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Domenico Cosentino, "Midnightwalker"

25 Luglio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Domenico Cosentino, "Midnightwalker"

Midnightwalker

Domenico Cosentino

Palladino Editore 2014

pp 156

8,00

Se pensate che la poesia sia esprimere i propri pensieri, la propria visione del mondo con grazia, dolcezza e raffinatezza, quelle di Cosentino non chiamatele poesie.” (citazione dal sito www.domenicocosentino.it)

Infatti, non lo facciamo. Può coesistere il bello e il brutto in un solo volumetto, ci chiediamo piuttosto? Sì, e ve ne porgiamo un esempio diretto, molto più immediato di qualsiasi spiegazione.

Collusion

Mangio il tonno in scatola della

Dicoop

direttamente nella scatoletta

di metallo,

affacciato al balcone

con il vento che mi asciuga il

sudore

osservando il cavalcavia

dove i marocchini vanno a

pisciare di notte

le foglie marciscono e diventano

gialle.

Le finestre dell’asilo comunale

Hanno tutti i vetri rotti

Come gli spazi tra i denti

Di quei vecchi

Che hanno fatto la guerra

E i loro occhi

Sono ancora pieni di stupore.

Gipsy King

Le zingare si lavano la fica

Nei bagni dell’università.

Con il piede poggiato sul

Lavandino

E la gonna lunga a coprire

Le vergogne,

strappano fazzoletti di carta

e se li passano sulla fessa,

velocemente.

Come se stessero facendo

Una sega ai propri uomini.

Alle 8.30 del mattino,

con il sapore del caffè ancora

in bocca

freno un conato di vomito,

giusto in tempo.

Fuori ragazze

Con la “S” pronunciata

Squittiscono,

mentre il sole bacia

le loro tette abbronzate

come provole affumicate.

Ho infranto la mia promessa

Di non venire più

All’ateneo

E ora me ne pento.

Tutto questo

Per una

Maledetta

cacata.

Ok, qual è secondo voi la migliore di queste due poesie che convivono in “Midnightwalker” di Domenico Cosentino? Certamente la prima. Perché? Ma per le mille ragioni subliminali attraverso cui la poesia vera va dritta all’anima tramite scorciatoie intuitive. La seconda, invece, è brutta. Non ci sono altre parole per definirla, brutta e basta.

Ecco, il volume di Cosentino, che egli definisce “raccolta di pessime poesie” è una commistione – tanto di moda oggigiorno – di prosa e poesia, miniracconti senza capo né coda, e versi intervallati da parentesi quadre a segnare gli enjambement, ma anche di pezzi belli e brutti, come se non fosse in grado di distinguere, non volesse rinunciare a nessun appunto preso, a nessuna riflessione sgorgata, oppure, più sottilmente, volesse denudare un’anima fatta di contrasti, di poesia e volgarità, di sublime e repellente.

Le poesie sono discorsive, i racconti vagamente lirici. Alcuni testi in prosa raggiungono una quasi compiutezza da novella, altri sono abbozzi, divagazioni, versi scritti uno di fianco all’altro, semplici enunciazioni, quasi che il protagonista si affacci ad una ipotetica finestra e ci racconti quel che vede e come lo vede, o, meglio, come lo sente, confessando i suoi pensieri segreti, i suoi tormenti, spesso oggettivati in cose concrete o in gesti snervati, senza nemmeno cercare aiuto o soluzione, piuttosto come un dato di fatto, un’esposizione di quadri e stati d’animo precari. Squallide camere d’albergo, cavalcavia, musica in sottofondo, fumo, saracinesche chiuse.

Il tema è la solitudine di un uomo che probabilmente si trova a vivere suo malgrado una vita da immaturo, fra sigarette, onanismo, amori non corrisposti o finiti, lutti e perdite familiari, rimorso, tempo che passa sprecato. Camere d’albergo da pochi euro, domeniche solitarie, il sesso come opposto della comunicazione, gesto non compiuto, voglia di toccare senza poterlo fare che si risolve nell’atto consolatorio di masturbarsi in un lavandino. Gli affetti, i ricordi, i rimpianti, i rimorsi per le parole non dette (e sono i momenti più alti) si condensano in figure di familiari che non ci sono più o che stanno per andarsene, la scoperta della malattia acuisce ancor più una solitudine vissuta come estrema, incolmabile. Chi è vicino non capisce e non capirà mai l’autoemarginazione, il disagio interiore, la tortale estraneità al resto del mondo.

Il ragazzo è diventato anche lui adulto. Porta con sé la solitudine di chi soffre, perché anche lui ora sta soffrendo maledettamente, ogni giorno a ogni ora. Nel reparto dell’ospedale o nel suo letto. Quando finge di sorridere, quando sta con gli altri, ma gli altri non lo possono capire. Ora il ragazzo è un adulto solo. La solitudine di chi soffre.” (pag 94)

Le cose si capiscono sempre dopo. Quando tu devi affrontare le tue disgrazie e le tue battaglie e capisci che sei da solo e che quella solitudine è davvero forza. Ma questo o comprendi dopo. Sul momento pensi solo a lamentarti e compiangerti.” (pag 65)

Cosentino scrive bene, è un dato di fatto. Dovrebbe solo avere il coraggio di fare il salto di

qualità, non accontentarsi di mettere su carta i propri sentimenti, le illuminazioni, ma costruire qualcosa di più. Nel pezzo intitolato “Anche quello era amore” ci è quasi riuscito.

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