Lezioni americane
Alcuni anni fa avevo venti anni e fui ospite nella casa di un amico di mio padre, a Seattle, nello stato di Washington. Ogni sabato sera comparivano amici di Mark e Helen, sua moglie.
Dopo i convenevoli, i sessi si separavano. Ciascun gruppo maschile o femminile, solitamente formato da sei o sette persone, si appartava in uno dei salotti della grande villa. Erano quattro i salotti dai vari colori e io, quella sera, stavo nel rosa con uomini dai pochi capelli. Le donne erano nell’altro salotto con Helen. Erano stati Mark e Helen a promuovere questi incontri in cui si parlava di tutto: arredamento, politica, moda, musica...
Gli incontri erano registrati, lo seppi dopo. Mark è uno scrittore e insieme a Helen avevano organizzato questi incontri serali da cui Mark avrebbe tratto ispirazione per il suo nuovo romanzo. Sarebbe stato un altro bestseller.
Quella sera, nel salotto rosa, eravamo in sei, seduti su divani e poltrone, ciascuno con il suo bicchiere di whisky. L’argomento della serata era: il sesso e la donna.
«Sex now!» esordì Mark. La risata corale mi stordì.
«John, comincia tu!» disse ancora.
John Harlowe era un prete con il collarino, dal volto smunto, bianco pallido, ma i radi capelli erano di un rosso fulvo a cui tutto il suo viso si uniformò, quando John lo incitò a parlare.
“Irlandese” pensai.
«Bene, (gli anglosassoni cominciano sempre così i loro discorsi) non ne so molto. Tutti risero ma lui continuò: «Per me le donne sono il diavolo tentatore. Dio le punì per avere mangiato la mela. Full stop».
Seguì un’altra fragorosa risata e molti dissentirono col capo.
«Arnold?» disse Mark, chiedendo l’opinione all’uomo seduto accanto a me sul divano. Arnold Buckner era grasso, occupava due delle quattro piazze del divano rosa, ma era di un grasso fresco in quella torrida estate, forse per via dell’aria condizionata. La pelle rosea del suo viso era glabra come quella di un neonato ed emanava un buon profumo di lavanda, pungente al punto giusto. Un profumo di gelsomino con un pizzico di peperoncino, che credo gli venisse dalla lozione dopo barba che usava. Era rigorosamente pelato e dava l’impressione di un pascià o di un eunuco.
«Sono belle, sono belle» sentenziò con una voce argentea, l’eunuco.
«Levin?»
Levin era assorto, ma si risvegliò al richiamo di Mark. Portava una papalina nera sul cocuzzolo che gli copriva in parte la pelata. Le folte basette che si congiungevano in una barbetta caprina, confondevano la sua calvizie. “Ebreo.” pensai.
Levin alzò il capo e la sua espressione dolente fu una certezza: naso adunco, occhi socchiusi, labbra fini.
«Ne ho un vago ricordo,» esordì, «ma è chiaramente scritto.»
Si alzò in piedi e iniziò a recitare con gli occhi spenti e con un ritmico dondolare la testa e il busto. Stava pregando: «Allora uno dei sette angeli che hanno le sette coppe mi si avvicinò e parlò con me: Vieni, ti farò vedere la condanna della grande prostituta che siede presso le grandi acque. Con lei si sono prostituiti i re della terra e gli abitanti della terra si sono inebriati del vino della sua prostituzione. Parola di Dio».
Rimasi stupefatto dalla sua teatralità e, del resto, rimasi stupefatto da tutte le sue parole e, dopo tutti quei discorsi sulla prostituzione della donna, alla fine anche io fremevo per dire la mia.
«A me piacciono le tette grosse» dissi e atteggiai le mani in una mimica indicativa. Nessuno rise, alcuni sorrisero, ma di quel sorriso compassionevole che ne fa capire il lato dispregiativo.
«Tu Johan?»
«Sììì,» rispose Johan, «ma gli uomini sono uomini.»
Così disse con una mossetta.
“Chiaramente gay” pensai.
Mark si alzò. «Cari amici, grazie per essere intervenuti a questa piacevole serata.»
Finì lì. Dopo i saluti notai Mark che sussurrava all’orecchio di una bionda vistosa, poi mi si avvicinò e mi chiese se potevo accompagnarla a casa.
«Certo, sì» risposi.
Durante il tragitto, le raccontai della mia figuraccia durante la riunione, così, per farla ridere un poco. Non rise, né disse nulla, solo qualche: Yeah o Aye. Quando arrivammo mi invitò a salire: «Would you like a drink?» mi chiese. Come avrei potuto rifiutare. Era pur sempre una donna: alta, bionda, ben fatta, sui quaranta, le cui forme esuberanti ricordavano un aspetto giunonico ma non era brutta, solo un po’ rotonda, però a guardarla bene, aveva più dei quarant’anni che le avevo assegnato e somigliava un po’ a mia madre, da giovane. Ma aveva una bella facciona simpatica e delle tette semplicemente stupende. Arrivati in casa, mi disse di chiamarsi Jane e di accomodarmi e servirmi pure, indicandomi il carrello dei liquori, lei sarebbe tornata subito. Mi versai un bourbon e mi sedetti sul divano, sorseggiando il whisky. Arrivò e, senza una parola, ritta in piedi in mezzo alla stanza, gettò la parrucca bionda e si tolse il vestito. Sotto era nuda, senza un pelo o capello; con i ballonzolanti, grossi seni e le cosce più che piene.
«Allora? Come è andata ieri sera?» mi chiese Mark, a colazione.
«Be… huh, auh, …ne» risposi, m’era andata di traverso, la pancetta.
«Jane è una cara amica da molto tempo,» continuò, «cara e brava, solo trecento…» disse. «Non preoccuparti, è stato il mio regalo per il suo compleanno. Ieri ne faceva sessanta, il tempo passa.»