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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Yorick

21 Maggio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #poesia, #luoghi da conoscere, #personaggi da conoscere

Quando talor frattanto, forse, sebben così; giammai piuttosto alquanto come perché bensì;

Ecco repente altronde, quasi eziandio perciò, anzi, altresì laonde purtroppo invan però!

Ma se per fin mediante, quantunque attesoché, ahi! sempre, nonostante, conciossiacosaché!

Nel ritratto di Corcos, Pietro Francesco Leopoldo Coccoluto Ferrigni (1836 – 1895), in arte Yorick figlio di Yorick, (con un doppio omaggio prima a Shakespeare e poi a Sterne), ci appare come un uomo massiccio, infagottato in un cappottone, con i baffi folti. Nato a Livorno, fu un enfant prodige, dalla memoria strepitosa, che a tre anni sapeva leggere e a nemmeno sedici si era già iscritto all’università grazie ad una dispensa granducale. Vicino alle idee liberali di Ricasoli, partecipò alla seconda guerra d’indipendenza e fu poi segretario particolare di Garibaldi, rimanendo ferito a Milazzo. Scrittore ironico di nonsense, le sue rime più famose furono “Parole per musica” del 1881, che mettevano in ridicolo le melensaggini dei libretti d’opera. Giornalista di razza, fondatore de Il Fanfulla, ogni giorno su la Nazione pubblicava un articolo, abbastanza ponderoso, denominato “Cronache dai Bagni”, dove raccontava, a chi non poteva godere dei piaceri della Livorno balneare, la vita che si svolgeva negli stabilimenti sul nostro litorale. I suoi pezzi avevano grande riscontro e successo di pubblico e furono anche tradotti in inglese dal Morning Post. Yorick descriveva una città che d’estate cambiava fisionomia e si riempiva di una folla chiassosa. Ormai non c’erano più le stanzette dei bagni Baretti, ora i Pancaldi, i Palmieri, Lo Scoglio della Regina e gli altri stabilimenti avevano ampi spazi aperti, dove i frequentatori passeggiavano e s’immergevano nelle acque limpide senza più privacy. I lettori si divertivano con i pettegolezzi, con le disavventure dei malcapitati fiorentini che “si facevano spennare nei ristoranti”, con gli inglesi che sguazzavano e si tuffavano, con i francesi che muovevano le braccia all’impazzata senza avanzare di un passo nell’acqua. Immaginavano le grazie delle donne, che si bagnavano indossando tuniche ampie e mutandoni alla caviglia, mostrando comunque sempre più pelle che non con gli abituali corsetti e crinoline, accendendo la fantasia maschile o rivelando qualche difettuccio di troppo. Le mamme ostentavano le figlie auspicando di maritarle e i giovanotti in bolletta speravano in una dote. La talassoterapia era ambita come cura, mentre il sole era bandito ed evitato a ogni costo. “I nostri ospiti riveriti vengono qui per bagnarsi”, dice Yorick, “per ballare, per passeggiare e per discorrere … tutte occupazioni da sfaccendati”.

****

 

Quando talor frattanto, forse, sebben così; giammai piuttosto alquanto come perché bensì;

Ecco repente altronde, quasi eziandio perciò, anzi, altresì laonde purtroppo invan però!

Ma se per fin mediante, quantunque attesoché, ahi! sempre, nonostante, conciossiacosaché!

In the portrait of Corcos, Pietro Francesco Leopoldo Coccoluto Ferrigni (1836 - 1895), aka Yorick son of Yorick, (with a double tribute first to Shakespeare and then to Sterne), appears to us as a massive man, bundled up in a coat, with bushy mustache.

Born in Livorno, he was an enfant prodige, with an amazing memory, who at three years of age knew how to read and had enrolled in university at sixteen thanks to a Grand Ducal dispensation. Close to Ricasoli's liberal ideas, he participated in the Second War of Independence and was then particular secretary to Garibaldi, being injured in Milazzo.

An ironic nonsense writer, his most famous rhymes were "Words for music" of 1881, which ridiculed the melancholy of opera librettos.

Pure journalist, founder of Il Fanfulla, every day on the Nation he published an article, quite ponderous, called "Cronache dai Bagni", where he told, to those who could not enjoy the pleasures of seaside in Livorno, the life that took place in the bathhouses on the coast. His pieces had great success and  were also translated into English by the Morning Post.

Yorick described a city that changed its physiognomy in the summer and filled with a rowdy crowd. By now the rooms in the Baretti bathrooms were no more, now the Pancaldi, Palmieri, Lo Scoglio della Regina and other bathhouses had large open spaces, where visitors strolled and immersed themselves in the clear waters without more privacy.

Readers amused themselves with gossip, with the misadventures of the unfortunate Florentines who "lost their money in restaurants", with the British splashing and diving, with the French moving their arms wildly without taking a step forward into the water. They imagined the graces of the women, who got wet wearing large tunics and knickers at the ankle, however showing more and more skin than with the usual corsets and crinolines, turning on the male fantasy or revealing some flaws. The mothers flaunted their daughters hoping to marry them and the poor young men hoped for a dowry. Thalassotherapy was sought after as a cure, while the sun was banned and avoided at all costs.

"Our revered guests come here to bathe," says Yorick, "to dance, to walk and to talk ... all idle occupations."

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Ida Verrei: Le Primavere di Vesna - Incipit

20 Maggio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei

Ida Verrei: Le Primavere di Vesna - Incipit

Le Primavere di Vesna

di Ida Verrei

Incipit

“Non mi giudicare. Non devi e non puoi farlo, tu non sai.

Non mi giudicare e io ti racconterò.

Ti dirò delle mie fughe, degli abbandoni, delle attese, delle paure,

dei miei perché.

Credi al destino? Io non so se fu sogno o presagio, non so quali

segni io colsi e quali si velarono troppo in fretta.

Non mi giudicare, figlia mia, lascia che io viva le mie colpe senza

rimorsi, lascia che sia solo il rimpianto a cercarmi la notte,

lascia che quel sale liquido si asciughi senza bruciare. E i nostri

occhi di donna si incontreranno in mille risposte”.

La stazione di Genova-Brignole tremolava alla luce morente di un

giorno al tramonto. Il vento primaverile sferzava una figura sottile,

in attesa.

Un gatto le si strusciò alle gambe. La donna sobbalzò, guardò giù,

sorrise, si chinò ad accarezzarlo: «E tu? Da dove arrivi? Cosa fai

qui?» Il gatto emise un miagolìo prolungato, poi scappò via. Lei lo

seguì con lo sguardo.

Il volto liscio, levigato, non portava tracce di ferite e dolori antichi.

Solo gli occhi, opachi, appannati, raccontavano le rughe del cuore.

Ai suoi piedi, un borsone da viaggio.

La voce gracchiante dell’altoparlante annunciò il ritardo dell’espresso

proveniente da Torino e diretto a Napoli.

Sospirò.

Si guardò attorno, raccolse il bagaglio e raggiunse con passo lento

il piccolo bar con tavolini e sedie in ferro smaltato rosso.

Sedette, ordinò un caffè che sorseggiò piano, accese una sigaretta.

Volse il capo in giro. Lo sguardo assente, attraverso una nuvola di

fumo, sfiorò gli altri tavoli: una giovane madre dondolava piano un

bimbo piccolo, mentre altri due, aggrappati alla sua gonna, assonnati,

succhiavano il pollice; un uomo anziano parlava da solo, inseguiva

fantasmi, beveva birra e di tanto in tanto schioccava le labbra, assaporando

il liquido biondo che ingoiava a grossi sorsi gorgoglianti,

Uno sbaffo di schiuma si scioglieva sulle guancia rugosa e gocciolava

sul collo avvizzito; due giovani innamorati si stringevano le mani

guardandosi negli occhi.

Le ombre del crepuscolo velavano sguardi colmi di lacrime.

Il gatto, ricomparso, balzò sulla grande fioriera in pietra carica di

oleandri bianchi. La guardò socchiudendo gli occhi.

Erano le 19,30, mezz’ora di ritardo. Poi, l’annuncio che attendeva.

Sorrise, finalmente, un sospiro di sollievo.

Afferrò il borsone, corse incontro, lungo il marciapiede, alle vetture

che, sbuffando, stavano entrando in stazione. Attese che il treno fosse

fermo, poi con un balzo agile salì sul primo vagone e si tuffò all’interno,

facendosi spazio tra i corpi, passando da una vettura all’altra

in cerca di un posto a sedere.

Un uomo le cedette il suo, accanto al finestrino. Ringraziò con un

sorriso stanco.

Il treno ripartì, scivolava sulle rotaie. Guardò attraverso i vetri

Impolverati: la città con le sue case colorate di rosa si allontanava,

avvolta dall’oscurità della sera profumata di mare.

La donna si appoggiò allo schienale del sedile, sistemò la gonna

sulle ginocchia, le palpebre si abbassarono, i lineamenti si distesero, si

abbandonò al torpore che pian piano l’avvolgeva. Tutto era già stato.

Tra i ricordi, tra le memorie di una vita, per tutti, c’è un motivo

ricorrente che ne segna e scandisce le stagioni più significative.

Un’immagine, un rumore, un profumo, una vaga sensazione di déjà

vu. La percezione di un mutamento che sta per segnare la tua esistenza,

o di un ineluttabile ritorno al passato.

Per Liana era il rumore del treno. Un treno che transita, un treno che

parte, un treno che arriva o che squarcia il silenzio con il suo urlo

metallico e canta col frastuono ritmico dello sferragliare. Il treno, sempre

presente: odori, suoni, rumori, impressi nell’anima e nella mente.

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Lamartine a Livorno

19 Maggio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #poesia, #saggi, #ida verrei, #personaggi da conoscere

Lamartine a Livorno

Perché balzate sulla spiaggia spumeggiante,
Onde in cui nessun vento ha scavato solchi?
Perché agitate la vostra schiuma fumante
In leggeri turbinii?
Perché dondolate le vostre fronti che l’alba asciuga,
Foreste, che stormite prima dell’ora del risveglio?
Perché dai vostri rami spargete come pioggia
Quelle lacrime silenziose di cui vi bagnarono la notte?
Perché rialzate, oh fiori, i vostri calici pieni,
come fronte chinata che l’amore risolleva?
Perché nell’ombra umida esalare questi primi
Profumi
che il giorno respira?”

Alphonse de Lamartine (1790 – 1869), scrittore, storico e politico francese autore tra l’altro de Le meditazioni poetiche, aveva dei cugini a Livorno e venne a visitarli. Ancora una volta è Pietro Vigo a riportarci le sue parole.


“Abitavo presso Livorno nella villa Palmieri sulla strada di Montenero; a sinistra vedevo le cime selvose dei Monti di Limone, a dritta il mare, di faccia Montenero. Sulla sommità di questo capo, addossato allo scoglio ed a verdi querce s'innalza una chiesa come un tempio greco in vista del mare, ed è un pellegrinaggio pei naufraghi scampati dalle procelle pei voti innalzati alla stella del mare. Mi piaceva tanto questo luogo che vi ascendevo sovente. Sulla strada è la villa, un tempo splendida, allora deserta dove Lord Byron si trattenne una o due estati qualche tempo prima della mia dimora in Livorno.
Ero solito fermarmi col cavallo dinanzi alla porta del suo giardino, come per cercarvi l'assente figura del gran poeta che in certo modo consacrò quella solitudine. Poco più oltre lasciavo la strada guidando i cavalli verso la locanda di Montenero per inoltrarmi solo nei boschi d'onde scorgesi il mare. Là passavo intere giornate in compagnia dei miei pensieri, con un libro in mano, nel cui margine, andava scrivendo le poesie ispiratemi dal cielo e dal mare. I cespugli a piè delle verdeggianti querce di Montenero conservarono per qualche tempo le pagine strappate dai libri e dagli album, dove mi provai a notare alcuni canti, spesse volte interrotti dal sonno, dal capriccio, e dal tramonto del dì, e che lasciava in brani sull'erba o sulla sabbia in ludibrio del ven
to ».


Vigo afferma che tre dei componimenti delle “Armonie poetiche e religiose” siano stati scritti nei nostri boschi. Pare che una folata di tramontana abbia fatto volare gli appunti de L’Inno al mattino, al punto che il poeta li aveva ormai dati per persi. La mattina dopo, però, una bambina scalza, figlia di un arsellaio, glieli riconsegnò inzuppati d’acqua di mare. Sembra che il padre li abbia ripescati e fatti leggere a dei frati Cappuccini che gli consigliarono di riportarli all’autore francese. Come ricompensa, Lamartine offrì all’uomo tanti scudi quante erano le pagine e comprò alla bimba un vestito nuovo.


Riferimenti
Pietro Vigo, Montenero www.infolio.it

Si ringrazia Ida Verrei per la traduzione

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Sezione Primavera: Giulia

18 Maggio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #sezione primavera, #poesia

Sezione Primavera: Giulia

Giulia racconta il primo incontro con la sua cagnolina; amore a prima vista, amore per sempre.

Pochi tratti, e il minuscolo animale è dipinto: occhi, pelo e “orecchie socievoli”, un’immagine tenera e divertente. Con quelle orecchie la cagnolina chiama, attira, comunica. E Giulia risponde, con tutto il trasporto del cuore.

Il cane perfetto

di Giulia Pacella (11 anni)

Cinque Gennaio:

a passi lenti ma sicuri per la strada.

Via Bernini, dritta;

All’incrocio, svolto a sinistra e poi sempre avanti.

Lì, pappagalli, gatti e tartarughe,

Negli occhi la paura ma anche la gioia,

Gioia dell’inizio, qualcosa di nuovo e indimenticabile.

In un angolo, una cagna con tre cuccioli appena usciti dal grembo:

Uno con orecchie alte e profumate,

Un altro con un sol occhio.

E lì, piccola piccola, dolce dolce,

Lei, il cane perfetto.

Occhi grandi e luminosi, pelo corto e splendente,

Orecchie basse ma socievoli, sguardo confuso.

In mezzo al freddo, protetta da me e da una coperta fino a casa.

A casa… il nome:

Elly , nome del mio cuore…lei!!!

G.P.

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Davide Steccanella, "Gli anni della lotta armata", recensione di Marco de Franchi

17 Maggio 2013 , Scritto da Marco de Franchi Con tag #marco de franchi, #recensioni

Davide Steccanella, "Gli anni della lotta armata", recensione di Marco de Franchi

Gli Anni della Lotta Armata

Davide Steccanella

Edizioni Bietti

pp 490

17,00

In una recente intervista al Messaggero, Antonio Marini, già pubblico ministero nei processi Moro-ter e Moro-quater e adesso Avvocato Generale della corte d’appello di Roma, mette in guardia su un possibile ritorno degli anni di piombo. Non è il solito allarmismo dei media. Il magistrato, esperto di terrorismo, analizza il male sociale che in questo momento attraversa il Paese e lo paragona al clima degli anni settanta e a quel crogiuolo di idee “cattive” che, mutatis mutandis, produssero la lotta armata. Il recente episodio della gambizzazione del manager dell’Ansaldo Adinolfi, a Genova, secondo Marini, non è molto diverso da quello che accadde agli albori dei primi attentati marcati BR.

Quasi nello stesso momento veniamo a sapere che esiste un nastro su cui sarebbe incisa la voce di uno dei brigatisti che uccise il senatore Roberto Ruffilli, nel 1988, in quello che fu definito l’ultimo delitto delle Brigate Rosse prima della così detta “ritirata strategica” (e prima, naturalmente, che dal 1999 al 2003 altre tre vittime si aggiungessero al lungo elenco: D’Antona, Biagi e Petri). Si tratta di una registrazione contenuta in una vecchia audiocassetta che conterrebbe i risultati di una riunione strategica brigatista durante la quale si discuteva appunto dell’azione Ruffilli (immagino con quel triste linguaggio burocratico-brigatese che così bene Leonardo Sciascia immortalò in due righe due). Su quei nastri si stanno approfondendo accertamenti tecnici adeguati alle conoscenze attuali, come a dire che la Giustizia macina lenta, ma macina.

Non sembra mai troppo tardi, dunque, per la pubblicazione di un libro come quello che Davide Steccanella – avvocato penalista con la vocazione dello storico – ci consegna. Si tratta effettivamente, come recita il sottotitolo, di una “cronologia” (…di una rivoluzione mancata, per l’esattezza) e di una cronologia storica mantiene le qualità: la precisione e il rigore della documentazione nonché una certa obiettività. Suddivisa per anni, dal 1969 ai giorni nostri, come un vero e proprio diario, offre l’opportunità di leggere il libro come un’opera unica e omogenea, ma consente anche la documentazione del singolo fatto, dell’episodio a sé, o di un periodo particolare, diventando, il libro stesso, strumento di consultazione. Un’operazione, quindi, già di per sé interessante e utilissima per chi si occupa di questi argomenti o per chi vi si accosta per la prima volta in maniera organica.

Steccanella però non è solo un osservatore asettico, ma appunto uno studioso dichiaratamente non “professionista” del fenomeno del terrorismo, è come tale è animato da sincero e contagioso entusiasmo. Di più, l’autore, come un incuriosito e instancabile entomologo della storia cerca e offre commenti preziosi, suggerisce collegamenti, scandaglia ipotesi.

La sua opera alla fine non consiste solo in un elenco cronologico e puntuale degli avvenimenti - attenzione, di tutti gli avvenimenti, anche quelli minori e meno conosciuti o facilmente dimenticati – che hanno costellato quarant’anni di storia. Ma è anzi un compendio preciso ed esaustivo dei fatti che in qualche modo viene “macchiato” da considerazioni, interventi, interpretazioni appassionate e spesso drammatiche. Il contesto, dunque, è quello che rende così vitale questo libro, tanto da farlo diventare una sorta di romanzo della storia insanguinata del fenomeno del terrorismo di sinistra. Un contesto, peraltro, fatto non solo di citazioni storiche e meta-storiche, ma anche di rimandi di costume, di citazioni di film o canzoni uscite in un dato periodo, di annotazioni anche modaiole, ma mai fini a se stesse. È come se Steccanella, in ogni paragrafo del suo libro, voglia farci sentire quanto quella “storia” sia ancora viva, voglia ricordarci come quegli anni siano stati anche i nostri anni, o dei nostri fratelli più grandi, o dei nostri genitori, voglia rammentarci, semmai ce ne fossimo dimenticati, come il Paese che descrive sia sempre lo stesso, quello in cui viviamo tuttora. E nulla è meno bidimensionale e fittizio di un quadro che non tralascia tutti i segnali che compongono la vita di tutti i giorni, passando dalla cronaca rosa a quella nera, dalla politica all’economia, dallo spettacolo al dramma, dalla vita alla morte. E così ad ogni incipt di capitolo, prima ancora di introdurre all’elenco nefando e nefasto degli orrori della lotta armata, ecco brevi citazioni di ciò che quel dato anno ci riservava. Così, per esempio, nella prima pagina del capitolo dedicato al 1978 – anno spartiacque della guerra tra terrorismo e Stato – l’autore ci ricorda che i Queen pubblicarono l’album “Jazz”, che al cinema Woody Allen vinse l’Oscar per il film “Io & Annie”, che l’Argentina vinse i mondiali, la Juventus lo scudetto e i Matia Bazar Sanremo con “E dirsi ciao”. E poi, subito, dopo, eccolo il lucido diario di quei dodici mesi fatali, con il sequestro e la morte di Moro e tutto ciò che ne conseguì e ne consegue ancora.

Il calendario di Steccanella, inoltre, arriva proprio a ridosso dei giorni nostri, a dimostrazione dello sforzo di documentazione dell’autore, precisamente al primo marzo 2013, appena due mesi fa, con la morte in un conflitto a fuoco, durante una rapina “comune” a Roma, di Giorgio Frau, ex Lotta Continua e Brigatista rosso delle UCC.

Infine un’appendice forse un po’ slegata dal contesto e dall’impostazione del libro, ma che è comunque molto interessante: si tratta di un’intervista a Luca Colombo, uno dei fondatori insieme a Corrado Alunni delle FCC, formazione terroristica minore ma non meno agguerrita delle “matrigne” BR. L’intervista, che conserva i toni della memoria e consente una visione dall’interno dell’animo brigatista di allora, è stata fatta da un ex allievo di Colombo, e, da quello che si dice, è stata sollecitata e curata dall’intermediazione dello stesso Steccanella.

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Mani belle sul volante

16 Maggio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #poesia

Mani belle sul volante

e la strada che mi scorre via

insegne spezzate

sassi, mucche e case senza intonaco

di pietra grigia

di mattoni grigi.

Cespugli bassi di ginepro

cespugli verdi e rossicci

e monti bruciati

alberi arrossati dagli incendi

e mare azzurro

a volte più verde

smeraldo che mette sete.

Nubi di vapore s’addensano

minacciano

si spostano

il vento è un’illusione del finestrino.

Mucche color sassi

E sassi color mucca,

mucca che ti guarda

e aspetta che piova.

Un uccello piccolo su ogni sasso

fermo perché non c’è niente da fare

e la mucca è silenziosa

e tutti i sassi sono uguali.

mani belle sul volante io t’aspettavo

nell’aria ferma sono viva

parte del sasso e del ginepro.

Gli sterpi assorbono la paura

io piango e inumidisco la terra.

mani belle sul volante

io non ti perderò

come si perdono le scorie.

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Rosa Santoro, "Io, però"

15 Maggio 2013 , Scritto da Maria Vittoria Masserotti Con tag #maria vittoria masserotti, #recensioni, #erotismo

Rosa Santoro, "Io, però"

"Io, però"

Rosa Santoro

Arduino Sacco editore

pp120

L’erotismo coniugato al femminile è un tema affascinate ma difficile. Difficile per il retaggio che da secoli pesa sulla sfera sessuale della donna, per il perbenismo e anche il maschilismo che l’ha tenuto sommerso.

Anche se recentemente la letteratura si è popolata di storie erotiche narrate da voce di donna, siamo ancora ben lontani da una potente seduzione che coinvolga il lettore, incapace di abbandonare le pagine del libro, come era successo con “Il delta di Venere” di Anaïs Nin.

Partendo dal presupposto che ogni persona ha un suo concetto di erotismo, non è facile catturare l’attenzione del lettore oltre la prima curiosità, per farlo è necessario che la narrazione si dipani, scorra tra le dita come sabbia fine.

Io, però…” è un tentativo coraggioso in questo senso, dare una visione originale di un mondo che appartiene alla sfera intima di ognuno.

Margherita, la protagonista, va a Roma alla ricerca del successo nel mondo dello spettacolo. Sale e scende da quei treni che la portano via e la riportano a casa, ma gli incontri che fa non l’avvicinano neanche a quel mondo, resta invece coinvolta con una serie di uomini ambigui e violenti. La sua ricerca del piacere, che pervade tutta la narrazione, resta la vera protagonista del romanzo, fino all’estrema conclusione, la morte.

Non sappiamo se questa morte, nelle intenzioni della scrittrice, sia alla fine un giudizio morale, certamente balza agli occhi come il “peccato” conduca inevitabilmente al termine dell’esistenza di Margherita.

Il lettore, però, deve a volte tornare indietro per capire chi fa cosa, la sintassi è spesso decisamente ingarbugliata. Non basta descrivere qualcosa per renderla fruibile ad altri da noi, nemmeno il sesso. Si dice che il linguaggio sia una convenzione e, quindi, le regole che lo governano sono necessarie per la comunicazione tra chi scrive e chi legge.

L’Autrice vuole sicuramente comunicare, e con forza, ma si capisce tra le righe, mentre sarebbe stato necessario che la storia, triste ma reale, fosse definita con penna più precisa. L’argomento, scabroso fino ad essere brutale, domina troppo rispetto al vissuto del personaggio principale, avremmo voluto capire di più di Margherita, se solo si fosse espressa con parole più comprensibili.

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L'angolo della poesia: Antonietta Viscusi

14 Maggio 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #poesia, #L'angolo della poesia

IL PASSO

E' che è sempre più senza tempo la percezione che ho di te.

Non te lo saprei spiegare.

Non te lo potrei dire.

Non te lo lascerei domandare.

Perchè passa.............

E all'odore di ciò che era,

ciò che sono non si abitua, non si capacita.

Come cammini ora?

A volte me lo domando.

Ho chiaro ancora il rumore del passo,

ma non il suo tempo, non il suo ritmo.

Perciò ti perdo.

E ti ritrovo indietro,

o ancora avanti,

ma senza sosta, così che il fiato si spezza,

ed io devo fermarmi, per forza, a riposare.

Io, tu, questo angolo di mondo.........

e ciò che di diverso riusciamo a vedere.

(Antonietta Viscusi)

Solitamente sono i sogni a diventare realtà, o almeno questo è l’augurio, talvolta invece accade il contrario: la realtà si trasforma e subisce una palingenesi accogliendo le sfumature incerte del sogno, i colori di certe albe che diventano d’improvviso plumbee. Si cerca, si tenta di ritrovare qualcosa di antico, ma non rimane che il senso impalpabile, il ricordo vivo eppure sfumato, come un antico sapore proustiano che all’improvviso ritorna alla mente e se ne gusta in bocca l’aroma, ma vanamente, perché quel che non è più non è concretezza. (Adriana Pedicini)

COME ELLA

Come ella io,

come lui tu,

nulla più.

Frescura tu,

fosti,

fuoco io.

Rimbomba di lontano

quell’assenza che non so meditare.

Fracassa le ossa,

quella distanza che non ho più mezzi per colmare.

Vorrei aquiloni,

vorrei rossi fuoco di tramonti,

vorrei rugiada al posto delle lacrime.

Ma tutto in solitudine.

Perché qualunque cosa di questo che ti ho raccontato,

non si deve e non si deve spiegare.

Vietato è ricolmare l’anima mia.

Adesso, solo, è consentito

Il delirio dell’incompiuto..

(Antonietta Viscusi)

Ancora una volta il franare delle illusioni, lo spegnersi dei sogni e la presa di coscienza della livida realtà. Eppure è possibile vagheggiare bellezza e sentimenti positivi, ma forse per una estrema difesa, porse come riparo da nuove delusioni, forse perché l’animo ferito ha diritto al grido esacerbato come fiera colpita al fianco, tutto avvenga in solitudine. Nessuno, neppure lui, deve poter affondare la mano nella ferita. (Adriana Pedicini)

MARE IMMOTO

E' come mare immoto
la nostalgia che ho di te,
rigorosa, tenace, ferma.
E' come ombra che si allunga
sul dispiegarsi dei giorni miei.
Dicono,
che è male questo immoto permanere di te.
Ma io resisto,
resisto e coltivo la tua assenza.
Nulla mi insegna di più.
Nel silenzio finalmente comprendo.
Nel non detto finalmente mi riposo.
Non tornare ti prego.
Non pensare mai di potermi reincontrare.
O questo incanto finirebbe.
Ho bisogno della tua assenza
come non ho mai avuto bisogno di te.

(Antonietta Viscusi)

Il dolore e la sofferenza conseguenti a una delusione sono aspri da sopportare. L’anima stilla sangue: solo nel silenzio totale può accadere che tutto si trasformi e si idealizzi, anche la sofferenza. Un muto parlare, dove il colloquio e più che altro con se stessi, piuttosto che con l’interlocutore assente, di cui, forse volutamente, si trattengono nell’anima i segni positivi. Allora perfino l’assenza diventa una compagnia nostalgica più complice di una presenza che dia solo turbamento. (Adriana Pedicini)

COME QUANDO MI EMOZIONO

E' come quando mi emoziono,

che l'anima, soltanto l'anima riluce.

E tremo,

di dilatata ebbrezza,

di smodata voracità.

E' come quando mi emoziono,

che gli occhi, soltanto gli occhi parlano.

E mordo,

di labbra che schiudono,

di mani che serrano.

E' come quando mi emoziono,

che la pelle, e non soltanto la pelle,

racconta di me!

(Antonietta Viscusi)

Inno del cuore, alla vita che dispiega in emozione, attraverso le emozioni, che , non più trattenute, volano libere a raccontare l’animo, la passione, la gioia e il tormento di un cuore. (Adriana Pedicini)

BRUMA

Come fai a dimenticarti di me,

come fai a non arrossire più al solo pensiero delle mani mie,

e della bocca mia, e della lingua mia.

Come fai a non respirare ovunque, amore mio,

quell'odore di bruma che da sola sprigiono

quando penso a te.

Come osi liberarti dell'abbraccio mio,

dello sguardo incantato degli occhi miei,

che bruciano, che infiammano, che su di te rivendicano diritto arcano d'anima e sangue.

Come fai, or ora, dopo avermi posseduta,

a pensare di voler andare, di voler respirare senza di me.

Nulla più ti è concesso, lo sai bene, amor mio.

Quando carne si fonde a carne, quando odore riconosce odore,

quando sguardo ritrova sguardo,

quando senso e seme e bruma un tutt'uno sono,

nulla più ci è concesso : nè paura nè dolore.

Incantati solo possiamo stare in questo idillio.

(Antonietta Viscusi)

Tutto può l’amore: anche fermare il mondo, anche sopravvivere al disfacimento, anche rendere eterno un attimo. Tremenda illusione? Eppure è un’illusione che basta a se stessa, in quell’unicum che allontana gli orizzonti e fonde in un’alchimia irrepetibile due esseri viventi fino a farne un corpo solo e un’anima sola. Di più non è dato avere, anzi non sarebbe dato, perché l’idillio è destinato talvolta a infrangersi: Ancora una volta la realtà che diventa sogno, sogno che rischia di infrangersi sotto il peso delle domande che con ritmo incalzante scivolano tra i versi di questa delicata eppure sofferta poesia che nell’ultimo verso ripone la sola possibilità di vivere l’amore: “Incantati solo possiamo stare in questo idillio” (Adriana Pedicini)

SILENTE

E’ come acqua che scorre,

questa tristezza di te!

E’ lenta nel cuore,

silente come notte d’inverno,

amata al pari tuo.

Se solo essa mi resta,

voglio che mi stia daccanto,

ombra cara dei sogni miei e tuoi.

(Antonietta Viscusi)

Dolore e nostalgia, nostalgia della persona amata, ritorno alla sua immagine, e rievocazione nell’assenza con toni pacati, amorevoli, ombra di un sogno!

(Adriana Pedicini)

NOTIZIE BIOGRAFICHE di Antonietta Viscusi

NATA A TORRECUSO(BN) IL 26 APRILE 1968

RESIDENTE A FRASSO TELESINO (BN)

STUDI LICEALI CLASSICI

LAUREA IN ECONOMIA DEI TRASPORTI CON MASTER IN “CONTROLLO DI GESTIONE”

ABILITATA ALLA PROFESSIONE DI DOTTORE COMMERCIALISTA

CONSULENTE IN “CONTROLLO DI GESTIONE E FINANZA AGEVOLATA” CON STUDIO A NAPOLI E COPROPRIETARIA DI UNA PICCOLA SOCIETA’ DI STAMPAGGIO TERMOPLASTICO IN BASILICATA

NONOSTANTE GLI STUDI UNIVERSITARI E LA PROFESSIONE VADANO IN TUTT’ALTRA DIREZIONE CONTINUO AD ADORARE I CLASSICI LATINI E GRECI, LA LETTERATURA, LA POESIA, L’ARTE.

PER DILETTO TRADUCO ANCORA DAL LATINO E DAL GRECO.

ALTRE PASSIONI IL CINEMA, VIAGGIARE, L’ENIGMISTICA, I CANI E IN MODO PARTICOLARE IL MIO CHE ADORO E CHE SI CHIAMA LEDA.

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Incontro con il prof Felice Casucci

13 Maggio 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #interviste

incontro col prof. Felice Casucci dell'Università del Sannio, 10 aprile 2013

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Stimoli

12 Maggio 2013 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #vignette e illustrazioni

Stimoli

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