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Gordiano Lupi, "Miracolo a Piombino"

16 Gennaio 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #gordiano lupi, #recensioni, #luoghi da conoscere

Gordiano Lupi, "Miracolo a Piombino"

Miracolo a Piombino

Gordiano Lupi

Historica Edizioni, 2015

pp 146

12,00

Vuoi perché siamo conterranei, vuoi per vicinanza anagrafica, vuoi per quella contaminazione fra cultura alta e popolare che ci accomuna, vuoi per una profonda affinità interiore, nessun autore mi strugge e mi commuove come Gordiano Lupi, e questa sua ultima fatica, Miracolo a Piombino, non fa eccezione.

Il breve romanzo è la commistione di due storie precedenti e parallele: la rivelazione della vita di un diciassettenne, Marco, e della sua controparte, il gabbiano Robert. L’uno deve affrontare la perdita tragica di un amore, l’altro la riconquista di sé attraverso il tunnel della solitudine. Robert, il gabbiano - l’albatro di Baudelaire e di Coleridge - è ciò che il protagonista vorrebbe essere, una creatura intrisa di solitudine sconfinata, ma capace di sfruttare questo suo tratto per affrontare il mondo anziché negarlo, aprendo nuove prospettive, viaggiando, alla fine tornando a casa, anche grazie all’amore. Robert diventa, quindi, maestro di volo per Marco, guida spirituale, totem.

Non succede molto da un capitolo all’altro, ma non si riesce a staccarci, non tanto per la trama che, forse, simbolica e allusiva com’è, finisce per ripiegarsi un po’ su se stessa e saltare qualche passaggio nel finale – anche per seguire un momento di follia del protagonista - quanto per lo stile, intriso di poesia, credo addirittura trascrizione di malinconici versi giovanili.

Ritroviamo le tematiche care a Lupi: la memoria, la nostalgia feroce, straziante, per qualcosa che non sarà mai più. Mi viene in mente una vecchia canzone di Marisa Sannia, Casa bianca, che già allora, e avevo solo sette anni, mi scioglieva il cuore. Già capivo che avrei dovuto abbandonare l’infanzia e che niente sarebbe mai più stato come prima. “Tristi come chi va incontro alla vita.” (pag 78)

È ciò che sente anche Marco, è ciò che sperimentano tutti i protagonisti dei romanzi di Lupi, il rimpianto di non essere oggi come si sognava di diventare e, insieme, il riconoscimento che eravamo già tutto prima, che abbiamo perduto ogni cosa preziosa: il campetto sterrato, il palazzo affacciato su uno scorcio di porto, l’ala di gabbiano annerita dalla fuliggine. Belli o brutti che fossero, erano “i luoghi della sua storia”, erano “il suo mondo”.

Scogli, vento, salsedine, tamerici piegate dal libeccio, gabbianelle in bilico sull’acqua oleosa del porto, fico degli ottentotti e garofani delle rupi, cale e calette ridossate, il mostro contorto e fumoso dell’acciaieria, sono questi gli eterni paesaggi di Lupi. Il tutto condito da una nostalgia che non se ne va mai, provata in ogni istante, anche al limitare della maturità. Così, il nonno morente rappresenta l’ultimo filo con il passato in dissolvenza, con il tempo in cui ancora “tutto era possibile”.

“Sentiva il dolore di quel che stava perdendo senza riuscire a costruire nient’altro che un castello di ricordi.” (pag 34)

Quanta solitudine, incapacità di vivere nel branco, di essere come gli altri, di farsi piacere le medesime cose, addirittura di capire qualcosa che non sia noi stessi. Quanto sentirsi fuori posto ovunque, fra la gente del popolo come fra gli intellettuali.

“Si sentiva solo perché non aveva la forza di raccontare il suo mondo, perché stava recitando una parte che non sopportava. (pag 60)”

Il ragazzo e il gabbiano, due solitudini che si toccano, per scoprire, poi, che la fuga è solo ritorno, che l’unica possibilità di riscatto, di proseguimento, di avanzamento, è nel rientro a casa (Calcio e acciaio), e nel recupero della memoria (Alla ricerca della Piombino perduta), nel cullare e covare i ricordi, che sono tutto quello che abbiamo e che siamo, il nostro nucleo, il sancta sanctorum di noi stessi. Ricordare per andare avanti, allontanarsi per tornare, “perché il cuore non scoppia, in fondo. Ed è possibile tornare a volare.”

Di tanto in tanto si fermava in una piccola rada e galleggiava tranquillo, lavandosi con cura le candide penne, un poco annerite dalla polvere di carbone della lontana acciaieria. Verso sera si portava sulla spiaggia solitaria, camminava con la tipica andatura dei gabbiani stanchi, attendeva con pazienza il tramonto del sole. La vita non si era imposta sui ricordi, tornavano alla memoria tristezze lontane e tutto profumava di solitudine.” (pag 20)

Quanta poesia anima questo testo, quanta poesia c’è dentro le persone normali.

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