Fine

Per lui era finita prima ancora che finisse. Giovanni, 68 anni, lo sapeva di essere messo già molto male e quest’ultimo attacco non ci voleva proprio. Accettò come una tomba lo stanzino buio dove l’avevano ricoverato: era ancora cosciente, ma ormai quasi cieco, impossibilitato a parlare e inibito a fuggire. Terminale: era la parola che aveva sentito pronunciare dal medico poco prima, insieme alle altre che gli risuonavano per la testa… ictus, tetraplegia, ospice.
Non avevano perso tempo e per fortuna c’era ancora un posto libero all’ospice. L’avevano portato a Santa Colomba, dove spedivano quelli come lui più di là che di qua. Steso sul letto, con la mente vuota, stava immobile ad aspettare, concentrato a respirare un breve e rapido respiro, e poi un altro, e un altro ancora, velocemente, senza perdere il ritmo, inalando aria preziosa. Inspirava come se fosse l’ultimo ossigeno concessogli.
“Sto forse per morire? Ciao Angela, come va? Ciao Angela, come va? Boh, questa mattina le gira un po’ storta. Ma perché non capisce! No, no, non aprire la finestra, per favore! Ho freddo e la luce, tutta quella luce, mi abbaglia.”
L'infermiera spalancò la finestra, gli rassettò il cuscino e uscì.
“No, no! Aspetta Angela! Non andare via, ti devo parlare, ti devo dire una cosa, aspetta! Mai nessuno che mi racconti qualcosa, anche poche parole. Ah, Angela, sempre indaffarata. Vai, vai, vai pure, mia cara: con te anche quella poca luce che c’era se n’è andata, ora solo ombre scure mi circondano… questa è la nostra camera, vero? Lo capisco bene, quell’ombra laggiù deve essere l’armadio, e lì c’è la finestra: l’avrà chiusa? Peccato che non riesco a muovermi, se no la chiuderei io. Quando torna devo ricordarmi di chiederle di accostarla; forse è aperta perché sento un gran freddo. È sempre sbadata, si scorda sempre tutto, la mia Angela. Che strana sensazione: mi sembra di ricordare che era giugno, no… forse maggio o agosto… non importa, comunque quel giorno non lo dimenticherò mai. Lei entrò di corsa ed era bellissima: grondante di sudore, indossava una maglietta bagnata che le aderiva al seno, aveva le belle gambe tornite in mostra, i capelli raccolti in una coda di cavallo, e con gli occhi grandi sbarrati mi guardava. E poi? Non ricordo. Sarà accaduto tanti anni fa. Non sono tanto in gamba oggi. Insomma, mi sembra di vederci meno del solito. È tutto buio qui, c’è solo un tenue chiarore laggiù. Rimpiango la luce del sole… chi se lo ricorda più il sole, per me è diventato solo una parola spenta. Dovrei scriverla o farne un disegno: un cerchio tondo con le righe attorno, i raggi, uno corto e uno più lungo. Ma quelli disegnati non scaldano e io ho freddo. Cancello tutto: parole mai dette, linee mai scritte, soli mai visti che non scaldano. Non vedo, non sento, non riesco a parlare. Che c’è, che è successo? È capitato che… non ricordo. Ma queste voci che mi par di sentire sono come un’eco sussurrato.”
Come bisbigliando a bassa voce, ma in realtà senza parlare e quindi senza sentirsi, si faceva domande e si dava risposte.
“Perché ricordare? Sono morto, ormai, che importa ricordare. Polvere ecco che sarò. O pensavo davvero di potermi riprendere pensando nella polvere? Io sto morendo. Sciò, sciò, fff, fff, via, via.” Agitava le mani, schiaffeggiando l’aria per scacciare nuvole di mosche che credeva gli girassero attorno, ma in realtà non muoveva un dito.
“Amo gli animali, non farei del male nemmeno a una mosca. Gli animali si nascondono quando sanno di morire. E io sono ben nascosto? Già, tutto programmato, tutto perfetto: una simmetrica sincronia la morte, già sperimentata milioni di volte. Però dovrò avvisare tutti i miei amici. Basta! Ecco, sto male di nuovo. Ancora questo buio che abbaglia, questo silenzio assordante.”
I pensieri gli costavano fatica, non gli uscivano più dalla testa rendendogli la mente intorbidita, non riusciva a ritrovare la giusta disposizione e ricostruire i fatti reali e si addormentò.
“Devo aver dormito ancora, dopo quella breve crisi di scoraggiamento. D’altronde siamo qui per poco, poi saremo altrove, e il nostro posto al sole non sarà altro che in un pugno di polvere. Ma anche ora non sono messo tanto meglio: non vedo, non sento, non riesco a parlare. Mi sento come se fossi già morto. Mi scappa. Quando si è giovani non ci si bada, quando capita, capita, ma alla mia età ci si vergogna di tutto, anche di chiedere di andare al bagno. Chissà quando ci sono andato l’ultima volta… deve essere passato un bel po’… per forza, non mangio. Non ho fame, però ho sete: meno male che Angela ogni tanto mi bagna le labbra.”
L’infermiera gli bagnò la bocca e sostituì la sacca delle urine del catetere.
“Questo silenzio fa male alle orecchie, è un continuo brusio, un ronzio, a volte un altro ricordo… passavamo le serate sotto l’immensa quercia a pochi passi dalla casa, ciascuno disteso sulla propria sdraio in silenzio, sorseggiando un bicchiere di vino, e guardando spegnersi, uno dopo l’altro, tutti i raggi del crepuscolo. In quei momenti il tempo sembrava essersi fermato, tutto procedeva lentamente, avveniva a poco a poco finché calava il buio. Oh, Angela, sento una irresistibile voglia di chiudere gli occhi, di dormire.”
Finalmente le voci lo lasciarono andare e con un gorgoglio sembrò pronunciare il nome di Angela. “Dottore, venga è morto” disse l’infermiera. Il medico prese la pila dal taschino, gli alzò la palpebra illuminando la tonda, immobile pupilla vitrea. “Vado a chiamare il prete” disse l'infermiera e uscì. Nel corridoio incrociò la collega: “Che è successo?” le chiese. “Il numero cinque, andato” rispose. “Chi era?” chiese ancora. “Giovanni, mio marito” rispose Angela con gli occhi lucidi.