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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Shelley a Livorno

10 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #luoghi da conoscere, #poesia

Shelley a Livorno

Il poeta inglese Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822), complice l’eredità del nonno e per ovviare alla salute malferma dovuta alla tisi che lo minava, scelse di trascorrere molta parte della sua vita in Italia, luoghi di elezione furono Napoli, Pisa (dove lo raggiunse Byron) e Livorno.

A Livorno soggiornò tre volte, nel 1918, nel 19 e nel 22, anno della sua tragica morte in mare.

Fu ospite di amici inglesi ma alloggiò anche a villa Valsovano, dove compose la tragedia The Cenci, pubblicata nel 1819 - cui attinse anche il Guerrazzi – e le famose odi To a Skylark e To Freedom.

Da giugno a settembre del 1819 Shelley e Mary Wollstonecraft si stabilirono a villa Valsovano. Mary era molto abbattuta, avendo visto morire due dei suoi tre figli in un anno. Solo nel maggio precedente erano venuti a Livorno con tutti e tre i bambini e due domestiche ma ora la casa era molto più triste. Shelley cercò rifugio nel lavoro e quell’estate, sul tetto della villa, compose The Cenci, tragedia dal gusto gotico, basata sulla storia di una famiglia realmente vissuta nel cinquecento. Ne furono stampate nella nostra labronica 250 copie, poi spedite a Londra.

L’estate dopo erano nuovamente a Livorno e Shelley compose la famosa ode All’ allodola, della quale riportiamo alcuni versi centrali particolarmente belli e già, in pieno romanticismo prima maniera, precursori di quello che sarà il nostro decadente Gelsomino Notturno e di alcune liriche wildiane cariche di sensualità estetizzante.

“Like a rose embowered

In its own green leaves,

By warm winds deflowered,

Till the scent it gives

Makes faint with too much sweet these heavy-wingéd thieves:

Sound of vernal showers

On the twinkling grass,

Rain-awakened flowers -

All that ever was

Joyous and clear and fresh - thy music doth surpass.”

Villa Valsovano si trova in via Venuti 23 e una lapide del 1962 ricorda il soggiorno di Shelley:

In questa casa già villa Valsovano dimorò da metà giugno a fine settembre 1819 nel suo più lungo dei soggiorni livornesi Percy Bysshe Shelley tornato a ritemprare le forze e lo spirito nella pace della nostra amena campagna a lui ispiratrice di stupendi carmi. Scrisse allora tra l’altro la tragedia “I Cenci”e nell’estate seguente alloggiando poco lungi la poetica epistola a Mary Gisborne e la celebre ode “a un’allodola.”

Fu nel golfo di La Spezia, davanti a Lerici, che, tornando in barca proprio da una gita a Livorno, l’8 luglio 1822, Shelley naufragò in una tempesta. Il suo cadavere fu ritrovato dieci giorni dopo su una spiaggia nei pressi di Viareggio.

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Gli stabilimenti cinematografici Pisorno

9 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #luoghi da conoscere, #cinema

La fascia costiera fra Pisa e Livorno era già stata scoperta da Hollywood negli anni venti, tanto che nel venticinque furono girate al Molo Novo alcune scene di un Ben Hur muto.

Nel 1933 l’ente Autonomo Tirrenia costruisce, su progetto di Antonio Valente, gli stabilimenti Tirrenia Film. L’anno dopo Giovacchino Forzano rileva la struttura, che sorge in una palude di rettili e zanzare, dove c’è solo un fortino della Guardia di Finanza, detto Mezzaspiaggia. Risistematala con 500 mila lire, frutto della compartecipazione alle spese della famiglia Agnelli e di Persichetti, poi fondatore di una casa di doppiaggio, la trasforma negli Stabilimenti Pisorno, cosiddetti perché equidistanti fra Pisa e Livorno.

Forzano è autore di teatro, librettista del Gianni Schicchi, regista teatrale e cinematografico e mette in scena molte delle proprie opere, ma è soprattutto amico e collaboratore di Mussolini, che già ha voluto fortemente Tirrenia come perla di architettura fascista e di delizie balneari. Gli stabilimenti devono servire anche a produrre propaganda e attirare consenso. Non a caso uno dei primi film girati è, significativamente, Camicia nera.

Il mare, la lunga spiaggia di sabbia fine, i fiumiciattoli, le pinete e le colline, rendono appetibile la zona per gli americani come location ideale di molti film, e gli stabilimenti occupano 500.000 mq.

Nel periodo del suo splendore, la Pisorno diventa la prima capitale del cinema, prima ancora di Cinecittà, vi recitano attori del calibro di Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Amedeo Nazzari, Domenico Modugno, Vittorio Gassman, Klaus Kinski, Philippe Noiret, la famiglia de Filippo al completo, Fosco Giachetti, Massimo Girotti, Totò, Gino Cervi e, naturalmente, la locale Doris Duranti, diretti da registi di chiara fama come de Sica, Blasetti, Ferreri. Anche Tirrenia risplende di luce riflessa, grazie alle dive e ai divi che prendono il sole in costume sul litorale.

Muovono i primi passi negli studios di Tirrenia i fratelli Taviani e Monicelli. Sciuscià (del 46) per la regia di de Sica, è interpretato da molti attori non protagonisti presi nelle strade labroniche. Si forma proprio qui una scuola di tecnici, fonici, truccatori, poi assorbiti da Cinecittà.

Durante la seconda guerra mondiale, gli studios sono requisiti dagli americani, che li trasformano in magazzini, fino al 48. Nel 61 vengono comprati da Carlo Ponti ma i costi sono alti e l’impresa si conclude già nel 69; Ponti abbandona, la Rai rifiuta l’acquisto, gli studios chiudono i battenti e muoiono lentamente.

The coastal area between Pisa and Livorno had already been discovered by Hollywood in the 1920s, so much so that in the 20th some scenes of Ben Hur were shot at Molo Novo.

In 1933 the Autonomous institution Tirrenia built the Tirrenia Film factories based on Antonio Valente's design. The following year Giovacchino Forzano takes over the structure, which stands in a reptile and mosquito swamp, where there is only a fort of the Guardia di Finanza called Mezzaspiaggia. He rearranged it with 500 thousand lire, the result of the sharing of the Agnelli family and Persichetti, later founder of a dubbing house, transformed it into the Pisorno factories, so-called because they are equidistant between Pisa and Livorno.

Forzano is an author of theater, librettist of Gianni Schicchi, theatrical and cinematographic director and he stages many of his own works but he is above all a friend and collaborator of Mussolini, who already strongly wanted Tirrenia as a pearl of fascist architecture and seaside delights. The factories must also serve to produce propaganda and attract consensus.

It is no coincidence that one of the first films shot was, significantly, "Black shirt".

The sea, the long beach of fine sand, the rivers, the pine forests and the hills make the area attractive to Americans as the ideal location for many films, and the factories occupy 500,000 square meters. In its period of splendor, Pisorno becomes the first capital of cinema, even before Cinecittà, actors of the caliber of Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Amedeo Nazzari, Domenico Modugno, Vittorio Gassman recite it. Klaus Kinski, Philippe Noiret, the complete de Filippo family, Fosco Giachetti, Massimo Girotti, Totò, Gino Cervi and, of course, Doris Duranti, directed by renowned directors such as de Sica, Blasetti, Ferreri. Tirrenia also shines with reflected light, thanks to the stars who sunbathe in swimsuit the coast.

The Taviani and Monicelli brothers take their first steps in the Tirrenia studios. Sciuscià (from 46) directed by de Sica, is played by many non-leading actors taken on the Labronic streets. A school of technicians, sound engineers, make-up artists was formed here, then absorbed by Cinecittà.

During the Second World War, the studios were requisitioned by the Americans who turned them into warehouses, up to 48. In 61 they were bought by Carlo Ponti but the costs were high and the venture was already concluded in 69; Ponti leaves, Rai refuses the purchase, the studios close their doors and die slowly.

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Il ponce al rumme

8 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #personaggi da conoscere, #ricette

Il ponce al rumme

Gastone Biondi. Storia e segreti del ponce al rumme

Ermanno Volterrani

Debatte editore, 2012

Lo scrittore Ermanno Volterrani - noto in ambiente livornese soprattutto per la sua rivalutazione del vernacolo in raccolte di poesie come La mia amica triglia, ma autore anche di testi in italiano, fra cui spicca il commosso racconto delle vicende vissute dal padre durante la guerra in Albania - presenta la biografia romanzata di Gastone Biondi.

Hanno collaborato alla stesura del testo la figlia di Gastone, Caterina, e Otello Chelli, figura di spicco della cultura e tradizione livornese, che ha scritto la prefazione del libro.

Gastone Biondi era il proprietario della famosa fabbrica di liquori Vittori che produceva, e ancora produce – anche se adesso è stata rilevata dall’Arkaffè – il rum fantasia, lo speciale ingrediente per la preparazione del ponce al rum, anzi, al “rumme”, non confondiamo per carità!

Le origini della bevanda sono incerte, la leggenda vuole che nel seicento alcune balle di caffè, provenienti da una nave saracena deviata dai cavalieri di Santo Stefano, si confondessero con barili di rum. La mistura, invece di rovinare entrambi gli elementi, li esaltò. In realtà pare che l’ammiraglio Edward Vernon, della marina inglese, per evitare l’ubriachezza dei suoi uomini, ordinasse loro di annacquare il rum ed essi, per obbedire, lo bevessero col tè, creando la base per il grog. I livornesi sostituirono il tè col più reperibile ed economico caffè, mantenendo la tradizione “della vela”, la fettina di limone a cavallo del bicchiere, spesso utilizzata per igienizzarne il bordo ma poi, ahimè, lasciata cadere nella mistura, con l’idea che “quel che non ammazza ingrassa.”

Il ponce bollente va bevuto nel gottino, il bicchiere di vetro, tenendolo fra due dita per il fondo spesso, altrimenti ci si ustiona. Insomma, come ci spiega Ermanno, va preso per i fondelli.

Il nome deriva dall’inglese punch che, a sua volta, risale all’hindi pancha, cioè cinque, come cinque sono gli ingredienti della bevanda.

Il ponce, inglese come il rum e arabo come il caffè, era la bevanda prediletta prima della guerra, metafora stessa della livornesità, incrocio d’identità in questa città meticcia, fusione d’ingredienti apparentemente inconciliabili fra loro. Non c’era giorno che i livornesi non bevessero almeno una volta il ponce che è sempre stato parte della loro tradizione.

Nelle cronache del settecento e dell’ottocento (ci spiega Otello Chelli) c’era una vera e propria corsa a creare il ponce migliore e i produttori vi mettevano dentro di tutto, dal caramello ai grani di pepe. I bar erano luoghi di aggregazione per il popolo, dove si discuteva e si familiarizzava ed anche salotti intellettuali. Vi passavano il tempo Francesco Domenico Guerrazzi e Angelica Palli, Fattori, Natali, Modigliani, soprattutto nel celeberrimo caffè Bardi.

Il ponce è citato nell’Artusi come degno accompagnamento del cacciucco, si dice che abbia fatto venire i lucciconi addirittura al rude Buffalo Bill, e il Carducci così ne scrive:

"Di nero ponce bevemmo e con saper profondo, non lasciammo giammai tazza o bicchiero senza vedere il fondo."

Livorno era la città dei cento teatri, ma anche dei cento e ventitrè bar, sono stati i labronici a costruire le prime macchine per il caffè, che, a quei tempi, erano torri di rame lucente. “Nella sola Venezia”, ci dice Otello, “ai miei tempi si trovavano diciassette fiaschetterie e la bevanda d’elezione, dopo il vino Sammontana, era, ovviamente, il ponce, capace di stimolare quello spirito livornese, quel motto salace, quella battuta fulminea che oggi si sta perdendo e stemperando.”

In piazza Vittorio Emanuele c’era un bar, detto “Il Diacciaio” perché si trovava di fronte a un albergo freddissimo, che vendeva il ponce peciato, cioè annerito da un pizzico di pece. In piazza Cavallotti nessuno rinunciava alla mattutina “persiana” – acqua fredda, menta e anice - per smaltire le sbornie della sera precedente, poi, già alle dieci, per accompagnare un pezzo di schiacciata col prosciutto o la mortadella, niente di meglio che il primo ponce, per passare subito a quello digestivo del dopopranzo e agli immancabili ponci notturni .

Negli anni cinquanta, però, il ponce era decaduto ed è stato proprio Gastone Biondi a riportarlo ai fasti di un tempo.

È con la voce rotta dall’emozione che la figlia Caterina racconta come il libro sia nato per caso. Dieci anni dopo la morte del padre, ha riaperto due scatole, trovandovi dentro un mondo di ricordi che l’hanno riportata a quando, bambina, giocava nella fabbrica del babbo, assorbendo odori, assimilando voci, giocando con le vecchie fatture insieme alle amichette, finché quel gioco si è trasformato in passione e mestiere anche per lei che ha lavorato per tanto tempo gomito a gomito col padre.

Gastone Biondi è rimasto orfano a nove anni, ha studiato e lavorato fino a iscriversi all’università e trovare posto in banca. Ma l’incontro con la moglie, i cui parenti possedevano la fabbrica dei liquori, è stato fatale, perché fu amore in entrambi i casi, fino a fargli lasciare l’appetibile lavoro di bancario per occuparsi a tempo pieno della fabbrica, nata nel 1929 e che lui ha rilevato negli anni cinquanta, trasformandola in ditta Vittori di Biondi.

A Livorno, in quegli tempi, la concorrenza era tanta, c’erano venti distillerie e cominciavano a imporsi i liquori di marca, ma Gastone ha puntato sulla qualità, sugli ingredienti migliori per la produzione del suo rum fantasia. “Veniva”, racconta la figlia, “dal vecchio Gigi Civili con i campioncini del liquore per farlo testare.” Ne ha voluto ridefinire l’identità livornese anche tramite le etichette.

Otello Chelli ci racconta di aver conosciuto il Vittori quando, con la famiglia, dopo la deportazione, era “ospite” di una colonia adattata a campo profughi. Qui il giovane Otello trafficava con gli americani che chiedevano gin e lui lo comprava nella distilleria Vittori, riuscendo così a mantenere tutta la famiglia. Ha poi avuto molti contatti anche con Gastone Biondi.

Per concludere, riportiamo una poesia di Ermanno, l’autore del libro, che contiene la ricetta della gloriosa mistura labronica.

‘R ponce alla livornese, un lo sai fa’?

Un ti preoccupa’, t’insegno io!

Prendi ‘n bicchiere,

un po’ più grosso di velli da caffé,

basta ‘he c’abbi ‘r fondo bello doppio:

per un bruciassi ‘ diti,

‘r ponce, è risaputo,

va bevuto prendendolo dar fondo,

insomma…

va preso per ir culo.

Per benino scardi ‘r bicchiere ‘or vapore,

un cucchiaino di zucchero… abbondante,

‘na scorza di limone fa da vela

e rumme, Fantasia, nun ti sbaglia’,

‘r Bacardi e ‘r Pampero un vanno bene!

Ci vole la bevanda der Vittori,

l’intruglio ‘he ‘r ragionier Gastone ‘r Biondi

ha ‘nventato un fottio di tempo fa.

Dunque, torniamo a bomba:

di novo scardi ‘r rumme finché bolle

e ner finale,

riempi ‘r bicchierino di ‘affé,

di vello forte a bestia!

Se poi pensi ‘he t’aggradi,

l’ingredienti poi adatta’ ar gusto personale,

mischiando sassolino o cognacche Tre Stelle

e ‘r resurtato ‘ambia po’o o nulla:

a garganella l’aromati’o ponce

ir gargarozzo ti solleti’erà.

Il ponce al rumme
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UOMINI IN GUERRA di Andreas Latzko

7 Novembre 2015 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #storia

UOMINI IN GUERRA di Andreas Latzko

Uomini in guerra è un insieme di episodi con protagonisti diversi, tutti posti davanti all'orrore del primo conflitto mondiale. L'autore, nato in una famiglia ebrea a Budapest nel 1876, pubblicò in forma anonima il libro già durante la guerra, nel 1917, mentre era convalescente in Svizzera dopo aver combattuto sull'Isonzo con la divisa asburgica. I suoi scritti, apprezzati da Karl Kraus, saranno banditi dalla Germania nazista; costretto a emigrare, morirà povero a New York nel 1943.

È impressionante soprattutto l’episodio ambientato in prima linea, sul fronte italiano; in esso si sviluppa un duro contrasto tra il maturo capitano Marschner e l’aitante sottotenente Weixler. Quest'ultimo crede nella guerra e nel suo ruolo di comando; redarguisce gli uomini più che spronarli, li considera dei vili da disciplinare col pugno di ferro, spara ai nemici feriti perché a casa ci sono già abbastanza affamati senza aggiungere a essi i prigionieri. Chiama i soldati “materiale umano”, propone punizioni per chi mostra paura sotto il fuoco nemico, si muove in trincea con calma e autorità, “leggero come l’organizzatore di un ballo”, di contro all’apprensione angosciosa del suo superiore. Il capitano invece pensa alla sua famiglia e vede nei soldati dei figli da custodire.

La dialettica tra i due cresce mentre ci si avvicina all'epilogo drammatico; è un contrasto raccontato attraverso la viva interiorità di Marschner che soffre, si nasconde per non vedere i soldati morire e per non dover dare ordini, mostrando un'attitudine imbelle e non adatta al comando. La rabbia repressa del sottotenente, la sua smania di combattere, i suoi toni glaciali sconcertano, ma Marschner riconosce che il giovane fa funzionare bene la compagnia perché mette in soggezione gli uomini. La sua rigida efficienza è necessaria.

Il capitano, all'opposto, non è ancora stato impoverito come persona dagli orrori della guerra e questo lo indebolisce, togliendogli capacità di decisione e forza; brilla per umanità e sensibilità che risaltano di fronte alla freddezza del sottotenente. Restano comunque degli aspetti che rendono il dualismo non banale.

L'interrogativo che in effetti emerge è quello riguardante il fatto che forse non tutti possono fare la guerra ed essere utili in prima linea. Il padre di famiglia sembra fuori posto; Weixler, pur spietato, è nel suo elemento, combatte e lo fa bene. Pur reo di molti eccessi, è più necessario del superiore, perché ha sposato la brutalità della guerra e si muove di conseguenza. Il barbaro conflitto in corso richiede bestie più che uomini. La ferocia domina. In un mondo di violenza senza pietà, gli uomini devono stare a casa e lasciare posto alle belve.

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Sapore di cozze

6 Novembre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #ricette

Sapore di cozze

Ricetta di
Marcello de Santis

Ingredienti:

. cozze
. un peperone
. un gambo di sedano
. mollica di pane bianco (non pagnotta)
. latte
. pan grattato
. origano
. parmigiano
. olio sale q.b.
. pepe o peperoncino ( a chi piace)

per il sugo:

. aglio (no spicchio)
. olio q.b.
. sale q.b.
. passata di pomodoro
. acqua di cottura delle cozze
. vino rosso

Preparazione

Lavare accuratamente le cozze e porle in casseruola con un filo d'olio, metterle sul fuoco per il tempo necessario affinché si aprano. Quindi lavorare a mano, togliendo il frutto carnoso, e facendo attenzione a mantenere le valve legate l'una all'altra.
Intanto avrete messo dentro un recipiente il latte, e in esso la mollica di pane bianco ad ammollarsi.
In un tegame versare un filo olio; in esso porre lo spicchio d'aglio schiacciato o meno, e, dopo poco, versare la passata di pomodoro; aggiungere sale e pepe (o a chi piace del peperoncino), un poco di acqua di cottura delle cozze e mezzo bicchiere di vino. Lasciare bollire.
Tagliare a dadini mezzo peperone e mezzo gambo di sedano e grattugiare il parmigiano.
In una piccola insalatiera mettere dunque le cozze, il pane bagnato e strizzato, il parmigiano, il peperone e il sedano a dadini e spruzzare con un po' di origano e di pangrattato.
Mescolare aiutandosi con un filo d'olio fino ad ottenere un composto denso.
Quindi versare il tutto in un frullatore e metterlo in azione per una trentina di secondi.
Rimettere il frullato nell'insalatiera e cominciare a riempire con esso i gusci delle cozze, una valva per volta, e richiuderla con l'altra. E così con tutte.
Quando il sugo si è ritirato ed è quindi consistente, versarlo in una larga padella; adagiare dentro di esso le cozze così chiuse e farle cuocere, coperte, per appena cinque minuti.
Servire calde.

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Gianluigi Zuddas

5 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #personaggi da conoscere, #fantasy, #fantascienza

Gianluigi Zuddas

Gianluigi Zuddas è nato a Carpi nel 1943 ma si è trasferito molto presto a Livorno, dove il padre era sottufficiale di marina. Ha lavorato come meccanico e tecnico di radiologia prima di iniziare a scrivere fantasy e fantascienza.

Ha scritto numerosi racconti e alcuni romanzi, fra i quali i più famosi sono Amazon (1979), I pirati del tempo (1980), Balthis l’avventuriera (1983), Le amazzoni del sud (1983), Stella di Gondwana (1983), Le Armi della Lupa, (1989). Dopo l’89 ha però diradato l’attività di scrittura per dedicarsi alla traduzione.

Ha vinto il premio Italia con il suo primo romanzo Amazon e il Premio Tolkien, istituito dalla casa editrice Solfanelli, nel 1980, ha pubblicato poi con l’Editrice Nord e la Fanucci.

Considera fantascienza e fantasy campi nei quali, oltre alle emozioni, si può liberare la fantasia. È affascinato dal passato dell’umanità, da quelli che definisce “i buchi” della storia, dove può essere accaduto di tutto ed ambienta le sue storie in un lontanissimo passato o in un distante futuro. I suoi personaggi principali sono di solito donne, in particolare Amazzoni, guerriere, intraprendenti, vagamente omosessuali, nate dalle letture femministe degli anni settanta, ma anche ragazze allegre, che amano viaggiare, spostarsi e hanno una propensione a cacciarsi nei guai. Esempi sono Thalli, de Le Armi della lupa, e la dodicenne Balthis dell’omonimo romanzo.

Nei suoi libri tutto tende ad avere una spiegazione razionale, la magia è sostituita dalla scienza, i personaggi si muovono in una sorta di nuovo Medio Evo, dove nei musei o nelle cantine giacciono reperti di un’antica tecnologia raffinatissima ma ormai dimenticata e considerata stregoneria. Si può quindi parlare quasi più di science fantasy che di heroic fantasy. Nella sua narrazione ritroviamo numerosi topoi della space opera classica, dal computer onnisciente che ricorda Hal 9000, ai mezzi spaziali chilometrici stile Guerre Stellari, alle armature che sembrano Ufo Robot.

La costruzione dei suoi romanzi si basa su episodi staccati e conclusi, un capitolo per ogni episodio, lo stile è venato d’ironia e di umorismo, in questo l’anima livornese si avverte, laddove, generalmente - almeno nel fantasy prima maniera – l’umorismo è evitato perché può far scadere la tensione narrativa. Ed è labronico anche quello spirito “anarcoide” che tende a rifiutare ogni forma di potere sempre considerato malvagio e oppressivo.

Come ci spiega Gianfranco de Turris ne l’introduzione a Le Armi della Lupa,la straripante fantasia di Zuddas sembrerebbe appositamente tagliata per l’opera lunga”: troppa è la facilità della sua immaginazione, troppo completo il modo in cui s’immerge nel mondo secondario della sua sub-creazione, troppo vivi i suoi protagonisti.”.

La terminologia qui usata da de Turris è tolkieniana, anche se Zuddas non ama l’autore di Oxford. Eppure, sempre a detta di de Turris, “Zuddas è forse il più tolkieniano dei nostri autori di heroic fantasy: perché è quello che […] ha saputo dare più realtà al suo mondo immaginario, più spessore ai suoi protagonisti […] ed ha saputo più sprofondarsi, annullarsi in esso.”

Riferimenti

Intervista di Pino Cottogni a Gianluigi Zuddas sul sito www.fantasymagazine.it

Gianfranco de Turris , “Zuddas: Le Armi della Lupa”, Dimensione Cosmica, Anno V, n° 15

Gianluigi Zuddas
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La vestale Cossinia

4 Novembre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #saggi, #luoghi da conoscere

La vestale Cossinia



Pubblicai sul mio foglio, qualche tempo fa, alcune immagini del castello di Tivoli, la Rocca Pia. Tra i tanti amici che videro le foto e la breve storia di essa, qualcuno mi chiese di far conoscere qualche altra cosa del mio paese. Mi ripromisi di parlare della vestale Cossinia, sconosciuta ai più, e forse anche a molti dei miei concittadini. Ecco, ve ne parlo adesso.
Partiamo dalla tomba. C'è un cimelio sulle rive del fiume Aniene, e precisamente sulla sponda destra, che viene fatto risalire al secolo II-III d.C. E' un semplice basamento su cinque gradini sul quale si erge questo cippo funerario. Dietro c'è un altro piedistallo, se così possiamo chiamarlo, questo è formato da soli tre gradini e pare che sotto di esso siano stati rinvenuti i resti della vestale Cossinia con a fianco una bambolina snodabile, in avorio. Il rinvenimento avvenne nell'anno 1929, durante lavori di potenziamento dell'argine che era sottoposto a continui franamenti della scarpata, impraticabile allora.
Qualche giorno fa ho deciso di andare a far visita al monumento e, per farlo, ho attraversato il Ponte della Pace che scavalca il fiume Aniene nei pressi dell'Ospedale. Passato il fiume, si sale per una stradina ammattonata fra alte canne di fiume sulla sinistra e piante sulla destra; qui a suo tempo l'amministrazione sistemò due o tre panchine in ferro (i sostegni laterali) e toghe di legno (a costituire la panchina) ma queste oggi, grazie al vandalismo di qualcuno, sono ridotte ai minimi termini, vale a dire ci sono solo i sostegni in ferro, ché le toghe sono state divelte e chissà che fine hanno fatto. Non è proprio un belvedere. Senza contare che le erbacce stanno invadendo il breve tratto di strada in salita e tra poco si dovrà tagliare con il machete se si vuole salire al piazzale della Stazione dei treni. Giunti qui sopra si deve camminare nel senso che va verso il centro, circa un centinaio di metri, per poi scendere per un'altra decina di metri e giungere al cippo.
Ho percorso questo breve tratto sotto un sole splendido ma il cuore mi si è ristretto nel constatare che anche qui - sul largo marciapiede che guarda il fiume - le quattro/cinque panchine di travertino sono state devastate, distrutte dallo scempio attuato da bipedi che nottetempo, dopo il lavoro eroico, hanno perfino imbrattato i pezzi rimasti, uno sconcio mostruoso, da me segnalato molto tempo fa a chi di dovere, ma da allora niente si è fatto. Il decoro della città, o meglio, di questo paesucolo (mi dispiace molto definirlo tale, ma purtroppo non è molto di più di questo, un paesucolo, per il menefreghismo e l'ignoranza di tutti) non importa a nessuno, tantomeno alle autorità costituite, amen. Voi - amici che mi leggete - cercate di gustarvi "solo" la storia del monumento, ché le mie lamentele sono rivolte ad altri, lo avrete capito; ma ho il dovere di farle.
Eccomi arrivato: il cancello è aperto ma se non lo fosse sarebbe la stessa cosa, ché di lato si può " trasire" e scendere senza colpo ferire. E allora scendo i cinque o sei larghissimi gradoni; ed ecco apparirmi il monumento funebre.
Le facce del monumento sono ignominiosamente scarabocchiate e deturpate da sedicenti scrittori della domenica con ghirigori illeggibili, a colori nero e rosso, di vernice o pennarello o chissà che cosa. Bravi ragazzi!!!! Tornate presto a finire il vostro lavoro letterario, anche sulla faccia che avete dimenticato di sporcare!!!
Veniamo al monumento: in un tondo fatto di foglie di quercia a rilievo, c'è scritto alla vergine vestale Cossinia e sotto c'è il nome di chi ha fatto la dedica: il parente o il padre: Lucio Cossinio Eletto. La facciata posteriore invece riporta:

"Qui giace e riposa la Vergine,
per mano del popolo trasportata,
poiché per sessantasei anni fu fedele al culto di Vesta.
Luogo conce
sso per decreto del Senato".

Il tutto in latino, chiaramente.
Ecco la scritta come appare:

V(irgini) V(estali)
Cossiniae
L(uc
ii)f(iliae),

alla vergine vestale
Cossinia
,
figlia di Lucio

sotto c'è il nome del parente (il padre?) come detto: L. Cossinius Electus.

Nella faccia del retro appare questo scritto:

Undecies senis quod Vestae paruit annis,
hic sita virgo, manu populi delata, quiescit.
L(ocus) d(atus) s(enatus)
c(onsu
lto)

che tradotto, alla lettera, significa:

dopo undici volte gli anni che ha svolto il servizio per la dea Vesta
qui sepolta, la vergine, dal popolo trasportata a mano, riposa.
luogo donato con senatoconsulto (decreto del se
nato)

Eccola dunque la storia di questa eroica fanciulla che dedicò tutta la vita a tenere acceso il fuoco della dea Vesta nel tempio a lei dedicato a Tivoli; tempio che si può vedere ancora in tutta la sua superba maestà ergersi su uno spuntone di roccia che dà su un immensa voragine di piante e di verde.
Dunque: Cossinia viene destinata - quando ha solo meno di una decina d'anni, forse sei o sette appena - a servire al tempio di Vesta a Tivoli. Come tutte le sue compagne svolge il suo servizio con competenza e dedizione.

Le vestali all'epoca si dovevano impegnare a non lasciare il compito sacerdotale se non al compimento dei trent'anni. Ma Cossinia, allo scadere del tempo, non abbandonò, continuò il suo impegno fino alla morte che avvenne alla bella età di 75 anni. E i versi incisi sul travertino del cippo dicono proprio questo: undecies senis anni, servì la dea per ben 66 anni. (Obbedi a Vesta undici volte l’età che aveva al suo ingresso nel sacerdozio).
Restò a curare il fuoco sacro alla dea, che non si spegnesse mai. Quando morì, alla veneranda età di 75 anni, il populus tiburtinus volle tributarle onori grandissimi e indimenticabili. Una moltitudine di gente accompagnò la vergine vestale a riposare in pace sulla sponda del fiume Aniene. Qui fu sepolta e, davanti alla tomba, a perenne ricordo, fu elevato il cippo che vediamo.
Con essa, e accanto a essa, fu posta una bambolina dagli arti snodabili, fatta di avorio, con la quale Cossinia giocava da fanciulla, ma che non lasciò mai, andando contro la tradizione e l'usanza in auge a quei tempi. Infatti, era costume che le giovani potessero giocare con le proprie bamboline soltanto fino al momento di entrare a far parte di un'altra vita, quella coniugale e, al momento di sposarsi, i loro giocattoli, nel caso la bambola, venivano donati alla dea. La giovane sappiamo che non si sposò, dedicando la vita alla Dea Vesta e mantenne con sé la bambolina, il suo giocattolo preferito.
La bambolina di Cossinia è bellissima, longilinea, ha le giunture snodabili così che la bambina possa muoverle a piacimento, metterla seduta o farla camminare tenendola per le mani. Insomma, la pupa poteva assumere diverse posizioni. Aveva anche un corredo, come si usa ancora oggi, ad esempio con le famose Barbie, in un cofanetto c'erano gioielli, una collanina a maglia doppia e diversi braccialetti da indossare sia ai polsi che alle caviglie.
Il sito è stato rinvenuto come detto nel 1929 per porre riparo a smottamenti del terreno troppo vicino al fiume. E' stato risistemato nell'anno 1967 grazie all'intervento dell'Azienda di Cura e Turismo della città, che ha realizzato, per permettere di giungere a visitare il monumento, un'ampia scalinata d'accesso in ammattonato. C'era tutt'intorno anche una specie di giardino, ma oggi questo è ridotto a un insieme di erbacce che crescono per ogni dove, ostacolando perfino il passaggio per avvicinarsi al cippo funebre.
Grande è l'incuria, sia di quei pochi, pochissimi - io aggiungerei nulli, e credo di non sbagliare - visitatori che vanno laggiù, sia, soprattutto, delle autorità cittadine che nulla fanno per preservarlo e adeguatamente conservarlo. Purtroppo il sito è fuori mano rispetto al centro urbano, ma non si fa niente per pubblicizzarlo e far sì che i moltissimi visitatori che arrivano annualmente da tutto il mondo, oltre alle nostre ville, visitino anche questo.
Concludo il mio breve saggio con la speranza che le autorità possano "iniziare a vigilare", trovino la maniera, per la conservazione delle nostre - e sono tante - bellezze e antichità.
Mi vergogno un poco a dichiarare che da qualche tempo da noi imperano la barbarie e il vandalismo più duri, che - se non si interverrà presto e nel modo giusto - ridurranno in polvere anche le opere più grandi; si ricordi lo stato di Villa Gregoriana, un gioiello della natura, prima che la gestione fosse affidata al FAI, Fondo Ambiente Italiano, che tutela ben quarantamila metri quadrati di edifici e opere d'arte in tutta Italia, strappati al degrado nel pieno rispetto dell'arte e della natura.

marcello de santis

La vestale Cossinia
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In giro per il Molise: Fornelli

3 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

In giro per il Molise: Fornelli

Le fotografie di Flaviano Testa ci conducono oggi a Fornelli.

Furnièllë in dialetto molisano, è un paese di circa 2500 abitanti che si trova in provincia di Isernia. È arroccato a 500 metri sul livello del mar, in parte su una collina lambita dal torrente Vandra, e in parte sul monte Cervaro, ove supera i 1000 metri.

Di notevole interesse è il nucleo originario dell'abitato, per gli ampi resti dell'antica cinta muraria che attornia il primo assetto urbano, cui si accede tramite una imponente porta principale, un tempo munita di ponte levatoio e di fossato. All'interno vanno segnalati la chiesa dedicata a San Michele Arcangelo e il Palazzo Vecchio, con elementi che testimoniano ancora l'antico splendore.

Fiore all'occhiello dell'economia paesana è la produzione di un pregiato olio d'oliva, ottenuto ancora con metodi tradizionali, conosciuto e apprezzato per qualità e genuinità.

Fornelli è famosa anche per un triste episodio, avvenuto dopo il voltafaccia dell'8 settembre 1943. L'Italia si era improvvisamente trovata divisa in due dalla linea di difesa “Winterstellung “, che andava dal Tirreno all'Adriatico, comprendendo Montecassino e le vallate dei fiumi Sangro e Volturno, con il nord, dove erano i tedeschi, e il sud, con gli alleati che salivano incontrando strade interrotte, campi minati, inerpicandosi fra le macerie di paesi interamente distrutti dai loro stessi bombardamenti. La popolazione civile inerme e affamata era presa tra due fuochi e si prospettava un duro inverno. A Fornelli la presenza delle truppe germaniche cominciò a farsi pesante dopo la metà di settembre, quando alcune colonne militari in assetto di marcia, per attestarsi in difesa lungo la linea predisposta, si fermavano a Fornelli e nella frazione di Castello in linea con Colli al Volturno. Spesso succedeva che per approvvigionamenti chiedessero o razziassero viveri ai residenti. Nella frazione i contadini vivevano ore di pena e di sofferenza, data la scarsezza del cibo ed erano esasperati per le frequenti requisizioni. Avvenne che un giovane disertore, nascostosi in zona dopo lo scioglimento del suo reparto, con una bomba a mano uccidesse un soldato tedesco ferendone altri due. Ne conseguì la rabbiosa rappresaglia che costò l’impiccagione a cinque inermi cittadini ed al Podestà del tempo, Giuseppe Laurelli. La famiglia Laurelli era molto rispettata in paese per via delle grandi proprietà di cui disponeva, dando lavoro praticamente a tutti. Nel 1921 era divenuto sindaco Giuseppe Laurelli, nato a Fornelli il 5 ottobre 1889. Come sindaco, durante il Fascismo, si diede molto da fare per migliorare la vita dei suoi cittadini: il suo paese fu il primo a essere dotato di illuminazione elettrica, quando nessun comune dell'alta valle del Volturno aveva ancora ricevuto il servizio. Le luci si accesero la sera del 24 giugno 1924, e le campane suonarono a festa in una popolare esultanza di applausi e grida per omaggiare il sindaco davanti al palazzo Laurelli. Egli lasciò poi la sua carica nel 1926 per dedicarsi alla professione di avvocato, impegnò molto del suo tempo nell'azienda di famiglia e per suoi dipendenti, vinse parecchi concorsi agronomici ottenendo la stella al Merito rurale e la medaglia d'oro dell'Esposizione di Spoleto del 1930 per la realizzazione di un modernissimo oleificio. Riconosciuti i suoi meriti , nel 1936 ottenne la carica di Podestà ed era ancora al suo posto durante i fatti di quel tragico 3 ottobre del 1943. Non si spaventò, non si allontanò dal paese, anzi nel suo ruolo mai dismesso di Pater familias, con ogni probabilità si espose troppo verso i tedeschi per opporsi alla spoliazione della sua popolazione o per difendere le persone che erano state rastrellate in previsione della rappresaglia. Una vicenda dai contorni poco chiari , in cui si fecero protagonisti con ogni probabilità odio di classe e invidia. Un fornellese denunciò il Podestà ai tedeschi come antifascista e, quando gli stessi chiesero chi fossero i colpevoli dell'attentato subito, nessuno volle parlare. A pagarne le conseguenze furono alcuni abitanti della frazione in cui era avvenuto l'omicidio del soldato tedesco e il podestà Laurelli.

Una triste storia di guerra, fame, disperazione e sopravvivenza che ogni anno viene ricordata a Fornelli e per la quale il Podestà ricevette dal Presidente della Repubblica nel 1971 una medaglia di bronzo alla memoria.

In giro per il Molise: Fornelli
In giro per il Molise: Fornelli
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Tornare a vivere?

2 Novembre 2015 , Scritto da Marcello de Sanctis Con tag #marcello de santis, #saggi

Tornare a vivere?

Talvolta la divulgazione di libri che trattano della reincarnazione ha portato ad atti sconsiderati da parte di alcune persone che, influenzate dalla possibilità di "tornare a vivere" in una nuova vita, hanno voluto provare.
E' il caso di quel tale

RICHARD SWINK

Un ragazzo di appena 19 anni che faceva il rivenditore di giornali; era l'anno 1956, il fatto avvenne in Oklahoma. Richard, avendo letto - appunto - una pubblicazione sulla reincarnazione, si sparò un colpo di pistola e ci rimise la pelle. Il giovane lasciò una lettera nella quale spiegava il suo gesto: voleva provare di persona se, quanto asserito in quelle teorie, rispondesse a verità.
Il libro, che l'aveva spinto a quell'insana decisione, è di un ipnotizzatore di nome Morey Bernstein, nel quale, da scrittore dilettante qual era, aveva descritto, tra l'altro, di un suo esperimento con un soggetto che, messo sotto ipnosi, era stato riportato in un tempo precedente a quello della sua attuale vita, facendo regredire la sua mente negli anni.
Chiaramente, il Bernstein non era uno studioso della materia né uno scienziato ma un artista - possiamo dire - da palcoscenico. Pure si era convinto - nonostante con le sue domande poste al soggetto in stato di sonnambulismo tentasse ad ogni modo di condurre lo stesso a dichiarazioni che potevano apparire come relative a fatti avvenuti in una esistenza precedente - si era convinto, dicevamo, che la reincarnazione esiste davvero, con assoluta sicurezza (ciò che non viene mai affermato dagli studiosi che con coscienza studiano il fenomeno).
Ma allora non si volle dare la colpa al Bernstein, perché, anche se il ragazzo avesse letto un altro trattato qualsiasi sul fenomeno, di tanti che ne erano in circolazione, avrebbe potuto commettere ugualmente il gesto fatale, tanto instabile probabilmente era la sua mente.
Per la cronaca, il soggetto sotto ipnosi regressiva nel libro era una donna di casa, americana, di nome Ruth Simmons; in realtà il suo vero nome era Virginia Tighe, e quello fittizio fu usato dal signor Bernstein quando scrisse il libro che riportava i suoi esperimenti.

VIRGINIA TIGHE

Si era nell'anno 1952 quando l'ipnotizzatore dilettante volle tentare un esperimento con una giovane donna di 29 anni, Virginia Tighe, appunto. L'ha fatta regredire fino alla sua infanzia, poi ha continuato, riportandola ancora più indietro nel tempo fino a farla scivolare in una esistenza precedente. La ragazza ha cominciato a parlare con la voce di una bambina, con un accento irlandese, e ha fatto dichiarazioni strabilianti. Le dichiarazioni sono state raccolte in più sedute ipnotiche. Narrava che: "era stata Bridey Murphy, e faceva la ragioniera, era nativa dell'Irlanda, ed era figlia di gente che coltivava la terra; la sua vita si era svolta nel secolo precedente". Dette anche una data precisa: era nata in un paesino vicino a Cork, in Irlanda, appunto nell'anno 1798; e indicò il giorno: 20 dicembre. La Tighe non era mai stata in Irlanda e non conosceva affatto quella nazione. Pure narrò nei dettagli come era vissuta, quali erano le sue mansioni all'interno della famiglia e dette notizie relative alla sua casa, ai suoi cari, alla campagna dove aveva vissuto.

Si fecero ricerche accurate, successivamente, e i fatti raccontati corrispondevano, anche se non completamente, a quelli reali.

Per tornare al Ian Stevenson, c'è da dire che molti sono stati nel mondo i suoi detrattori, moltissimi hanno messo in dubbio i suoi metodi e conseguentemente i suoi risultati; ma di più quelli che hanno dichiarato il suo lavoro svolto con coscienza e metodo il più scientifico che si potesse applicare al fenomeno.
Ricordiamo alcuni elementi basilari della sua ricerca:

a) il fenomeno si manifesta in bambini che fanno queste dichiarazioni quando sono in età dai due ai quattro anni.
b) essi smettono poco alla volta di raccontare e dimenticano alla età intorno ai sette anni.
c) nelle dichiarazioni nella maggior parte dei casi il bambino narra di essere morto per morte violenta o almeno non naturale.
d) ricordano perfettamente e raccontano il momento della morte con particolari che il più delle volte ai controlli risultano esatti.

Ricordiamo inoltre che il professore ha sempre parlato di possibilità di reincarnazione e questo perché non si può dimostrare che alla morte di un soggetto la sua anima torni ad occupare un nuovo corpo. Mancano la prove fisiche.
Vogliamo riportare anche una credenza o convinzione di alcuni studiosi orientali, ma ci limitiamo per ora solo a farvi conoscere questa nozione: esseri umani che muoiono e debbono ancora perfezionarsi, ritornano sotto nuove spoglie, ma non sempre dentro corpi di persone umane. A seconda del comportamento più o meno buono, o più o meno cattivo, tenuto nella vita che vanno a lasciare o hanno lasciato, possono prendere la forma di animali, e talvolta in specie meno evolute o addirittura in specie inferiori. E' la cosiddetta metempiscosi.
Abbiamo detto che l'unica prova obiettiva della reincarnazione avviene solo grazie alle dichiarazioni di soggetti sottoposti a ipnosi regressiva. Oppure alle dichiarazioni spontanee di soggetti che, senza alcun impulso esterno, cominciano a raccontare di esistenze precedenti.
Molti detrattori affermano che queste dichiarazioni possono spiegarsi solo con la possessione o con l'influenza spiritica. Ma tutt'e due le teorie concordano su un solo unico fatto: ambedue riportano ad una ipotesi molto veritiera sulla esistenza di una nuova vita dopo la morte.
Una psichiatra, che ha fatto della regressione ipnotica lo scopo delle sue ricerche, e di conseguenza si è trovata a studiare anche le forme della morte, le conseguenze della stessa e le possibilità di un ritorno in altra vita, è una dottoressa di origine svizzera, ma americana, morta alcuni anni or sono.
Si tratta di Elisabeth Kubler-Ross


Elisabeth Kubler-Ross 1926-2004

Nata a Zurigo, si è trasferita in USA nel 1958 col marito; qui ha svolto la sua attività presso l'Università della Virginia, dopo aver esercitato la sua professione di psichiatra in moltissimi ospedali. Ha al suo attivo una ventina di pubblicazioni scientifiche, la gran parte delle quali proprio sulla morte.
In un libro ha fatto interviste a persone in punto di morte (Interviste con i moribondi, New York, 2001: intervistò circa 200 malati in stato terminale) oltre che ricerche approfondite sulla morte e l'Aldilà (2002) e tanti studi eseguiti su bambini, proprio per verificare ipotesi di ritorno alla nuova vita. Purtroppo ha dovuto troncare le sue ricerche perché nel 1995 ha subito in ictus cerebrale che l'ha costretta su una sedia a rotelle.
Alla fine dei suoi lunghi studi e delle sue innumerevoli accurate ricerche, intervistata sull'argomento, ha concluso così:

"Oggi, sono certa che esista una vita dopo la morte.
E che la nostra morte fisica,
è solamente l'abbandono di questo corpo materiale
che per noi è solo un involucro temporaneo.
L'anima però, ne sono più che convinta,
continua a vivere su un pia
n
o diverso."

In seguito alle interviste con le persone in punto di morte, su cosa pensassero ci fosse dopo, se credevano in un aldilà, se avessero avuto sensazioni particolari sulla possibilità di una nuova vita, ecc, poté mettere a punto cinque fasi sulla morte, che riportiamo brevemente.

a) il paziente non vuole (prima) ammettere la sua malattia; (poi) non vuole ammettere, pure se è stato convinto di essere malato, la gravità della stessa; quindi allontana dalle sue convinzioni che dovrà morire.

b) il paziente prova una certa invidia per quelli che gli sono intorno, e sono sani. Per questa sua e loro situazione egli si arrabbia molto. E allora sente fino in fondo la sua sofferenza. Subentra il terrore di essere dimenticato dopo morto mentre la vita dei sani continua tra feste e cose allegre.

c) spera che i medici siano in grado di allontanare il dolore e con esso la fine imminente; o quanto meno vuole assumere con convinzione (e spera anche nel contributo di chi gli sta intorno costantemente, parenti, infermieri, medici) che i medici ritardino il più possibile la sua dipartita.

d) alla fine però la rabbia e la disperazione, ma non ancora la rassegnazione, la fanno da padrone. E subentra una depressione che si fa sempre più pesante.

e) e ai rifiuti sopra descritti subentra definitivamente la stanchezza e una sorte di accettazione del male e della fine imminente. Agogna il sonno, che lo estranei da tutto e da tutti, non vuole né vedere né sentire i parenti che lo circondano, e parlano e aspettano, senza sperare. Più facile è questo momento per le persone anziane, perché alla fine pensano che almeno ci saranno i figli a continuare per lui; più difficile e talvolta inaccettabile invece per i giovani.



Mi scrive un'amica di Facebook:

Ciao Marcello, quello che sto per dirti forse non è proprio inerente alla reincarnazione, ma è di certo un fatto strano.Ti prego: vorrei restare anonima.
Avevo avuto e avevo tuttora problemi pesanti con un familiare, un parente che abitava la mia casa, ossia la casa che io avevo ereditato dai miei genitori.
Una notte, durante il sonno, sento muovere il mio letto, e qualcuno che mi tocca i piedi per svegliarmi. Aprendo gli occhi ho visto la figura sfuocata di un uomo che mi diceva: vai a casa! Io mi sono seduta sulla sponda del letto ma ho avuto la sensazione che continuassi a dormire; eppure la vedevo, quella figura, non riuscivo ad individuare chi fosse; poi ho capito che era mio padre. E ho anche capito che desiderava che io mandassi via da casa quel nostro parente.
Mi sono svegliata, ero spaventata, ma ripensando all'accaduto mi sono detta: devo andarci, lui me lo ha chiesto; devo farlo per lui, per i miei genitori, che per averla, quella casa, hanno fatto enormi sacrifici. La persona che la abitava era un violento, e io avevo paura, molta, ma ho trovato il modo di fargli visita, e di invitarlo a lasciare l'abitazione e andarsene. Ciò che fece.
Dopo qualche giorno, parlandone con alcuni conoscenti, uno di loro mi disse: brava, sei stata fortunata, se non fossi intervenuta, fra qualche mese avresti perso la casa, perché chi la abitava, stava brigando per portartela via.
Devo dire grazie a pa
pà.
Grazie


Grazie a te cara amica, ecco, lo pubblico senza fare il tuo nome. Lo faccio perché potrebbe interessare.
Si parla spesso infatti di entità disincarnate che appaiono o si fanno sentire da parenti viventi, per comunicare, col silenzio, cioè con la sola presenza o con parole a volte a malapena percepite, qualcosa per il nostro bene. C'è che ci crede fermamente e chi invece è scettico su tali manifestazioni; ed è la sorte della nostra materia. Ma va riconosciuto che è qualche cosa che appassiona e lascia pensare.

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Zerocalcare, "L'elenco telefonico degli accolli"

1 Novembre 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #personaggi da conoscere

Zerocalcare, "L'elenco telefonico degli accolli"

L'elenco telefonico degli accolli

Zerocalcare

Bao Publishing - Euro 16,00

Zerocalcare è forse il nome più interessante della letteratura italiana contemporanea. Non sto bestemmiando. Certo, si esprime con il fumetto - per la precisione con la graphic novel - ma i suoi testi sono efficaci e colti, pieni zeppi di citazioni, critici della realtà che viviamo. Non fa mai politica bassa nella sua critica culturale, ma punta in alto, alla critica del costume, stigmatizzando il demone della reperibilità e della incomunicabilità.

Il personaggio principale di Zerocalcare è se stesso, un fumettista che vive alla giornata e rifugge gli impegni, gli accolli, che odia la mondanità e preferisce vivere appartato. Ma in quel se stesso ci siamo tutti noi, c'è la società contemporanea imbarbarita, ci sono le idee impoverite, l'indolenza, l'assenza di motivi validi per cui lottare, il terrore di invecchiare. Zerocalcare manda avanti un blog interessante e - di tanto in tanto - raccoglie le storie in volume, ma scrive pure romanzi a fumetti, dove i personaggi sono uomini e donne della sua vita, la madre, la fidanzata, la sorella, un amico immaginario (Armadillo), che ricorda la tigre di Calvin e Hobbes.

Le vicissitudini sono quelle tipiche di un trentenne di oggi, ma la cosa straordinaria è che risultano condivisibili e interessanti anche per un cinquantacinquenne come me. Zerocalcare non è un fenomeno transitorio, una moda, una creatura del sistema. No davvero. Zerocalcare è un vero scrittore che disegna e lavora quando ha qualcosa da dire. Un po' come facevano Pasolini, Calvino e Moravia, negli anni Settanta. Non scrive libri per cavalcare facili successi a base di commissari panzoni e indagini legate a fatti di cronaca, non ricicla il solito libro da vent'anni a questa parte, cambiando titolo.

I fumetti di Zerocalcare raccontano come siamo diventati. E lo fanno con spietato realismo. Non è un bello spettacolo, certo, ma fa bene condividere quel che ogni giorno pensiamo con un autore geniale e disincantato che raccoglie l'eredità stilistica di Andrea Pazienza, metabolizzandola in un discorso personale. Potete cominciare da questo ultimo volume per conoscere l'opera omnia di Zerocalcare, ma vi consiglio di recuperare tutto, perché lui è il solo scrittore imprescindibile di questi anni bui, di questa notte infinita delle patrie lettere.

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