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Federica De Paolis, "Notturno salentino"

7 Settembre 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

 

Notturno salentino

Federica De Paolis

Mondadori, 2018

pp 264

 

 

 

Questo romanzo rispecchia i canoni e il modo di scrivere moderno, la qual cosa non è necessariamente un bene per la sottoscritta. Tuttavia, in questo specifico caso, lo è. Notturno salentino, di Federica De Paolis, è scritto davvero bene, in “forma visiva” estremamente particolareggiata, con descrizioni mai banali di personaggi che a volte rasentano la macchietta  - come nel caso del maresciallo Gravina -  ma in altri casi sono superlative.

La scena è il Salento odierno, una sorta di Little Aristocracy fatta di parvenu milanesi e romani che si sono comprati la masseria fra gli ulivi secolari a ridosso di santa Maria di Leuca, sfruttando la spinta che ha portato sviluppo e turismo in quel luogo un tempo remoto e dimenticato, ora non più.

Abbiamo Livia, una donna molto benestante, in bilico fra giovinezza e maturità, in crisi col compagno Boris, e madre di due figli. Abbiamo due domestiche che si odiano fra loro, l’una polacca e razzista, l’altra nera e tribale, l’una algido sepolcro imbiancato, l’altra sorta di donai dall’utero fertile e dalle movenze feline e sensuali.

La padrona sta nel mezzo, vorrebbe partecipare di tanta carnalità, si abbandona per un momento anche lei alla trasgressione. Mentre il compagno è via, esce con Brando, bellimbusto più vecchio di lei dal fare accattivante; si lascia trasportare dalla seduzione, ci scappano un paio di baci al chiar di luna.

La mattina dopo viene trovato morto nel pozzo della sua villa l’aitante ma volgare e sfacciato Antonio Locandido, un giovane del posto che se la fa con entrambe le domestiche. Di costui, per antipatia mista ad attrazione, Livia aveva rubato, e poi nascosto, il cellulare (e non si capisce bene questo particolare che rilevanza abbia poi nella trama.)

Non possiamo svelare il finale ma le indagini procederanno, nel mentre che Livia scioglierà nodi irrisolti del suo passato, riuscendo altresì a venire a patti col presente, con l’amore congelato del compagno, con la diffidenza della figliastra.

C’è un personaggio di cui nessuno parla e che mi ha colpito per la bellezza e la verità con cui è descritto: il cane Zinzulusa, fiero pastore tedesco, l’unico a piangere davvero il padrone morto, a nobilitarne addirittura la fine con i suoi latrati strazianti. Poi c’è la figura della nera, che personalmente trovo fastidiosa nel suo essere vittima secolare ma anche carnefice, nel suo abbandonarsi all’irrazionalità di pratiche ancestrali.

Abbiamo un tentativo di critica sociale: il muro compatto dei nuovi ricchi che si tengono mano l’un l’altro, pronti a voltar gabbana e nascondere la polvere sotto il tappeto per mantenere apparenze e vecchi segreti. Forse solo la giovane Miriam, figlia di Boris, emblema d'innocenza, riesce a smascherarli.

E ora apro una parentesi che con questo romanzo c’entra fino a un certo punto. Recensendo libri di autori contemporanei, non faccio che leggere nei “ringraziamenti” finali lodi sperticate agli editor. C’è chi addirittura confessa che il proprio stile muta in funzione dell’editor di turno.  Oddio. Ma non è che l’editor sta soppiantando il romanziere? Non è che il libro diventa un collage, un’opera a più mani costruita a tavolino? Per carità, se il risultato è godibile, niente di male, ma dove è finita la genialità dello scrittore?

  

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