Mario Bonanno, "È vero che il giorno sapeva di sporco"
Mario Bonanno
È vero che il giorno sapeva di sporco
Stampa Alternativa - pag. 110 – Euro 14
Mario Bonanno è uno dei maggiori esperti di cantautori del nostro paese, oltre tutto scrive in un italiano popolare, corretto, agile e snello - cosa non scontata per un critico - e rende fruibile a tutti il suo vasto sapere. Dote non di poco conto, per me che ho fatto dello stile popolare una religione, con buona pace degli snob e di chi vive perennemente con la puzza sotto il naso. Non è il primo libro che Stampa Alternativa dedica a Claudio Lolli, perché in catalogo - e nella mia biblioteca - ce n’è un altro con CD musicale allegato, che ricordo presentato in una stalla a Pitigliano, in puro stile Baragini, durante un Festival della Letteratura Resistente, ovvero degli editori veri che ancora fanno libri e non li vendono in Autogrill insieme alla merda che spacciano per cibo. Ma poi perché prendersela tanto? In fondo certi volumi rilegati sono nel loro non luogo ideale, perché cacca chiama cacca, direbbe mio nonno, e trovare Monnezzoli tra le penne scotte e il riso stile colla per manifesti è perfetto. Basta con le polemiche, parlavamo di Bonanno e di Lolli, due autori che con le major non se la sono mai detta, quindi Stampa Alternativa pare proprio l’editore ideale.
Il libro su Lolli si occupa di riascoltare l’album Disoccupate le strade dai sogni e presenta molte foto d’epoca di Enzo Eric Toccaceli. Un disco che viene definito un specie di posto delle fragole musicale non posso che amarlo, visto la passione che mi lega al cinema di Bergman e dato che pure io ho scritto - come tutti coloro che scrivono - il mio posto delle fragole con Calcio e acciaio. Non solo, il prefatore Gigi Marinoni cita la frase di Paul Nizan (Ho avuto vent’anni, non permetterò. a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita), perché lui quando è uscito il disco aveva vent’anni - io diciassette -, pure se lo fa in negativo, e io ho scritto un intero romanzo partendo da quella frase (Miracolo a Piombino). Insomma, le analogie sono troppe per non appassionarmi alle parole di Lolli, cantante che tra l’altro ha rappresentato tutta la rabbia esistenziale della mia generazione, non usa a farsi selfie del cazzo e giocare ai videogame, ma a leggere, studiare, farsi il culo e correre. Unicuique suum, dicevano i latini. E allora se avete tra i cinquanta e i sessant’anni ve lo consiglio questo libro per fare un tuffo nel passato, per assaporare cento pagine di madeleines e inzuppare i vostri biscottini nell’infuso di tiglio della vecchia zia. Se siete giovani, invece, vi dico che potreste per un attimo lasciare da parte telefonino e bastoni da selfie e provare a vedere se la poesia di Claudio Lolli vi dice qualcosa, ché ora come ora provare costa niente, visto che si scarica tutto, dalla rava alla fava. Bravo Bonanno che completa la sua collezione di opere sui cantautori, da Stefano Rosso a Battiato, passando per Gaber e Bertoli, miti di un passato che non può tornare. A quando un bel libro su Roberto Vecchioni? Magari che parli di Saldi di fine stagione e Improvviso paese… Mi candido come editore.
C'era una volta la Romagna: "la vendemmia"
Ogni anno sul finire dell'estate il nonno si eclissava e lo si poteva trovare nella penombra della cantina, intento a brigare fra tini e bigonci. Travasava il poco vino vecchio rimasto in piccole botti, dove sarebbe stato custodito, al fresco dei vecchi muri sgretolati, in un angolo polveroso pieno di ragnatele, fino all'occasione di berlo e doveva essere un giorno importante. Il matrimonio di un parente stretto, la nascita di un nipote maschio, la mietitura.
L'uva era matura e gli zii arrotavano roncole e falcetti, noi facevamo la guardia agli uccelli voraci, affinché non volassero sui tralci a beccare i grappoli.
Il giorno della vendemmia seguivamo gli uomini annusando l'odore dolce e asprigno a un tempo che, stuzzicando le nostre narici, si sprigionava nella vigna, portavamo ognuno un piccolo paniere, una piccola roncola e, pieni di buoni propositi, volevamo aiutare. Gli zii erano in alto sulla scala a tagliare, a raccogliere, le zie a svuotare le ceste sul carro che, pieno d'uva, procedeva lento fra i filari.
Foglie picchiettate di verderame cadevano sulle nostre teste e a quel punto, acquattati fra i pampini, sghignazzando, iniziavamo ad aggredire a morsi i grappoli maturi, il succo colava denso come inchiostro sul mento, lungo le braccia, sul petto. Sento ancora oggi l'acquolina in bocca al ricordo di quel dolce sapore che già sapeva di lambrusco.
I grandi guardavano le nostre faccine sbrodolate, ma nessuno ci sgridava, solo vedendo rincorrerci l'un l'altro, una zia scendeva dal carro e ci toglieva di mano le roncole. Credo che il contatto diretto con la natura, correre, sudare, insegni ai bambini a vivere meglio emozioni e sentimenti, aiuti a essere più autonomi e più spontanei. Eravamo liberi di giocare, di correre a perdifiato, di sporcarci di erba e fango, di sprofondare le caviglie nel fresco della terra umida. Siamo grandi adesso, abbiamo gli stessi occhi, ma non vediamo gli stessi colori.
In poche ore il carro era pieno, il nonno si affacciava sulla porta della cantina e si accertava che lo scarico dell'uva procedesse senza che nemmeno un grappolo andasse perso. E così si ripartiva per un nuovo carico e fino a sera si facevano parecchi viaggi.
Giunti a fine giornata, nessuno di noi aveva fame, sazi d'uva, correvamo in cantina, dove il nonno aveva riempito di grappoli i bigonci e li aveva disposti in cerchio, mentre la nonna arrivava col secchio e costringeva tutti a lavarsi i piedi prima di iniziare la pigiatura.
Appena montavo sul mio mucchietto di grappoli, il freddo contatto coi piedi nudi mi faceva rabbrividire, poi iniziavo a pressare, a calpestare, a schiacciare con tutta la forza come un puledro imbizzarrito e a poco a poco il succo sprizzava dai chicchi, tiepido, ogni disagio spariva e procedevo sempre più forte, sempre più veloce, in gara con i miei cugini a chi scendeva più giù, finché arrivavo a toccare il fondo coi piedi, ubriaca di eccitazione.
Il nonno, di tanto in tanto, veniva a controllare se il lavoro era ben fatto, toglieva i raspi e, quando immergendo la grossa mano nel mosto, si accertava che nessun chicco fosse sfuggito ai miei pedi scarni, mi sollevava con le sue braccia forti e mi deponeva su un altro bigoncio, con un sorriso di malcelato orgoglio.
La pigiatura era un'altra occasione di festa che ci vedeva tutti insieme impegnati a lavorare scherzando, ridendo, le donne cantavano maliziose reggendosi la sottana attorno alle ginocchia, gli uomini si sfidavano in gare di velocità e resistenza, raccontando storielle piccanti. Il nonno era l'unico serio, guardava severo che tutto filasse liscio, ma lasciava fare, fino a quando qualcuno non rallentasse il ritmo per le troppe risate, allora faceva la voce grossa e tutti riprendevano il lavoro a testa bassa. Il silenzio durava pochi minuti, giusto il tempo di sentire il ronzio delle vespe invischiate nei grappoli e lo sciabordio dei piedi nel mosto: un ciac ciac che mi ricordava il rumore delle scarpe nelle pozzanghere quando uscivamo fuori di corsa dopo un violento temporale. Poi tutti ricominciavano a ridere senza un perché.
I primi a crollare dopo tanta ginnastica, dopo tante risate, eravamo noi bambini. Quando la nonna capiva che eravamo troppo stanchi ci faceva scendere, ci lavava di nuovo i piedi viola, raggrinziti, e ci mandava a dormire. Cadevo velocemente in un sonno profondo, stanca, mentre un benefico calore scorreva lungo le gambe.
Nei giorni seguenti sotto l'occhio vigile del nonno si procedeva alla torchiatura e la nonna faceva bollire nel paiolo il mosto per ricavarne la saba, un dolce sciroppo d'uva da utilizzare per i dolci.
Quando aveva finito di preparare raviole ripiene di mostarda e altre leccornie profumate, ci chiamava in cucina a pulire cucchiai di legno, terrine, mestoli e pentole. Un lavoro per nulla ingrato, golosi, in cambio di un mestolo da leccare, ci impegnavamo a compiere tanti lavoretti come portare la “broda” al maiale o raccogliere l'erba per i conigli. Promesse dure da mantenere una volta lasciata la cucina.
Dopo qualche tempo, quando il primo vino nuovo era pronto, il nonno chiamava tutti per l'assaggio, ne dava un bicchiere ciascuno anche a noi bambini. Tracannato d'un fiato, dolce al palato come uno sciroppo, un allegro calore ci investiva le orecchie e ci sbellicavamo dalle risa indicando l'un l'altro i baffi rossi lasciati dal vino subito sopra le nostre labbra e via di corsa a far capriole nell'erba con la testa leggera e le gambe molli.
Da qui nasce la mia passione per il vino. Un percorso di profondità, di bellezza e perfino di storia. Un difficile cammino fatto di pazienza, di dedizione e apprendimento, alla fine sulle labbra rimane l'ombra di un racconto profumato.
Ricordi di serate in allegria, di amici, di risate e di canzoni. Di vendemmie sotto il sole settembrino e di sorrisi complici tra i tralci. Di odori e di bella compagnia, ricordi di un rosso tramonto o di un bianco inverno con le caldarroste e il vin brulé. Del morbido suono di un sughero che viene stappato dalla bottiglia, di una famiglia riunita intorno al grande tavolo delle feste, della sicurezza e della protezione avvertita sulla pelle, delle gioie brindate, dei dolori annegati e della facilità di aprirsi, seduti davanti a un bicchiere. Della semplicità dei gesti, il riscaldarsi dei cuori, la libertà dei pensieri e delle azioni. Il sentimento a volte si annusa, chi ama il vino si inebria, non si perde, lo vive e lo sposa.
Giunta al termine della mia rubrica settimanale, del mio nostalgico vagheggiare, concludo la rievocazione di quel culto mistico della terra, di quel remoto paradiso, che a volte mi appare come un sogno perduto, irripetibile, eppure così piccolo, un piccolo pugno di terra racchiuso in una mano piena di calli. Questa è la mia terra fatta di colori e di sapori, terra funesta e mattacchiona, terra di passioni, di impeti estremi, terra che non si manifesta facilmente se non tardi e solo a chi l'ama profondamente.
Questa la cornice in cui si disegnava la nostra infanzia e io mi sono sentita spesso spettatrice e attenta osservatrice del microcosmo di uomini, animali e oggetti che costituivano il mio mondo fatto, come natura vuole, di allegria e dolore, di lavoro e di festa, di vita e di morte.
Grazie a tutti per l'attenzione.
Urla nel silenzio, il thriller vincente di Angela Marsons
Teresa Wyatt è tanto ricca quanto sola. Ha un segreto, e questo segreto si è insinuato nelle viscere della sua anima minandola, però non si è arresa né ha confessato. Lì, nella sua casa arredata con gusto e stile, attende la fine, la sua fine. Sapeva che sarebbe arrivata, non per questo la teme di meno. Ma non è la sola. Il passato ha fatto marcire il suo cuore e quello di altre quattro persone, tutte unite da una verità che non può essere nominata. Una verità che va chiusa in uno scrigno. Una verità che sa di crudeltà e di egoismo. Una verità che è destinata a venire a galla, a dispetto di tutto quel silenzio imposto alla vita con forza maniacale.
Basterebbe, per spaventarci, il prologo… un prologo che racconta di una sepoltura e di un sacrificio; solo quella scena è capace di turbarci, provocando un’ondata di sdegno e di terrore. Ma, come ogni buon thriller che si rispetti, continua. Sale di intensità, si evolve. Ciò che è accaduto quella notte è ancor più raccapricciante di ciò che avremmo mai immaginato.
Kim, detective arguto e donna brillante, è, senza ombra di dubbio, un personaggio che colpisce. Da subito abbiamo un rispetto reverenziale per quella donna che ha tanti problemi, tanti scheletri nel cassetto. Tanta forza. Tanto coraggio. Tanta voglia di stare fuori dalle righe.
Non rispetta il protocollo, è maleducata e impulsiva, si comporta da maschiaccio e incute paura in chi la incontra.
Attacca prima di essere attaccata, quasi fosse l’unico modo per difendere il suo onore, ma è sensibile e profonda, malgrado non lo dia a vedere.
È capace di sentimenti violenti, di commozione e di compassione.
È stata in un orfanotrofio – un’infanzia, la usa, che sa di sofferenza e sfortuna – ed è proprio per questo che quando nel quadro si inserisce Crestwood, istituto per bambine abbandonate, il suo cuore si rompe in mille pezzi.
Assistiamo, impotenti, a quello che è un abominio.
Chi ha ucciso tre ragazzine innocenti? Perché qualcuno che avrebbe dovuto proteggerle, amarle, rispettarle le ha date in pasto alla terra in un modo così crudo, così vigliacco?
Mentre queste morti si legano ad altre morti, in un lago di sangue che pare non volersi prosciugare mai, in noi nascono i primi dubbi, le prime congetture.
Molte volte la salvezza non è una vera e propria salvezza, e noi, da bravi esseri umani abituati allo schifo del mondo, lo sappiamo; tuttavia ci è impossibile abituarci alla malvagità più cruda, meno compassionevole.
Malgrado tutto, vincendo l’orrore, ci avviamo, passo dopo passo, alla risoluzione della faccenda.
Quando un romanzo di quasi 400 pagine ci ruba il sonno, quando ci porta a leggere senza chiedere il permesso alla nostra stessa testa, quando riesce a rapirci fino alla parola FINE malgrado gli impegni e i casini e gli sbattimenti di testa, be’, vale. Vale sì.
E poi, ad aggiungere interesse, è un thriller, un genere a me caro da sempre – malgrado ultimamente mi stia avvicinando a letture diverse da quelle usuali. Cosa non si farebbe per un buon thriller?
Invasion of the Body Snatchers [1978]: cavolfiori dall'iperspazio
Trama.
Dei cavolfiori dallo spazio profondo sviluppano cloni di umani, allo scopo di rimpiazzare questi ultimi, mentre Donald Sutherland cerca di incastrare un ristorante sostenendo che un cappero trovato in cucina sia in realtà popò di topo.
L'invasione si diffonde molto velocemente.
Leonard Nimoy, a.k.a. Dr Spock , cerca di contenerla organizzando sessioni di terapia di coppia. Jeff Goldblum e sua moglie la combattono con bagni di fango. Mentre Brooke Adams opta per il preoccuparsi moltissimo e muovere le pupille in maniera inquietante.
Riuscirà il nostro manipolo di eroi a sconfiggere gli alieni?
Significato
Le relazioni umane sono diventate così alienate che noi stessi siamo alieni l'uno all'altro. Questo concetto è rappresentato letteralmente: gli alieni sostituiscono gli umani. Questi alieni sono freddi ed indifferenti. Sono l'oggettificazione fantascientifica dei concetti espressi dal Dr Spock ("entriamo ed usciamo dalle relazioni come se non significassero nulla"). All'invasione del distacco alieno è giustapposto e opposto il calore umano della coppia protagonista, formata da Sutherland e Adams, che verso la fine, in particolare, dichiara effusivamente le proprie inclinazioni sentimentali.
Ma la freddezza aliena incombe su di loro
Titolo italiano | Terrore dallo spazio profondo |
Anno | 1978 |
Genere | Fantascienza |
Regista | Philip Kaufman |
Voto in asterischi o stellette | Bellino! |
Che fine ha fatto?

«Gli occhi a volte vedono cose che non ci sono o non riconoscono
quelle che ci stanno proprio di fronte. Sono illusioni dovute alla stanchezza
». Proprio questa frase che aveva sentito dal suo analista, senza
comprenderne realmente il significato, adesso gli girava nella testa.
Giacomo provò a rimanere immobile. Sollevò la schiena e si mise con
le gambe lungo la sponda del letto. Ora che si era seduto, la stoffa del
pigiama si era gonfiata sul davanti e dalla patta semiaperta gli pareva
di intravedere finalmente qualcosa.
Giacomo volle verificare subito: aprì la mano e provò immediatamente
a premere su quel gonfiore, ma di rimando ci fu solo una sensazione
d’inutile e vuota pressione. Ci provò ancora due volte. La
prima, senza guardare, strofinando la mano sulla stoffa del pigiama e,
poi, scostandosi di dosso il pantalone per tastarsi direttamente in
mezzo alle cosce. La seconda con gli occhi aperti, seduto sul letto e
rivolto allo specchio. Ma nulla: non c’era più! Era scomparso e lui
adesso era certo che non stesse affatto sognando. Perciò, l’unica cosa
da fare era quella di correre al più presto in ospedale, lì qualcuno
sarebbe riuscito ad aiutarlo. No, quella non era una buona idea. Cosa
avrebbero potuto dirgli in ospedale? E poi, come glielo avrebbe spiegato
agli infermieri? Magari in ospedale avrebbe avuto di fronte una
donna a cui dover riferire il suo problema, e come gliel’avrebbe
detto? Sicuramente, chiunque avesse avuto di fronte, uomo o donna,
non avrebbe capito… l’avrebbe preso certamente per un folle. Eh sì
– continuava Giacomo nel suo ragionamento angosciato – c’era il
rischio che i dottori, temendo d’avere di fronte uno squilibrato, potessero
addirittura rifiutarsi di prenderlo in esame. O no… forse valeva
la pena di tentare. Sì, era meglio andare subito al Pronto Soccorso,
senza perdere altro tempo prezioso. Doveva vestirsi. Doveva vestirsi
in fretta, prendere l’auto, fare benzina e correre cercando d’evitare di
farsi vedere in quello stato di angoscia. Doveva schivare il portiere, i
condomini del palazzo, chiunque al di fuori dei medici, perché lui,
Giacomo Salemi, aveva adesso, certamente, impressa sul viso un’espressione
troppo sconvolta per essere decifrata da persone che non
potevano prestargli aiuto. Occorreva, invece, un medico. Un medico
prima di tutto.
Giacomo prese dunque a vestirsi rapidamente, afferrò i pantaloni
e la camicia, che aveva indossato il giorno prima, dalla sedia in camera
da letto. Infilò i mocassini sbattendo più volte i talloni sulla
moquette per far risalire i colletti e si diresse in gran fretta all’ingresso.
Lì rimase un attimo immobile, guardò dallo spioncino, girò la
chiave nella serratura cercando di non far rumore e aprì, infine, la
porta di casa. Rimase di nuovo immobile sul pianerottolo per qualche
secondo, stringendo il mazzo di chiavi nella mano, e solo quando fu
certo che le scale fossero sgombre, iniziò a scenderle rapidamente.
Superò l’atrio del palazzo al pianterreno, svoltò a destra verso la porta
del garage e in meno d’un minuto era già seduto in auto, pronto a
uscire in strada in tutta fretta.
«Trenta euro, Mario, per favore» disse Giacomo a bordo dell’automobile
arrivando dal benzinaio.
«Certo dottor Salemi. Che le è successo, dormito male?» lo interrogò
con un sorriso l’uomo. Giacomo non rispose, guardò i numeri
sul distributore sovrapporsi veloci e pensò di essere stato uno stupido:
se voleva allontanarsi con discrezione e senza esser visto in quello
stato d’agitazione, avrebbe dovuto evitare di fare rifornimento proprio
sotto casa.
«Arrivederci» lo salutò l’uomo prendendo i soldi che Giacomo gli
stava porgendo. «Arrivederci, Mario» rispose Giacomo. Ingranò la
marcia e raggiunse l’incrocio.
Lì, al semaforo, in attesa del verde, Giacomo guardò nello specchietto
retrovisore e vide una donna al volante intenta a ripassarsi il
rossetto con movimenti circolari dell’indice. Quando lei smise di
compiere quell’operazione e parve guardarlo direttamente negli
occhi, Giacomo distolse immediatamente lo sguardo e tornò a controllare
il semaforo. Davanti a sé vide il gran cartellone pubblicitario
con l’immagine in bianco e nero di un giovane uomo, più o meno
della sua età, trascinato per la cravatta da una donna di cui si vedeva
solo il braccio che manteneva la presa. Sopra la foto campeggiava la
scritta: «Se oggi hai perso la rotta, non lasciarti prendere per la
gola!». Giacomo pensò che sarebbe stato meglio non farsi prendere
dal panico e, forse, conveniva calmarsi e rivolgersi a chi lo conoscesse
davvero bene. Sì, forse era meglio desistere dal proposito di andare
in ospedale, ci voleva piuttosto qualcuno di fiducia a cui poter parlare
con franchezza. Giacomo pensò dapprima al medico di famiglia.
Il dottor Spadacenta, lo conosceva bene, lo aveva curato sin dall’infanzia,
ma forse per una cosa simile era meglio non coinvolgere
immediatamente qualcuno vicino alla sua famiglia. Forse, la cosa
migliore da fare in una condizione come la sua sarebbe stata quella di
rivolgersi al suo analista. Certamente lui, il dottor Di Vittorio, avrebbe
saputo indicargli un modo razionale per affrontare quel problema.
O, forse, poteva chiamare proprio suo padre… No, non era una buona
idea, certamente anche lui gli avrebbe detto di andare in ospedale.
Che fare dunque? Giacomo non sapeva più a cosa appigliarsi, sentiva
improvvisamente la propria testa scoppiargli come per effetto di
un’enorme bolla d’acqua che gli stava diluendo ogni pensiero,
lasciandolo privo d’ogni determinazione logica. Gli occorreva un po’
di calma. Doveva recuperare la concentrazione. Doveva prima di tutto
capire esattamente cosa fosse accaduto. Dopo avrebbe preso una
decisione. Non doveva farsi sopraffare dallo spavento e dalla fretta di
eliminare il disagio. Era necessario avere calma. Come gli aveva insegnato
il suo analista, «non esiste una soluzione giusta, un percorso
obbligato da fare, ognuno ha la possibilità di individuare quella che è
la rotta a lui più congeniale alla soluzione dei problemi». E per fare
ciò le due condizioni essenziali sono la calma e l’assenza della paura,
perché «l’assenza di calma e la paura non hanno rispetto del tempo
che ogni opportuna soluzione richiede».
Sì. Ora aveva capito: la cosa da fare era proprio recuperare la tranquillità,
magari attraverso un po’ d’isolamento, una mezza giornata in
cui doveva provare a restare «da solo in contatto con il proprio problema
», così da poter trovare da solo la strada migliore… Ecco, sì, gli
occorreva un luogo tranquillo! Doveva allontanarsi dalla città, anche
solo per poche ore, per riflettere con meno paura. La soluzione?
Adesso ce l’aveva. Avrebbe imboccato il raccordo, da lì l’autostrada
per Firenze e in meno di un’ora sarebbe arrivato a Narni: il casale di
famiglia era il posto migliore per prendere la decisione. Lì, in solitudine,
lui avrebbe valutato cosa fare e una volta individuato il modo
più adatto di risolvere il problema, avrebbe fatto ritorno in città e
affrontato razionalmente la situazione.
Forse proprio quale conseguenza di quella rinnovata determinazione,
Giacomo sentì pian piano d’esser in grado di formulare nuovamente
pensieri logici. Accese lo stereo, accostò a destra, attese che
il semaforo di inversione di direzione fosse verde e iniziò a ripercorrere
la strada nel senso opposto. Salì sul cavalcavia della tangenziale
e si diresse verso il raccordo.
Una volta sull’autostrada, Giacomo poté fare un primo tratto di
strada abbastanza velocemente. Tutto il traffico era diretto nel senso
opposto, verso la città. In direzione nord, invece, le auto sembravano
viaggiare spedite e le corsie erano quasi deserte. Fu così fino a
Magliano Sabino, poi l’asfalto iniziò a riempirsi d’autocarri e di altre
autovetture. Giacomo decelerò, cercando di rimanere sempre sulla
corsia di sorpasso. Guardò l’orologio e calcolò che in quaranta
minuti al massimo sarebbe arrivato alla meta. Inspirò profondamente
e, ricacciando sonoramente l’aria dalla bocca, guardò il cielo sfilargli
davanti.
Preannunciate appena dalla luce improvvisa di un lampo e da un
tuono, pesanti gocce di pioggia cominciarono a cadere violente sul
vetro dell’auto, quasi fossero state scagliate proprio contro Giacomo,
a volerlo colpire in faccia. Grandi, tonde, gonfie, le gocce una volta
arrivate sul cristallo vi rimanevano attaccate senza sparire. Giacomo
guardò le prime atterrare grosse e restare immobili per qualche secondo
sul parabrezza, per espandersi frementi in tutte le direzioni. Toccò
la leva del tergicristallo per far partire le spazzole poi, con la visuale
nuovamente sgombra, schiacciò un po’ l’acceleratore per superare
una lunga fila di camion, fino a quando non si trovò proprio davanti
un’auto blu che solo qualche minuto prima gli aveva insistentemente
chiesto strada. Adesso, però, era Giacomo che gli si era fatto dietro
ma l’autista non pareva avere alcuna volontà di restituirgli la cortesia
spostandosi a destra. Innervosito per quell’ostinazione, Giacomo
decise di tentare il sorpasso da destra ma pure quella manovra si
rivelò inutile: l’altra vettura si spostò solo di poco, continuando a
viaggiare a cavallo delle due corsie. Giacomo premette allora il clacson,
diede un nuovo affondo e gli si fece ancora più sotto mantenendosi
a pochissima distanza dall’altra vettura. Per evitare d’essere tamponata,
l’auto si spostò alla fine sulla corsia di destra e Giacomo
cominciò il sorpasso.
Una volta superata l’auto blu, Giacomo lanciò lo sguardo nello
specchietto retrovisore per guardare l’altro guidatore. Vide allora la
testa dell’uomo oscillare in avanti, indietro e ancora in avanti, come
se stesse ridendo. Sì, era proprio così, stava proprio ridendo quel
figlio di puttana. Giacomo staccò il piede dall’acceleratore, si rimise
sulla corsia di destra e lasciò che l’altro gli si affiancasse nuovamente.
Ora le due auto avanzavano parallele come trainate da un
unico vettore. Quando fu certo di essere davvero in linea con l’altra
auto, Giacomo volse la testa verso sinistra così da fissare direttamente
in faccia quel tipo. Non lo comprese immediatamente, forse
per via degli occhiali da sole che l’uomo aveva sul naso, ma dopo
una prima incertezza, Giacomo riconobbe quel profilo e soprattutto
quel neo, proprio al centro della guancia destra. Scorse il sorriso
largo, appena schiumato agli angoli, gli occhiali spessi e soprattutto
l’anello al mignolo con lo stemma di famiglia… Non poteva trattarsi
che di lui…
Giacomo non ebbe neanche il tempo di domandarsi perché proprio
il dottor Di Vittorio, perché proprio il suo analista, si trovasse lì, alla
guida di un macchinone, spinto in un’assurda gara di velocità con lui.
Giacomo sentì la voce del suo medico parlargli attraverso lo stereo
dell’auto, coprendo la musica.
«Giacomo, mi sente? Giacomo, sono il dottor Di Vittorio, mi
ascolta?»
«Ma dov’è?» chiese Giacomo incredulo.
«Sono qui nell’auto accanto. Non mi ha visto?»
«Certo che l’ho vista. Ma come fa a parlarmi? Che ci fa qui?»
domandò Giacomo guardando ancora in direzione dell’auto.
«La smetta di farmi domande, Giacomo, e mi stia a sentire! Credo
che lei abbia perso qualcosa, o mi sbaglio?» lo interrogò il dottore.
«E lei come fa a saperlo, dottore?» rispose Giacomo.
«Ancora domande. La pianti, Giacomo, con le domande e mi
ascolti bene: io sono qui per aiutarla, anche se il tempo a sua disposizione
è quasi scaduto perché alle tredici ho un altro appuntamento
e devo rientrare allo studio. Però Giacomo, io sono qui per dirle che
sua madre ha quello che lei sta cercando.»
«Che cosa? Che cosa?» urlò Giacomo.
«È stato lei, Giacomo, a darglielo» rispose il dottore e continuò
«Sì, Giacomo! Gliel’ha dato lei ieri, prima di andare a cena con gli
amici. Non ricorda?».
«Ma dottore, che sta dicendo? Non la capisco. E che ne sa lei che
mi manca qualcosa?» ripeté Giacomo.
«Giacomo, ancora un’altra domanda ed io la lascio in balia dei
suoi dilemmi!» sentenziò serio il dottore.
«Ma come fa a saperlo dottore?» provò ancora Giacomo «Dottore,
io a mia madre non ho dato un bel nulla. Sì, è vero, ieri… ieri io sono
passato da lei nel pomeriggio, ma abbiamo preso un tè e io non le ho
dato nulla… almeno, non quello che pensa lei. Mi sente?… Dottor Di
Vittorio mi ha sentito?» urlò Giacomo.
«Certo la sento. Ma le ripeto Giacomo, sua madre ha quello che lei
adesso sta cercando. Se le interessa davvero, torni da sua madre e
vedrà che non mi sbaglio!» confermò il dottore. Poi dopo una breve
pausa: «Adesso la saluto Giacomo, devo rientrare a Roma. Ne riparleremo nel nostro incontro settimanale. Ci vediamo mercoledì alle
diciotto in punto… Arrivederci, Giacomo, e vada piano: non metta a
repentaglio la sua vita!» concluse il medico.
Giacomo ebbe appena il tempo di pronunciare un remissivo «Va
bene dottore». Vide poi l’auto dell’analista schizzare via davanti a sé.
Provò ad accelerare di nuovo, ma la sua auto adesso non era più capace
di riavvicinarsi all’altra vettura che si stava allontanando veloce.
Giacomo tentò di parlare ancora con il dottore, provando a rievocare
la voce toccando tutti i tasti del suo stereo, ma non riuscì a sentire
altro se non le note del CD che aveva messo prima.
Decise allora di rallentare, accostò nella corsia d’emergenza, mise
le quattro frecce e prese il cellulare che aveva sul sedile accanto. Tre
squilli e poi l’inizio del messaggio: «Questa è la segreteria telefonica
di casa Salemi, non siamo in casa…» chiuse. Sua madre era uscita,
forse per andare dal dietologo, come gli aveva detto il giorno prima.
Che fare allora? Giacomo doveva parlare con lei, posò il cellulare
rimise le mani al volante pronto ad andare da lei.
«Buongiorno dottor Salemi» lo accolse sorridendo il portiere…
«Ero salito per portare la posta a sua madre, credo però che sia
uscita. Non mi ha risposto nessuno. Lei ha le chiavi vero?» continuò
l’uomo.
«Sì, sì, certo Antonio. Devo solo prendere una cosa che ho dimenticato
ieri» rispose Giacomo quasi giustificandosi mentre richiudeva
le porte dell’ascensore.
«Arrivederci» lo salutò il portiere.
«Arrivederci» rispose frettolosamente Giacomo premendo il pulsante
del quinto piano.
Una volta in casa, benché avesse trovato la porta chiusa a doppia
mandata, Giacomo non rinunciò a chiamare la madre ad alta voce.
Attraversò il corridoio sporgendosi prima in cucina, poi in camera da
letto, ispezionò rapidamente lo studio e poi entrò nel salone.
«Mamma… mamma, ci sei?» provò a chiamarla aggirandosi tra i
divani e la biblioteca, dirigendosi verso il terrazzo, ma non udì alcuna risposta. Si voltò dal lato della stanza dove il pomeriggio del giorno
precedente avevano preso il tè. Il carrello era stato rimesso al suo
posto dietro le poltrone e tutto sembrava come al solito in ordine, le
poltrone dove s’erano seduti erano state riaccostate alla parete, anche
se i cuscini non erano stati ancora battuti e rigonfiati come faceva la
madre. Le sagome di Giacomo e di sua madre erano ancora impresse
sul velluto verde, come se i loro corpi se ne fossero appena allontanati.
Giacomo ripercorse con la mente quanto accaduto, ma l’unico
evento notabile di quel pomeriggio in cui era passato per il solito
saluto era stato il fatto che lui avesse rovesciato il tè sul tappeto. Ma
a parte tale episodio, tutto gli pareva essere accaduto secondo il
copione consueto. Eppure l’analista era stato chiaro: «Sua madre ha
ciò che lei sta cercando. È stato lei a darglielo, ieri!» gli aveva detto.
Giacomo tornò in corridoio lanciando sguardi veloci nelle varie
stanze, verso il bagno e, infine, al ripostiglio. Pronto ad andare via,
riattraversò l’ingresso: fu allora che la sua mente gli restituì l’immagine
di qualcosa di singolare che aveva appena visto. Si voltò indietro,
entrò nel bagno, avanzò in direzione della finestra, guardò prima fuori
gli alberi nel parco, poi verso l’uscita. Ma ora che si trovava di fianco
al lavandino, fu attratto dai riflessi del sole che, dalla superficie
dell’acqua immobile nella vasca, si proiettavano sulle piastrelle e
rimbalzavano dalla ceramica azzurra allo specchio sul lavandino. Lì,
al centro di quella vasca, immobile e galleggiante, eppure come ancora
dotato di una vita, Giacomo poté finalmente vedere ciò che stava
cercando. S’avvicinò al bordo con l’impulso d’afferrarlo subito.
Provò ad allungare la mano, ma una sensazione di immediata repulsione
lo bloccò. Trattenne allora il respiro, s’inginocchiò sul pavimento
e immerse la mano nell’acqua. Proprio per effetto dello spostamento
d’acqua, il suo membro, fino a quel momento immobile con
il prepuzio rivolto all’insù, si immerse appena nell’acqua per riemergere
ondeggiante verso il bordo opposto della vasca. Giacomo tirò
fuori la mano dall’acqua, se la passò in fretta sulla coscia, quindi la
riavvicinò nuovamente con l’indice teso.
Il primo contatto non gli produsse nessuna sensazione tattile, nulla
di decifrabile. Giacomo si fece coraggio, immerse di nuovo la mano
nell’acqua, ruotò con lentezza il palmo sotto, proprio in corrispondenza
dell’organo e, quasi stesse manovrando un retino, sollevò il suo
membro fuori dell’acqua. Rimase così qualche momento con la mano
semiaperta e il braccio poggiato sul bordo della vasca, poi s’alzò,
muovendosi con attenzione afferrò con l’altra mano l’asciugamano,
lo stese sulla tavoletta del water e vi adagiò delicatamente il proprio
pene. Prese il cellulare e con le dita ancora umide iniziò a comporre
il numero dello studio del dottor Di Vittorio.
«Buongiorno, studio del dottor…» gli rispose una voce di donna.
«Buongiorno signorina, sono Giacomo Salemi… avrei bisogno di
parlare urgentemente col dottore» disse con ansia.
«Mi spiace dottor Salemi, ma il dottor Di Vittorio è arrivato da
poco e ha iniziato subito la seduta, in questo momento è già impegnato
con un paziente» spiegò cortesemente la donna.
«La faccio richiamare, dottor Salemi, non appena il dottore termina,
va bene? Oppure, può provare a richiamare lei dopo le diciannove:
a quell’ora il dottor Di Vittorio dovrebbe aver finito» spiegò la
segretaria.
«La prego signorina, so che il dottore è molto impegnato, ma io ho
bisogno… ho bisogno…» s’interruppe deglutendo e poi riprese «ho
bisogno di parlargli subito. Non posso aspettare. È veramente molto
importante; non mi permetterei di disturbare, ma le ripeto è vitale che
io gli parli subito. Subito!» concluse Giacomo.
«Attenda, provo a vedere se mi risponde…» disse la donna.
Giacomo aspettò qualche secondo, poi finalmente sentì il dottore
chiedergli con voce chiara: «Ha visto, Giacomo, che avevo ragione?
Lo ha trovato da sua madre, non è vero? Ne ero certo!».
«Sì, dottore… ma lei…» provò Giacomo, ma fu immediatamente
interrotto dal medico.
«Allora tutto risolto, Giacomo. Bene, sono contento. Lo conservi
bene, per adesso, poi mercoledì prossimo, quando ci incontriamo,
vedremo come affrontare il problema. Per adesso provi a distrarsi e
mi raccomodo, Giacomo, non drammatizzi, faccia piuttosto gli esercizi
come le ho insegnato, adesso sa come si fanno, no? È un esperto
oramai! Vedrà che tutto si risolverà!» disse con tono fiducioso
l’analista.
«Ma dottore?…» cercò d’insistere Giacomo e poi supplichevolmente
«Io, io… come faccio? Devo sposarmi tra pochi giorni».
Ma il dottore l’interruppe immediatamente: «Lo so, lo so, Giacomo,
ma prima di mercoledì per me è impossibile incontrarla, sono pieno di
appuntamenti, poi da domani fino a martedì sarò fuori. Non si preoccupi,
Giacomo, mercoledì mettiamo tutto a posto: si tratta di pazientare
un pochino. La saluto, a presto, Giacomo» concluse il medico.
«Dottore… dottore» provò ancora a trattenerlo, ma la conversazione
era già terminata. Giacomo guardò ancora interdetto lo schermo
del cellulare, poi selezionò il numero di Alessandra.
«Buongiorno, mi passa il 379, la dottoressa Rinaldi, per piacere?»
disse tutto d’un fiato al centralinista.
«Attenda, prego» rispose la voce all’altro capo del telefono.
«Pronto?» chiese Alessandra.
«Pronto Ale, sono Giacomo» disse lui.
«Ciao Giacomo, ma che è successo? Ero in riunione» domandò la
ragazza.
«Ale, devo parlarti subito, puoi raggiungermi a casa di mamma?»
«Certo, certo. Ma cosa è successo?» chiese lei preoccupata.
«Non posso dirtelo al telefono, e non c’è bisogno che anche tu ti
agiti. Però sbrigati, vieni qua a casa di mia madre, ti devo dire una
cosa molto importante» replicò Giacomo.
«Giacomo, ma stai bene? È successo qualcosa a tua madre?» disse
Alessandra in cerca di rassicurazione.
«No, mamma sta bene. Adesso lei non c’è. È dal dietologo,
credo…» spiegò Giacomo.
«E tu che ci fai lì?» lo interruppe Alessandra.
«Te lo dico appena vieni. Ti aspetto qui, vieni subito?» chiese lui.
«Va bene, va bene, ma io posso essere da te non prima di una mezzora
amore. Aspettami, arrivo. Tu stai calmo, aspettami. Arrivo» lo
rassicurò Alessandra prima di riagganciare.
Giacomo spense il cellulare, scrutò per alcuni secondi la sua
immagine immobile nello specchio, si avvicinò alla tazza e lo vide lì,
adagiato sull’asciugamano. Lo osservò nuovamente qualche istante,
infine, lo prese di nuovo in mano, sollevò il coperchio della tazza e lo
fece rotolare dentro. L’acqua del fondo emise soltanto un rumore
sordo. Schiacciò lo scarico e rimase lì ad attendere che lo scroscio
dell’acqua terminasse.
Un paio di gocce gli erano rimbalzate sui mocassini. Giacomo
strappò un pezzo di carta, s’asciugò con un movimento lento le scarpe,
si voltò, ritornò in salone e si sedette sulla poltrona.
Rimase fermo, sprofondato sul cuscino con pochi e stanchi pensieri,
gli occhi assenti, rivolti alla parete sul fondo. Quando il suono
ripetuto del citofono lo svegliò dal torpore, s’alzò stordito per dirigersi
all’ingresso.
«Pronto?» disse portandosi la cornetta all’orecchio.
«Sono io, amore» annunciò Alessandra.
Schiacciò il pulsante della porta aprì la porta e si diresse come per
tornare in salone ma, come sorpreso dallo stimolo di fare la pipì,
entrò il bagno. Fu in quel momento, appena il tempo di tirare giù la
cerniera e scostare l’elastico delle mutande che Giacomo se lo ritrovò
tra le mani.
Lo guardò appena qualche istante. Provò a girarlo quasi per vedere
che fosse tornato realmente a posto e s’ispezionò sotto i testicoli.
Il rumore dei passi affrettati di Alessandra che lo stava chiamando
dall’ingresso, lo costrinsero ad abbandonare quelle operazioni, risollevò
le mutande mentre lei stava ancora chiedendo: «Amore, amore…
Giacomo dove sei?».
«Che è successo, Giacomo, dimmi?» domandò la ragazza raggiungendolo
sulla soglia del bagno.
«Nulla amore!» rispose impacciato lui.
«Come nulla? Mi hai detto che mi volevi parlare, amore… Mi
sono scapicollata per arrivare qua e mi dici che non è successo nulla!»
protestò Alessandra.
«Amore non ti arrabbiare… Oggi non sono andato in ufficio, perché
volevo pensare a noi e… ho capito che ti amo tanto e volevo dirtelo!
» le sospirò Giacomo. Lei gli si avvicinò. «Ma dici sul serio,
amore?» gli chiese ancora. «Certo tesoro mio!» annuì Giacomo, le si
avvicinò di più, l’abbracciò e iniziò a baciarla appassionatamente.