James Hillman, "Il codice dell'anima"
4 Marzo 2022 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni
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Il codice dell'anima
James Hillman
Adelphi, 1996
Credo che la lettura di questo libro rappresenti uno spartiacque. Non perché sia un libro necessario (pochi lo sono, questo certamente non rientra nel novero, anzi) ma perché stravolge qualsiasi punto di vista sulle nostre vite. Hillman, allievo di Jung, psichiatra e creativo innovatore, espone nel Codice i principi della sua rivoluzionaria teoria, non comprovabile attraverso gli strumenti scientifici, secondo cui ognuno di noi nasce per accogliere un'anima, un daimon, una ghianda, come ama chiamarla lui. Questa entità inconoscibile ma presente è la nostra vocazione, lo scopo della nostra vita, ciò che ci consentirebbe di dare il massimo se lo seguissimo. Ma al contempo è anche ciò che la nostra società, la famiglia, le convenzioni spesso combattono, perché non si allineano con le necessità comuni. Judy Garland, Josephine Baker, Ingmar Bergman, sono solo alcuni dei famosi esempi portati da Hillman per giustificare la sua tesi. Dagli episodi dell'infanzia, costellati di precocitá, bugie, ossessioni, alle follie, le dipendenze o la decadenza dell'età adulta, Hillman seziona e analizza le vite di personaggi famosi e controversi con un metodo induttivo che affascina ma razionalmente non tiene. Del resto lui sostiene una visione teleologica dell'esistenza, per cui noi non nasciamo dai nostri genitori che si incontrano, bensì sono loro che si sono trovati in maniera solo apparentemente casuale per dare origine ad un bimbo che accogliesse una certa anima: se un daimon è particolarmente eccezionale, Hillman sottolinea l'implausibilitá della coppia generatrice, come dire che l'universo tutto cospira affinché certe congiunzioni uniche tra un corpo e la sua ghianda avvengano. Con questo non si pensi che Hillman sia un fatalista: assolutamente no e dedica un intero capitolo alla differenza tra questo e il determinismo, che implica il libero arbitrio. L'ultima parte è dedicata a ciò che è un apparente paradosso, ovvero il daimon dei cosiddetti malvagi, e ad esempio porta l'uomo più cattivo della storia, almeno secondo lui, e ne descrive il deterioramento della ghianda, che di per sé non può portare a nulla di negativo, a meno che non ne venga fatto un cattivo uso. Terminato il libro, resta un senso di smarrimento insieme alla fascinazione: ammesso che i criteri scientifici non siano d'aiuto per stabilire la veridicità di questo impianto teorico, questo saggio ci indurrá in ogni caso a scavare nella nostra infanzia, in tutte quelle passioni che abbiamo abbandonato magari perché poco proficue, in tutto il malessere che forse ci opprime per una vita e un lavoro che troviamo insoddisfacenti. L'idea che non siamo qui per una causa nel passato ma per un motivo che deve essere cercato nel futuro è un invito a svegliarsi ogni giorno nel mondo chiedendosi quando conosceremo quella ragione, quale essa possa mai essere, meravigliandoci dei nostri talenti, dei nostri scopi ben al di là di uno stipendio, una casa e una famiglia, delle potenzialità con cui possiamo migliorare il mondo in cui viviamo. Hillman stesso ammette che il male della società è avere perso la capacità di connetterci con il nostro daimon, di reinterpretare le nostre vite attraverso il mito, di esplorare l'immenso dio che è dentro di noi. Il codice dell'anima e la sua poetica immaginale o si accettano come un dono o si rigettano come ciarlataneria senza esitazione. A noi la scelta. Però ve lo dico: la differenza da fuori si vede.
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