Giuliana Giuliani, "Per le strade"
15 Aprile 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Per le strade
Giuliana Giuliani
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Per le strade, di Giuliana Giuliani, non è propriamente un libro, quanto, piuttosto, “un’installazione artistica”, di quelle dove si sfrutta il rumore del vento che passa fra gli oggetti o i colori delle cose di tutti i giorni. Già il formato, in A4 e con un carattere molto grande, è insolito.
Anche il titolo ricorda l’idea di “arte di strada”. Il contenuto di questo romanzo (poesia? racconto?) è multisensoriale. Fa appello alla vista d’immagini plastiche e colorate, all’udito di parole musicali, collegate fra loro da un filo invisibile. È scritto molto bene, non si può negare, ma è poco comprensibile e lascia un po’ interdetti. Un ermetismo voluto e compiaciuto, questo della Giuliani, la quale ha studiato filosofia e si è sempre occupata, fra le altre cose, di teatro.
Ina e Lea hanno strade personali da percorrere, Ina ha un incarico, deve consegnare una “pietra”, che ci ricorda, per vaga associazione, la “pietra di entrata” del romanzo Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki. Lei cerca il suo scopo osservando, collegando, cercando corrispondenze, chiacchierando con le persone. Ognuno ha, filosoficamente parlando, un modo diverso di comprendere la realtà e cerca di farlo con gli strumenti che possiede. Poi c’è Lea che è, appunto, un’artista di strada che incontra un musicista, Yeshe. Tutti insieme danno vita a una festa intorno a una fontana, un luogo colorato e gioioso, libero e aperto a ogni interpretazione e sviluppo.
Lo scopo da raggiungere sembra essere quindi la libertà, intesa come svincolo da ogni costrizione, ma anche come libertà d’espressione umana e artistica. E pure emancipazione dal dolore, proprio e altrui. Quante volte, senza nemmeno rendercene conto, ci troviamo appesantiti dalla sofferenza degli altri? Lea riesce a far cadere queste piccole sfere di “piombo” dal suo corpo, aprendosi a un un mondo festoso. Ma è una sensazione rara. La maggior parte di noi vive “in una vaga assenza di sapore”, “alla ricerca di intensità provate chissà quando”. Ed è forse proprio questo ricordo di passione perduta a farci sentire privi di qualcosa d’essenziale.
Probabilmente questi personaggi, un po’ hippy e New Age, sfruttano la meditazione trascendentale, che li fa entrare in empatia con l’universo e il mondo circostante, portandoli ad assaporare le vibrazioni e la bellezza del cosmo, sgelando quel senso di solitudine che opprime gran parte di noi. Si arriva, così, a capire di essere parte di un tutto, e non soli al mondo.
“In tutto il mondo c’era gente che lavorava in gruppo, provava spettacoli, costruiva case, cucinava in ristoranti. In ogni gruppo le persone giravano una intorno all’altra, tracciavano orbite, ogni gruppo era un atomo”. (Pag. 86)
Niente di concreto in ciò che viene descritto ma, forse, nemmeno di onirico. È più una sorta di realismo non magico ma poetico, una prosa- poesia egocentrica e che ben poco si cura di catturare l’interesse del lettore.
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