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Stalin e il genocidio dei lituani

22 Febbraio 2014 , Scritto da Biagio Osvaldo Severini Con tag #biagio osvaldo severini, #storia, #recensioni

Stalin e il genocidio dei lituani

Siamo abituati a sentir parlare dell’Olocausto degli Ebrei, degli oppositori politici, degli indesiderati, operato dalla dittatura di Hitler.

Letteratura e storia hanno documentato che circa sei milioni di persone furono uccise dai nazisti tedeschi nei campi di concentramento e di sterminio, dopo torture, privazioni e sofferenze di ogni tipo.

Le pubblicazioni sull’argomento sono copiose, e a giusta ragione.

Ma tutto questo ha messo in ombra, anzi ha nascosto, ciò che in quello stesso periodo storico succedeva ad Oriente, nell’Unione Sovietica di Stalin: “il mondo non ha la minima idea di quello che ci stanno facendo i sovietici”, scrive Ruta Sepetys.

La Sepetys nel suo romanzo verità ci svela la tragica realtà di un genocidio a danno dei popoli baltici, ossia della Lituania, della Lettonia e dell’Estonia.

Il romanzo è intitolato “Avevano spento anche la luna” ( Mondadori, 2012). La storia narrata è reale e si basa su testimonianze e confessioni di alcuni sopravvissuti, ed è per di più sostenuta da ricerche storiche faticose compiute dalla Sepetys, desiderosa di riscattare la dignità del suo popolo.

L’autrice, infatti, è una lituana, figlia di rifugiati in Michigan.

Ella afferma che Stalin, durante il suo regno del terrore, abbia fatto uccidere più di 20 milioni di persone.

Le tre Nazioni baltiche persero, quindi, più di un terzo della loro popolazione in conseguenza delle deportazioni operate dai sovietici.

Il piano di Stalin, preparato nel 1940, era, appunto, quello di annettere all’Unione Sovietica i tre Stati baltici, eliminando gli oppositori.

I nomi dei personaggi del romanzo sono inventati, tranne quello del dottor Samodurov che nell’Artico salvò molte vite.

La protagonista principale è Lina, sopravvissuta al viaggio della deportazione – ma in realtà della morte - in Siberia, compiuto quando lei aveva 16 anni (c’erano anche il fratello, la madre e il padre, questi due ultimi morti).

Il 14 giugno 1941 iniziò la deportazione dei Lituani in Siberia. I soldati dell’NKVD, la polizia segreta sovietica, entravano prepotentemente nelle case, impugnando fucili a baionetta, e concedevano solo venti minuti agli abitanti per prepararsi, altrimenti li avrebbero uccisi all’istante.

Poi, “davai!”, avanti in fretta e furia li caricavano sui camion, che li trasportavano alla stazione ferroviaria. Qui venivano spinti bruscamente dentro vagoni usati per il trasporto di mucche e maiali.

Queste persone erano, infatti, definite “porci borghesi antisovietici”, per cui dovevano essere imprigionate o deportate in stato di schiavitù in Siberia, e sterminate in un modo qualsiasi.

Nelle liste delle persone antisovietiche finirono medici, avvocati, insegnanti, membri dell’esercito, professori universitari, scrittori, imprenditori, musicisti, artisti e bibliotecari.

Il viaggio verso la Siberia fu lungo (dovettero attraversare tutta la Russia da ovest ad est per 440 giorni, fino a Trofimovsk, al Polo Nord), penoso, tormentato dalla fame, dalla sete, dal freddo e dai pidocchi.

I deportati erano ammassati nei vagoni gli uni accanto agli altri, in maniera tale che dovevano stare in piedi quasi sempre e dormire a turno, stesi sul pavimento di legno. Per gabinetto dovevano usare un buco nel pavimento del vagone e, ovviamente, i bisogni corporali bisogna farli davanti a tutti.

Molti morivano durante il viaggio in treno, per mancanza di cibo, di acqua e di cure. I loro corpi venivano abbandonati ai lati dei binari, e diventavano cibo per gli animali.

Finalmente, arrivarono in un Kolchoz, una grande azienda agricola collettivizzata, dove si coltivavano patate e barbabietole.

Furono distribuiti in baracche di tre metri per quattro, del tutto insufficienti per il numero dei presenti. Le baracche erano prive di qualsiasi arredamento.

Dovevano lavorare dodici ore al giorno per scavare, con attrezzi rudimentali e con le mani, patate e barbabietole che non potevano mangiare. I soldati “si divertivano a picchiarci e a prenderci a calci nei campi”.

Il loro cibo era costituito da 300 grammi di pane secco al giorno, quando lavoravano; quando c’erano le tempeste di neve e non lavoravano, non ricevevano nemmeno quello.

Mangiavano qualche patata o barbabietola, solo quando riuscivano a rubarla, con grave rischio per la loro vita, perché, se scoperti, venivano puniti selvaggiamente.

Racconta Lina: “Una mattina sorpresero un vecchio a mangiare una barbabietola. Una guardia gli strappò gli incisivi con le pinze”.

Erano costretti a frugare tra i rifiuti e la spazzatura delle guardie: “Insetti e vermi non scoraggiavano nessuno. Un paio di colpetti con le dita e ce li ficcavamo in bocca… eravamo diventati animali dei bassifondi, che si nutrivano di schifezze e marciume… cercavamo intorno come galline in un cortile… bucce di patate marce, abbassai la testa e le mangiai”.

Si pensi che fu una festa grande, quando Lina e un’amica trovarono nella neve un enorme gufo morto e lo arrostirono su una stufa improvvisata: “Il sapore della carne cotta era divino, … facemmo finta di essere a un banchetto reale!”.

Bevevano acqua piovana o derivante dallo scongelamento della neve.

Per riscaldarsi o, meglio, per attenuare appena la morsa del gelo artico erano costretti a rubare pezzi di legno o a nascondere sotto i vestiti le sterpaglie raccolte nei campi.

Era vietato fare disegni (ma Lina ne faceva spesso e li nascondeva) o scrivere lettere.

Un lituano prigioniero, scoperto dagli agenti dell’NKVD, fu inchiodato alla parete dell’ufficio del Kolchoz con un palo che gli aveva trafitto il petto: “Le braccia e le gambe penzolavano inerti come quelle di una marionetta. Aveva la camicia inzuppata di sangue, che gocciolava formando una pozza sotto di lui. Le poiane banchettavano sulla carne delle sue ferite da proiettili. Una gli beccava l’orbita oculare vuota”.

La morte era causata anche dalla dissenteria e dallo scorbuto per malnutrizione. A queste patologie si aggiungeva il tifo petecchiale che si manifestava con febbre alta, eruzioni cutanee e delirio e che si diffondeva rapidamente tra i prigionieri, perché non si potevano lavare, né cambiare la misera e sporca biancheria.

I cadaveri, come al solito, venivano abbandonati sulla neve.

Lina scrive di un suo compagno di sventura: “… vidi il corpo nudo, a occhi sbarrati, ammucchiato in una catasta di cadaveri. La mano semicongelata non c’era più. Le volpi artiche gli avevano squarciato l’addome, esponendo i suoi visceri e macchiando di sangue la neve”.

Eppure, ogni tanto Lina trova il modo di allontanarsi da questa funerea atmosfera, trovando la forza di parlare di pittura e in particolare del suo artista preferito, Munch, e dei suoi dipinti: l ‘”Angoscia”, la “Disperazione”, le “Ceneri”, “L’urlo”.

Lina esprime la sua personale valutazione: “Le sue opere erano deformate, distorte, come se fossero state dipinte in uno stato nevrotico. Ne ero affascinata, anche se qualcuno l’aveva definita arte degenerata”.

E continua riportando il commento, con cui concorda, di un critico d’arte: “Munch è principalmente un poeta lirico del colore. Lui sente i colori, ma non li vede. Invece vede il dolore, il pianto e l’inaridimento”.

In sintesi, i dipinti di Munch esprimevano alla perfezione e con genialità i sentimenti delle persone, sopraffatte dalla inumanità e ferinità di Hitler e Stalin e dei loro seguaci aguzzini!

Altro motivo di consolazione lo trova nella lettura di Dickens: “Il circolo Pickwick” e “Dombey e figlio”. Lettura fatta sempre di nascosto.

Brilla e illumina per un attimo il cielo nero e tempestoso il raggio di sole dell’amore per Andrius: “Gli appoggiai le muffole sulle guance, attirai verso di me il suo viso e lo baciai… Sentii un vuoto allo stomaco. Mi ritrassi…”.

Lina voleva vivere: “Volevo rivedere la Lituania… Volevo annusare il mughetto nella brezza sotto la mia finestra. Volevo dipingere nei prati. Volevo ritrovare Andrius… Volevo sopravvivere… Era l’unica cosa di cui non avevo mai dubitato”. Lina e Andrius si sposeranno.

L’autrice conclude la ricostruzione di questa drammatica vicenda con queste semplici e nobili parole: “… l’amore è l’esercito più potente. Che sia amore per un amico, amore per la patria, amore per Dio o anche amore per il nemico, in ogni caso l’amore ci rivela la natura davvero miracolosa dello spirito umano”.

I tre paesi baltici hanno conquistato l’indipendenza nel 1991.

Scrittura lineare e chiara. Lettura piacevole e scorrevole.

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