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Valentino Appoloni, "La ferocia"

4 Maggio 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #valentino appoloni, #storia

Valentino Appoloni, "La ferocia"

La ferocia

Valentino Appoloni

pp 240

ilmiolibro.it

Valentino Appoloni è esperto e appassionato della Prima Guerra mondiale. Ha letto tutta la diaristica sull’argomento ed è, infatti, in forma di diario che scrive il suo romanzo, La ferocia, quasi un’ossessione per lui. Dedicato a un familiare morto in guerra, ambientato sul Carso, racconta una sanguinosa ed estenuante guerra di trincea popolata da personaggi teatrali: gli ufficiali in contrasto fra loro, Robusti, Avanzi, Dimari, Bandanera, vecchi e giovani a confronto, e i soldati, Filosofo, Guerriero, Imboscato e tutti gli altri, ognuno a rappresentare un diverso tipo umano. Le loro vicende scorrono veloci e sono raccontate con un linguaggio paratattico ma elegante. I paesaggi cambiano rapidamente e hanno anche aspetti drammatici e romantici: cimiteri sventrati, case diroccate, chiese abbandonate. Il tempo atmosferico accompagna l’umore delle truppe. A farla da padrone è, ovviamente, l’azione bellica serratissima ma descritta in modo asettico, lucido, che solo a tratti lascia trapelare un poco di pathos.

La ferocia è ciò che permette agli uomini di sopravvivere, agli ufficiali opportunisti e arrivisti di agire per il bene della battaglia, sacrificando i più deboli pur di vincere.

La vita di trincea è terribile: i piedi stanno ammollo e s’infettano, i parassiti, il freddo e la sete tormentano, il nemico è sempre in agguato, la morte è all’ordine del giorno. Ma stare nelle retrovie sarebbe peggio, là non ci sarebbe più dignità, là è il regno degli imboscati e dei vili.

Fuori della trincea non c’è dignità. Forse c’è salvezza, ma senza decoro e nella più nera solitudine che è quella di chi dovrà sempre celare agli altri la sua viltà.” (pag 162)

Sorregge solo il pensiero del rispetto verso se stessi e della responsabilità che lega agli altri. Fonte di consolazione è la cultura: il protagonista, l’unico a non avere un nome, si affida a ragionamenti filosofici e letterari, razionalizza ciò che vede attraverso la sua erudizione umanistica, per tenere sotto controllo la realtà, per non cadere nel panico e soccombere, per non porsi incessantemente domande sul senso della carneficina in atto dove “la differenza non è tra morti e vivi, ma tra morti e non ancora morti”. Quando una promozione aumenterà i suoi oneri, sensi di colpa e disagio etico lo attanaglieranno ad ogni scelta.

Difficile capire il senso della contrapposizione “patria, dovere, Italia” verso “pane e pace”, laddove le parole si svuotano di significato, diventano retorica in bocca ad ufficiali che si fanno vivi dalle retrovie solo per parlare in pubblico. Quello che resta di tali parole è un simulacro vuoto che, pian piano, si riempie di cadaveri, marionette disarticolate, bambole sventrate, “Eppure erano stati uomini”. Si cerca di dare ancora un senso a valori quale l’onore, il rispetto del nemico ma la ferocia annulla tutto, disumanizza.

Esiste davvero una città, un mucchio di terra, pietre, case, che valga tante vite?

Ciò che ci piace di Appoloni è proprio la bellezza delle parole semplici (“Ma Dio è troppo paziente e buono) che rispecchia l’agghiacciante semplicità della situazione: “Noi e loro spararsi e procurarsi a vicenda il massimo danno per vincere prima. Questa semplicità bisogna accoglierla.

La prima e la terza persona si alternano, con inserimenti di lettere e racconti, uno, in particolare, L’Imboscato, vale da solo tutta la narrazione.

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