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Sulla poesia di Marco G. Maggi Il quadrato delle radici

20 Novembre 2014 , Scritto da Claudio Fiorentini Con tag #claudio fiorentini, #poesia

Sulla poesia di Marco G. Maggi  Il quadrato delle radici

Il quadrato delle radici

Le mattine avevano fauci di nebbia
inghiottivano prima dell’ingresso
e ti buttavano come una risacca
nelle sineresi dei neon sul linoleum
fino a dileguarsi nel buio dei passi

Si camminava rasenti alla vita
sognando un orizzonte lontano
-e qualcuno sarà poi anche andato
a cercare altrove la sua speranza-
ma i più sono ancora qui dove
anche uno zero ha la sua importanza

aggrappati alle nostre radici
siamo rimasti.

Marco G. Maggi - 6 Novembre 2014

Proprio mentre la pioggia ci chiama a casa, ci chiede di rifugiarci al calduccio, mi arrivano questi versi che restituiscono per intero la vulnerabilità di chi, costretto a mostrarsi invulnerabile, scopre il suo lato bambino, il bisogno di calore e di conforto che l’età adulta nega. Marco Maggi è un imprenditore di successo, non avrebbe bisogno della poesia per sentirsi parte del mondo, eppure risponde alle più profonde esigenze dell’anima scrivendo preziosi versi. Con le sue parole riesce ad evocare quanto di più profondo vi è in noi, scava il buon Marco, scava e trova l’anima, o almeno ne recepisce i messaggi che, attraverso le parole, trasmette. L’anima è nascosta dal ritmo forsennato che ci impongono le nostre esistenze, trovarla e ascoltarla è difficile. La poesia (che è nei versi, ma che è anche in tutte le arti) diventa indispensabile per scorgere anche un solo attimo quella luce che è in tutti noi: orienta, guida, conduce il lettore nell’intimo cammino della scoperta di sé, per questo deve essere evocativa, e Marco riesce nell’intento di ripetere la magia della sua ricerca interiore senza imporla, i suoi versi diventano ricerca interiore per il lettore che, leggendo, non trova il poeta, ma trova la poesia che ha dentro di sé. Un codice quindi, un processo di compressione ed espansione, come le stringhe di bit che passano da un computer all’altro: se da una parte si comprime il messaggio in un segnale comprensibile solo alle macchine, dall’altro si ha la capacità di espandere e decifrare questo segnale che diventa specchio del contenuto. La poesia è quel segnale in codice, il genio sta nella capacità di comprimerlo, per renderlo intelligibile all’anima di chi legge, e che esploderà nella sensazione e nell’emozione che, se dovessero essere tradotte di nuovo in codici, quindi in parole, ritornerebbe ad essere quella poesia. E nei versi c’è quello che non può tradursi in altro modo, perché nei versi “anche uno zero ha la sua importanza”.

Claudio Fiorentini

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Spunti di viaggio: Cuba, un'isola caraibica diversa dalle altre.

19 Novembre 2014 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Spunti di viaggio: Cuba, un'isola caraibica diversa dalle altre.

Non solo mare e spiagge ma quell’atmosfera retrò che affascina ed entra per sempre nel cuore.

Cuba assomiglia un po’ a quelle “streghe” che sanno ammaliare per la loro bellezza.

Quella delle sue spiagge bianchissime - e del suo mare cristallino - incontaminate come Cayo Largo o dorate come Varadero.
Ti affascina per quell’atmosfera languida e retrò, coloniale e decadente, ti appassiona per i colori forti di un tramonto sul Malecon, ti stordisce con un cocktail che sa di storia recente e di eroi e scrittori, ancora oggi vivi nella mente delle persone. Il Che, Hemingway, il daiquiri al Floridita – il mitico bar dello scrittore – o al mojito della Bodequita del Medio.
Cuba è un’isola proiettata verso il futuro ma ancorata ad una incrollabile fierezza, dignità e tradizioni. Più di undici milioni di persone in una mescolanza di diverse culture, specie africana e spagnola, con un’anima esuberante e ospitale.
Si può andare in giro per il Velado, la Plaza della Cattedral – ormai con bar e negozi vari – Plaza de l’Armas e si comprende il perché dal 1982 l’Unesco ha dichiarato l’Avana Patrimonio dell’Umanità. Anche i palazzi scrostati, dalle tinte pastello, conservano una tale antica bellezza da aprirti il cuore e da rimanerti impressa per sempre.
E poi la musica, costante e, a volte, invadente sottofondo di suoni africani e melodie spagnole che permea la vita dell’isola in un crescendo di salsa, merengue, rumba, chichia e mambo!

Il clima è subtropicale, una media di 25 gradi tutto l’anno, a volte appiccicoso e umido come in agosto. Sarà per questo che il Malecon, il lungomare dell’Avana, è sempre affollatissimo. Non somiglia alla Croisette di Cannes e non è piena di bar, ristoranti e di gente elegante.
Sui muretti del Malecon prende il fresco e passeggia la gente comune, i ragazzi giocano a farsi bagnare dalle onde che ogni tanto si infrangono sulla strada, si chiacchiera, si mangia, si flirta, si ascolta la musica, si balla.

Qui a volte la vita può diventare scommessa, come quella dei balzeros che, anni fa, affrontavano il mare su improbabili zattere o barche per raggiungere le coste americane, salutati da una moltitudine di parenti e amici. Era quasi un happening festoso, nonostante tutto, non aveva i contorni del dramma, che pur ci si sarebbe aspettato.

Forse perché qui tutto ha il sapore di una telenovela, non c’è spazio per la malinconia e si vive intensamente giorno per giorno.

Ecco perché, anche al di fuori dei circuiti turistici, tutti i locali sono pieni di cubani, ragazzi e ragazze della nuova generazione allegri di un’allegria contagiosa, comunicativi, aperti, concreti.
Le lunghissime notti dell’Avana hanno un percorso quasi obbligato: cena in uno dei locali più noti e poi a sentire musica o a ballare fino all’alba.

Qui le notti non finiscono mai e quando ti sembra ti essere sfinito, c’è sempre un ottimo bicchiere di rum (o ron) per posticipare il ritorno in albergo.

E poi la notte è magica, fa risaltare ancora di più la bellezza degli edifici sapientemente illuminati.

Il traffico è ridicolo rispetto al nostro, e fa impressione vedere automobili americane degli anni ’50 dai colori accesi e tenuti assieme chissà per quale miracolo o maestria di chi quello ha e lo deve mantenere bene.

Le strade ti riportano indietro a quell’America latina, coloniale, calda e sensuale dei romanzi di Hemingway.

Cuba te espera…non solo, Cuba ti entra nel cuore e non la dimentichi più.

Spunti di viaggio: Cuba, un'isola caraibica diversa dalle altre.
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"RISPOSTA AD UNA INTERVISTA A MARIO TRONTI"

18 Novembre 2014 , Scritto da Claudio Fiorentini Con tag #claudio fiorentini, #interviste, #cultura, #televisione

 "RISPOSTA AD UNA INTERVISTA A MARIO TRONTI"

Il 28 settembre è stata pubblicata su Repubblica un’intervista a Mario Tronti, che ho letto e conservato per alcune frasi che mi hanno colpito. Alla domanda dell’intervistatore, Antonio Gnoli, “Nostalgia delle rivoluzioni?” Tronti risponde “No, semmai del Novecento che fu anche il secolo delle rivoluzioni…. Dove sono il grande pensiero, la grande letteratura, la grande politica, la grande arte? Non vedo nulla di ciò che la prima parte del Novecento ha prodotto.” Più avanti dice “La fase è molto confusa. Ogni cosa va per conto proprio. Agli inizi del ‘900 si parlava della grande crisi della modernità. Poi questa è arrivata. E ora che ci siamo dentro fino al collo non sappiamo in che direzione andare. È lo stallo. Si guarda senza vedere realmente.”

Bene, a parte che già la seconda asserzione sembra una risposta alla prima, mi sentirei di commentare e completare questi interventi di Tronti.

Innanzi tutto direi che la grande arte, la grande letteratura, il grande pensiero (altro è la grande politica) vivono una fase molto confusa, come lo stesso Tronti dice. Perché? Forse non esistono più artisti, letterati, pensatori o, peggio, non esistono più movimenti? Non so cosa risponderebbe Tronti a questa domanda, e mi rammarico per la mancanza di spirito dell’intervistatore che non ha saputo cogliere il segno. Io risponderei che esistono: i movimenti, il pensiero, la letteratura, la poesia e l’arte sono ancora grandi, e continueranno ad esserlo, altrimenti la razza umana intera sarebbe un fallimento. Ciò che sottolineerei invece, è che se nella prima parte del Novecento i pensatori e gli artisti erano pochi, la cittadinanza combatteva con l’analfabetismo, con le guerre e con le idee che venivano represse da certi totalitarismi, avere idee faceva paura e faceva notizia, se ne parlava… la voce passava di bocca in bocca, non era certo il calcio ad occupare il nostro pensiero perché l’umanità intera ancora non si era asservita al Dio Televisione. Cosa è cambiato tra la prima e la seconda metà del Novecento? I mass media, il modo di comunicare che, se prima era condivisione, con la TV diventa fruizione passiva. Pasolini aveva ben inquadrato il problema nel 1966, quando scriveva: «La televisione è l’espressione concreta attraverso cui si manifesta lo Stato piccolo-borghese italiano. Ossia è la depositaria di ogni volgarità e dell’odio per la realtà». Ma la televisione è anche comunicazione che si subisce, non un “cum”, ma un “da - a”, non la si può controbattere, e anche se la mania del passaparola non si è persa, cosa è successo con la voce che passa di bocca in bocca a metà del novecento? Semplice, se prima si parlava del raccolto nei campi, della fatica in fabbrica, della vendemmia e delle idee che si venivano a conoscere (perché comunque gli argomenti a disposizione erano pochi), con l’avvento della TV si è iniziato a parlare dei programmi televisivi, degli attori, di Sanremo, di Canzonissima, dell’ombelico della Carrà e così via, travolti da un crescendo incredibile che culmina con l’arrivo delle TV private, degli spogliarelli delle massaie, delle veline e dei programmi più idioti che esistano, fino al Grande Fratello e allo yogurt della Marcuzzi.

Negli anni ottanta e novanta, quando andavo in ufficio l’argomento principe delle conversazioni era il programma visto il giorno prima, e se si trattava di un programma di approfondimento, immancabilmente diventava l’occasione per sentirsi un esperto del tema: l’ex telespettatore alla pausa caffè indottrinava gli altri. Intendiamoci, a volte era anche interessante, ma raramente si parlava di arte o di idee, mai una volta che si parlasse di un dubbio o di un pensiero profondo, sempre e solo certezze.

Se l’agente provocatore inseriva temi significativi nel discorso, questi non veniva seguito, semmai veniva deriso e messo da parte. Così, piano piano, chi parlava di idee si trovava ad essere sempre più solo, fino a rinchiudersi in una sorta di setta. Era comunque visto con rispetto, ma alla conversazione stimolante si preferiva sempre parlare delle cosce di qualche velina o della lite tra politici in qualche salotto privilegiato.

Le masse hanno cominciato a vedere la TV e considerarla un oracolo anche perché permetteva, nella conversazione, di ripetere il modello “da – a”, cioè non si comunicava, ma si imponeva un ragionamento agli altri, tutto era già digerito e non si permetteva nessun contraddittorio. La TV è l’unico strumento di comunicazione degno di essere acceso in cucina, in camera e nel soggiorno, se ne sta sempre accesa a riversare su di noi immagini truci e non obiettabili, e il telespettatore che ha il potere di dire no, invece di spegnere si limita a sguazzare sul telecomando passando da un canale all’altro.

Verso la fine del Novecento abbiamo assistito ad un altro fenomeno, molto più interessante: l’utilizzo della rete, il computer, la comunicazione telematica… e non mi dilungherò nello spiegare come funziona, del resto lo sappiamo tutti, ma sottolineo che per molti non è altro che l’evoluzione della TV, a volte in peggio, perché diventa uno strumento che isola dando l’illusione di aggregare.

Bene, tutto questo ha portato a disperdere la capacità di aggregarsi intorno a un’idea. Ecco il problema. La dispersione, la non aggregazione, loro sono i veri nemici dell’arte, del pensiero, della letteratura… per non dire della politica, che dovrebbe pensare al bene comune, invece… lasciamo perdere.

I mezzi di diffusione o di promozione delle arti e del pensiero ieri erano pochi, oggi sono tanti, ma spesso asserviti a un sistema che ha come scopo principale la commercializzazione di qualcosa e non la promozione o diffusione di un pensiero. E mettiamoci pure che oggi gli stimoli sono tanti, quasi tutti innaturali, commerciali, materiali…

Se ieri si poteva contare su un passaparola efficace, oggi abbiamo un passaparola prevalentemente dispersivo, in gran parte telematico e, invece di condividere una o due idee, si condivide di tutto sentendosi protagonisti del nulla. Già, perché se il mezzo di comunicazione che prima era la TV permetteva di essere protagonisti nella chiacchierata del giorno dopo, la rete illude di essere protagonista da subito, grazie ai messaggini, a Facebook, ai blog.

Ciò non significa che non c’è pensiero, arte, letteratura o poesia… c’è, c’è, vi assicuro che c’è… ma è tutto sommerso, vittima di un sistema più intelligente di noi che ha fagocitato la nostra capacità di essere un insieme di persone e non una massa informe di individui.

Con questo voglio dire che Tronti ha ragione, non sembra che abbia colto le ragioni che hanno reso la nostra fase confusa, come lui stesso l’ha definita.

D’accordo, buona parte del Novecento è stata una miniera di idee e di creatività, oggi non si vede lo stesso movimento, ma non è vero che mancano le idee, il pensiero, l’arte… direi invece che tutto nuota nella dispersione informativa di cui tutti siamo testimoni. Oggi quello che manca è la capacità di aggregare e la forza per combattere una battaglia più grande di noi.

Però bisogna provarci, altrimenti che ci stiamo a fare qui?

Ancora una volta richiamo i temi del Manifesto Culturale il Bandolo, che si pone come indicatore di una direzione da prendere per colmare, anche solo in minima parte, quel grande vuoto segnalato anche da Tronti!

Claudio Fiorentini

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PRODITORIAMENTE di ITALO SVEVO (1861 – 1928)

17 Novembre 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

PRODITORIAMENTE di ITALO SVEVO (1861 – 1928)

Maier è un imprenditore di discreto successo; ha da poco superato i sessant’anni quando un cattivo affare, condotto con una persona disonesta, lo mette sul lastrico. Per riprendersi capisce che dovrà lavorare duramente, condannando se stesso e la famiglia a una vita di disagi e ristrettezze. Ci sarebbe una possibilità per riuscire a pagare i debiti contratti; ottenere un prestito dal suo caro amico Reveni, anch’egli imprenditore. Ma come chiedergli una mano? Qui emergono le difficoltà psicologiche del protagonista poiché la cultura borghese vuole sicurezza e forza; chi si è dimostrato improvvido e sciocco, sia pure in una sola sfortunata circostanza, è in un certo senso compromesso nella cerchia dei bravi uomini d’affari. Maier si reca quindi a casa dell’amico incerto su come procedere; vuole essere aiutato, ma non può accettare umiliazioni. L’ideale sarebbe che Reveni leggesse tra le righe e gli venisse fraternamente incontro, senza costringerlo ad abbassarsi a una esplicita richiesta. “Erano stati buoni amici tutta la loro vita”, ci viene detto. Il dialogo avviene alla presenza della consorte dell’amico con la quale Maier non è mai stato in confidenza. L’uomo parla, compie lunghi giri di parole, si spazientisce a tratti, ma non riesce a dare all’interlocutore l’esatta idea del suo dramma. Reveni ascolta ma senza farsi coinvolgere e quando parla, lo fa da una posizione di tranquillità e di superiorità; lui è ancora un imprenditore di successo. Non riesce a immedesimarsi in una situazione di grave difficoltà. Parla di logica e di lucidità negli affari; quello che Maier non ha avuto. A un certo punto lo sfortunato commerciante sente di avere tutto contro di sé, l‘amico che non lo capisce, la moglie che forse gli è ostile da sempre, gli oggetti stessi della casa che rimandano a una solidità economica che lui ha perso: “Egli vedeva quella sala da pranzo per la prima volta luminosa per la luce delle grandi finestre riverberata da marmi agli abbassamenti delle pareti, dagli ori in certe filettature alle porte, dai cristalli che ancora si trovavano sul tavolo”. Mentre Maier nota tutto questo, l’altro si sente male; viene chiamato un dottore, ma inutilmente. Muore invece che farmi un prestito, sembra pensare l’indebitato commerciante che poi con una buona scusa se ne va e giunto in strada si sente sollevato; la disgrazia dell’amico rende più sopportabile il suo fardello. Il protagonista ragiona solo in rapporto alle sue impellenti esigenze; il suo è un mondo economicistico. Non c’è dispiacere per quella morte che anzi lo riconforta; ciò fa pensare alle mille considerazioni anche ciniche che si fanno pur di trovare un appiglio che offra un aiuto almeno a livello psicologico in momenti delicati. Ma Svevo ci insegna col suo romanzo principale, La coscienza di Zeno, che ogni cosa è vista da un punto di vista soggettivo e quindi limitato, relativo; in una parola, malato. Non è salutare dare tanto credito a una visione incompleta delle cose. La psicologia di Maier lo porta a varie oscillazioni nel dialogo, a seconda di ciò che percepisce nell’atteggiamento dei due interlocutori; speranza e pessimismo si alternano capricciosamente, ma tutto è descritto in base appunto alla sua visione soggettiva. In fondo lui non domanda chiaramente il prestito così necessario; cerca di presentare a grandi linee la situazione, ma senza darne i precisi dettagli, per non sentirsi mortificare nella sua dignità di imprenditore ora in affanno. Forse se avesse chiesto in modo schietto, parlando da amico ad amico, avrebbe ottenuto qualcosa. Invece non chiede; quindi non si può nemmeno dire che Reveni rifiuti di aiutarlo. Il suo atteggiamento freddo e distaccato potrebbe essere solo il risultato del punto vista parziale e malato del protagonista, vittima di una morale borghese degli affari che predica successo e non ammette sfortuna. La conclusione ci rimanda ai paradossi cari a Svevo; l’inetto (vero o presunto), pur pieno di assilli e incertezze, alla fine cade in piedi e se ne va quasi rasserenato. L’amico, apparentemente superiore nella solidità economica esemplificata dalla lussuosa casa, muore (come succede anche all’aitante Guido nella Coscienza di Zeno). Non c’è sicurezza per nessuno; il fiuto per gli affari non elimina l’irriducibile precarietà della nostra esistenza.

Ma la domanda amara che sorge con immediatezza, in un ambiente così materialistico, è questa; i due signori del racconto erano poi veramente amici?

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La crisi del contemporaneo

16 Novembre 2014 , Scritto da Claudio Fiorentini Con tag #claudio fiorentini, #cultura

La crisi del contemporaneo

Certo che essere un contemporaneo oggi non è una cosa da nulla. In qualsiasi momento ti capiti di esserlo è già una bella sfida, ma se ti capita oggi, nell’era in cui l’informazione è alla portata di tutti, allora vedrai che sfortuna: trovi sempre qualcuno che ti mette sul tavolo la storia e, invece di sentirti proiettato al futuro, immancabilmente ti trovi a parlare del passato. Ah, che bello sarebbe se ti dicessero: “Contemporaneo, sei forte, vai avanti che ti aspetta un bel futuro” e se magari concludessero anche con un “Grazie!”. Inutile sperarci. Essere un contemporaneo significa che ti devi confrontare con gente che è al mondo come te, con la stessa vita, gli stessi problemi, lo stesso sistema nervoso quasi sempre a pezzi e lo stesso ambiente malsano che condividi con tutti… essere contemporaneo significa condividere il tuo spazio con qualcuno che ti considera suo contemporaneo.

Bene, e allora veniamo al punto. A me è capitato di essere contemporaneo ora, in piena era dell’informazione, e sai che ho notato? Che tutti credono di saperne più di te, vuoi perché a scuola ci vanno un po’ tutti, vuoi perché è facile trovare informazioni in rete e leggerle in pillole (senza verificare le fonti), vuoi perché quello veramente ha studiato e non vede l’ora di fartelo capire, alla fine quello che ti sta davanti non ti vede come fonte di arricchimento, ma ti vede come ricettacolo del suo ego. E che fa con il suo ego? Te lo sbatte davanti: se sei un pittore di astratti lui ti tira fuori Kandinski; se sei un poeta quello ti tira fuori Baudelaire; se sei un romanziere quello ti sbatte in faccia Manzoni. E tu sei quasi intimidito, senti che ti devi giustificare perché loro sono mostri sacri e tu no, ascolti il discorso di quello lì che ti sta facendo vedere com’è bravo e quanto è informato, mentre il tuo lavoro artistico scompare mestamente e tu ti senti un inetto.

Ma non c’è da scoraggiarsi, succede a tutti i contemporanei che non sono stati certificati dal mercato o dalla TV. La realtà è che la storia dei contemporanei ancora non è stata scritta, quindi un contemporaneo, per definizione, non ha ancora passato il filtro del tempo. E quanti ce ne sono che ancora non passano il filtro, tutti insieme ammassati nell’attuale, un periodo di tempo infinitesimo di cui abbiamo coscienza perché lo stiamo in qualche modo vivendo.

Ma vedi, è importante essere contemporaneo, del resto noi lo siamo dal momento che ci parliamo. E proprio perché contemporanei forse non ci rendiamo conto di quanto sia importante il nostro contributo: un contemporaneo fa, esegue, crea, e con la sua arte, forse inconsciamente, diventa un piccolo tassello che serve a costruire la storia di cui si parlerà tra cinquant’anni. Facendo e creando, ovviamente, interagisce con altri, si espone ai suoi contemporanei, nevvero? E rischia di suo! Che lo prendano per un cialtrone o lo considerino un genio folle non importa, bisogna però apprezzare che il contemporaneo gioca a carte scoperte mentre il mercato lo osserva sorridendo e lo espone a critiche impietose.

Ha coraggio un contemporaneo, il clima non gli è mai favorevole, ancor meno oggi. Eppure non demorde.

Gli altri, che sono sempre lì a servire da paragone, sono stati storicizzati, riconosciuti e ammirati… eppure anche loro sono stati una volta contemporanei, anche loro si sono esposti al rischio della derisione, e di due o tre che sono stati riconosciuti dalla storia, centinaia di grandi talenti sono stati dimenticati. Facile paragonare un contemporaneo a uno storicizzato, difficile è capire quanto coraggio ci sia nell’essere contemporaneo, alla fine non importa se si passerà alla storia, importa contribuire a questo meraviglioso movimento che determina l’evoluzione dei linguaggi artistici, e vi assicuro che farne parte è un onore.

Claudio Fiorentini

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Intervista a Paolo Di Paolo

15 Novembre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #interviste

Intervista  a Paolo Di Paolo

Nel fine settimana del 25 e 26 ottobre a Nemi, famosissimo borgo nella zona dei castelli romani, si è tenuto il BiblioUp Festival, la prima edizione di un evento organizzato dalle biblioteche dei vari comuni della zona e Andrea Camilleri a fare da testimonial che, non potendo essere presente, ha voluto comunque mandare un video di saluto. Trovandomi a Roma, mi sono trasformato in un blogger d'assalto, armato di un pericolosissimo smartphone, con il preciso intento di infastidire intervistare ogni scrittore che mi capitasse a tiro. Tra i vari ospiti c'era Paolo Di Paolo, con il quale sono riuscito a chiacchierare davanti a un caffè. Di Paolo era a Nemi per parlare di Mandami tanta vita, romanzo finalista al Premio Strega 2013, ispirato dalla figura di Piero Gobetti. Il risultato di questa chiacchierata lo trovate nelle righe qui sotto. (Sergio Vivaldi)

Sergio Vivaldi: Il romanzo è nato intorno al personaggio di Piero Gobetti. È un personaggio insolito, durante la presentazione spiegavi come sia stato sempre in secondo piano rispetto a Giacomo Matteotti, il cui omicidio ha segnato un punto di svolta del periodo fascista. Che valore vorresti dare al recupero della figura di un intellettuale antifascista degli anni '20 nel 2014, o 2013, anno di pubblicazione del romanzo?

Paolo Di Paolo: Tutti i personaggi storici finiscono in un pantheon, e anche Gobetti ne fa parte: quando studiavo alla Sapienza, quasi ogni mattina passavo da quella via che si chiama Piero Gobetti, è come se quasi tutte le mattine l'avessi avuto un po' nella testa. Ma non mi sono avvicinato a Gobetti a scuola né all'università, perché è una figura, non direi minore ma sicuramente più laterale, soprattutto perché muore molto giovane, e lo immagini solo come il nome di una via, come qualcosa di impolverato, di solenne. Allora lo sforzo doveva essere quello di riportarlo dentro una dimensione più affabile, più narrativa, per far capire che non sta su un piedistallo ma era un ragazzo di vent'anni. L'unico modo era non fare il saggio, perché sarebbe stato una cosa rivolta soltanto a chi già lo conosceva, ma un racconto. Questo racconto non doveva essere un romanzo biografico, perché ciò presupponeva seguire una diacronia, una biografia per intero, io invece volevo che ci fosse uno sguardo che portava il lettore a osservare quel personaggio, e lo sguardo doveva essere la mediazione narrativa. Lo sguardo, nello specifico, doveva essere quello di Moraldo, cioè di un anonimo, che guarda, che incrocia casualmente questa figura storica. In quel modo la avvicina, perché la vede, così, a un passo, come parliamo io e te.

SV: Spiegavi di non volevi fare un romanzo puramente biografico, e col non aver mai usato il suo nome hai tolto un importante elemento legato all'aspetto biografico, però la vita di Gobetti non poteva essere cambiata troppo. Ne consegue che solo Moraldo rende questo romanzo non interamente biografico.

PDP: Sì, l'immissione, dentro una storia calcata più o meno sulla realtà biografica, di un personaggio di finzione fa deflagrare l'impianto del romanzo biografico tradizionale, anche se c'è sempre un margine di invenzione. Immettere un protagonista, che è importante ai miei occhi tanto quanto quello storico, cambia completamente la prospettiva e anche il segmento di vita che scelgo è il segmento di vita dell'altro personaggio. Quindi tutti e due vengono raccontati su un piano di parallelismo, anche se a un certo punto si sfiorano, e tutta questa orchestrazione rompe l'equilibrio del romanzo biografico tradizionale, infatti dal romanzo, per esempio della nascita di Piero o dei primi anni, non sappiamo nulla, se non quello che appare qua e là perché viene recuperato in un flashback, ma è qualcosa di molto, molto meno massiccio di quello che sarebbe stato se avessi seguito una linea biografica.

SV: Il romanzo si muove su un piano storico, che è conseguenza dell'ambientazione, perché gli eventi che sono parte di quell'epoca hanno un'influenza enorme, e perché Gobetti è perseguitato dal fascismo. Ma tu durante la presentazione hai parlato di un'analisi anche psicologica dei personaggi, dicevi di volerli guardare da dentro la loro testa. È questo l'unico motivo per cui hai usato il flusso di coscienza o avevi anche qualche altra motivazione?

PDP: No, è esattamente questo. Ho usato molto il flusso di coscienza, perché mi interessava cogliere i pensieri di questi personaggi nel momento in cui si formavano quindi volevo dare proprio uno spessore psicologico. Questo è un romanzo di pensieri più che di azioni, un romanzo di idee e sentimenti, quindi credo che il modo di raccontare un po' fluido, liquido, dove conta tantissimo quello che il personaggio sta pensando, molto più di quello che fa, dava la percezione al lettore che fosse un'immersione nelle psicologie dei pensieri dei personaggi. Ma c'è anche un altro aspetto, legato al clima letterario di quegli anni. Ho voluto fare un gioco sfruttando l'impianto del romanzo modernista, sullo stile di Virginia Woolf, che esattamente in quegli anni emerge. Ho ambientato il libro tra il 1924 e il 1926, con il '26 come centro della narrazione, e Mrs Dalloway esce nel '24, Gita al faro nel '25: siamo proprio in quegli anni e volevo simulare stilisticamente certe attitudini del romanzo modernista proprio nel periodo in cui il romanzo modernista stava emergendo. Il flusso di coscienza che ho usato è molto Woolf-iano, e voleva essere un omaggio implicito a una narratrice che io amo molto e che proprio in quegli anni stava dando i suoi frutti più interessanti.

SV: Inserire il flusso di coscienza in un romanzo con una connotazione storica così forte è anche un elemento di dissonanza, perché è una contrapposizione.

PDP: Certo. Come ti ho detto prima, io non amavo molto l'idea di fare un romanzo storico tradizionale, con la solita terza persona, il solito sviluppo del fondale, mi sembrava un po' asfittica. Il romanzo doveva essere più breve rispetto al tradizionale romanzo storico, molto più intenso, molto più velocizzato, perché è una corsa contro la morte, quindi il monologo interiore aiutava ad accelerare. Era necessario dare questa accelerata forte che stringeva i tempi, li chiudeva, e questo, il flusso di coscienza aiuta a farlo.

SV: È stato definito da parecchie persone un romanzo per i giovani, anche durante la presentazione. La figura di Gobetti l'hai scelta perché era interessante, per tutti i motivi che hai detto prima, oppure perché speravi potesse anche diventare una sorta di ispirazione per le nuove generazioni?

PDP: Ho presentato tantissimo questo libro nelle scuole. Naturalmente non è semplice portare nelle scuole un romanzo che comunque ha a che fare con un tempo storico così lontano, però quando gli studenti hanno davanti una figura come quella di Gobetti, come un personaggio letterario e allo stesso tempo come personaggio storico, uno che ha l'età loro, in fondo, e fa questa quantità infinita di cose, secondo me funziona, li suggestiona. Se non lo si pone come la lezione sul personaggio storico, quindi qualcosa che, già di per sé, mette gli studenti nella condizione di pensare che non stiamo facendo un approfondimento del loro programma scolastico, allora si cominciano a chiedere come abbia fatto a diciassette anni a fondare una rivista. Questo attivismo, questo slancio, questa energia, comunque affascinano, così come quell'epigrafe che ho messo, che è di Dylan Thomas e recita «Vado avanti quanto dura il sempre», da una poesia che si chiama Ventiquattro anni, perché secondo me anche in una giovinezza che può apparire a tratti inerte, disincantata, ci sono sacche di resistenza e di volontà e un personaggio così, che sulla volontà basa tutto e sente che le cose si cambiano soltanto quando uno veramente vuole cambiarle, riesce ad avere ancora un'attrattiva. L'impegno non significa fare gli ammaestratori, però ho cercato di avvicinare una figura che secondo me ha un valore al di là della sua fine così drammatica. Non è tanto la sua condizione di esiliato o di vittima del fascismo, ma vedere come in un tempo che è ben più cupo del nostro è riuscito a scavarsi uno spazio di manovra. Allora nel momento in cui si dice, nel 2014, che non si ottiene niente, che in Italia fa tutto schifo e va tutto male, proviamo a pensare che cosa significava vivere nell'Italia del '24 con il questurino che veniva a casa e ti dava la diffida dal pubblicare qualunque articolo e ti bruciavano la tipografia. Fino a prova contraria siamo in un paese ancora libero, no? Poi le difficoltà sono oggettive, le esperienze all'estero sono formative e a volte anche necessarie, ma non mi piace questa idea per cui chi resta è inferiore. Sembra proprio che chi rimane è un perdente, ma non è così, bisogna anche ribellarsi a questa idea che chi resta è vittima di un paese senza speranza, non voglio fare politica però...

SV: Sì, e questa cosa non nasce soltanto da quelli che vanno all'estero e dicono che è meglio, nasce anche da chi rimane. Il concetto stesso di “fuga dei cervelli”, implica che se hai un cervello vai fuori...

PDP: E invece quelli che restano sono senza cervello...

SV: Esatto...

PDP: È allucinante, non è così, intanto perché le cose non sono così semplici neanche fuori, e poi il più delle volte ti accorgi che i nostri coetanei stanno fuori e lavano i piatti, allora se si vogliono lavare i piatti a Londra, benissimo, però li si poteva lavare pure a Nemi. Un conto è avere un orizzonte di vita in cui è possibile affermarsi, o esiste una necessità, per esempio per ragioni di studio, o in certi ambiti tecnico scientifici dove esistono più opportunità all'estero, però se si parte con una serie di ambizioni un po' confuse, perché si pensa che tanto in Italia non si ottiene nulla e lì si lavora come commesso o lavapiatti, non ho nulla contro questo, però non mi piace neanche che poi si dia la lezione a chi è rimasto. Allora mi sembra che questa figura ti dimostra che, fino a che le condizioni non sono quelle della negazione della libertà, a qualunque latitudine se si vuole veramente qualcosa si riesce a farla, il punto è quanta volontà hai. Poi questo non nasconde le difficoltà, che ci sono, e quando fai questi ragionamenti arriva subito chi ti dice che le difficoltà ci sono: è vero, ma c'erano anche allora le difficoltà, e molto maggiori.

SV: Grazie del tuo tempo.

PDP: È stato un piacere.

Piero Gobetti

Piero Gobetti

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Simone Pazzaglia, "Nidi di rondine"

14 Novembre 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

Simone Pazzaglia, "Nidi di rondine"

Simone Pazzaglia

Nidi di rondine

Historica – Pag. 70 – Euro 8,00

http://www.historicaedizioni.com/

Conosco Simone Pazzaglia sin dai tempi del primo romanzo - Un paese di poveri pazzi e cani -, apologo felliniano sulla vita di provincia, una sorta di Amarcord in salsa toscana. Ho apprezzato anche il successivo racconto sulla crisi di coppia, l’ironico ma meno intenso Amanita, lavoro che conferma indubbie capacità di scrittura. Nidi di rondine è un racconto lungo, insolito intermezzo nella produzione di un autore che è già all’opera per sfornare il terzo romanzo, una storia complessa di famiglie della provincia toscana a cavallo tra due guerre. La dedica a un Amico fragile di deandreiana memoria, evaporato in una nuvola rossa in una delle molte feritoie della notte, fa capire che ci troviamo di fronte a una storia pericolosa - per citare Emil Cioran - una di quelle degne di essere raccontate, perché l’autore scava nelle ferite della vita e scandaglia i meandri del tempo perduto. Ancora una volta lo scenario di Pazzaglia è la provincia, quell’angolo di Maremma dove vive, tanto caro a Bianciardi, periferia di Kansas City, un luogo indefinibile che potrebbe essere Gavorrano, Montepescali, Sticciano, Paganico, Seggiano… Non ha importanza definire topograficamente il paese, conta l’atmosfera pesante da Berlinguer ti voglio bene, quei luoghi che Benigni e Bertolucci hanno saputo dipingere con pennellate di degradante squallore componendo un affresco verista. “Un paese con una chiesa, un campetto di calcio, e gente che ogni tanto urla dalle finestre… un paese lento e moribondo che anno dopo anno perde un pezzo di carne come un lebbroso”, ma anche una madre che “cucina roba senza amore e con poco sale”, “un padre di poche parole lanciate come frecce da evitare” e alcuni amici che si danno appuntamento in un fantastico campo di calcio al limitare del bosco, “torsi nudi e pantaloncini corti”. Una storia che nasce in pineta, in un giorno d’estate, un’ingiustizia che si consuma dopo una partita di calcio, gerarchie di ragazzini che impongono la loro volontà su altri più deboli e poi una vecchia signora che paga per veder distruggere nidi di rondine a colpi di fionda. Passano gli anni e non accade niente di straordinario, a parte la vita che scorre, il tempo che si perde, i ricordi che restano ricordi. Capita che ci si ritrova in un bar, davanti a una birra, per accorgersi che la vita si è presa il gusto di vendicare torti e ingiustizie. Non aggiungo altro. Il racconto merita di essere letto e apprezzato, centellinato pagina dopo pagina, assaporato, magari riletto per andare alla ricerca dei sapori intensi della vita di provincia. Nelle botti piccole ci sta il vino buono. Nei cataloghi dei piccoli editori tanti piccoli gioielli. Oggi ne abbiamo scoperto uno.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Intervista ad Aurelio Picca

13 Novembre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #interviste

Intervista ad Aurelio Picca

Nel fine settimana del 25 e 26 ottobre a Nemi, famosissimo borgo nella zona dei castelli romani, si è tenuto il BiblioUp Festival, la prima edizione di un evento organizzato dalle biblioteche dei vari comuni della zona e Andrea Camilleri a fare da testimonial che, non potendo essere presente, ha voluto comunque mandare un video di saluto. Trovandomi a Roma, mi sono trasformato in un blogger d'assalto, armato di un pericolosissimo smartphone, con il preciso intento di infastidire intervistare ogni scrittore che mi capitasse a tiro.

L'ultimo ospite nella mia lista è Aurelio Picca, che si trova a Nemi per presentare il suo Un giorno di gioia, pubblicato nel 2014 per i tipi di Bompiani. Il tempo è poco, la sala serve per uno spettacolo musicale e l'organizzazione provvede ad accordare gli strumenti, non le condizioni migliori per un'intervista. È sera, il vento imperversa e sarebbe freddo anche senza, l'idea di spostarci fuori non è entusiasmante. Prima che le condizioni audio impediscano qualsiasi conversazione si riesce comunque a scambiare qualche battuta.

Il romanzo:

Dopo la scomparsa del padre il giovane Jean vive con la madre Tilda nel “castello”, la residenza di famiglia che la Tilda ha ereditato dai genitori. La famiglia materna è un concentrato di anomalie, tramandate ai molti figli. I privilegiati sono Tilda e Attila, il più piccolo, ma gli altri fratelli, capitanati dall'avido primogenito Marcello, per non impugnare un testamento che li taglia fuori dalla proprietà della sontuosa dimore di famiglia, ottengono da Tilda la promessa di un rimborso, che le costa caro e cambia radicalmente la sua vita. Tilda infatti entra in un altro mondo, quello della malavita. Una follia, la sua, che si manifesta anche nel modo che ha educato il figlio, vestendolo e truccandolo come una femmina, come una maschera. Il piccolo Jean assiste alle imprese della madre, comprendendo solo in parte ciò che avviene. La sua visione del mondo è parziale e infantile, deformata dai miti familiari di lusso, ricchezza, perfezione. Lui ama i profumi, i fiori, i colori. Ma quando i crimini di Tilda cominciano a venire a galla, la situazione precipita sul giovane, imponendo una sequenza allucinata in cui la realtà si impone con tutta la sua forza.

L'intervista:

Sergio Vivaldi: Ciò che mi ha colpito maggiormente è il castello, sembra un personaggio a sé stante, quasi a formare un triangolo con la madre e il figlio.

Aurelio Picca: Sì, è vero. Diciamo che il castello rappresenta la mia casa dei miei sogni, ma è anche una casa che ho abitato da bambino, una casa enorme e disabitata, sfondata, abbandonata, antica, che io ho fatto crescere e lievitare in un castello. Abitare questa grande dimora abbandonata è una delle mie ossessioni felici, una ossessione un po' ricorrente, perché anche in Tutte stelle il bambino protagonista abitava in una casa enorme all'ultimo piano, dove entrava vento, luce, le rondini. Il castello è un protagonista, così come altre volte è successo lo stesso con i paesaggi, in altri miei lavori.

SV: E poi diventa un modo per ritrovare una patria, come dicevi durante la presentazione, che manca, perché ci si sente sradicati quando non si ha un luogo da chiamare casa.

AP: È un luogo protetto, un nido, dove c'è il sogno, dove si può ricordare, dove si può mangiare, si può vivere, si può essere amati.

SV: Interessante anche il rapporto tra madre e figlio. Riprendendo l'idea del triangolo, il castello è la terza punta, perché la madre vuole conquistare il castello, lo vuole tutto per sé, e lo trasforma in un ostacolo nel loro rapporto.

AP: No, diciamo che è un po' una conseguenza del desiderio della madre, è un processo inevitabile, fisiologico. Per averlo lei deve combattere, quindi sembra che il figlio sia vittima, però poi nello stesso castello lui trova la forza per riappropriarsi di sua madre, vendicandola, di viverlo, di trovare il suo maestro, e poi di abbandonarlo quando è un uomo libero..

SV: Infatti lui, dopo che lo hanno riconquistato, riesce a emanciparsi dalla madre...

AP: Esattamente, quindi era necessario.

SV: E in questo luogo lui trova delle figure genitoriali che prima non aveva.

AP: Sì, trova anche Teresa dentro il castello, trova il suo futuro, non è di ostacolo. Apparentemente il castello diventa il prezzo da pagare per la sua crescita, la sua emancipazione e la sua libertà. Perché da una parte è gabbia ma dall'altra è libertà.

SV: Lui è adulto quando racconta questa storia...

AP: No lui è bambino!

SV: Scusa, intendo che lui la racconta quando è cresciuto, ma dal punto di vista del bambino. Però il fatto che lui lo racconti attraverso gli stilemi della fiaba dà l'idea che questa esperienza da bambino non sia stata completamente superata.

AP: Non è la fiaba, qui non c'è fiaba, attenzione. All'andatura sembra una favola, perché il bambino ingigantisce o rimpicciolisce come i bambini fanno. Ha una ipersensibilità, di conseguenza restringe o dilata, è quello che dà il favolistico.

SV: Quindi non è in sé una fiaba ma è la visione del bambino che la rende fiabesca...

AP: Esattamente. Favola, proprio favola. Favola nera, perché poi accadono cose molto difficili...

SV: Infatti. Una cosa sull'ambientazione: è stata definita noir, ma durante la presentazione citavi la famosa frase di Chanel quando dice: «Alcune persone pensano che il lusso sia l'opposto della povertà. Non lo è. È l'opposto della volgarità». L'ambientazione noir, unita a questo lusso, questi luccichii che mostri...

AP: Lusso perché il lusso è anche sinonimo di gioia, e sono elementi estremi rispetto alla ricchezza e alla felicità, è quello il gioco.

SV: Di solito questo tipo di associazione viene fatta quando si vuole raccontare qualcosa di decadente, tu invece fai l'opposto, quindi rovesci determinati canoni, fai crescere il protagonista anziché farlo perdere.

AP: Assolutamente, non c'è decadentismo. Ho scelto di arrivare fino al kitsch per esasperare questa atmosfera, usando anche i colori, le lacche, gli smalti... È un'idea estrema, che tocca anche il modernismo, il kitsch.

SV: Ultima domanda: c'è questo tema ricorrente del bambino, del rapporto della madre con il figlio, hai citato Tutte stelle ma è presente anche in altri, quanto c'è di autobiografico in questo romanzo?

AP: L'interiorità è tutta vera, l'emotività, il resto è tutto inventato, quindi è tutto vero e tutto falso.

SV: Grazie per il tuo tempo.

AP: Figurati, è stato un piacere.

Intervista ad Aurelio Picca
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ContamInAzioni in Fortezza Nuova

12 Novembre 2014 , Scritto da Redazione Con tag #arte

ContamInAzioni in Fortezza Nuova

Riceviamo da parte dell'Associazione Culturale Blob ART:

"Nel corso del Novecento Paul Dirac, premio Nobel per la fisica nel 1933 e uno dei padri fondatori della meccanica quantistica, si è dedicato con impegno alla costruzione di teorie scientifiche che, oltre a spiegare gli aspetti della natura, fossero anche in grado di ricercarne costantemente la bellezza. Entro quest’ottica, il fisico britannico ha descritto con una formulazione affascinante un fenomeno successivamente noto come Entanglement (“intreccio”) quantistico:

Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce”.

Dunque una segreta tensione reciproca che anima corpi lontani tra loro e che trova una possibilità di estensione anche alla sfera delle esperienze umane e dei sentimenti, nella convinzione di un potere duraturo che si sprigiona dall’incontro tra persone, oggetti e ambiente che li accoglie.
Da questa suggestione di partenza trae ispirazione ContamInAzioni, il progetto curatoriale di Francesca D’Aria risultato vincitore di PREMIERE LIVORNO, un bando per curatori under 35 indetto dall’Associazione culturale Blob ART in occasione dello scorso PREMIO COMBAT 2014 e promosso dall’iniziativa regionale Toscanaincontemporanea.

Negli spazi della sala degli Archi all’interno della Fortezza Nuova di Livorno, dal prossimo 7 novembre e per due settimane i visitatori potranno osservare le opere che la giovane curatrice ha selezionato tra tutte quelle iscritte alla passata edizione del Premio, al fine di proporre un racconto visivo di quelle interazioni tra elementi di cui parlava Dirac.

I legami tra due corpi A e B, di qualsiasi natura essi siano, creano un presupposto di continuità nel tempo nonostante la lontananza, capace di condizionare il corso degli eventi in modo perpetuo, a tal punto che si può pensare ad una contaminazione, appunto, nella quale ciò che esisteva indipendentemente in principio risulta modificato e fuso dall’incontro-scontro.

La mostra diviene perciò l’occasione di un’indagine sul concetto di interazione vicendevole tra corpi umani ed elementi naturali, dalla quale scaturiscono mutazioni, variazioni dell’identità e la perdita del confine della propria singolarità, a vantaggio di nuove possibilità di essere, agire, apparire. Le opere esposte mirano ad esplorare una varietà di connubi tra entità estranee, dal cui contatto si producono, come chimicamente, nuove realtà in costante dialogo con lo spazio circostante, in una sinergia tra la legge di natura e l’artificio dell’intervento umano.

La statunitense Anna Rose, con i suoi scatti The Dune, The Street e The Shore presenta una variazione estetica del corpo femminile, la cui forma originaria viene mutata in una nuova immagine mediante l’introduzione di corpi esterni, che avvolgono il fisico trasformandolo. La sua connazionale Anna Garner sfrutta invece il mezzo del video per il trittico Proof and Permutations, in cui l’artista si muove in uno spazio neutro ed entra in conflitto con alcuni materiali, sentiti come ostacoli da abbattere, ma al contempo necessari affinché si compia la simbiosi tra corpo e oggetti. C’è poi la ricerca del duo norvegese Suhrke_Skevik, espressa qui dal progetto Transactions, nel quale il motivo costante è rappresentato dal contatto fisico e problematico tra le due protagoniste dei video, in combinazione con quell’ambiente che fa da teatro all’azione. Voce anche agli artisti italiani, con le installazioni di Alessandro Gattuso e Manuele Mirabella che rendono materialmente la percezione spaziale della contaminazione: Nello specchio degli occhi altrui e Metamorfosi 1 da una parte indicano un’elaborazione che trasforma l’oggetto corpo umano naturale in oggetto d’arte, dall’altra sono l’esempio di una metamorfosi che si attua nello smarrimento dell’identità originaria, lo specchio di infinite e nuove possibilità espressive.

Info:


Mostra: ContamInAzioni

date: dal 7 al 22 novembre
sede: Sala degli Archi, Fortezza Nuova - Scali della Fortezza Nuova - Livorno
curatore: Francesca D’Aria
autori: Anna Rose, Anna Garner, Suhrke_Skevik, Alessandro Gattuso, Manuele Mirabella
orari: dal martedì al sabato 15:30 – 19:00
- ingresso libero -

Coordinamento:

Associazione Culturale Blob Art

T +39 0586 881165

E info@premiocombat.it

W www.premiocombat.it/premiere

ContamInAzioni in Fortezza Nuova
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ContamInAzioni in Fortezza Nuova
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Amore Che Vieni Amore Che Vai - Francesco Il Principe

11 Novembre 2014 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #musica

Ringraziamo Francesco Prencipe, musicista e compositore, per questo brano di De Andrè, dolcissimo e reinterpretato con tocco personale e inconfondibile, da vero maestro. (Ida Verrei)

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