, con il presepe preparato con cura, l'albero pieno di luci, la Messa di mezzanotte e il panettone.

I suoi fratelli, una volta cresciuti, si erano trasferiti chi in America, chi nel nord Italia, chi in Germania e lei, morti mamma  e papà,  era rimasta sola nella grande casa di San Polo, immersa nel verde, nel silenzio, troppa solitudine, e a volte le faceva paura. A Natale sperava sempre in un rientro dei fratelli coi nipoti e le cognate, per ricreare insieme quella atmosfera di magica allegria di quando erano piccini, invece succedeva che qualcuno declinava l'invito, chi perché il viaggio era troppo lungo, chi aveva figli che non volevano muoversi dalla città, scuse sempre scuse e quest'anno, addirittura, nessuno sarebbe tornato, nemmeno Luca, suo fratello gemello che viveva a Milano e che era quello più affezionato a lei, alla casa, al paese.

Le aveva spiegato che era soffocato da impegni di lavoro, che non poteva assolutamente scendere e lei, colpita come da uno schiaffo in pieno viso, ci era rimasta male. Poi, durante la notte, rimuginando su quelle che le erano apparse delle banali e false giustificazioni, si era resa conto che la voce di Luca al telefono era triste, tremula, vuota. Non lo aveva notato subito perché era offesa e le bruciava la delusione, ma conosceva troppo  bene suo fratello e doveva essergli successo per forza qualcosa. Si convinse che almeno lui non l'avrebbe mai e poi mai lasciata sola la notte di Natale.

Così nel giro di una settimana, senza avvertire nessuno, preparò la valigia, fece il biglietto del treno, non dimenticò di comprare il torrone ai fichi secchi da “zia Carmelina”, una vecchietta che ormai era rimasta l'unica in paese a saperlo fare, e preparò i “pepatelli”, biscotti di cui suo fratello andava matto.

L'antivigilia partì alla volta di Milano, durante il viaggio ebbe tempo di riflettere, di pensare alla sua vita dedicata interamente alla famiglia, alla casa, ai genitori che erano entrambi mancati troppo presto. Non si era mai sposata, insegnava lettere e filosofia al Liceo Classico e aveva visto sfiorire la sua bellezza giorno per giorno, inseguendo il sogno di un grande amore che non era mai arrivato, o almeno per lei era arrivato, ma aveva il volto di Riccardo l'insegnante di matematica, sposato con prole. Lo aveva amato in silenzio fino a quando anche lui sembrò accorgersi dei suoi sguardi, del suo improvviso rossore se lo incrociava nei corridoi della scuola e l'aveva invitata a uscire. Si erano dati  appuntamento fuori dal paese, lontano da occhi indiscreti, tutto era iniziato con un caffè al bar del corso in una città vicina, poi l'incontro divenne prima mensile, quindi settimanale e finivano sempre per fare l'amore in un alberghetto di periferia, a strapparsi i vestiti di dosso dal desiderio di toccarsi, a consumare la loro passione proibita in qualche ora di sesso. Al pensiero ancora le correvano i brividi lungo la schiena. Poi ognuno tornava a casa propria, le feste comandate lui le trascorreva con la famiglia, mai una vacanza insieme, mai una gita domenicale e lei si era abituata a vivere in attesa di quelle poche ore di felicità che le regalava. Fino a quando non aveva cominciato a trovare scuse, a incolpare la moglie di stargli addosso e così gli appuntamenti si erano diradati, fino a cessare del tutto.

La sua età migliore intanto era trascorsa, quindici anni a vivere nell'ombra, a fare l'amante segreta, l'avevano invecchiata anzitempo, le avevano soffocato lo spirito, e ora si era lasciata andare, sembrava più vecchia dei suoi quarantotto anni, in paese la chiamavano la signorina e si sentiva un'acida zitella. I suoi vivaci occhi azzurri si erano spenti, la  figura slanciata, un po' appesantita, ma ormai non si guardava nemmeno più allo specchio, non avrebbe mai avuto una famiglia sua, un figlio a cui insegnare il Natale, a cui raccontare di quando bambina cantava nel coro della chiesa e suo padre si commuoveva ogni volta.

Solo Luca sapeva della sua storia, conosceva il suo segreto e l'aveva sempre compresa, mai giudicata. Così, mentre il paesaggio scorreva veloce dai finestrini, lasciando le sue montagne Lucia scendeva verso il mare, passavano veloci le città illuminate a festa, cambiando scenario di ora in ora e, per la prima volta in vita sua, si sentì felice di non essere a casa, insieme a Luca avrebbe trascorso un Natale diverso, davvero speciale.

Uscita  dalla stazione fu accolta da un'atmosfera di festa, sfavillio di luci, suoni melodiosi, anche gli zampognari erano saliti a Milano per rallegrare la città con la musica natalizia di “tu scendi dalle stelle”. Li guardava curiosa camminare lenti per le strade affollate, il passo cadenzato, e sotto il cappellaccio nero le sembrò di riconoscere Peppino, il paesano  che ogni anno suonava la zampogna nel presepe vivente al suo paese. Si fermò un attimo, quel costume l'aveva sempre affascinata: il mantello a ruota di panno color catrame, i pantaloni aderenti abbottonati al ginocchio e, sotto, i calzettoni chiari, di lana caprina, tenuti stretti da giri e rigiri di linguette di cuoio che salgono dai calzari. Nel loro presepe non mancava mai lo zampognaro davanti la capanna.

Quella musica acuta, strozzata, le faceva salire un nodo in gola. La gente correva indaffarata, entrava e usciva dai negozi con montagne di pacchi fra le braccia. La corsa all'ultimo regalo era forse normale per chi vive la frenesia delle grandi città, per lei no, lei preparava tutto per tempo, passava le serate a incartare, a infiocchettare, a personalizzare  i doni per i suoi cari, regalando anche un po' d'amore ad ognuno con quel gesto antico.

Spaesata, frastornata, si avvicinò a un taxi e si fece accompagnare a casa del fratello.

Aveva già suonato tre volte senza ottenere risposta e l'ultima aveva tenuto pigiato il dito sul campanello con insistenza, perché  iniziava a pensare che Luca le avesse mentito e fosse partito per una vacanza esotica con gli amici, quando finalmente rispose al citofono.

“Chi è?” era stanco. Lucia pensò che davvero stava lavorando troppo.

“Sorpresa...!”

Quando aveva sentito la voce della sorella era rimasto di sasso, senza parole, l'improvvisata pareva averlo paralizzato.

“Che fai scemo non mi apri?” disse Lucia in tono scherzoso

Nessuna risposta, solo un flebile ansimare dall'altra parte della cornetta poi ... tac lo scatto del portone che si apriva.

Davanti alla porta dell'appartamento, Lucia rimase in piedi inebetita, chi si trovava di fronte non era suo fratello, ma un uomo magrissimo, che si reggeva a malapena in piedi, irriconoscibile, con profonde occhiaie, il viso pieno di eruzioni violacee e una tosse violenta che non gli dava respiro. Era ormai un anno che si nascondeva dietro problemi di lavoro e non si era fatto vedere, tanto meno sentire.

Si avvicinò titubante, lo abbracciò, lui piangeva come da bambino, quando i compagni lo prendevano in giro perché era effeminato, perché era gracile e troppo sensibile per i giochi da maschi. Era lei quella forte, quella sempre pronta a menare le mani, come se nella pancia della mamma i due fratelli si fossero scambiati i ruoli. Così era sempre stata protettiva e lo aveva difeso fino a quando aveva lasciato il paese e finalmente si era sentito libero di vivere la sua omosessualità, mai apertamente confessata a nessuno.

Ora però era malato, si vedeva che era una cosa grave, e si trovava solo in quello stupendo attico col terrazzo che dominava via Montenapolene e che aveva arredato tutto da solo col buon gusto di bravo arredatore quale era diventato. Lavorava per la gente del jet set, per gli stilisti, gli attori, e aveva successo, soldi, ma mai mai, anche lui come Lucia, aveva conosciuto l'amore vero.

Si era bruciato in incontri occasionali e ora, le raccontava fra i singhiozzi, che proprio a causa di questa affannosa ricerca d'amore sarebbe morto. Lo aveva colpito la malattia terribile, quella che non si può nominare senza provare vergogna, quella che uccide gli invertiti, i debosciati, che punisce chi ha peccato. Questo secondo le regole, il comune pensiero, l'AIDS.

Lucia non sapeva cosa dire, era impreparata a un simile segreto che il fratello aveva tenuto nascosto per tanti anni, prima che l'ultimo stadio della malattia si manifestasse così violentemente,  non aveva dimestichezza con queste cose e rimase per un attimo senza sapere come reagire, senza nemmeno sapere dove guardare. Il cuore si era fermato e un sudore freddo le correva lungo la schiena.

“Mio Dio" avrebbe voluto gridare, sbattere la testa al muro. No, non era possibile, non stava succedendo a loro. Poi dentro di lei ebbe il sopravvento la pragmatica donna del sud che tanto le ricordava sua madre.

“Beh!? Che ci piangi, stupido, è Natale dopodomani, rimettiti a letto che a te ci penso io.”

Luca passò la notte con febbre alta, spossatezza, mal di testa, dolori al petto, delirante alternava momenti di lucidità in cui la ringraziava e le chiedeva perdono ad altri in cui non la riconosceva nemmeno e la chiamava col nome di un uomo dicendo “Giacomo perché mi hai fatto questo.”

L'indomani era la vigilia, Lucia capì che doveva accompagnarlo in ospedale, chiamò l'ambulanza e, una volta sistemato nel letto, si sedette accanto e non gli lasciò mai la mano.

Stava scendendo la notte, la notte di Natale, era freddo. Dalla finestra si vedevano fiocchi di neve volteggiare nel cielo e scendere silenziosi sulla città in festa. Lucia non smetteva mai di parlare e di rivivere col fratello i loro natali felici.

“Ti ricordi papà che raccoglieva il muschio nel bosco per il presepe e con la segatura faceva la sabbia del deserto dove posare i Re Magi? Ti ricordi Luca il pastore di terracotta con lo zufolo? Ci era caduto a terra mentre litigavamo per posarlo davanti la capanna, una gamba si era rotta e noi da allora lo chiamavamo “Lo zoppo”. Ogni anno era il primo a essere tirato fuori dalla scatola e messo nel presepe, che Natale sarebbe stato senza lo zoppo e quante risate...”

Luca ascoltava, tremante di febbre, riscaldato dai ricordi della sorella, riusciva a sorridere e sussurrare qualcosa

“Lo zoppo e il cane cieco erano i miei preferiti.”

“Il cane te lo avevo “cecato” io, Luca, per gelosia, lo hai mai saputo?”

“Certo che lo sapevo e proprio per questo lo amavo di più.”

Un attimo di silenzio, era quasi mezzanotte, Lucia cominciò a cantare come faceva in chiesa, non aveva perso negli anni la sua voce argentina e nel corridoio dell'ospedale iniziarono a risuonare le  note struggenti.

“Adeste fideles,  laeti triumphantes ... venite adoremus, venite adoremus, venite, adoramus Dominum!...”

A  poco a poco, con delicatezza, si affacciarono alla porta alcuni infermieri, il medico di turno, due malati in grado di muoversi e, in rispettoso silenzio,  si avvicinarono al letto di Luca.

Lui era ripiombato nei ricordi,  in fila coi fratelli che cantavano, stava portando Gesù tra le sue manine piccole e lo posava nella mangiatoia, accanto al bue e l'asinello.

Un ragazzo nero si era accostato più degli altri, il bianco degli occhi sgranati, risaltava sul viso emaciato come due punti luminosi, era cresciuto cattolico in una missione in Africa, giunto in Italia aveva smarrito la strada e si era ammalato prostituendosi in stazione.

"Tutti abbiamo perso la strada” pensava Lucia, “il Natale non è più il nostro Natale”, poi sospirando: “Hai visto Luca? Quanta gente  intorno a noi , un vero presepe stanotte, e  ci sta pure Baldassarre che porta i doni” provò a scherzare, indicando il ragazzo nero accanto al letto.

Ma suo fratello era già lontano, aveva raggiunto il cielo a mezzanotte per cantare l'Osanna con gli angeli, mentre Gesù scendeva nella grotta a portare il perdono sulla terra.

Il suo viso si era disteso, lo aveva abbandonato ogni segno di sofferenza, era tornato bello, levigato, quasi sorridente, come quando era un bambino, felice e inconsapevole.

Lucia non cantava più, piangeva, lacrime silenziose le rigavano il volto, non aveva fatto in tempo a dirgli addio come avrebbe voluto.

“Può sentirmi?” chiese al dottore

“Non so se può sentirti ormai, ma tu puoi sentire lui, cosa desidererebbe tuo fratello?”

“Vorrebbe essere amato, capito, perdonato.”

E si chinò sul suo volto, lo baciò dolcemente, poi inizio a soffiargli sulle guance sulle mani. Avrebbe voluto  rianimarlo in una sorta di “miracolo di Natale”in cui ormai credono solo i bambini. Poi iniziò ad annusarlo, tutto dalla testa ai piedi, in un ultimo saluto  così come  fanno  i cuccioli di cerbiatto quando muore un fratellino per non dimenticare il suo profumo.

 “Buon Natale Luca... buon Natale.... buon Natale.”

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